Gli eretici d'Italia, vol. I - 18

Savoja, il quale accettò l'uffizio d'antipapa col nome di Felice V
(1439). Così rinnovavasi lo scisma.
Il concilio di Ferrara, trasferito a Firenze, restò memorabile per la
riconciliazione della Chiesa greca, allora fatta sotto la paura dei
Turchi[191]. Oltre i punti controversi con quella Chiesa, vi è
riconosciuto il primato del pontefice romano, vero successore di san
Pietro, vicario di Cristo, e padre e dittatore di tutte le chiese[192].
Ma appena i Padri greci rimpatriarono, le dimostrazioni di piazza
proruppero contro la riconciliazione: fu duopo disdirla: e si gridò
dapertutto «Piuttosto il turco che il papa». Furono esauditi; e nel 1453
il Turco impossessavasi di Costantinopoli e di tutta la Grecia, che
finora non ha abbandonata.
Il nuovo papa Nicola V (1447) mostrossi tutto disposto ad accordi,
talchè il sinodo di Basilea più non si resse; Felice V abdicò; la pace
fu restituita alla Chiesa; e il giubileo, celebrato l'anno appresso,
parve solennizzare il trionfo di Roma.
I due concilj di Costanza e Basilea sono di autorità disputata, e non
figurano nella serie di quelli dipinti in Vaticano. Se avessero con
prudenza e carità provveduto alla riforma della Chiesa, potevano
prevenire i disastri del secolo seguente. Ma rottosi l'accordo, mancata
la saviezza pratica degli affari e il cauto indugiare, una critica
indiscreta rischiò di surrogare agli abusi altri peggiori: come accade
nelle eccedenze, la podestà minacciata riuscì superiore senza neppure le
concessioni a cui mostravasi disposta. Laonde ne' popoli rimase
indebolita la certezza dell'assistenza divina; sottentrata al sentimento
la ragione, e alla fede lo spirito privato, i teologi sottilizzavano sui
diritti, e la cattolicità si trovò divisa in papali ed episcopali, gli
uni e gli altri esagerando. Mancata ne' vescovi l'assoluta soggezione,
essi divennero negligenti dei doveri non solo, ma anche dei diritti veri
per rinforzare i contestati, blandirono il potere laicale per averlo in
appoggio contro i papi, e fantasticavano chiese nazionali. Ne' papi
vacillò la coscienza della propria supremazia, sicchè per consolidarla
gettaronsi nella politica, cioè si fecero ligi agli interessi; e proni
ad una morale d'opportunità; a fronte dei sistemi allora introdotti
d'equilibrio locale e di convenienze meramente politiche, non diressero
più gl'interessi comuni della cristianità; mentre, lusingati
dall'apparente vittoria, svogliaronsi fino delle riforme sentite
necessarie, e s'assopirono in una sicurezza che doveva riuscire
funestissima.

NOTE
[179] _Defensor pacis_, p. II, c. 20.
[180] Sul tempo di Lodovico il Bavaro fu pubblicata ultimamente un'opera
tedesca di Guglielmo Schreiber, _Die politischen und religiosen
Doctrinen unter Ludwig dem Bayern_: Landshut 1838, dove si espongono le
quistioni d'allora intorno ai limiti dell'autorità papale e imperiale,
mettendo principalmente in vista Dante, Marsilio da Padova, Occam e
Leopoldo di Siebenburg. Il primo rivela la morale nella _Divina
Comedia_, la politica nella _Monarchia_, sostenendo la monarchia
universale, giusta la Bibbia e la storia. Marsilio, aristotelico,
sostiene la suprema autorità del Concilio, convocato dall'imperatore,
come mezzo di riconciliar il pastorale colla spada. Il vescovo di
Bamberg nega al papa il diritto di trasferir ad altri l'impero. Occam,
nel _Compendium errorum_, fu il più vivo oppugnatore della Santa Sede a
favore del principato. Tutto è ben esaminato dal punto di vista del
medioevo.
[181] AUGUSTINI DE ANCONA, _Summa de ecclesiastica potestate_ fu edita
ai primordj della stampa in Roma da Fr. de' Cinquinis, 1479, in 4º
gotico.
[182] Nello Statuto di Ferrara del 1270, la rubrica XII è _quod nullus
se scovet_, e in margine v'è il flagello a nodi, di cui si servivano
costoro. E lo Statuto dice: _Quia per inimicos Sancte Matris Ecclesie
cum magna cautela tractatum fuit, et inventum fuit batimentum, annis
preteritis, in offensionem et periculum amicorum partis ecclesie, et in
aliquibus partibus oportunum fuit quod amici ecclesie sibi in tali
periculo providerent: quia enim dicitur quod tractatur simili modo
batimentum de novo: idcirco vir nobilis dominus Obizo Estensis
marchio... statuunt et bannum imponunt, secundum quod inferius
declaratur_. E qui impongono pene corporali a chi introducesse la
flagellazione, o si flagellasse, o non denunziasse chi si flagella.
[183] La Dissertazione XVIII del Lami tratta _Della setta de'
Flagellanti in Toscana_.
[184] Gregorio XI nel 1372 ordina _inquisitoribus ut faciant comburi
quosdam libros sermonum hæreticorum, pro majori parte in vulgari
scriptos_.
[185] RAYNALDI, al 1376, n. 26.
[186] L'opera _De modis uniendi et reformandi ecclesiam in concilio
universali_, si attribuisce a Gerson, ma forse a torto, giacchè, a
tacere le ragioni estrinseche, parla con tale violenza contro di
Giovanni XXIII, e con tale disamore e tanti errori sulla costituzione
ecclesiastica, da parer piuttosto lavoro d'un wiclefita.
[187] Riflettono che, quantunque Giovanni XXIII fosse papa dubbio, pure
il concilio di Costanza temette trascendere la sua autorità col deporlo;
sicchè negli atti è espresso che il re de' Romani, i cardinali, i
deputati proposero che «il papa assentisse alla propria deposizione,
promettesse ratificarla, e, in quanto era bisogno, egli medesimo
rinunziasse». Furono in fatto spediti cardinali che persuadessero
Giovanni XXIII, il quale confermò egli stesso la sentenza di
deposizione.
[188] Così è generalmente asserito; pure si ha una lettera di Huss, che
dice: _Exeo_ (da Praga) _sine salvoconductu_; e in un'altra: _Venimus_
(a Costanza) _sine salvoconductu_. Ap. ROHRBACHER, _Hist. eccles_., tom.
XXI, p. 191.
[189] Il fondatore degli Ussiti sosteneva, dacchè un principe cadeva in
grave colpa, si era disobbligati dall'obbedirgli. I suoi seguaci
spinsero tanto avanti l'intolleranza, da volere puniti di morte gli
eccessi nel bere e nel mangiare, l'usura, l'incontinenza, lo spergiuro,
il ricever mercede per messe o assoluzioni, e ogni altro peccato
mortale; e ciò metteano per condizione al loro ritorno alla Chiesa
Cattolica, la quale ricusò tale fierezza. I Fratelli Boemi, come
condizione per riunirsi ai cattolici metteano l'abbattere tutti gli
istituti di letteratura o di scienze; professare che i maestri d'arti
belle sono pagani e pubblicani.
[190] Il concilio di Basilea trovasi difeso da Nicolò Tedeschi
arcivescovo di Palermo, contro del quale il cardinale Torrecremata
pubblicò la grande ed ingegnosa _Summa de ecclesia_.
[191] «Venne il pontefice con tutta la Corte di Roma, e collo 'mperadore
de' Greci, e tutti i vescovi e prelati latini, in Santa Maria del Fiore,
dove era fatto un degno apparato, ed ordinato il modo ch'avevano a
istare a sedere i prelati dell'una Chiesa e dell'altra. Istava il papa
dal luogo dove si diceva il vangelo, e cardinali e prelati della Chiesa
romana; dall'altro lato istava lo 'mperadore di Costantinopoli con tutti
i vescovi e arcivescovi greci: il papa era parato in pontificale, e
tutti i cardinali co' piviali, e i vescovi cardinali colle mitere di
damaschino bianco, e tutti i vescovi così greci come latini coi piviali,
i greci con abiti di seta al modo greco molto ricchi; e la maniera degli
abiti greci pareva assai più grave e più degna che quella de' prelati
latini..... Il luogo dello 'mperadore era in questa solennità dove si
canta la Epistola all'altare maggiore; ed in quello medesimo luogo, come
è detto, erano tutti i prelati greci. Era concorso tutto il mondo in
Firenze per vedere quell'atto sì degno. Era una sedia dirimpetto a
quella del papa dall'altro lato, ornata di drappo di seta, e lo
'mperadore con una veste alla greca di broccato damaschino molto ricca,
con uno cappelletto alla greca, che v'era in sulla punta una bellissima
gioja: era uno bellissimo uomo, colla barba al modo greco. E d'intorno
alla sedia sua erano molti gentili uomini che aveva in sua compagnia,
vestiti pure alla greca molto riccamente, sendo gli abiti loro pieni di
gravità, così quegli de' prelati, come de' secolari. Mirabile cosa era a
vedere ben molte degne cerimonie, e i vangeli che si dicevano in tutte
dua le lingue, greca e latina, come s'usa la notte di Pasqua di Natale
in Corte di Roma. Non passerò che io non dica qui una singulare loda de'
Greci. I Greci, in anni millecinquecento o più, non hanno mai mutato
abito: quello medesimo abito avevano in quello tempo, ch'eglino avevano
avuto nel tempo detto; come si vede ancora in Grecia nel luogo che si
chiama i Campi Filippi, dove sono molte storie di marmo, dentrovi uomini
vestiti alla greca nel modo che erano allora». VESPASIANO FIORENTINO,
_Vita di Eugenio IV_.
Dopo i molti cattolici che scrissero del concilio di Firenze, comparve
nel 1861 una memoria di Basilio Popoff, studente di teologia a Mosca,
che descrive quell'ultimo tentativo di unione fra le due Chiese dal
punto d'aspetto greco e con gran lodi ai membri della greca.
[192] La copia più intera di quell'atto sta nella Laurenziana a Firenze.
Alle altre manca la firma del gran sincello. Una ne è nell'archivio di
Stato d'essa città. Nell'archivio capitolare di Milano se ne conserva un
esemplare autentico, scritto in latino e greco, e colle firme originali
di papa Eugenio IV e di otto prelati latini, e dell'imperatore Paleologo
in cinabro, e colla bolla imperiale. Nell'_Archivio storico_ del 1857 fu
pubblicato l'atto d'unione, che comincia così: _Eugenius ecc.
Consentiente carissimo filio nostro Johanne Paleologo Romeorum
imperatore illustri et... orientalem ecclesiam representantibus.
Letentur celi et exultet terra; sublatus est enim de medio paries qui
occidentalem orientalemque dividebat Ecclesiam, et pax atque concordia
rediit: illo angulari lapide Christo, qui fuit utraque unum, vinculo
fortissimo caritatis et pacis utrumque jungente parietem, et perpetue
unitatis fœdere copulante ac continente; postque longam meroris nebulam,
et dissidii diuturni atram ingratamque caliginem, serenum omnibus
unionis optate jubar illuxit. Gaudeat et mater Ecclesia, que filios
suos, hactenus invicem dissidentes, jam videt in unitatem pacemque
rediisse: et que antea in eorum separatione amarissime flebat, ex
ipsorum modo mira concordia cum ineffabili gaudio, omnipotenti Deo
gratias referat. Cuncti gratulentur fideles ubique per orbem, et qui
christiano censentur nomine matri catholice Ecclesie colletentur. Ecce
enim occidentales orientalesque Patres, post longissimum dissensionis
atque discordie tempus, se maris ac terre periculis exponentes,
omnibusque superatis laboribus, ad hoc sacrum ycumenicum concilium
desiderio sacratissime unionis, et antique caritatis reintegrande
gratia, leti alacresque convenerunt, et intentione sua nequaquam
frustrati sunt. Post longam enim laboriosamque indaginem, tandem
Spiritus Sancti clementia ipsam optatissimam sanctissimamque unionem
consecuti sunt. Quis igitur dignas omnipotentis Dei beneficiis gratias
referre sufficiat? quis tante divine miserationis divitias non
obstupescat? cujus vel ferreum pectus tanta superne pietatis magnitudo
non molliat? Sunt ista prorsus divina opera, non humane fragilitatis
inventa; atque ideo eximia cum veneratione suscipienda, et divinis
laudibus prosequenda. Tibi laus, tibi gloria, tibi gratiarum actio,
Christe, fons misericordiarum, qui tantum boni sponse tue catholice
Ecclesie contulisti, atque in generatione nostra tue pietatis miracula
demonstrasti, ut enarrent omnes mirabilia tua. Magnum siquidem
divinumque munus nobis Deus largitus est: oculisque vidimus quod ante
nos multi, cum valde cupierint, adspicere nequiverunt. Convenientes enim
Latini ac Greci in hac sacrosancta synodo ycumenica, magno studio
invicem usi sunt, ut, inter alia, etiam articulus ille de divina
Spiritus Sancti processione summa cum diligentia et assidua inquisitione
discuteretur_.
_Item diffinimus Sanctam Apostolicam sedem, et Romanum Pontificem in
universum orbem tenere primatum, et ipsum Pontificem Romanum successorem
esse beati Petri principis Apostolorum, et rerum Christi vicarium,
totiusque Ecclesie caput, et omnium Christianorum patrem et doctorem
existere; et ipsi in beato Petro pascendi, regendi, ac gubernandi
universalem Ecclesiam a Domino nostro Jesu Christo plenam potestatem
traditam esse; quemadmodum etiam in gestis ycumenicorum conciliorum, et
in sacris canonibus continetur, Renovantes insuper ordinem traditum in
canonibus ceterorum venerabilium Patriarcharum, ut Patriarcha
Constantinopolitanus secundus sit post sanctissimum Romanum Pontificem,
tertius vero Alexandrinus, quartus autem Antiochenus, et quintus
Hierosolymitanus, salvis videlicet privilegiis omnibus et juribus
eorum_.


DISCORSO IX.
ERESIA SCIENTIFICA E LETTERARIA. PAGANIZZAMENTO DELL'ARTE, DELLA VITA.
ERESIA POLITICA.

Fra i tanti pregiudizj letterarj, con cui offuscano gl'intelletti le
deplorabili scuole odierne, v'è questo, che il medioevo fosse un'età
trista, melanconica, di penitenze e digiuni, di pellegrinaggi e
flagellazioni, di demonj e fatucchiere; ove le minaccie dell'altra vita
conturbavano questa, deserto arido, esiglio espiatore, tremebondo
dinanzi a potenze arcane, avide del dolore e non esorabili che col
dolore. Eppure, chi vi guarda, troverà che i sentimenti affettuosi vi
aveano ricevuto sviluppo, fino a scapito della ragione; la cavalleria
fondavasi tutta sulle simpatie, e di là vennero i racconti che più
sorrisero alle fantasie moderne: in capo a tutte le devozioni stava la
madre del Bell'Amore: il misticismo era un eccesso dell'amor di Dio,
come molti Ordini monastici portavano all'eccesso l'amor del prossimo:
lo spiritualismo era austeramente dolce, sino in que' frati, che non
solo nelle novelle ma ben anco nelle storie ci sono esibiti come
bontemponi, motteggiatori, burleschi, che le prediche stesse
drammatizzavano, che ogni funzione cominciavano e finivano coi canti,
che composero tutte le laude e molte delle rappresentazioni, colle quali
edificavano insieme e ricreavano la plebe di Cristo. Il vulgo vivea
contento, perchè non concepiva soddisfazioni maggiori, e perchè i
sofferimenti, inseparabili dalla vita, considerava quale conseguenza
inevitabile del peccato, ma espiatrice e meritoria. Le cronache parlano
continuo delle feste che ripetevansi ad ogni occasione; devote, o
popolesche, od aristocratiche, ma sempre accomunate a tutto il paese. La
casa del contadino non era molestata dall'esattore; non la sua chiassosa
allegria dal gendarme; non la sua figliolanza dalla coscrizione; e se
fosse possibile spogliarci dell'intirizzente raziocinio e dell'egoismo
odierno, ben altra ci si presenterebbe la vita d'allora.
Altrettanto dobbiamo abbandonar alle scuole e alla plebe degli scrittori
l'asserire che il medioevo non sapesse nulla, e colpa ne fosse il clero.
Il medioevo serbò tutte, dico tutte, le cognizioni dell'antichità, e
n'aggiunse moltissime. Il clero, sol che l'avesse voluto, potea spegnere
l'antica face della civiltà, giacchè egli solo l'aveva in mano; e in
quella vece la tenne viva ed alzata, e faticò a propagarla per quanto
era fattibile tra le inenarrabili sventure di quell'età.
Dove conservaronsi tutti i manuscritti dell'antichità? chi li
trascrisse? Dicono che il clero ne abbia lasciato perire alcuno per
ignoranza o per usar quella carta a scrivervi lavori che ad esso più
importavano. Foss'anche colpa l'usar mezzi proprj a proprio utile, è
ampiamente riscattata dal merito de' tanti tramandatici, e ne loda il
buon gusto il vedere che questi sono i capolavori del genio classico.
Nè è da trascurare che i paesi più istruiti d'allora erano l'Italia e la
Spagna; e sono appunto quelli che respinsero il protestantismo. Qui da
noi in generale, discutendo l'applicazione, non s'impugnava il
principio; l'Inquisizione, nel secolo XV, ebbe poc'altro che a
perseguitare maliardi e superstiziosi anzichè eretici, nè conosco quali
fossero quelli che combattè il famoso Giovanni da Capistrano, nè quelli
che dalla Francia e dalla Lombardia si erano ricoverati fra i monti
della Valtellina, e alla cui conversione andò il beato Andrea Grego di
Peschiera, domenicano di San Marco in Firenze, che morì il 1455, dopo
dimorato quarantacinque anni fra que' pastori e carbonari alpini. Neppur
potemmo accertare che cosa fosse la _setta pitagorica_, diffusa in tutta
Italia, alla quale diceasi appartenere Arnaldo di Villanuova; oppure la
società segreta che avea giurato la distruzione del cristianesimo, e
della quale parla con sbigottimento la _discesa di san Paolo
all'inferno_[193]. Il cronista Ser Cambi, al 1453, scrive che Giovanni
Decani, medico, il quale non credeva la resurrezione de' morti, fu
condannato alla forca a Firenze; e in quel anno morì Carlo d'Arezzo
cancelliere della signoria, ed ebbe grandissime doti: «Dio l'abbia
onorato in cielo, se l'ha meritato; non che si stimi, perchè morì senza
confessione e comunione, e non come cristiano». Lodovico Cortusio
giureconsulto, morendo a Padova il 17 luglio 1418 lasciò per testamento
che amici nè parenti nol piangessero; se no, rimanessero diseredati,
mentre suo legatario universale sarebbe quello che ridesse di miglior
cuore: non parare a bruno la casa e la chiesa, ma fiori e fronde; musica
invece delle campane funebri; e cinquanta sonatori e cantanti procedano
insieme col clero, cantando _alleluja_ tra viole, trombe, liuti,
tamburi, ricevendo ciascuno un mezzo scudo. Il suo cadavere, entro una
bara a panni di varj colori gai e sfoggiati, sia portato da dodici
donzelle vestite di verde, che cantino arie allegre, e ricevano una
dote. Non rechino candele, ma ulivi e palme e ghirlande di fiori; non lo
seguano monaci che abbiano la tonaca nera. Così piuttosto in guisa di
nozze che di funerale fu sepolto in Santa Sofia. Il nostro secolo, che
tanto s'intende di libertà, lo chiamerebbe un libero pensatore.
Ma intanto il mondo si era trasformato, fissate le genti sul suolo che
diverrebbe lor patria; e restauratasi l'antica coltura, si
moltiplicavano le scoperte, si sentivano nuovi bisogni.
Non limitandosi a dirozzare la società nuova, la letteratura pretendeva
modificarne le credenze e gli atti, ritornando nelle teoriche e nella
pratica verso il paganesimo. Le scienze, allattate nel santuario e
disciplinate dagli scolastici come un esercito sotto al Verbo di Dio, or
disertavano, e dilatandosi mediante la stampa, mordeano il seno che le
avea nudrite. Passando dal periodo credente al pensante, l'uomo
s'appropriava col raziocinio le verità, che fin là avea ricevute dalla
fede, e mentre fin allora la religione era, quale Grozio la definì,
unico principio dell'universale giustizia, or non più soltanto dalla
Chiesa domandavasi in che modo servire meglio a Dio e al prossimo.
Platone avea detto: «Filosofia è imparare a conoscer Dio: filosofare è
amar Dio: filosofare è imitar Dio»[194], onde fu preferito dai primi
Cristiani, ma condusse facilmente nell'idealismo. La filosofia
scolastica, tutta armata di logica, avea preso per oracolo Aristotele,
in verità maestro eccellente, poichè in esso trovasi anche la critica
degli altri sistemi, mentre Platone non dà che il proprio dogma.
Aristotele anch'esso proclama e dimostra il Dio supremo, la legge
morale, l'anima immortale: ma al Cristiano che attende tutto da Dio,
poteva essere fedel maestro questo, che esagera la potenza della natura
e l'efficacia dell'umana volontà? Egli che erige in principio supremo la
natura, poteva rimanere l'oracolo d'una scienza tutta religiosa? Poi
esso giungeva in Europa nelle versioni e nei commenti de' Musulmani, che
gli aveano prestato sentimenti assurdi e sofisterie; che traducendo
teosofizzavano l'autore, e in modo fantastico osservando il mondo,
applicavano l'astronomia all'astrologia, l'astrologia alla medicina. I
nostri, nel tradurre quelle traduzioni, nuovi errori vi sovrapposero; nè
la critica sapeva riconoscervi l'alterazione, mentre l'idolatria
professata ad Aristotele impediva di supporlo in fallo; donde una
miscela d'arabo, di scolastico, di cristiano, bastardume sterile, e
indicifrabile a quei che voleano conciliarlo colla teologia dogmatica.
Al movimento razionale repugna assolutamente l'islam, avverso ad ogni
cultura civile e profana; pure un istante la protezione de' califfi gli
diè tale impulso, da sorgerne un'età dell'oro della coltura musulmana,
sebbene esagerata da coloro che imputano ai Cristiani d'averla respinta.
Quegli italiani che il fanno, e che deridono o riprovano le crociate
pensino che l'islam stabiliva il despotismo teocratico, dove non
famiglia, non ceti, non liberi possessi, non gerarchia; bensì
un'eguaglianza assoluta, ove tutto può la volontà d'un solo. Un tale
despotismo, più robustamente attuatosi nei Turchi, represse la coltura
degli Arabi a tal segno, che più non ne serbano nè impronta nè ricordo i
Musulmani. Nella cristianità invece si riverirono e usufruttarono i loro
dotti e pensatori, e massime Averroè, vissuto verso il 1180, e che fece
quel Gran Commento, pel quale si disse essere stata la natura pienamente
interpretata da Aristotele; Aristotele pienamente da Averroè.
Gli Arabi, dopo ricevuta la rivelazione di Maometto, aveano cominciato
le dissensioni teologiche dall'eterna quistione del libero arbitrio e
della predestinazione (_Kadariti_ e _Giabariti_), donde passarono a
quella sugli attributi di Dio. Ma anche fra loro v'avea degli scettici;
v'avea degli increduli; vacillavasi tra l'entusiasmo religioso e il
libero pensare: e quel che fra noi la Scolastica, fu fra essi il Kaläm,
discussioni razionali sia per esaminare, sia per difendere colla
dialettica i dogmi attaccati. In tali esercizj la filosofia araba ampliò
i problemi de' Peripatetici, e accolse l'eternità della materia e la
teorica dell'unicità dell'intelletto.
E appunto la filosofia di Averroè s'appoggia sul panteismo; una sola
essere l'anima, e Dio essere il mondo. La generazione (secondo lui) non
è che un movimento. Ogni movimento suppone un soggetto. Questo soggetto
unico, questa possibilità universale è la materia prima. Essa è dotata
di ricettività, ma di nessun'altra qualità positiva, cioè può ricevere
le più opposte modificazioni; materia prima, senza nome nè definizione;
semplice possibilità. Ogni sostanza è dunque eterna per la sua materia,
cioè perchè può essere. Chi dicesse che una cosa passa dal non essere
all'essere le attribuirebbe una disposizione che mai non ebbe. La
materia non fu generata e non può corrompersi. La serie delle
generazioni è infinita da entrambi gli estremi: tutto quanto è possibile
passerà in atto, altrimenti v'avrebbe alcun che di ozioso nell'universo:
e nell'eternità non v'è divario tra il possibile e l'esistente. L'ordine
non precedette il disordine, nè questo quello: nè il movimento il riposo
o viceversa. Il movimento è continuo; ogni movimento è causato da un
moto precedente. Se il moto dell'universo si fermasse, cesseremmo di
misurare il tempo, cioè perderemmo il sentimento della vita successiva e
dell'essere[195].
Quest'unità degli spiriti fu trionfalmente confutata da san
Tommaso[196], e, nel XIV secolo, da Egidio di Roma, le cui opere
troviamo pubblicate ai primordj della stampa[197], dipoi da Gerardo di
Siena e Raimondo Lullo. Essi non fanno che esecrare quest'empio, il
quale identifica l'anima di Giuda e quella di san Pietro, nega la
creazione, la rivelazione, la Trinità, l'efficacia della preghiera,
della limosina, delle litanie, la risurrezione e l'immortalità, e
colloca il supremo bene nei godimenti. Egidio di Roma nel trattato _De
erroribus philosophorum_, lo taccia d'aver rinnovellato tutti gli errori
d'Aristotele, vie meno scusabile perchè direttamente intacca la fede
nostra; biasima tutte le religioni, non meno quella de' Musulmani che
quella de' Cristiani, perchè ammettono la creazione dal nulla: chiama
fantasie le opinioni de' teologi, e sostiene che nessuna legge è vera,
benchè possa esser utile.
E appunto una delle accuse principali contro Averroè si è la
comparazione delle leggi di Mosè, di Cristo, di Maometto. Aveano dovuto
istituirla i Musulmani per sostener la loro religione, ma Averroè più di
spesso e dogmaticamente accenna ai _tres loquentes trium legum_[198],
donde il crederlo autore del libro dei _Tre Impostori_, divenne arma per
colpire chiunque si volea screditare.
E veramente gli scolastici del secolo XIII vanno d'accordo nel riprovare
Averroè, ma ciò stesso mostra che v'avea dottori e scuole dov'era
riverito e insegnato; nè forse mal s'apporrebbe chi ciò attribuisse
principalmente a' Francescani, per opposizione ai Domenicani e ai
Tomisti. Certo ne parla con rispetto Roggero Bacone.
E qui è luogo a ripudiar due altri pregiudizj da scuola contro il
medioevo, opponendovi due meraviglie. La prima è la rapidità con cui,
senza stampa nè poste, si difondeano i pochi libri. Le poesie de'
Trovadori, appena prodotte, conosceansi in tutta Europa. Abelardo aveva
appena pubblicato le sue scettiche teorie a Parigi, e subito le si
possedeano in fondo all'Italia. I versi del Petrarca, lui vivo, gli
davano una gloria estesa quanto a qualsiasi poeta de' giorni nostri; e
meglio che a' giorni nostri s'aveva a Padova o a Bologna notizia di
opere prodotte a Marocco o al Cairo. Più che all'attività degli Ebrei,
io inclino ad ascrivere questo fatto alla grande e compatta società dei
monaci.
L'altra meraviglia è che, in secoli vituperati per intolleranza, non
s'avesse scrupolo di farsi scolari d'Ebrei e di Musulmani, tenendo le
scienze come un campo neutro, e salvo a condannarne gli abusi. Coi
Musulmani comunicavasi da un lato per la Spagna, dall'altro per la
Sicilia, oltre i viaggi d'Oriente: onde ben presto venne dai nostri
conosciuto Averroè. Ma il primo ad introdurne le opere nelle scuole fu
Michele Scoto nel 1230, e per queste fu ben accolto nella Corte degli
Hohenstaufen avversa ai papi; e Federico II, come re Manfredi, ebbe in
corte Ermanno tedesco traduttore[199].
Non si tardò a conoscere il pericolo delle dottrine d'Averroè, e la
Chiesa ne vietò la pubblica lettura, ma presto si sentì l'influenza del
peripatismo arabo sui filosofi nostri, e principalmente su Alberto
Magno, che nel 1255, per ordine di papa Alessandro IV compose a Roma un
trattato contro l'unità dell'intelletto, nel quale già si trova la
distinzione di verità filosofiche e verità teologiche[200]. Alberto
adduce 30 argomenti che sostengono quell'asserto, 36 che lo ribattono,
onde l'immoralità individuale gli sa numericamente più forte. Certamente
nel secolo XIV Averroè era riverito come il migliore fra i commentatori
d'Aristotele: Dante lo collocava coi più famosi antichi, e le sue opere
spandeano dubbj sulla vita futura.
Il rinascimento che allora seguì fu piuttosto letterario che filosofico,
e mentre stavasi ancora fedeli al sillogismo, il quale esclude le
gradazioni e modificazioni, introduceasi quell'espressione colta sotto
cui si palliano le divergenze d'opinioni. Di tale risorgimento
letterario è rappresentante Francesco Petrarca, il quale vuolsi noverare
fra' più efficaci sulla coltura europea pel tanto che adoprò a ravvivare
la tradizione classica, non tanto nella forma esterna, quanto nello
spirito intimo e libero, per cui considerava come barbarie il medioevo,
e come ignoranza tuttociò che derivasse da altro fonte che da' classici.
Pertanto egli sprezza affatto gli Arabi, e specialmente la loro
medicina, a cui s'innestavano l'astrologia e l'incredulità, ed esortava
a schivar tutto quanto derivasse da quella nazione[201]. E poichè alcuni
diceano che noi potremmo eguagliare, e forse sorpassare i Greci e tutte
le nazioni, eccetto gli Arabi, esclamava: _O infamis exceptio! o vertigo
rerum admirabilis! o italica vel sopita ingenia, vel extincta!_
Per questo sentimento e pel religioso egli professavasi ostilissimo ad
Averroè, e si piangeva che non ottenesse nome di dotto e filosofo chi
non aguzza la lingua e la penna contro la religione; chi non va per le
strade e per le piazze disputando sugli animali, e così mostrandosi
animale. Più uno accannisce contro la religione, più a' costoro occhi è
ingegnoso e dotto: ignorante chi la difende. «Per me (soggiunge) più
sento denigrare la fede di Cristo, più amo Cristo e mi confermo nella