Storia della Repubblica di Firenze v. 2/3 - 19

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Fiorentini motteggiatori.[326] Rimaneva da punire il Conte di Poppi; al
che andò Neri con alcune centinaia di soldati sotto Niccolò da Pisa.
Avuta Rassina per minaccie, poneva il campo intorno a Poppi, dov’era
il Conte che per mancanza di vettovaglie in capo a pochi giorni trattò
di resa; per la quale essendo egli disceso giù sul ponte d’Arno ad
abboccarsi con Neri, la prima cosa ch’egli disse fu: «potrà egli essere
che i vostri Signori non mi lascino questa casa, la quale è nostra
da novecento anni? (la boria e le false carte facevano raddoppiare
gli anni): del resto, fate quello volete.» Rispose Neri: «pensate ad
altro, chè voi non avete tenuto modi che i miei Signori vi vogliano
per vicino. Vorrebbono volentieri che voi foste un grande signore nella
Magna.» E quegli: «ed io desidererei voi più là.[327]» Io me ne risi,
aggiunge crudamente Neri: e il Conte partivasi dal luogo antico de’
padri suoi, co’ figli e le figlie,[328] e portando seco trentaquattro
some di roba. Tutto il Casentino entrava così nel dominio della
Repubblica, la quale premiava Neri e Bernardetto di ricchi doni, avendo
offerto anche di onorarli della cavalleria, che rifiutarono.
L’assenza del Piccinino riusciva più grave al Visconti che forse non
s’era questi figurato; e bene si vidde che almeno da parte del Duca
tutto il fondamento di quella mossa non era stato che nella credenza
di richiamare Francesco Sforza alla difesa della Toscana e delle
proprie sue terre: dipoi l’impegno già preso e la mossa cominciata e
le speranze de’ fuorusciti fecero il resto. Ma in quel mentre che il
Piccinino era in Toscana, essendo le forze del Conte superiori ed egli
uomo da bene usarle, aveva questi per grande vittoria avuta a Soncino
sopra l’esercito milanese, liberato dall’assedio Brescia, cacciato i
nemici d’intorno a Bergamo; e il naviglio che il Duca teneva sul Lago
di Garda essendo già prima stato distrutto dai Veneziani, il Conte
Francesco s’era impadronito di Peschiera sul Lago e d’altri luoghi.
Al che il Visconti, cui pareva essere in grande pericolo, faceva
ricorso agli usati rimedi; e per mezzo del marchese Niccolò da Este
mandò ad offrire al Conte la pace e le nozze della figliola. Dal che
ottenne che il rimanente dell’estate andasse la guerra più lenta,
perchè i Veneziani, dubitando sempre dello Sforza, si tenevano corti
nel fargli le provvigioni: e dall’altra parte già essendo tornato il
Piccinino in Lombardia, passò la state, e gli eserciti si alloggiarono
per l’inverno. Durante il quale non essendo però del tutto cessata la
guerra, questa ripigliavano i due Capitani con forze maggiori nella
primavera. Avvenne che essendo andato il Conte alla espugnazione del
forte castello di Martinengo, ed il Piccinino con tutto l’esercito
essendo accorso alla difesa, mentre ciascuno dei Capitani, usando
sua arte, cercava pigliare vantaggio sull’altro; il Piccinino,
cogliendo il punto quando era dal Conte lasciato sprovvisto il luogo
d’ond’egli potea trarre vettovaglie, l’occupò, e tosto quivi essendosi
affortificato con fossi e tagliate, metteva il nemico in tal condizione
che dare l’assalto gli era impossibile, e a starsi fermo era per la
fame costretto d’arrendersi. Ma nacque caso per cui si vidde quali
si fossero quelle guerre, dove nè i Principi avevano mai sicurezza
dei loro eserciti, nè i Capitani di sè medesimi a fronte a coloro
dai quali erano assoldati. Il Piccinino, che aveva in pugno sì grande
vittoria, ponea condizioni al Duca e scrivevagli già essere vecchio
e non avere terra che fosse sua dopo tanti servigi da lui prestati
allo Stato di Milano; volere ritrarsi, e non avere luogo nemmeno da
porvi il corpo suo: altri dei Capitani del Duca d’accordo facevangli
eguali domande. E questi, per subito dispetto volendo cedere al nemico
piuttosto che a’ suoi, e avendo la scusa del matrimonio della figliola,
mandò a profferirne questa volta per davvero la celebrazione al Conte;
la quale indi a pochi giorni si fece in Cremona, città che rimase al
genero in dote. A questo modo la guerra essendo fatta impossibile,
dappoichè lo Sforza più non la voleva, l’altro non poteva, la pace
divenne ai collegati necessaria. Della quale essendosi lungamente
trattato in Venezia, arbitro lo Sforza, si conchiuse ai 20 novembre
1441 in Cavriana, riavendo ciascuno, secondo l’usanza, quello che aveva
prima, e il solo Gonzaga cedendo Peschiera ed altre minori terre ai
Veneziani, i quali accertarono per quell’acquisto a sè il dominio sul
Lago di Garda. Ma per segreti articoli fu inteso che il Duca tenesse
quel ch’egli occupava in Romagna della Chiesa, e di più avesse (così
almeno io trovo scritto) Perugia e Siena; il Conte aggiugnesse alla
signoria che aveva nella Marca gli acquisti che intorno si facessero
o del Reame di Napoli o degli Stati ecclesiastici: per il che il
Papa, solo malcontento, gettò alte grida e ricusò di sottoscrivere il
trattato; donde ebbero seme le guerre che tosto (com’era solito) si
raccesero.[329]


CAPITOLO II.
INTERNE COSE DELLA REPUBBLICA. — BALÌA DEL 1444. — GUERRA DEL RE
ALFONSO IN TOSCANA. — GUERRE IN LOMBARDIA. [AN. 1441-1450.]

Mentre la pace si negoziava, un atroce fatto avvenne in Firenze, del
quale i motivi in parte avvolgonsi nel mistero: noi ne diremo fin dove
giunga la nostra contezza. Gli affetti popolari, le ire di parte, e
tutte insomma quelle passioni che sono di molti, nate all’aperto e
alimentate da grandi cagioni, hanno in sè stesse uno splendore per cui
si mostrano evidenti; le vie tortuose delle ambizioni private riescono
tanto a rintracciare difficili, quanto a discorrere fastidiose.
Baldaccio d’Anghiari, capitano di fanti espertissimo, giovane tuttora
di grande animo e feroce in guerra,[330] non si era per anche inalzato
al pari dei sommi e più fortunati condottieri per esser l’arme delle
fanterie tenuta di grado inferiore; ma per la grande estimazione goduta
tra quelle si credeva che se la fortuna a lui arridesse, potrebbe egli
formare di tale arme un esercito da contrapporre forse ai maggiori di
quella età. Era Baldaccio ai servigi della Repubblica, e si ritrovava
allora in Firenze quando pei mesi di settembre e ottobre 1441 fu tratto
la seconda volta Gonfaloniere di Giustizia Bartolommeo Orlandini
svisceratissimo di Casa Medici, e quello stesso che noi vedemmo
avere aperto al Piccinino vilmente il passo di Marradi; del che era
egli stato e con parole e con lettere da Baldaccio vituperato. A’ 6
settembre, quando era entrato l’Orlandini di pochi giorni in ufizio
e quasi che fosse scelto a quel fine, mandò a chiamare Baldaccio
in Palagio; il quale andato, e mentre col Gonfaloniere discorrendo
passeggiavano su e giù per l’andito della Signoria; usciti ad un
tratto da un camera vicina certi soldati che l’Orlandini aveva fatti
segretamente venire dall’Alpe, uccisero Baldaccio con molte ferite:
poi gittato il corpo dalla finestra che dava in Dogana, quivi per
bullettino mandato al Capitano gli fu mozzata la testa; ed egli dopo la
morte fatto rubello e gli averi suoi messi alla Camera. Di lui rimase
la moglie Annalena dei Malatesti e un piccolo figlio, il quale venuto
anch’egli a morte, l’Annalena virtuosa donna fece monastero della sua
casa, e rinchiusa quivi con più altre nobili femmine, visse santamente;
di lei essendo rimasta in Firenze memoria onorata, e il monastero
continuato fino ai primi anni di questo secolo.[331]
Per tutta Italia di quella morte fu grande rumore; ma quali colpe o
false o vere se gli apponessero contro, non bene sappiamo.[332] Di
un saccheggio dato senza ordine della Repubblica a Suvereto, abbiamo
cenni:[333] altro motivo troviamo pure, cioè l’aver egli cercato di
torre Piombino alla donna degli Appiani, che n’era signora; del che
ripreso, avrebbe risposto superbamente ai Priori.[334] Ma ciò dovette
essere stato più mesi innanzi, nel gennaio di quell’anno stesso,
nel quale tempo Neri Capponi andava a _posare la cosa di Piombino e
di Baldaccio_, correndo sospetti che i Senesi ed altri cercassero
di levare la donna e Piombino dalla divozione della Repubblica di
Firenze.[335] Altra cagione vi ebbe però assai più forte e verosimile:
era Papa Eugenio tuttora in Firenze; il quale nel maggio di quell’anno
stesso aveva condotto contro a’ Bolognesi Baldaccio,[336] ed ora
segretamente volea mandarlo ad assalire nella Marca Francesco Sforza,
al quale effetto gli aveva sborsato già ottomila ducati d’oro. Ciò era
stato il giorno stesso che precedette alla uccisione di Baldaccio;
della quale Eugenio pigliò tanto sdegno, che a stento poterono i
Fiorentini rammorbidirlo per l’opera di Giannozzo Manetti, uomo probo
ed in lettere di molta fama.[337] Avrebbe pertanto quella morte giovato
allo Sforza sì contro ai timori per lo Stato della Marca, e sì perchè
io tengo avesse già questi in odio Baldaccio, siccome colui che solo
in Italia promuoveva l’arme allora avvilita delle fanterie: così gli
guastava come in mano l’arte, e questi temeva che in Italia prevalendo
nel guerreggiare un altro modo pel quale gli Stati potessero avere
milizie non tutte sotto all’arbitrio dei condottieri, di questi venisse
a cadere la fortuna. Lo Sforza e Cosimo già s’intendevano: leggiamo che
dubitando Baldaccio se egli si dovesse recare in Palagio sulla chiamata
dell’Orlandini, e chiestone Cosimo, fosse da lui rassicurato.[338]
Questi ad ogni modo e i suoi lo temeano per gelosie nate da interne
cagioni; e Cosimo usava dire, che gli Stati non si tengono co’
paternostri.
Aveva Baldaccio amicizia molto grande con Neri Capponi; e questi per la
recente vittoria contro al Piccinino era salito sì alto, che siccome
pareva con quella avere salvato lo Stato ai Medici, così dubitavano
che s’egli volesse ostare a Cosimo, gli sarebbe agevole torlo ad
esso di mano col favore di Baldaccio. Neri ed i più gravi e migliori
cittadini male sentivano quel levarsi dall’amicizia dei Veneziani,
mettendo lo Stato quasi a discrezione dello Sforza:[339] Neri, oltre
alla molta estimazione ch’aveva in città, si era guadagnato con le
frequenti ambascerie forti aderenze negli altri Stati; e pel governo
delle milizie, molta entratura presso a’ condottieri di queste e ai
soldati generalmente. Pareva a Cosimo che egli avesse (come scrive il
Guicciardini) forse più cervello che alcun altro in Firenze:[340] e
si trova scritto di que’ due primari cittadini, Cosimo essere il più
ricco, e Neri il più savio; la quale parola si deve intendere per la
conoscenza e per la pratica di più cose in guerra ed in pace. Il molto
favore da lui acquistato pubblicamente per vie scoperte, faceva a lui
voltare gli occhi di tutti coloro ai quali spiacevano i modi tirannici
e le ingorde cupidigie e i pravi disegni della setta che reggeva. A
questa pertanto parve essere necessario battere Neri, a lui togliendo
di mano la forza che avea da Baldaccio, e insieme mostrare sè stessi
potenti e capaci d’ogni cosa, tanto che ognuno pigliasse paura di
loro. Il Machiavelli scrive infatti, che per la morte di Baldaccio,
Neri venne a perdere _reputazione_; con che egli intende l’opinione
della forza, usando in un modo tutto suo proprio quelle parole le quali
importano morale giudizio. Troviamo infatti che Neri essendo, quando
fu ucciso Baldaccio, ambasciatore in Venezia con Agnolo Acciaioli,
questi solo poi sottoscrisse la pace;[341] e Neri in quel luogo dei
suoi _Commentari_ cessa ad un tratto di porre innanzi il nome suo, nè
per due anni poi troviamo a lui data ambasceria o commissione. Ma dopo
quel tempo sembra essere stata tra Cosimo e lui saldata ogni cosa; e
questi tornava, come nulla fosse (ignoro s’io debba per lui dolermene),
all’antico grado.[342]
Per questo e per altri minori fatti si vede come un po’ di terrore
apparisse necessario di tratto in tratto a quel reggimento, sebbene
portato dai minuti uomini che ad esso erano larga base, ed assicurato
con l’avere in mano le borse e le gravezze, o in altri termini, la
Repubblica e le private fortune di tutti i singoli cittadini. Alla
Balía del 33 aveano fatto riserva che non potesse nè muovere le borse
nè abolire il Catasto; ma quella del 34 non ebbe limite, e bentosto le
borse s’empirono di uomini disperati, che per ingiurie patite o per
cupidigie nuove erano pronti alle offese ed alle rapine. Il Catasto
fu annullato, perchè a quella parte che tutto reggeva l’egualità non
si conveniva; ma un altro modo si rinvenne, ch’era di genio delle
moltitudini; i Ciompi nel 78 l’avevano chiesto, e ai Medici fu continua
regola nell’imporre tasse. Pigliando a norma l’antico Estimo, le quote
assegnavano con tal proporzione che fosse minima nelle poste minori,
e andasse via via progredendo su per una scala (così l’appellavano)
congegnata con gran sottigliezza, talchè se i poveri (a modo d’esempio)
pagassero della loro rendita il mezzo o l’uno per cento, i ricchi
pagassero il due il tre il quattro e più: ma questa era un’arme intesa
a battere gli avversari, perchè ogni volta pochi dei più confidenti
venivano eletti a porre le tasse; delle quali era norma l’arbitrio o,
come dicevano, la discrezione e coscienza degli ufiziali preposti al
reparto. Vero è che un balzello di sessanta mila fiorini, posto su’
primi dell’anno 1441, apparve distribuito con giustizia, essendo la
maggior parte andata su’ ricchi e sopra coloro stessi che tenevano lo
Stato.[343] E un’altra gravezza del 1443, a questo effetto regolata
sottilmente, ebbe nome la _Graziosa_; ma che a molti fosse graziosa
non credo.[344] E se anche il modo paresse buono al maggior numero,
riusciva il peso a tutti esorbitante. Aveano posto in poco tempo
ventiquattro gravezze, a quattro a sei per volta, metà delle quali nel
solo anno 1442 produssero centottanta mila fiorini d’oro.[345] Fecero
anche un’altra legge, la quale importava ricercare gli arretrati a
quelli che avessero pagato meno del loro giusto.[346]
Venivano anche i poveri a soffrire, oltrechè dall’assenza di tante
famiglie sbandite, dall’avere molti degli antichi cittadini abbandonata
la città, recatisi in villa per torsi dinanzi alla perversità dei
nemici loro, e per non potere più reggere le gravezze, nella speranza
di fuggire così anche la prigionia delle Stinche, alle quali era
condannato chi non pagasse. Fecero legge che i morosi dannava al
confine, e alcuni v’andarono: «ma due volte l’anno correvano messi
e berrovieri in campagna, votavano le case, toglievano le ricolte,
logoravano gli alimenti; e niuna di queste valute era posta a piè
della ragione del debitore,» perchè andavano in via di penale. Quei di
città si ridevano degli andati in villa, e gli chiamavano i cittadini
_salvatichi_. Gli antichi di schiatta vituperavano i nuovi uomini
venuti pel favore dei potenti a stare in città, e a questi davano
nome di villani raffazzonati.[347] Chi aveva debito di gravezze e
nel tempo stesso crediti inverso al Comune, gli mettevano il credito
in polizze, le quali per non essere venuta la scadenza non erano
ricevute. I cagnotti del reggimento e i minuti amici di esso (questi
appellavano del secondo pelo) coglievano al canto i possessori di
quelle polizze, e le compravano chi il quarto e chi il quinto della
valuta; che ad essi, perchè erano dei favoriti, venìa pagata per
intero; e così molti si arricchirono.[348] A questo modo Puccio
Pucci, venuto su dalla povertà della merceria, avea in poco tempo
accumulate grandi ricchezze. Comprava a prezzo bassissimo i crediti
inverso il Comune di coloro i quali per la povertà o per essere tenuti
avversi allo Stato non potevano farli valere; così ebbe dal Comune
in sette anni cinquantaquattromila fiorini d’oro: altri cittadini,
domestici a’ Medici o agli altri potenti, erano venuti abbondantissimi
di ricchezze.[349] Studio dei Medici pare fosse rendere povera la
Repubblica ed i cittadini ricchi.
Ma quei che soffrivano delle rapine e che vedevano mai queste in
addietro non essere state tanto gravi, rimpiangevano lo stato degli
Albizzi. Dicevano questo governo puccinesco essere di più amaritudine
che mai alcuno altro, passando d’ingiurie e di torti i recenti e gli
antichi. A chi si doleva, gli statuali obiettavano la durezza delle
antiche leggi, per le quali a chi non pagasse le multe o gravezze
era pena della testa: ma rispondevasi che per quelle a niuno tolsero
la persona, perchè quella pena che più si scosta dalla natura è
più difficile a pagare. Ed aggiungevasi: «voi avete annullato il
Catasto per iscostarvi dal convenevole della gravezza. I vostri emuli
eccettuarono due cose, le quali ci fanno certissima fede che la rovina
della città al tutto non volevano. L’una cosa fu, che il Catasto stesse
fermo; e l’altra, che le borse non si rimuovessero. Ma voi toglieste
l’egualità del Catasto, e dite: che differenza è dal governatore al
governato, se non che il governatore comanda e il governato è fatto
ubbidire? Chi fia quegli che ci ubbidisca, se il Catasto vegghia? noi
avremo a ubbidire la legge; e se il Catasto annulliamo, la legge e gli
uomini ubbidiranno noi, e così noi saremo signori.» Ma questo appunto
non volevano gli offesi, e dicevano: «voi vendete i luoghi tolti ai
miseri cittadini; voi rompete i testamenti; voi, con offesa della
libertà del Monte e della pubblica lealtà, fate che mentre l’università
de’ cittadini non hanno le loro paghe, i maggiorenti siano interamente
pagati; dal che il credito si viene a perdere, che pure è nerbo della
Repubblica.» Era in Firenze il Monte delle Doti, nel quale faceansi
depositi in testa delle fanciulle, donde avessero con certe regole al
tempo del loro collocamento una dote; e se la fanciulla moriva innanzi
d’andare a marito, il padre lucrava la metà della dote che avrebbe la
figlia avuto in ragione del fatto deposito. Ma qui pure aveano, secondo
si legge, posto le mani, sebbene fosse cosa sacrosanta; e quelle doti
non si pagavano, col dire «che il Comune era in troppa necessità: non
avendo riguardo che niuna mercanzia è tanto pericolosa a sostenere,
quanto è nelle fanciulle il fiore della giovinezza.[350]» Così giuste
erano le lagnanze.
Per gli ordini posti nel 34 si dovevano ogni cinque anni rifare le
borse e rinnovare gli squittinii; il quale termine essendo venuto per
la seconda volta l’anno 1444, e la città molto trovandosi infetta di
mali umori, e la pazienza dei molti oppressi e degli invidiosi venuta
al termine ancor essa, avvenne che molte fave fossero date ai parenti
degli usciti e ad altri sospetti: lo chiamarono lo squittinio del fior
d’aliso, questo fiore essendo bello a vedere, ma poi riesce putrido
e fetido a odorare. Così avvenne di quello squittinio, imperocchè
Cosimo e gli amici suoi, veduto che molti di contrario animo erano
entrati nelle borse, cassarono quello ch’era stato fatto, avendo i
Collegi con l’aggiunto di circa dugento cinquanta cittadini ripreso
balìa di riformare la città di squittinii e di gravezze e d’ogni cosa.
Prolungarono agli sbanditi il termine del loro confino per altri dieci
anni; molti confinarono di nuovo, cavandoli dalle Stinche, dove erano
prigioni, e a queste ricondannarono un Giovanni Vespucci, che già
prima eravi stato chiuso: posero a sedere i Mancini, i Baroncelli, i
Serragli, i Gianni, eccetto di quelle case alcuno che tralignasse, ed
un Ridolfi ed il figlio di ser Viviano delle Riformagioni, e Francesco
della Luna, il quale era detto avere fatto il Catasto, e Bartolommeo
Fortini, uomo di grande bontà, e più anni dopo restituito:[351] in
tutto dugentoquarantacinque cittadini. Cassarono ser Filippo Pieruzzi
Cancelliere: fecero i dieci Accoppiatori, i quali durassero quanto era
il tempo delle borse dello squittinio. Questi, innanzi che si facesse
la pubblica tratta, dovevano scegliere chi avesse a sedere nei seggi
delle magistrature: così ogni cosa che il popolo e la Balìa avessero
fatto, veniva sottoposto al parere di quei dieci. Tra’ quali erano
Alamanno Salviati e Diotisalvi Neroni e un Soderini ed un Martelli,
e con essi uomini recenti e _veniticci_, anima e corpo di coloro su’
quali vivevano, e pronti e rotti ad ogni cosa.[352] Per questi modi
pareva a Cosimo ed a’ suoi d’aversi assicurato lo Stato; il quale
volendo meglio ordinare di tutto punto, cosicchè nulla facesse difetto
o pericolo nell’avvenire, crearono l’anno dipoi 1445, quando Cosimo
de’ Medici la terza volta era Gonfaloniere, otto cittadini a rivedere
i libri delle antiche Riformagioni e racconciare quanto a loro potesse
dar noia, notando altresì quello che fosse nell’avvenire da provvedere
con le Balìe. Tra questi otto era Neri Capponi, già bene allora
riconciliato.[353]
Non era per anche (siccome dicevano) rasciutto l’inchiostro della
pace sottoscritta nel fine dell’anno 1441, e questa si venne a turbare
perchè Fiorentini e Veneziani erano soli a volerla, cadendo sovr’essi
tutto il peso delle guerre. Ma il Papa cercava, come già notammo,
guastare i disegni segreti che avessero tra loro accordati il Piccinino
e lo Sforza; e quando per opera dei Fiorentini pareva che fosse Eugenio
rassicurato, un’altra cagione di muovere guerra veniva dai fatti i
quali compievansi in quel mezzo nel Reame. Quivi era disceso Renato
d’Angiò, che si teneva di quello stato legittimo re, ma dopo svariate
fortune veniva dalla virtù militare del re Alfonso d’Aragona condotto
in termine che la sola città di Napoli rimaneva in sua possessione.
Quindi, al sentire la pace fatta in Lombardia, Renato chiedeva aiuto
al Conte suo amicissimo, a lui promettendo restituire le terre e le
baronie di Puglia, delle quali Alfonso lo aveva privato; premi gloriosi
che il primo Sforza si aveva acquistati col valore del suo braccio. E
il Conte Francesco a quella impresa correva, quando Alfonso eccitando
la gelosia del duca Filippo, la quale non era per nulla cessata
nonostante il parentado, lo indusse a voltargli contro il Piccinino;
del che gli faceva istanze anche il Papa sperando nel cozzo tra’ due
condottieri levarseli a un tratto entrambi d’addosso. Calato pertanto
Niccolò dalla Romagna, metteva il Conte a dure strette; i Fiorentini,
ch’aveano proposito di non entrare in quel ballo ma privatamente
sovvenivano lo Sforza di molto danaro, due volte condussero questi e
il Piccinino a fare tra loro accordi solenni, ma tosto violati perchè
da Eugenio mai non voluti ratificare; talchè la guerra nella Marca ed
in Romagna più mesi durava con vari accidenti. Renato in quel mezzo
perduta avendo anche la città di Napoli, dove era entrato il re Alfonso
per quello stesso acquedotto (pel quale vi era entrato novecento
anni prima Belisario); uscì dal Reame e venne in Firenze, dov’era il
Pontefice, recando con sè un vano titolo e nessuna speranza d’aiuto;
sicchè dimorato quivi poco tempo, tornava dipoi nei suoi Stati di
Provenza.
Così era Eugenio francato da ogni obbligazione verso l’Angiovino, e
aveva le mani più libere contro al principale suo nemico lo Sforza
e contro ai Fiorentini ed ai Veneziani, dai quali tenevasi per varie
cagioni offeso. Quelli uccidendo con tanta sua ingiuria e sotto gli
stessi suoi occhi Baldaccio, aveano mostrato di non sofferire che
il Conte perdesse la signoria della Marca: e i Veneziani senza alcun
rispetto avevano aggiunto ai loro Stati Ravenna, privandone l’ultimo
dei Signori da Polenta, da prima tirato iniquamente a Venezia e di là
poi mandato a finire insieme con la famiglia sua nell’isola di Candia.
Per queste ragioni deliberò Eugenio voltarsi ad Alfonso e riconoscerlo
giusto re, spingendolo contro allo Sforza nella Marca: ma ciò era in
tutto alienarsi dalla Repubblica di Firenze, dove essendo nella seconda
dimora quattro anni stato, deliberò di partire a’ primi dell’anno
1443. La quale partenza dispiacque al popolo, che aveva dalla presenza
del Papa lustro e guadagni;[354] ai reggitori dispiacque per questo e
perchè vedevano il Papa, chiaritosi nemico loro, mettersi in mano al
Duca ed al Re, grandi avversari della Repubblica: più che mai pungeva
l’animo loro che volesse egli fermarsi in Siena, dove null’altro lo
riterrebbe che il desiderio di fare onta ai Fiorentini in faccia al
mondo apertamente. Quindi nei Consigli fu per molti disputato non si
lasciasse partire, prolungandosi la deliberazione per tutta la notte la
quale precesse alla partenza del Papa:[355] ed egli stesso, che nella
mattina poco si teneva certo che non volessero i Signori mettergli
inciampo, ne andava infine con decoroso accompagnamento a Siena;
rimasto quivi poi gran parte di quello stesso anno.
Congiunte le armi del Piccinino e d’Alfonso, un esercito di
ventiquattromila tra fanti e cavalli entrò nella Marca: il Conte
percosso da quella tempesta, si rinchiuse in Fano dov’era la moglie,
credendosi perdere senza rimedio gli Stati suoi. Ma il duca Filippo,
vedute le sorti del Conte inclinare più in giù di quello che avesse
egli nei suoi calcoli ponderato, e non volendo che ai danni suoi il
Piccinino crescesse o che il re Alfonso troppo s’ingrandisse, mandò
per lettere ed ambasciatori a questo chiedendo lasciasse l’impresa: io
credo altresì che il Duca, sentendosi affranto del corpo e in sullo
scendere della vita, pensasse alla figlia e allo Stato di Milano,
perchè non andasse l’eredità sua in mani fatte inabili a difenderla.
Comunque sia, Alfonso alle replicate istanze del Duca essendo alla fine
rientrato nel Regno, lo Sforza rifatto di genti vinceva il Piccinino
rimasto solo; ma per il verno che sopravvenne tutti ritrattisi alle
stanze, questi raccoglieva intorno a sè nuove genti in gran numero,
perchè molti contestabili o capi inferiori delle milizie venali
abbandonavano il Conte Francesco che non reggeva alle paghe, sebbene
gli aiuti dei Fiorentini non gli mancassero, ma erano scarsi a tanto
bisogno. Così pareva essere il Conte ridotto a estrema ruina, quando
Filippo Maria intervenne per la terza volta a torre la certa vittoria
di mano al prode e infelice suo vecchio condottiere: per subito avviso
e con fallaci speranze richiamava Niccolò Piccinino in Lombardia; il
quale vedutosi tradito dal Duca, e udita la rotta e la prigionia di
Francesco suo figliolo rimasto in Bologna al governo dell’esercito,
moriva lasciando di sè nome di tanto più onorato quant’ebbe più
avverse le sorti, e i servigi da lui prestati all’ingrato Duca rimasti
erano senza premio.[356] Le armi braccesche dopo lui caddero, e lo
Sforza campeggiò solo, con la fortuna più assai di principe che di
condottiero. Incontro al quale il Papa sentendo non avere Capitano
che fosse capace di stargli a fronte, diede ascolto alle molte istanze
che i Fiorentini a lui facevano per la pace. Questa, concordata prima
a Perugia, fu poi conchiusa a Roma dov’era Eugenio tornato nel corso
dell’anno 1444. Parte della Marca rimase al Conte; d’altre vertenze
si fece compromesso in tre Cardinali ed in Cosimo de’ Medici e in Neri
Capponi andato a Roma ambasciatore.[357]
Il duca Filippo, tra molte sue voglie, da più anni tirava a soggettarsi
Bologna, dove la parte dei Canneschi a lui aderiva; ma questi
essendo stati in quei giorni popolarmente distrutti dopo l’uccisione
che avevano fatta d’Annibale Bentivoglio, e Bologna governandosi
nell’amicizia dei Fiorentini e dei Veneziani, il Duca mandava in
Romagna nuove genti. Cosicchè bentosto per questo e per altri dissidii
e sospetti tra lui ed il genero, si rinnovava la guerra, dov’erano da
una parte Veneziani e Fiorentini e Bolognesi e il Conte Francesco,
dall’altra il Duca e il Papa ed il Re. Non tema il lettore ch’io
voglia descrivergli i vari casi di questa guerra più che non facessi
delle precedenti: al nostro assunto basti notare come lo Sforza,
impedito spesso dall’inopia di danaro, poco facesse, ed i Fiorentini,
che a lui ne davano ma segretamente, si fossero contro tirati una
grande nimistà del Papa. Il quale una volta facea sostenere nel
Castello di Sant’Angelo e sotto il pretesto di certi debiti colla
Camera Bernardetto dei Medici inviato in Napoli al Re: e i Fiorentini
pigliavano sulla via due Vescovi che s’erano imbattuti a passare per
la Toscana; e Cosimo de’ Medici avea consigliato al Conte Francesco
l’impresa di Roma, dove lo chiamavano alcuni Baroni, e perfino
Cardinali ed altri uomini della Corte gli promettevano, se v’andasse,
che il Papa farebbe con lui ogni accordo. Ma indugiò tanto che trovò
Eugenio ben provveduto, e fosse mancanza di danaro o altro, lo Sforza
andato sino a Montefiascone tornò indietro.[358]
Per tutto questo ai Fiorentini parea male stare, e si chiamavano
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