Gli eretici d'Italia, vol. I - 38

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nomine expoliare imperitiorem populum, sugere lac gentium, inebriari
mamilla regum vult_. Oratio de non dandis decimis.
[473] _Ut libere animum meum aperiam, hoc aperte de me prædico, quod tam
invitus Turcam gladio impeterem quam christianum fratrem_. Confut.
determinat. doctorum Paris.
_Ich Martinus bitte alle Cristen wollten helfen Gott bitten, für solche
elende, vorblendte teutsche Fürsten, dass wir ja nit folgen wider den
Türcken zu ziehen, oder zu geben.
Ja viel lieber den Türchen und Tattern lèyden, dann dass die Mess solt
bleiben_. Tisch Reden.
[474] _Die Türck macht den Himmel voll heyligen. Der Papst aber füllet
die Höll mit eitel Christen... Würd der Türck auf Rom ziehen, so sehe
ichs nicht lugern_. Tisch Reden. Ultimamente Michelet, nella sua opera
sulla Riforma, mista di profondo e di buffo, con stile sempre a
sorprese, con un dubbio sistematico, trova che si avea torto di favorir
il papa contro l'eresia e contro il Turco. Sarebbe stato un male se il
Turco avesse occupato Napoli? Tutt'altro. Come nella Cina i Tartari
furono inciviliti dai conquistatori, così il Turco sarebbesi ridotto
europeo.
Di fatto, occupando la Grecia, hanno i Turchi migliorato di civiltà!
Tanto acceca l'odio contro il cattolicismo.
[475] Il solo cardinale Ippolito De' Medici, figliuolo naturale di
Giuliano, e uno de' migliori capitani del secolo, essendo legato a
latere di Carlo V in Germania, armò del suo ottomila Ungaresi e sette
compagnie di cavalleggieri, e contribuì non poco a respingere i Turchi
dall'Austria. Adriano VI, trovato esausto il tesoro, non potè che
mandare quarantamila ducati agli Ungaresi per sostenersi contro i
Musulmani; ma il cardinale Palmieri napoletano offrì denaro e truppe, e
di condurle egli stesso a Rodi, quando udì ch'era stata presa. Clemente
VII, nel 1526, creò luoghi di monti per dare armi e truppe a Carlo V
contro i Turchi. I Veneziani contavano imporre ai beni del loro clero un
decimo de' frutti per cinque anni: ma Paolo III nol consentì, esibendo
invece un milione di ducati del suo. Vuol dunque dire che il decimo da
levarsi doveva essere per lo meno altrettanto, cioè almeno ducentomila
ducati l'anno: il che porterebbe a due milioni di ducati la rendita
annua de' beni del clero veneto. Pio IV concesse al re di Spagna
settecentomila ducati sui benefizj di Spagna, e impose a' proprj sudditi
un tributo di quattrocentomila scudi d'oro per la guerra turca. Alla
battaglia di Lepanto assistevano dodici galee pontifizie, oltre legni
minori assai, con millecinquecento uomini.
Dal 1520 al 1620, Roma donò agli imperatori di Germania sedici milioni
di scudi e sei alla repubblica veneta per combattere i Turchi.


DISCORSO XVIII.
ADRIANO VI PAPA RIFORMATORE. CLEMENTE VII. SACCO DI ROMA. PRELUDJ D'UN
CONCILIO.

Il figlio d'un Florent, povero operajo d'Utrecht, meritò la predilezione
de' maestri perchè mostrava inclinazione allo studio; ottenuto un posto
gratuito in un collegio di Lovanio, vi apprese filosofia, matematica,
diritto canonico, latino e greco, oltre il tedesco. V'aggiungeva tanta
pietà, che non usciva mai di scuola senza entrare in una chiesa, e se
imbattesse un povero, dividea con esso la parca cibaria.
Acchiocciolatosi in una cameretta a tetto, fredda, malsana, la notte
andava a leggere al lume de' pubblici lampioni, finchè Margherita
d'Austria, vedova di Carlo il Temerario, allora governatrice dei Paesi
Bassi, avutone contezza, gli mandò legna e trecento fiorini per comprare
libri, e in appresso gli conferì una parrocchia, poi un canonicato a San
Pietro di Lovanio. In questo viveva egli ritiratissimo, fra autori
classici ed ecclesiastici e con qualche camerata; non lodato, neppure
troppo gradito pe' suoi modi da grossolano brabanzone; ma ben contento
quando dal vivere gli avanzasse tanto da soccorrere alcun poveretto.
Fatto decano, si applicò a riformare quel capitolo; oculato nel
conferire i benefizj; durante il pasto frugale faceva leggere le sante
scritture.
Stampò in quel tempo _Commentarium de rebus theologicis in quatuor
sententiarum questiones_[476], e il suo nome giunse fino all'imperatore
Massimiliano, che lo scelse per insegnar francese, spagnuolo e latino a
suo nipote. Questo divenne, col nome di Carlo V, imperatore di Germania
e re di Spagna, e poichè tanta parte ebbe negli affari d'Italia e della
religione, bene sta che ci badiamo alquanto a considerarlo. Erede de'
possessi austriaci per padre, de' Paesi Bassi e della Spagna per madre,
e in conseguenza de' dominj d'Italia e de' paesi testè scoperti in
America e nelle Indie, fu fortunato sino ad avere prigioniero alla
battaglia di Pavia il proprio emulo Francesco I di Francia, e con ciò
assicurata la sua preponderanza di qua dell'Alpi, mentre dal nuovo mondo
gli giungevano ogni giorno annunzj di altri imperj scoperti e
assoggettati, ch'egli mai non vedrebbe, di miniere d'oro e d'argento
scavate, di preziose spezierie, avviate dall'estremo Oriente e dai paesi
equatoriali a' suoi porti di Spagna. A contatto con tutti i paesi
d'Europa per dominj che estendevansi da Cadice a Bruxelles, da Messina
al Baltico, potè fantasticare la monarchia universale, non come
immediata dominazione, ma come supremazia; nè fu vana millanteria il
dire che il sole non tramontasse mai ne' regni suoi.
E veramente egli sta a capo de' re moderni. Uscendo dai secoli della
cavalleria per entrar in quelli del machiavellismo, fu vario come il suo
tempo, a vicenda cupo e generoso, tollerante e fanatico, ostinato ne'
proprj e ligio agli altrui pareri, intrepido e sfiduciato, ambizioso
fino a sognare l'alta direzione e dei regni e della Chiesa, e di
abbattere la costituzione germanica, sostituendovi la monarchia
ereditaria, poi umile sino a terminar la vita in un convento: non
fastoso, non cavalleresco, bensì politico, affettante il casalingo;
affettante il leale, mentre niuno lo pareggiava nell'ordire e tessere un
intrigo, nel promettere, corrompere, eludere, conciliare, soprattutto
temporeggiare, conforme alla divisa che aveva assunta, NONDUM[477]. Mai
non montava in collera: offeso, avvolgeasi nella dignità del silenzio:
la gratitudine non conobbe: la fiducia poco; mal soffriva la
contraddizione, e credeva che il lungo riflettere sia cauzione del buon
successo. Pari a lui nessuno in attività, ed ebbe ad esercitarla non
solo nell'amministrazione di sì varj Stati, ove le libertà e le forme
tutelari del medioevo dovea soffocare nell'assolutezza amministrativa
de' moderni, ma nelle guerre ostinate colla Francia, nelle civili colla
Spagna e col Belgio, nelle generose coi gran guerrieri dell'impero
turco; sempre con mezzi sproporzionati agli alti fini, e costretto a
ricorrer a disastrosi spedienti finanziarj, e trovare impediti i suoi
concetti da un frate, che colla parola arrestava o deviava l'immensa sua
potenza, e toglievagli di scioglier nessuna delle grandi quistioni che
eransi sollevate a que' giorni nel campo della politica come in quel del
pensiero e del sentimento.
Nella sua grandezza egli ricordò il suo maestro Adriano, e lo pose
vescovo di Toledo, e da Leone X gli ottenne la porpora. Erasmo, gran
nemico dei frati, non ha che blandizie per questo, ne ammira le virtù
non meno che le lezioni di teologia; Lutero stesso lo chiama di
splendida e lodata vita.
Qual migliore per opporre alla Roma paganizzante?
Su lui dunque si accolsero i voti del conclave[478]. Trovavasi egli
allora in Ispagna, e Carlo V gli mandò l'aspettasse, volendo
accompagnarlo a Roma; ma esso gli rispose: «Mi sarebbe caro assai vedere
V. M., ma sì calda è la stagione, che, se veniste a fretta, vi
nocerebbe; se altrimenti, dovrei differire di molto l'andata, lo che
tornerebbe in gran danno degli affari comuni nostri e della cristianità.
I dispacci, che ricevo da Roma, da Genova e da ogni parte d'Italia,
recano che le cose nostre vanno in ruina, e che non si può rimediarvi
senza la mia presenza: onde non ho cuore di indugiar più oltre»[479].
Per disposizione del regio alunno e pel decoro della Spagna, Adriano
salpò con numerosa flotta; duemila fra prelati e cortigiani, quattromila
soldati; sbarcato a Genova, «disse messa e racconsolò alquanto quella
povera città del sacco e de' danni ricevuti»[480]: approdato poi ad
Ostia, ricusò lo spendio e le baldorie che soleano accompagnare le
entrate in Roma; fe sospendere la costruzione d'un arco trionfale,
dicendo, «Le sono usanze da Gentili, non da cristiano e religioso».
Come il nome, così serbò i costumi primitivi; la fantesca che si menò
dietro, dovea servirlo nè più nè meno di prima; pel pranzo non assegnava
di là d'un ducato, che ogni sera dava di propria mano allo scalco,
dicendogli, «Ecco per la spesa di domani», nè a più di dieci ducati
doveva giungere quella della Corte. Leon X avea premiato gl'inventori di
buoni bocconi; Adriano mangiava merluzzo, invece dei pesci fini
celebrati dal Giovio, e s'impennò all'udire il costo di certe lucaniche,
fatte con polpe di pavoni. Suggeritogli di prendere dei servi, rispose
volere prima sdebitare la Chiesa; e udendo che Leon X teneva cento
palafrenieri, si fece il segno della croce, e pensò che quattro
sarebbero d'avanzo[481]. Avendo conferito un benefizio di sessanta scudi
a un suo nipote, che, vacatone un altro di cento, glielo chiese, rispose
con un gran rabbuffo che quello bastava a mantenerlo; e quando, vinto
dalle istanze, glielo concesse, volle rassegnasse il precedente.
Allorchè egli entrò, Bernardino Carvajal, cardinale ostiense, gli recitò
un'orazione, esponendogli sette ricordi, che sono: 1º eliminare le
tribolazioni antiche, cioè simonia, ignoranza, tirannide e gli altri
peccati; aderire a buoni consiglieri; reprimere la libertà de'
governanti; 2º riformare la Chiesa secondo le leggi canoniche, sicchè
più non somigli una congrega di peccatori; 3º i cardinali e gli altri
prelati amare d'amor reale, esaltando i buoni, e provedendo ai bisognosi
perciocchè in quell'altezza non s'avviliscano; 4º amministri la
giustizia senza differenze; 5º sostenti i fedeli, massimamente nobili, e
i monasteri nelle loro necessità, come usavano i papi buoni; 6º faccia
guerra ai Turchi, perciò procurando denaro, e tregue fra i principi
cristiani; 7º compia la basilica di san Pietro, parte a spesa sua, parte
de' principi e popoli[482].
Frate Egidio Canisio da Viterbo già mentovammo come il più famoso
predicatore d'allora, e il Sadoleto lo vanta per facilità del parlare
toscano, e profondi studj di teologia e filosofia, talchè sapea (dice)
nelle prediche piegar le menti, serenare le turbate, incalorire le
tepide all'amore della virtù, della giustizia, della temperanza, alla
venerazione di Dio e all'osservanza della religione; e senza divario di
giovani o vecchi, d'uomini o donne, di primati o vulgari, tutti scotea
con forza di ragionamento, fiume d'elettissime parole, d'eccellenti
sentenze[483]. Non v'era solennità cui non fosse invitato a predicare,
sicchè Giulio II riservò a sè il destinarlo: e sebbene il pochissimo
ch'e' ci lasciò non giustifichi tanti encomj, tutti sono d'accordo
nell'esaltarne la virtù e l'integrità, per le quali Leon X, che gli
scriveva con famigliarità d'amico, lo ornò della porpora.
Egli dirigeva ad Adriano VI un commento sulla corruzione della Chiesa e
le guise di ripararvi. A dir suo, la depravazione s'insinuò dacchè la
facoltà di sciogliere e legare fu adoprata a vantaggio degli uomini più
che a gloria di Dio. Conviene dunque limitarla, considerandola come uno
de' principali uffizj del pontefice, e quindi adoprarvi il consiglio
d'uomini, integri ed esperti; escludere le aspettative de' benefizj, che
fanno desiderare la morte, quand'anche non la procurino; evitare l'avaro
e ambizioso accumulamento di benefizj; reprimere l'ambizione dei monaci,
che sotto la giurisdizione de' loro conventi tengono infinite
parrocchie, affidandole a qualche prete amovibile e mal proveduto. La
turpe vendita di cose sacre, ammantata col titolo di composizioni,
repugna ai canoni, ispira invidia a' principi, e dà ansa agli eretici;
sicchè dovrebbe restringersi l'uffizio del datario, che smunge il sangue
dei poveri come dei ricchi. Nè le riserve di benefizj gli pajono oneste.
Prima di concedere le grazie, si facciano da persone savie esaminare
secondo la giustizia e l'equità; e così prima di promuovere a benefizj
vacanti. A tutti poi gli uffizj si scelgano quei che più buoni, abili e
fedeli, e si diano uomini alle dignità e alle amministrazioni, non
queste ad uomini: le concessioni, gl'indulti, i concordati con principi
si rivedano esattamente, acciocchè questi non usino e abusino verso
secolari e verso ecclesiastici. Indecoroso e imprudente modo si tenne in
maneggiare le indulgenze; sicchè voglionsi revocare le commissioni date
ai Minori Osservanti, per le quali riesce svilita l'autorità episcopale.
Nessuna cura paja soverchia nell'amministrare la giustizia; un cardinale
robusto e savio riveda le suppliche sporte al papa; scelgansi con somma
diligenza gli auditori di Rota, man destra del pontefice, ed abbiano un
soldo fisso, anzichè impinguare sulle sportule, le quali sono cresciute
a segno, che le cariche vendute un tempo a cinquecento ducati l'anno, or
si comperano a meglio di duemila; come quelle degli auditori di Camera
pagansi trentamila ducati, mentre dianzi valutavansi quattromila. Via
via determina gli uffizj della giustizia; se ne rivedano le
giurisdizioni e gli statuti, che buoni dapprima, poi depravaronsi; abbia
riforma il governo delle Legazioni, dove vorrebbe che i legati non
rimanessero oltre due anni, come pure i governatori e prefetti e gli
altri uffiziali; tutti lasciassero una garanzia del loro operato, finchè
subissero un sindacato; e a chi n'esce con lode, si attribuissero onori
e comodi. I debiti onde Leon X gravò la sede col creare tanti nuovi
uffizj che consumano l'anno centrentamila ducati delle rendite della
Chiesa, si cercasse redimerli, e se ne esaminassero attentamente i
titoli; non si surrogassero i vacanti, e gl'investiti medesimi si
compensassero con altri benefizj. Si potrebbe pure alleggerire il debito
col riservarsi una parte delle rendite di tutte le chiese ed un sussidio
caritativo massime dai monasteri[484].
E Adriano nulla desiderava meglio che di riformare. Avendo già scritto
sopra le indulgenze prima degli attacchi di Lutero, convinto per
argomenti scolastici delle verità rivelate, trattava le nuove dottrine
di insipide, pazze, irragionevoli[485]; non potea supporre buona fede
ne' Protestanti, sebbene deplorasse fossero stati spinti alla
disperazione col serrare loro in faccia le porte; e aveva esortato Carlo
V a mandare Lutero al papa, suo giudice vero, che lo punirebbe secondo
giustizia[486]. D'altro lato, venuto da contrade forestiere, restò
colpito dagli abusi della Corte romana. Mandando nunzio alla Dieta di
Norimberga Francesco Cheregato vescovo di Téramo, nelle istruzioni
conveniva dei disordini: «Dirai che ingenuamente confessiamo che Dio
permette questa persecuzione dei Luterani contro la Chiesa sua per li
peccati degli uomini, e massime de' sacerdoti e prelati. Le Scritture
gridano che i peccati del popolo derivano da quelli de' sacerdoti, e
perciò, come scrive il Grisostomo, il Salvator nostro volendo curare
l'inferma Gerusalemme, entrò prima nel tempio per castigare innanzi
tutto le colpe de' sacerdoti, come medico che il male cura dalla radice.
Sappiamo che in questa santa sede già da molti anni avvennero cose
abominande, abuso delle cose spirituali, eccesso ne' mandati, tutto
vôlto in peggio: nè è meraviglia se il morbo discende dal capo nelle
membra, dai sommi pontefici negli inferiori. Tutti e prelati ed
ecclesiastici deviammo dalle rette vie, nè vi fu chi facesse bene,
neppur uno»[487].
Egli si fece promettere dai cardinali che smetterebbero le armi, non
darebbero ricetto ne' loro palazzi a sbanditi e birbi, lascerebbero che
il bargello v'entrasse per eseguire la giustizia. «Se gli ecclesiastici
(scrive Giovanni Cambi) aveano barba grande alla soldatesca, o abito non
lecito a preti, ei riprendevali; perchè era tanto scorsa la cosa, che
portavano i prelati la spada a cavallo e cappa corta e barba. Ed io
scrittore vidi un nostro fiorentino che era arcivescovo di Pisa, d'anni
ventiquattro in circa, fattogli avere da papa Leone da un altro
arcivescovo di Pisa ch'era ancor vivo con dargli uffizj di Roma in
compenso e altri benefizj, in fatti comperato a dirlo in brevi parole,
vederlo andare per Firenze il giorno a spasso a cavallo con una cappa
nera alla spagnuola che gli dava al ginocchio, e la spada allato, e il
fornimento del cavallo o mula di velluto a onore di Dio e della santa
Chiesa: e il cardinale Giulio De' Medici sopportava tal cosa, e andava
sempre alla Chiesa col rocchetto scoperto senza mantello o cappello, con
una barba a mezzo il petto, e assai staffieri colle spade attorno, e
senza preti e cherici: e a questo era venuta la Chiesa, d'andar in
maschera cardinali e prelati, a conviti, a nozze e ballare».
Adriano, volendo correggere tutto e subito, consultava ora i Tedeschi
ora gli Italiani, e pareangli facili le riforme, messe in discussione;
ma quando volea ridurle in atto, riuscivangli impossibili. Perocchè v'ha
abusi antichi, i quali, col resistere alla pruova del tempo, mostrano
essere compatibili col bene, vi sono verità nuove che, avventando la
società sopra un calle diverso, le riescono micidiali: sicchè ogni
rivoluzione e per ciò che erige, e per ciò che demolisce, genera
perturbamenti e conflitti. V'ha abusi così profondamente radicati, da
far temere che colla zizzania si svelga anche il buon frumento, oltre
che gl'interessi personali impediscono i buoni e pronti effetti. Perciò
si lagnava egli della misera condizione dei pontefici, che, pur vedendo
il bene, nol poteano effettuare. Chiamò per ajutarlo in tal uopo
Giampietro Caraffa e Marcello Gaetano, austeri ecclesiastici; sgomentò
coll'annunzio di volere recidere di colpo i disordini della dateria e
della penitenzieria; col togliere le vendite simoniache, pregiudicava
quelli che in buona fede le aveano prese in appalto; turbò le
aspettative coll'abolire la sopravvivenza delle dignità ecclesiastiche:
cinquemila benefizj rimaneano così vacanti, ed eccitavano speranze
smisurate, che tutte trovavansi deluse; diffidando dei più come
corrotti, era costretto porre il capo in grembo ai pochi cui credeva, e
che lo tradivano; per togliere via le indulgenze voleva ripristinare le
antiche penitenze, ma gli fu fatto intendere che, per serbare la
Germania, mettevasi a rischio di perdere l'Italia. Ignoto alla Corte,
senza appoggi di famiglia come straniero, nè creandosene di nuovi perchè
esitava lungamente prima di conferire i benefizj e lasciavali scoperti
per paura di darli a indegni. Adriano dibattevasi invano tra
quell'inestricabile labirinto. Mentre si trovavano ora ingiuste, ora
impossibili le sue proposte da quegli stessi che più le aveano
reclamate, i Protestanti interpretavano in sinistro la sua candidezza,
menando trionfo delle sue confessioni sugli scompigli della curia. Gli
furono anche mandati _Cento gravami della nazione tedesca_, ove Roma era
rimproverata di sordidezza, d'indecenza l'uffiziatura della basilica
vaticana; negligersi gli ospedali e le altre opere pie: lasciare le
meretrici procedere con pompa matronale sopra le mule, e corteggiate
dalle famiglie di prelati; tollerarsi nimicizie aperte e sanguinose fra
i grandi[488].
Allora si sviluppò quell'oidio, che guastò e guasta tante promettenti
vendemmie: il malcontento. Quella sua semplicità, quel dire la messa e
l'uffizio tutti i giorni eccitarono le risa nel palazzo abituato con
Giulio II e con Leon X. Da un pezzo non v'erano papi forestieri; e di
questo, che neppure parlava la lingua italiana, facevano beffe o
fingeano sgomento i nostri letterati. La gente, avvezza a vivere dietro
ai prelati, ne sbertava la miseria. «Egli è un tedesco; povera Italia!
(dicevano); sente di luterano: povera religione! Certo e' si piglia i
cardinali, e ce li porta a un nuovo esiglio d'Avignone».
Giulio II era entrato nella scena del mondo da gran principe, scotendosi
dalle piccolezze de' predecessori, e col sentimento della propria forza
volea dominar gli eventi, muover principi e repubbliche secondo i suoi
intendimenti, respingere i tiranni, non per vantaggio suo, ma della
santa sede, e proclamò i diritti che i popoli hanno sul proprio suolo.
Dopo di lui, il papato si trovò immolato ai principi, l'Italia agli
stranieri; i pontefici cessarono di proteggere i deboli, e gettaronsi in
braccio ai forti, sentendo ch'era necessario un appoggio per tener in
rispetto i vicini, e garantire l'indipendenza spirituale, minacciata
dalla Riforma. Di qui l'anguillare di Leon X. Adriano VI struggeasi di
riparar ai torti de' predecessori, ma troppi interessi l'attraversarono;
l'austerità di papa comprometteva l'opera di sovrano: l'intempestiva sua
condiscendenza ai riottosi disgustava i depositarj della tradizione
papale: e barbaro era reputato perchè non comprendeva i bisogni
intellettuali ed artistici della città eterna[489].
Realmente egli non intese mai come negli intelletti italiani
s'elaborasse l'elemento pagano collo spirito indigeno; come colle arti,
fatte linguaggio della religione, i papi volessero mostrare quanta
ispirazione ci fosse nel cristianesimo, e capitanare i grandi ingegni, e
tenere a loro disposizione non soltanto la manifattura ma l'ispirazione,
e il mondo che ridiveniva greco, e che dalla fierezza germanica tornava
all'oscenità gentilesca. Mancante del sentimento dell'arte, Adriano
_suspecta habebat poetarum ingenia, utpote qui minus sincero animo de
christiana religione sentire et damnata falsissimorum deorum numina ad
veterum imitationem celebrare studiose dicerentur_[490]; essendogli
mostrato il Laocoonte, esclamò: «Idoli pagani»; e torse gli occhi dalle
classiche nudità.
In conseguenza egli che, oltr'Alpe era reputato protettore degl'ingegni,
e che aveva agevolata la fondazione del collegio trilingue a
Lovanio[491], fu reputato un barbaro da cotesti umanisti ch'e' più non
salariava, e che, dopo aver invano sperato che il suo zelo cessasse co'
primi momenti[492], levaronsi in fuga beffando e bestemmiando: prorompe
la sciagurata manìa delle satire e delle arguzie: tutti i Sesti (diceva
un epigramma) han rovinato Roma[493]; il Negri querelavasi che tutte le
persone per bene se ne partissero; il Berni avventava un capitolo
violento contro di lui e dei _quaranta poltroni_ cardinali che l'aveano
eletto; e Pasquino il dipinse in figura d'un pedagogo, che ai cardinali
applicava la disciplina come a scolaretti. Laonde fu inteso esclamare:
«Quale sciagura che v'abbia tempi, in cui il miglior uomo è costretto
soccombere!» In fatti egli pio e zelante fu reputato un flagello non
minore della peste che allora infieriva; la morte sua fu salutata con
pubblica esultanza, e alla porta del suo medico si sospesero corone
civiche _ob urbem servatam_. E sono di gran verità i due epitafj
destinatigli:
_Hadrianus VI hic situs est, qui nihil sibi infelicius in vita quam
quod imperaret duxit._
_Proh dolor! quantum refert in quæ tempora vel optimi cujusque vita
incidat._
Carlo V avea forse creduto che Adriano sarebbe tutta cosa sua, ma
questi, ignaro de' destreggiamenti politici, stette fermo contro le
pretensioni di esso e gl'intrugli de' suoi ministri e creati; non volle
allearsi con esso a danni altrui: e fra l'altre amarezze ebbe quella di
udir che Rodi era stata presa dai Turchi, e che questi minacciavano il
regno di Napoli e la Sicilia: cercò che i principi cristiani si
alleassero per resistere, ma Francesco I domandava innanzi tutto gli si
restituisse il toltogli milanese[494].
Appena morto Adriano, Carlo V scriveva al suo ambasciatore che facesse
riuscir il Medici, anche colla forza se i Francesi si opponessero[495];
e in fatti, per la solita altalena che ad un vigoroso fa surrogare un
lasso, a un ascetico un politico e viceversa, nel nuovo conclave
rivalsero i fautori de' Medici, e con arti che in allora furono
denunziate come turpi, venne data la tiara a Giulio, figliuolo naturale
di Giuliano De' Medici. Cavaliere gerosolimitano, destro in armi come in
trattative scabrose e in giravolte cortigianesche e diplomatiche, fatto
arcivescovo di Firenze e cardinale, era stato la mano dritta di Leon X
suo cugino; ed allora assunse il nome di Clemente VII (1523 18
novembre).
Vanno concordi i contemporanei nel dargli lode che non tollerava
simonia, non distribuiva i benefizj a capriccio, e in tutto esigeva la
regolarità; invece di musici e buffoni, amava intertenersi con
letterati, filosofi, teologi, ingegneri; generoso come tutta la sua
famiglia, non donava nè prometteva l'altrui; e poichè le sue limosine
non impinguavano i cortigiani, dispensieri della riputazione, passava
per avaro e misero[496].
Aggiungasi che, trovato l'erario esausto per lo spreco di Leon X e per
l'astinenza di Adriano VI, dovette mettere imposizioni e istituire
Monti, e principalmente il Monte della fede per soccorrere Carlo V
contro i Turchi.
Ma pretendeva all'infallibilità non meno nella politica che nella fede;
sicchè, se ascoltava tutti, faceva poi a proprio senno; e alla
conchiusione metteva la politica nell'irresolutezza, e l'abilità nel
variare. Subito mandò fuori lettere ove, coi treni consueti deplorando
le jatture della cristianità, ne accagionava le discordie de' principi e
lo sformamento dell'ordine ecclesiastico; la correzione doversi
cominciare dalla casa di Dio: egli emenderebbe se stesso; i cardinali
facessero altrettanto; visiterebbe in persona tutti i principi onde
concordare una pace; fatta la quale, celebrerebbe un concilio per
restituirla anche alla Chiesa. Persuaso però che innanzi tutto
bisognasse opporsi ai Turchi, e sopire l'incendio germanico,
rassegnavasi a transazioni coi novatori.
Si dirà, tale essere lo stile delle autorità minacciate, riservandosi
poi di eludere le promesse quando ripiglino fiato. Certo è che,
sgomentato dall'assalto mosso all'autorità spirituale, vacillò sempre
anche nel governo del temporale; ed anzichè accorgersi che questo non
era mai stato altrettanto esteso e solido, non ebbe sentimento che della
propria impotenza; sperò logorar Francia per mezzo dell'Impero, e
l'Impero per mezzo della Francia, onde ora all'uno ora all'altra
gettandosi, non amato da alcuno nè temuto, immensi mali trasse sopra
l'Italia e sopra se stesso.
Non è da questo luogo il narrare come allora si esacerbassero le
inimicizie fra Carlo V e Francesco I, il quale nella battaglia di Pavia
cadde prigioniero (1525, 24 febbrajo); comprata la libertà, ne violò i
patti, e ruppe nuova guerra, dove andarono a miserabile strazio la
Lombardia e il regno di Napoli. Il papa, impaurito dall'ingrandire degli
imperiali, e scontento di Carlo V anche perchè aveva ordinato che il
regio _exequatur_ fosse necessario alle bolle pontifizie in Ispagna,
s'unì in una lega, per lui detta santa, coi Francesi e cogli altri, che
pretessevano la solita maschera della indipendenza italiana. Lega a lui
funestissima: perocchè subito i vassalli più potenti, e massime i
Colonna, si rivoltarono contro Roma (1526), sopra la quale ben presto si
difilò l'esercito imperiale, guidato dal connestabile di Borbone,
francese traditore, messosi al servizio dell'imperatore.
Non era un esercito regolare, bensì un ammasso di quarantamila
venturieri, quali noi pure ne abbiamo veduti, che obbedivano
personalmente a un capo, purchè egli facesse quel che essi desideravano.
E il desiderio loro era saccheggiare Roma, tutti anelando all'oro di
essa, molti essendo Luterani, la più gran parte Tedeschi, avvezzi a
considerare i papi e gli Italiani come sanguisughe della loro nazione e
che aveano per unico grido _Nicht Papa_. Un d'essi, chiamato Verdesilva,
diceva: «Colla pelle di papa Clemente voglio far uno staffile, e lo
porterò a Lutero perchè veda com'è punito chi resiste alla parola di
Dio». Il Freundsberg, loro capitano, teneva appeso all'arcione un laccio
d'oro e un d'argento, proponendosi di strozzare con quello l'ultimo dei
pontefici, coll'altro i cardinali. Lo seguiva Jacopo Ziegler, che, in
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