Gli eretici d'Italia, vol. I - 25

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con molta scienza ne scrissero gli atti in tale intento, ma con quel
sistema di modificazioni e reticenze, per cui fu facile allineare coi
Protestanti gl'ingegni più ortodossi. Perocchè analizzandone le opere,
le mutilano, le scontorcono così, da esprimere quel che essi
prestabilirono, e principalmente sopprimono quel che vi ripugna. Per un
esempio, delle tre prime parti del _Trionfo della Croce_, le dottrine
sono comuni ai Protestanti e a noi: onde il Rudelbach le divisa con
diligenza, industriandosi volta a volta di estrarne qualche senso
protestante. Ma trasvola al IV libro ove frà Girolamo tratta dei
sacramenti da perfetto cattolico. Il Meyer asserirà che il frate parla
ben poco della Beata Vergine, quasi mai del purgatorio: ma non tien
conto che in qualche luogo spinge il culto della madre di Dio fino ai
limiti della superstizione, e raccomanda ai fedeli di suffragare pei
defunti; e conchiude che «chi si parte dalla dottrina della Chiesa
romana, si parte da Cristo».
E in quel famoso mistico carro, del quale più fiate egli ragiona, figura
Cristo vittorioso, piagato, coi due Testamenti in una mano, nell'altra
la croce e i segni della passione; a' piedi il calice, l'ostia, i
simboli de' sacramenti; poi la Vergine Maria colle urne de' martiri; il
carro è tirato da apostoli, predicatori, profeti; è seguito dalla
moltitudine de' fedeli e de' martiri. E da quel carro dicea doversi
dedurre una nuova filosofia, i cui canoni supremi sono che Cristo è
stato crocifisso, adorato, e ha convertito il mondo; e la Vergine, i
martiri, la Santissima Trinità sono _adorati_ dai Cristiani. Nè di rado
il Savonarola ritorna sulla necessità delle opere, sul libero arbitrio,
sulla cooperazione dell'uomo alla Grazia; che se l'espressione non è
sempre esattissima come dopo le definizioni tridentine, abbastanza
rivela di pensar come la Chiesa cattolica; quantunque la Grazia diasi
gratuitamente, noi dobbiamo apparecchiarci a riceverla forzandoci di
credere, pregando, operando[279]. «Vuoi tu ricevere l'amor di Gesù
Cristo? fa di consentire alla divina chiamata; il Signore ti chiama, fa
tu pure qualche cosa»[280]. Aveva anzi in gioventù addottato questo
motto: «Tanto sa ciascuno quanto opera»: talmente era lontano dalla
passiva aspettazione della Grazia.
Ma nella meditazione sul _Miserere_ fatta in prigione, poneva: «Spererò
nel Signore, e presto sarò liberato da ogni tribolazione. E per quali
meriti? Pe' miei non già, ma per i tuoi, o Signore. Io non offerisco la
mia giustizia, ma cerco la tua misericordia. I Farisei si gloriarono
nella loro giustizia; onde non hanno quella di Dio, la quale si ha solo
per grazia; e nessuno sarà mai giusto innanzi a Dio, solo per aver fatto
le opere della legge.
«O cavaliere di Cristo: di che animo sei tu in queste battaglie? Hai tu
fede o no?
«Sì, la ho.
«Ben sappi che questa è una grande grazia di Dio, perchè la fede è suo
dono, e non per nostre opere: acciò nessuno si possa gloriare».
Queste parole parvero asserire la giustificazione indipendente dalle
opere; sicchè quell'opuscolo fu diffuso in Germania da Lutero nel 1523,
con una prefazione, ove dichiarava il Savonarola suo precursore,
«sebbene ai piedi di questo sant'uomo sia ancora attaccato del fango
teologico»[281], e aver lui sostenuto «la giustificazione per mezzo
della sola fede, e PERCIÒ venne bruciato dal papa»; e soggiungeva:
«Cristo lo canonizzò perchè non appoggiossi sui voti o sul cappuccio,
sulle messe o sulla regola, ma sulla meditazione del vangelo della pace;
e rivestito della corazza della giustizia, armato dello scudo della
fede, dell'elmo della salute, si arrolò non all'ordine de' Predicatori,
ma alla milizia della Chiesa cristiana».
Noi sappiamo che non dal papa fu bruciato, e non per questo motivo; ma
il libro stesso a cui Lutero s'appoggiava lo smentisce, poichè,
primamente, che la fede sia dono gratuito di Dio è sentenza comune di
tutti i teologi e del concilio di Trento: poi in esso libro il
Savonarola continua: «Chi addurrà un peccatore, sia pur grandissimo, il
quale, rivoltosi e convertitosi a Dio, non sia stato accetto e
giustificato?... Or non hai tu udito il Signore, che dice, _Qualunque
volta piangerà il peccatore, e si dorrà de' suoi peccati, io non mi
ricorderò delle sue iniquità?.._. Cadesti? lèvati, e la misericordia ti
riceverà. Rovinasti? grida, e la misericordia verrà».
Poi sollecitato dal carceriere a lasciargli qualche ricordo, frà
Girolamo sulla coperta di un libro scriveva una _Regola del ben vivere_,
più volte ristampata, ove dice: «Il ben vivere dipende tutto dalla
Grazia; onde bisogna SFORZARSI D'ACQUISTARLA, e quando s'è avuta,
d'accrescerla... Essa è certamente un dono gratuito di Dio; ma
l'esaminar i nostri peccati, il meditare sulla vanità delle cose
mondane, c'indirizza alla Grazia; la confessione e la comunione ci
dispongono a riceverla... Il perseverare nelle buone opere, nella
confessione[282], e in tutto quello che ci ha avvicinato alla Grazia è
il vero e sicuro modo d'accrescerla».
Il Savonarola era piuttosto un mistico; e a indicarlo tale, se non
bastassero alcuni passi da noi addotti, ben altri potrebbero adunarsi, e
per darne uno, quello ove definisce, «L'amore di Gesù Cristo è quel vivo
affetto, per cui il fedele desidera che la sua anima diventi quasi parte
di quella di Cristo, e che la vita del Signore si riproduca in lui, non
per esterna imitazione, ma per interna e divina ispirazione.
Vorrebb'egli che la dottrina di Gesù Cristo fosse in lui cosa viva,
patir il suo martirio, salir con lui misticamente sulla croce. Amore
onnipotente, che non può aversi senza la Grazia, perchè eleva l'uomo
sopra se stesso, e la creatura finita congiunge al Creatore
infinito»[283].
Ne' processi nega d'essersi spacciato mai come ispirato; pur realmente
davasene l'aria, forse come artifizio a cattivar una plebe, che vuol
sempre essere illusa[284]. Una volta salì in pulpito, ed: «Ho a
rivelarvi un secreto celeste, che ancora non ho voluto manifestare ad
alcuno, perchè non ne ero finora ben certo. Voi conoscete tutti il conte
Pico della Mirandola, morto testè. Dicovi che l'anima sua, per le
orazioni de' nostri frati, ed anche per alcune sue buone opere che fece
in questa vita, e per altre orazioni, è nel purgatorio. _Orate pro eo_».
Di tratti consimili è sparsa la sua vita, e ne' discorsi accenna spesso
a rivelazioni speciali, o ad interpretazioni nuove di passi scritturali.
Uom di fede, di superstizione, di genio, abbondò di carità; credette
all'ispirazione personale, all'opposto di Lutero che tutto affidavasi al
raziocinio; e argomenti in favore e contro di lui possono raccogliersi
nelle sue opere, dal cui complesso risulta come abbia cercato l'armonia
della ragione colla fede, della religione cattolica colle franchigie
politiche.
In ogni modo non impugnò l'autorità della Santa Sede, benchè reluttasse
a colui che egli credeva tenerla illegittimamente, e contro di questo
invocasse il concilio che doveva riformar la Chiesa legittimamente: la
superbia degli applausi, il puntiglio delle contraddizioni lo fecero
trascendere, ma operava con coscienza pura, senza ambizioni personali:
non cercò propagar le sue persuasioni colla forza, sibbene coll'esempio,
cioè credeva alla potenza del vero. E diceva: «Entrai nel chiostro per
imparar a patire, e quando i patimenti vennero a visitarmi, gli ho
studiati, ed essi m'insegnarono ad amar sempre, a sempre perdonare». Ma
interposto Iddio fra il pensier suo e la sua persona, sottomise la
prudenza umana all'ispirazione; credette guidar il popolo per mezzo
della passione e delle grida di piazza, e a queste soccombette, come
sempre avviene. Eretico non è se non chi si ostina in un'opinione
contraria ad un punto di fede definito. La sua fama restò bilanciata tra
il cielo e l'inferno, ma la sua fine fu deplorata da tutti, e forse
primi quelli che l'aveano provocata. In Santa Maria Novella e in San
Marco è dipinto in figura di santo, e da Raffaello nelle logge vaticane
fra i dottori della Chiesa; ritratti e medaglie sue si tennero e
venerarono, non solo fra que' pii che in Firenze continuarono ad opporsi
alla depravazione e alla servitù che ne deriva, ma anche da gran santi.
Nel 1548, il severo Ambrogio Catarino stampò a Venezia un _Discorso
contro la dottrina e le profezie di frà Girolamo Savonarola_, dedicato
al cardinale Del Monte, dove ne raduna molte proposizioni, che crede
repugnanti al dogma cattolico: ma «dichiara di oppugnar in questa opera
non il Savonarola, giudicato piuttosto degno di compassione che di
vituperio, bensì la dottrina e gli errori di lui, che ancora viveano
nella riputazione di coloro che, non senza scandalo e pericolo delle
loro anime, a lui prestarono fede».
Forse in conseguenza di tale denunzia quegli insegnamenti furono presi
in esame sotto Paolo IV, e quando la commissione ne leggeva dinanzi a
questo alcuni brani, egli esclamava: «Ma questo è Martin Lutero! cotesta
è dottrina pestifera»; maturato però l'esame, non furono che _sospese_
quindici prediche e il dialogo della _Verità profetica_: il padre
Paolino Bernardini lucchese, fondatore della congregazione di Santa
Caterina da Siena, compose _Narrazione e discorso circa la
contraddizione grande fatta contro le opere del r. p. frà Girolamo_,
sostenendo che la dottrina di esso «non poteva esser dichiarata nè
eretica, nè scismatica, nemmanco erronea e scandalosa», e nell'indice
del Concilio di Trento que' libri figurano solo _donec emendati
prodeant_, cioè come intaccati solo d'errori accidentali. Dicevasi che
Clemente VIII, nel 1598, avesse fatto voto, se riusciva ad acquistare
Ferrara, santificare il Savonarola. Serafino Razzi, domenicano
fiorentino, infervorato di frà Girolamo, v'esortò più volte il papa,
scrisse anche una vita del frate, poi vedendo menarsi la cosa in lungo,
comperò un asinello, e settuagenario com'era, l'anno santo recossi a
Roma. Ma il papa «temendo dei tanti contraddittori», non volle tampoco
vederlo, nè gli permise di stampare quella vita; e invano i Domenicani
aveano preparato un'uffiziatura propria del Savonarola[285]. Se il
filosofico Naudet lo intitolava Ario e Maometto moderno, il devoto padre
Touron lo intitolava inviato da Dio; san Filippo Neri e santa Caterina
de' Ricci lo veneravano per beato, e Benedetto XIV lo disse degno di
santificazione. Al raccogliere de' conti fu un credente del medioevo,
non un ragionatore del cinquecento: un'elegia del passato, piuttosto che
una tromba dell'avvenire; ma quanto al voler associare la morale colla
politica, vivono oggi ancora discepoli suoi, e combattono buona guerra.
Nessuno dei seguaci di frà Girolamo figurò fra i discepoli di Lutero, nè
fra i traditori della patria libertà: Michelangelo, che edificava
bastioni per la patria e il maggior tempio del Cristianesimo, l'ebbe
sempre in venerazione; il Machiavello, che non s'avventurava ad opinioni
contrarie alle correnti, dapprincipio ammirò il Savonarola; lo prese in
beffe allorchè ebbe spiegata intera quella sua politica senza Dio, senza
providenza, senza moralità; un'innata malvagità senza peccato originale
e senza redentore; e la speranza del rigeneramento d'Italia volle non
solo senza la Chiesa, ma a dispetto della Chiesa: insomma il preciso
contrario del Savonarola.

NOTE
[260] VESPASIANO, _Vite_, ecc.
[261] FABRONI, _Vita di Lorenzo_, II, 390.
[262] RAYNALDI, ad 1492.
[263] Le inclinazioni di Alessandro VI erano conosciute precedentemente,
sicchè quando fu eletto, Pietro martire d'Angera scriveva al cardinale
Sforza: _Hoc habeto, princeps illustrissime, non placuisse meis regibus_
(Fernando e Isabella di Spagna) _pontificatum ad Alexandrum, quamvis
eorum ditionarium, pervenisse; verentur namque ne illius cupiditas, ne
ambitio, ne (quod gravius) mollities filialis christianam religionem in
præceps trahat_. Epist. 119 dell'ediz. di Amsterdam 1670.
[264] Nelle carte di Urbino nell'archivio centrale di Firenze è una
lettera del 21 luglio 1494 di Alessandro VI a Lucrezia Borgia sua
figlia, che finisce: «E per questa volta null'altro se non che attendi a
star sana, et a esser devota de nostra donna gloriosa». Si sa ch'egli
portava sempre in dosso una palla, contenente l'ostia consacrata.
[265] Il signor Chantrel, nella _Storia popolare dei papi_, tolse or ora
a discolpare Alessandro VI, mostrando come la vita sua non fu
scandalosa, neppur mentre era privato; sempre poi edificante nel papato;
e ch'egli fu gran re e gran pontefice; le accuse prodigategli mancar di
fondamento, e ricader sopra gli storici, bugiardi, maligni, ostili ad
esso papa, o alla cattedra su cui sedette.
Sono a vedersi per lo stesso assunto la _Storia d'Alessandro VI_
dell'abate Jorry, e un articolo della _Rivista_ di Dublino, del gennajo
1859. Un amico ci fa avvertire che nelle lettere inedite dell'Alberoni,
trovasi un giudizio sopra Alessandro VI, che s'accorda sostanzialmente
col da me espresso. Benedetto XIV, nel carteggio confidenziale
coll'Alberoni, suo legato di Bologna nel 1740, gli manifestò
l'intenzione di correggere varj abusi, e sovratutto di riformare il
paese, _rovinato da dieci anni di allegria e di conversazioni_ (_Lettera
da Castelgandolfo_ li 18 ottobre di quell'anno). L'Alberoni pur
desiderando non ci fosse occasione _di venire a que' rimedii troppo
repugnanti al naturale della Santità sua_, non potè di meno, da
quell'uomo schietto qual era, di _secondare un sì santo pensiero_,
aggiugnendo che il bisogno di tale riforma era universalmente sentito da
tutti i buoni e dentro e fuori di Roma (_Lettera dell'Alberoni di
Bologna_, 25 ottobre 1741). Il papa lesse, forse con poca riflessione,
la lettera dell'Alberoni nella sua conversazione, dove saranno stati
probabilmente alcuni bisognosi di tale riforma, e levossi uno schiamazzo
contro l'impudenza del legato di Bologna, che avea avuto l'ardimento di
scrivere tali cose ad un tal papa, quasichè il suo pontificato fosse
quello di Alessandro VI. Non è qui luogo di trascrivere la lunga e
veemente risposta dell'Alberoni allo stesso Benedetto XIV, degli 8
novembre: ma sul punto toccato s'esprime così: «Non so come costoro
possino far entrare nel mio discorso Alessandro VI. Se si avesse a
parlare del di lui pontificato si potrebbe dire che fu un misto di vizj
e di virtù: che i primi furono mancanze d'un uomo privato, ma che le
seconde furono qualità eminenti d'un principe di gran mente. Tale lo
fanno conoscere le di lui famose Bolle e non Pataffie, che saranno di
eterna memoria e venerazione, e fra tante altre azioni eroiche del sue
pontificato, una sarà la restituzione della Romagna fatta dai Tiranni
alla Santa Sede; opera che tutta si deve al coraggio e alla prudenza e
sagace condotta di Alessandro VI».
[266] Anche san Paolo ad Efeso si fe cedere gli amuleti e talismani
della Dea colà adorata, e i libri de' misteri, e quantunque di carissimo
costo, valendo cinquantamila denari, li fe bruciare. _Act. apost. cap.
XIX_.
[267] Prediche sopra Ezechiele. Predica XXII.
[268] Prediche sopra l'Esodo.
[269] Sermone sopra Amos.
[270] «O frate, tu vuoi dire che la Chiesa non possa tenere beni
temporali. QUESTO SARIA ERESIA. Non dico questo io, perchè non è da
credere, se non si potesse tenere, che san Silvestro li avesse
accettati, e san Gregorio li avesse confermati. Però noi ci sommettiamo
alla Chiesa romana, o che valga meglio che ne abbia o no. Questa è una
gran quistione, perchè vediamo che ha pur fatto male per avere queste
ricchezze, e non bisogna che io lo pruovi. Rispondiamo dunque, non però
assolutamente, come il marinaro che non vuol gittare le ricchezze in
mare, ma fuggire il pericolo; e diciamo che la Chiesa staria meglio
senza ricchezze, perchè sarebbe in unione con Dio». _Sopra Ezechiele_.
«Il papa è Dio in terra, ed è vicario di Cristo. Ciò è vero, ma Dio e
Cristo comandano che si ami il proprio fratello, che si faccia il bene.
Adunque se il papa ti comandasse cosa contraria alla carità, e tu la
facessi, tu allora vuoi che il papa facci più che non fa Dio. Il papa
può errare, non solo per false informazioni, ma qualche volta ancora
perchè ha in odio la carità. Ciò che tanto ha corrotto la Chiesa è la
potestà temporale. Quando la Chiesa era povera, allora era santa: ma
quando le fu data la potestà temporale, cadde nella polvere delle
ricchezze e delle cose terrene, e cominciò a sentire la sua superbia...
Concilio vuol dir congregare la Chiesa, idest tutti li buoni abbati,
prelati e secolari di essa. Ma nota che non si domanda propriamente
Chiesa se non dove è la grazia dello Spirito Santo. Ed oggi dove si
trova essa? forse solamente in qualche buon omiciattolo... Nel concilio
s'hanno a far riformatori che riformino le cose giuste. Nel concilio si
castigano li cattivi cherici; si depone il vescovo che è stato simoniaco
o scismatico. Oh quanti ne sarebbero deposti! forse non ne rimarrebbe
nessuno. Pregate il Signore, che si possa finalmente congregare una
volta, per favorire ed ajutare chi vuol far bene e per combattere i
tristi». _Prediche del 1498, sopra l'Esodo_.
[271] JACOBO PITTI, _Storie_, lib. I, cap. 51.
[272] «Oh non hai tu paura? Non io che mi vogliano scomunicare perchè
non faccio male. Portatela in s'una lancia questa scomunica, e apritele
le porte. Io voglio rispondere; e se non ti fo meravigliare, di' poi
quel che ti pare. Io farò impallidire tanti visi là e qua, che ti
parranno ben molti; e manderò fuori una voce che farà tremare e
commuovere il mondo... Se io volessi andare adulando, non sarei oggi a
Firenze, nè avrei la cappa stracciata, e mi saprei cavar fuori di questo
pericolo. Ma, o Signore, io non voglio queste cose; io voglio solamente
la tua croce: fammi perseguitare, io ti domando questa grazia che tu non
mi lasci morire in sul letto, ma che io ti renda il sangue mio, come tu
hai fatto per me.» _Sopra Ezechiele, pred._ XXVIII.
[273] Il papa diceva al Bonsi, oratore di Firenze: «Io ho letto le
prediche del vostro frate, e parlato con chi le ha udite. Egli ardisce
dire che il papa è ferro rotto; che è eretico chi crede alla scomunica,
e che egli, piuttosto che chiedere assoluzione, vorrebbe andar
all'inferno. È scomunicato non per alcuna istigazione o per false
insinuazioni, ma per la sua disobbedienza al nostro comando di unirsi
alla nuova congregazione tosco-romana. Noi non lo condanniamo delle sue
buone opere, ma vogliamo che venga a chieder perdono della sua petulante
superbia, e volentieri gliela concederemo quando si sarà umiliato a'
nostri piedi».
[274] _Anno Domini MCCCCIIC. — Dilectis filiis guardiano et fratribus D.
Francisci ad Sanctum Miniatum extra muros Florentinorum Ordinis Fratrum
Minorum de observantia nuncupatorum, Alexander Papa sextus_.
_Dilecti filii, salutem et apostolicam benedictionem. Relatum nobis fuit
quod apostolico zelo veritatis et justitiæ accensi, ac pro nostro, et
hujus sanctæ sedis honore contra perniciosum dogma falsamque doctrinam
perditionis filii Hieronimi Savonarolæ ordinis fratrum predicatorum, ac
populi seductionem multis ac veris conclusionibus et argumentis sæpius
publice ac privatim predicaveritis, ac eo fervoris et studii
processeritis ut, pro sustinendis vestris veris rectisque
argumentationibus, et ipsius Hieronimi pertinacia convincenda, non
defuerit ex vobis qui etiam se in ignem projicere proposuerit; Laudamus
certe devotionem vestram ac tam pium tamquam religiosum ac venerandum
opus quod procul dubio nulla poterit oblivione deleri: Nobis vero et
ipsi sedi ita gratum et acceptum ut gratius et acceptius esse non
possit. Hortamur et monemus vos in Domino, ut eodem tenore pergentes
adversus ipsius errorum reliquias, si quæ supersint, et complicem
perseverare velitis, ut exinde a Deo et hac sancta sede merita condigna
consegui possitis. Dat. Romæ apud S. Petrum sub annulo Piscatoris XI die
aprilis 1498, Pontificatus nostri anno sexto_.

_Dilecto filio Francisco Apuliensi, Ordinis fratrum Minorum de
observantia nuncupatorum professori, Alexander Papa sextus.
Dilecte fili, salutem et apostolicam benedictionem. Intelleximus quanto
fervore pro veritate et justitia, proque nostro ac huius sanctæ sedis
honore nuper predicaveris verbum divinum in civitate ista florentina
adversus falsum et perniciosum dogma iniquitatis filii Hieronimæ
Savonarole, qui prius suis demeritis excommunicatus, ausu sacrilego quam
plurima scandalosa et heresim sapientia tam diu disseminare tam publice
non erubuerat. Fecisti profecto opus valde meritorium, ac maxima laude
dignum, ac quale religiosum virum decebat, quod nobis et toti sacro
venerabilium fratrum nostrorum Sanctæ Romanæ Ecclesiæ cardinalium
collegio mirifice complacuit. De qua devotione te plurimum commendamus,
monentes et exhortantes ut, si quid forsitan reliquarum deinceps tanti
ac nepharii erroris supersit, in tam bono ac pio instituto perseverare,
ac illud eodem veritatis mucrone retundere cures, ita ut majores in dies
ac uberiores fructus in agro dominico producens, nostram et ipsius sedis
benedictionem et gratiam valeas promereri. Datæ Romæ apud S. Petrum
1498, XI aprilis, Pontificatus nostri anno sexto_.
[275] I Fraticelli non erano forse del tutto spenti in Firenze. Nella
Magliabecchiana (MSS. G. 3. 368) si ha una lunga lettera di don Giovanni
delle Celle contro di essi, e una loro risposta assai sviluppata, ma che
in fondo accusa la Chiesa di aver traviato, come poi disse Lutero; essi
pochi custodire la verità: la via del paradiso essere stretta, onde non
è meraviglia se essi sono pochi in numero: peccar contro la carità
quelli che gli accusano.
Il codice XI della classe XXXIV de' manoscritti d'essa biblioteca ha
molte scritture contro i Fraticelli dell'opinione e singolarmente del
vescovo Ortano, che dice essere stato deputato coll'arcivescovo di
Milano ed altri vescovi a discutere contro costoro, sorti principalmente
intorno ad Asisi, e che aveano preso per capo un tal Nicolao di Marano,
nell'Agro Piceno.
[276] _Faites moi un petit miracle_.
[277] Non ha bisogno di commenti questo passo del processo: «_Jussus
expoliari_. Orsù uditemi. Iddio, tu mi hai côlto (_inginocchiasi_). Io
confesso che ho negato Cristo. Io ho detto le bugie. Signori Fiorentini,
io l'ho negato per paura de' tormenti. Siatemi testimonj. Se io ho a
patire, voglio patire per la verità. Ciò che io ho detto l'ho avuto da
Dio. Dio, tu mi hai dato la penitenza per averti negato. Io lo merito.
Io ti ho negato. Io ti ho negato. Io ti ho negato per paura di tormenti,
per paura di tormenti (_erasi inginocchiato e mostrava il braccio manco
quasi guasto_). Gesù ajutami. Questa volta tu mi hai côlto».
[278] FR. KARL MEYER, _G. Savonarola aus grossen Theils
handschriftlichen Quellen dargestellt_. Berlino 1836. Contiene molti
atti sconosciuti, e che più tardi furono riprodotti da altri biografi
come nuovi.
RUDELBACH, _H. Savonarola und seine Zeit, aus den Quellen dargestellt_.
Amburgo 1835. Questi riconosce per profeti della Riforma l'abate
Gioachino, santa Brigida, santa Caterina da Siena, ed altri.
[279] Predica IV, p. 237. Pr. V, p. 246. Pr. XII, p. 373.
[280] Predica XVI, 443.
[281] _Vorrede über Savonarola's Auslegung des LI psalms_.
[282] Suole dirsi che sol dopo san Carlo e dopo l'istituzione de'
cherici regolari si estese l'uso del frequente confessarsi e de'
confessionali in chiesa, ecc. Nel processo, frà Girolamo diceva: «Circa
a' confessori, io ne mettevo molti in San Marco, confortandoli che
confessassino assai: non per intendere da loro le confessioni, perchè
non l'avrebbero fatto per la pena grande, et anche per conservarmi la
reputatione appresso di loro: perchè, se io li havessi richiesti di
simile cosa, mi sarei al tutto scoperto maligno: ma io lo facevo per
havere più concorso, et per tenere gli amici nostri confortati all'opera
nostra: et anchora perchè fossino più uniti».
[283] _Trattato dell'amor di Gesù Cristo_. Firenze 1492.
[284] Talora disse: «Se un angelo di Dio venisse un giorno a
contraddirmi, non gli credete, perchè è Dio medesimo che parlò. _Predica
17 febbraio 1497_.
E nella _Verità profetica_ leggiamo:
_Savonarola_. Atqui io son profeta. Poichè ragionevolmente mi sforzi,
non senza verecondia e umiltà confesso essermi stato da Dio, per suo
dono e non per alcuno mio precedente merito, conferito.
_Uria_. Guarda che questo sia detto non per umiltà, ma più presto per
arroganza.
_Savonarola_. Io non m'attribuisco il falso, ma non mi vergogno già di
confessare di averlo ricevuto a laude di Dio e per salute de' prossimi».
[285] _L'officio proprio per frà Gerolamo Savonarola e i suoi compagni,
scritto nel secolo XVI, e ora per la prima volta pubblicato per cura del
conte C. Capponi, con un proemio di Cesare Guasti_. Prato 1860.
Il codice 34 della classe XXXIV dei manoscritti della Biblioteca
Magliabechiana contiene una raccolta di giudizj di varj sopra la vita e
le dottrine del Savonarola. Quanta traccia di sè abbia lasciato il frate
appare dall'infinità di scritture a lui relative, che si trovano in
tutte le biblioteche di Firenze. Fra le centinaja citerò il codice 7
della classe XXXIV manoscritto nella Magliabecchiana, che contiene
_Vulnera diligentis_ di Benedetto da Firenze, ch'è un'apoteosi del
Savonarola. Nella prima pagina ordina, _hoc non publicetur volumen nisi
post mortem illius decimi_ (cioè Leon X), _de quo scriptum est_ Leo in
quinto rugitu morietur, _filius Sodomæ_ ecc.... _Detur Adriano VI P. M.
ad ciò sia conservata questa cristiana opera dalle mani de' combustori
et persecutori della verità_.
Nella _Storia degli Italiani_ io mi son diffuso intorno al Savonarola,
esaminando se fu un martire della verità anticipata, se profeta, se un
gran patrioto, un gran democratico, o un allucinato, o un impostore.
Furono pubblicate di recente molte opere intorno a lui, e massime la
_Storia di Girolamo Savonarola_ del Villari (1859), e la _Storia del
convento di San Marco_ del p. Marchese.


DISCORSO XII.
GIULIO II. CONCILJ DI PISA E LATERANO.

Alessandro VI moriva, non colle circostanze date da diarj d'allora e da
romanzi d'oggi[286], pure inaspettatamente, nel rimestìo delle
ambizioni, colle quali preparavasi a fare suo figlio principe della
Romagna, delle Marche e dell'Umbria, assicurare i dominj della Chiesa
dai tirannelli che gli aveano usurpati, e introdurvi quiete e
regolarità. Il Valentino, che sperò, anche dopo morto il padre,
continuare coi delitti e le prodezze a fare l'Italia, fidando nelle
truppe come un re moderno, circondò il conclave per imporre la sua
volontà: ma il popolo sollevatosi lo cacciò; e i cardinali adunati
presero accordo che il nuovo papa convocherebbe tra due anni un
concilio. Pio III, de' Piccolomini di Siena, elettogli successore
(1513), s'affrettò di concertarsi all'uopo colle potenze, nell'intento
di riformare la Chiesa, incominciando (apertamente il professava) dalla
curia romana. Ma dopo ventisette giorni morì e gli succedeva Giulio II
genovese, che come cardinale Della Rovere era stato gran nemico di
Alessandro VI, e durante il costui papato erasi sempre tenuto in armi e
in difesa. Saliva papa, persuaso che la podestà pontifizia non potesse
assodarsi se non assodandone il dominio temporale; laonde, se Sisto IV e
Alessandro VI aveano mirato a fare grandi i loro figliuoli, esso volle
far grande la Chiesa, in modo da stare arbitra fra la Spagna e Francia,
e logorarle entrambe finchè le snidasse d'Italia. Fa arrestare il
terribile Valentino, e l'obbliga a cedere alla Chiesa i paesi ch'egli ed
altri n'aveano sottratti; ritoglie Bologna ai Bentivoglio, Perugia ai
Baglioni; da Venezia si fa restituire Rimini, Ravenna, Faenza, Cervia;
senza violenze procacciasi Urbino, e pone la Chiesa nella maggior forza
che mai fosse. Alle città sottoposte lasciava gli antichi o concedea
privilegi nuovi, formandone municipj indipendenti siccome nel Veneto; e
dove corporazioni di nobili, di borghesi, d'artieri si teneano in
reciproco rispetto. In Roma erano quotidiane le aggressioni e gli
omicidj, e non rare le vere battaglie, e Giulio le terminò coll'imporre
e volere il disarmo generale. La nobiltà romana stava divisa in guelfa e
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