Storia della Repubblica di Firenze v. 2/3 - 04

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e la ringhiera de’ Signori, sopra la quale si affaccendava a scrivere
petizioni, ch’erano leggi da presentare immantinente alla Signoria.
L’uno diceva al giovine del notaro: Scrivi, Gasparre, io voglio
così; l’altro gli ponea la spada alla gola e stracciava la scritta, e
ponevangli un foglio in mano e diceva: Scrivi; e l’altro vi fregava
su le dita e diceva: Vuole star così. Chi domandava che i libri del
Monte si ardessono; chi gridava «Viva il popolo!» e chi «Siano morti
i sindachi!» ed il rumore ed il parlare loro parea un inferno:[30]
così ne uscirono certe leggi, le quali furono il giorno dopo vinte ne’
Collegi. Contenevano, che i sindachi delle Arti (autori primi di quel
rivolgimento) fossero cassi e tolta loro ogni provvisione; che niun
cavaliere (e pure i novellamente fatti) fossero abili agli uffici; che
a Salvestro dei Medici fossero tolte le botteghe del Ponte Vecchio, ed
a Giovanni di Mone la Piazza di Mercato; che di maleficio fatto insino
a quel dì non si conoscesse, nè di potere essere costretti per alcun
debito, tanti anni, nè in persona nè in avere.
In tale scompiglio e a questo levarsi dell’ultima plebe avrebbero avuto
bel gioco e comoda occasione gli antichi grandi; e convien dire fossero
discesi a estrema bassezza, poichè nessun moto si trova facessero a
loro pro; dove se ne tragga il fatto oscuro di un solo, che fu Luca
de’ Firidolfi da Panzane, del ceppo dal quale si erano divisi quelli da
Ricasoli. Costui narra di sè stesso, come egli cercasse pertinacemente
la vendetta contro uno de’ Gherardini che gli aveva ucciso un parente,
e poi la compiesse per via di un assalto al campanile della chiesa
di Santa Margherita a Montici, dove lungamente si era difeso il
misero Gherardini. Bene cotesto Luca dovette essere dei più malvagi
ed avventati; e come colui che adoperato dalla Repubblica in cose
di guerra aveva ottenuto essere fatto di popolo e cavaliere, stava
sulla Piazza seguito da quasi tutti gli sbanditi ribanditi; quivi
si fece tôrre la cavalleria che aveva dapprima, tagliare li sproni,
e rifare cavaliere del minuto popolo che da lui, come anche nelle
scritture pubbliche, si trova chiamato Popolo di Dio, ed alle volte
Popolo Santo.[31] Poi liberarono due prigioni di recente fatti e gli
menarono a baciare sulla piazza l’insegna dell’Agnolo; dicendo all’uno
«ringrazia Dio ed il popolo di Dio che t’ha liberato,» e che facesse
fare una bottega d’arte di lana di fiorini tremila: disse farla di sei
mila, e tutti a grido: «questi è buon uomo, però volevangli fare male.»
Condusse a casa tutta la ciurma, ed aprì la cella e gli fece bere, che
il caldo era grande; egli entrò in casa e dietro se ne uscì, che a lui
parve mill’anni. Poi Luca ne andò con tutta la ciurma al palagio della
Parte, e volle tôrre il gonfalone; ma quando al popolo ch’era sulla
piazza fu ciò rapportato, nacque rumore che s’egli avesse levato su
altro gonfalone, il loro Agnolo non sarebbe nulla, e che à loro non
dovea bisognare gonfalone de’ Guelfi, chè ’l popolo era tutto guelfo.
Gridarono: s’egli ce lo reca, sia tagliato a pezzi. I suoi, lasciando
Luca, ne andarono sulla piazza; ed egli co’ suoi novelli sproni dorati
si dileguò; chè se lo trovavano, male sarebbe egli capitato.
La sera andarono a Santa Maria Novella e chiesero quivi luogo dove
stare; fu loro assegnata la grande Cappella nel secondo chiostro.
Rimasti la notte, dissero al Priore desse loro certi buoni frati che
avessero a consolarli per l’anima e per il corpo: rispose il Priore,
che non aveva frati da ciò, se eglino dapprima non consolassero sè
medesimi; ed altre buone parole. Le quali udite, si strinsero insieme,
e chiesero a lui frati onesti e di buona vita, che gli ammaestrassero
ed insegnassero fare cose utili e buone. Alcuni n’ebbero, e praticando
co’ frati dei modi, l’uno diceva, l’altro si levava, l’altro
interrompeva; e, secondo disse chi fu ad intenderli, «peggio era che la
zolfa degli Armeni.» In questo cercare pietosi conforti, pochi erano
gli ipocriti: i molti credevano col vendicare le ingiustizie usare un
diritto; a loro dicevano essere negate le giuste mercedi, e grossi
guadagni dati a quei pochi fortunati che pure ambivano di chiamarsi
popolo. Nelle arti è viva sempre la guerra pei salari, e quindi viziato
in sè medesimo un governo fondato sulle arti. Marchionne Stefani,
sebbene tenesse parte popolare, aggrava i Ciompi, mostrando credere
a chi disse: volere essi correre la terra, rubarla e uccidere tutti i
vecchi e buoni uomini, e tôrsi la roba loro; quindi murate e steccate
le bocche delle vie, ridurre la città a piccolo compreso, ed ivi
farsi forti, poi vendere la città; chi disse al Marchese di Ferrara,
e chi ad un Bartolommeo Smeducci da Sanseverino, il quale trovavasi
allora in Firenze per cose di guerra; essi con la roba andarsene a
Siena.[32] Nè forse mancarono di tali disegni in taluno dei più tristi.
Ma nell’effetto (come apparve anche dal processo che loro poi si fece
addosso) era solo questo: aveano creati già prima otto ufficiali loro,
due per Quartiere, chiamati gli Otto di Balía di Santa Maria Novella,
con mero e misto impero; e sedici altri pure del popolo minuto, ogni
Gonfalone uno, i quali fossero il Consiglio loro. Questi ed altri
che si eleggessero successivamente di priorato in priorato, volevano
stessero in Palagio, e niuna cosa che toccasse alla città, senza di
loro potesse farsi; e quando fosse deliberata da essi oltre che dai
Priori, potesse andare ai Collegi ed ai Consigli. Pensarono altri
provvedimenti di questa sorta, nei quali non era altro vizio se non
quello di rendere al tutto impraticabile il governo, e guerra mettere
nel Palagio.
Aveano gli Otto mandato ad ogni Arte inviassero loro due consoli o
artefici, co’ quali voleano trattare del modo del reggimento della
città. Ai quali poi fecero alcune proposte, non in forma di consiglio,
ma dicendo: così ci pare e vogliamo; e quelli uditele, si ritrassero.
Sentendo poi gli Otto suonare a Consiglio, vennero alla piazza con
grande moltitudine di popolo minuto in arme, e con gran rumore dicendo:
noi vogliamo sapere chi è tratto de’ Priori. Qualunque era tratto, si
mandava a domandare se piaceva loro o no; e quelli gridare: straccia,
straccia; ovvero: buono, buono. Feciono stracciare cui loro parve,
e però la tratta si penò a fare sino a sera. Volle anche il popolo
ammonire, serbando pur sempre le antiche forme della Repubblica; ma
questo modo così tirannico del fare la tratta dispiacque eziandio a
qualunque del popolo minuto che avesse sentimento. Dipoi mandarono
gli Otto in Palagio certe petizioni, con ordine ai Priori di tosto
riceverle, e sonare a Parlamento perchè venissero confermate: risposero
questi, che il mercoledì, primo settembre, dovendosi fare Parlamento
per l’entrata de’ nuovi Priori confermerebbero ogni loro ordine
compiutamente; e fatto venire il frate col messale, giurarono. Tra gli
altri ordini era questo: che potessero i consoli delle Arti co’ loro
consigli privare degli uffici del Comune chiunque volessero; ed è da
notare che nei consolati e nei consigli delle Arti quasi non erano che
discepoli, essendo i maestri tolti via quando furono arse e rinnovate
le borse. Vi era di mezzo altra circostanza che più toccava nel vivo;
questa cioè, che gli uomini della Balía passata si avevano fatto
assegnare doni e onorificenze, chi l’una cosa chi l’altra: Michele
di Lando, la potesteria di Barberino e cento fiorini per un cavallo e
pennone e targa. Si trova[33] che avesse Michele mandato a praticare
con loro perchè gli lasciassero o i doni o l’ufficio, e che infine
si arrecasse al solo pennone, così promettendo fare ogni cosa a modo
loro. Mi duole ciò fosse di lui creduto; ma non poteva egli oramai
più stare a bottega di scardassiere, ed era la chiesta di una tra
le potesterie minori, piccola cosa; ed il porre innanzi gli onori al
guadagno è prova d’animo dignitoso. Egli con l’avere fermato l’impeto
popolare e ricondotta la quiete in città, ardito nei fatti, grazioso
ne’ modi, avea gran seguito e favore presso ad ogni maniera di gente.
La mattina dell’ultimo dì d’agosto gli Otto di Santa Maria Novella
mandarono in Palagio due di loro, e tosto fecero rassegnare innanzi
a sè i Priori nuovi e vecchi, perchè giurassero; e se al primo cenno
non rispondevano, subito «ove sei?» con tanta arroganza che parevano
Signori. Allora Michele, ricordandosi ch’egli era Gonfaloniere da usare
le mani, andò a pigliare una spada, e con quella gridando raggiunse
uno degli Otto e gli diede in sulla testa, poi lo inseguì giù per la
scala dandogli sempre; e questi nel cadere trovò un frate di quei del
Palagio, che saliva recando del vino, cosicchè all’urto il povero frate
andò col capo all’indietro e morì. Michele percosse l’altro degli Otto
con lo stocco, i due rincorrendo fino ad una sala, che si chiamava
dei Grandi; appena lo poterono raffrenare che non gli uccidesse; i due
furono presi e custoditi in Palagio sotto alla scala.
Intanto la piazza s’empiva di gente. Aveva dapprima invaso il terrore
gli animi de’ mercatanti; chi si fuggiva in contado, chi nelle
castella o città vicine, sgombrando le robe: se non che i Signori la
notte aveano dato ordine che la mattina seguente le Arti traessero
in arme alla piazza co’ gonfaloni loro, e fatto venire fanti dal
contado e richiamato i fuggenti. Benedetto Alberti stava co’ Signori,
e Giorgio Scali aveva la guardia della torre del Palagio; Salvestro
dei Medici non trovo allora che si mostrasse. Ma già suonavano le
campane di quelle parrocchie dove abitavano i Ciompi che ultimamente si
raccolsero a San Frediano. E la campana dei Signori suonava a martello,
chiamando le Arti che già traevano alla piazza. Michele di Lando
uscito in questo dal Palagio montò a cavallo, avendo seco Benedetto
da Carlona pianellaio; e dalla Piazza con molto seguito, e facendosi
portare innanzi il Gonfalone della giustizia, andò a Santa Maria
Novella, dov’egli credeva trovare i Ciompi: questi con la loro insegna
dell’Agnolo erano intanto venuti in Piazza ed assediavano il Palagio,
mentre da più lati giugnevano le Arti, e già tenevano le bocche di
tutte le vie. Allora soppraggiunse Michele di Lando, che aveva percorsa
gran parte della città gridando: «Vivano le Arti e il Popolo, e
muoiano i traditori che volevano recare a Signore il reggimento della
città.» Tornava alla Piazza con molta più gente che non si partì.
Allora i Signori mandarono a dire a tutte le Arti dessero le insegne,
chè le voleano in sul Palagio: le Arti, come fu ordinato, subito le
mandarono; ed i Priori le misero onoratamente alle finestre della Sala
del Consiglio: negarono i Ciompi dare quella dell’Agnolo; e mentre
i Signori con la loro gente cercavano torla, s’appiccò zuffa; dalle
finestre gettavano pietre addosso ai Ciompi ch’erano sulla ringhiera,
l’urto del popolo gli premeva; questi allora cominciarono ad arretrarsi
per la via de’ Magalotti, dove sopraggiunti da un’altra compagnia che
gli feriva di costa, andarono in rotta: pochi ne morirono, a chi non
si difese non fu detto nulla. La sera e la notte le Arti vittoriose
andavano per Camaldoli e per i borghi della città; ma i Ciompi s’erano
dileguati chi per le case, chi nel contado, e chi per Arno usciti
fuori nei campi. I pochi e deboli alle volte fanno breve sorpresa ad
una città, perchè la stessa miseria loro incute negli altri qualche
rispetto; guardagli in faccia e’ si dispergono, frustrati ancora delle
giustizie per cui levaronsi da principio.
La mattina del primo settembre i nuovi Signori presero l’ufficio senza
le solennità usate, ma con la guardia delle sedici Compagnie, ch’erano
in Piazza grande brigata, e di cento lance di gente d’arme che allora
erano in Firenze. Michele di Lando non volle uscire alla ringhiera
nel consueto luogo, ma nella Sala d’udienza diede il Gonfalone in mano
al nuovo eletto ch’era dei Ciompi; ed egli co’ suoi compagni andarono
a casa privatamente: ebbe Michele l’onorificenza del pennone e della
targa ed a lui fu confermata la potesteria che gli era assegnata, e
i doni e gli uffici a qualcun altro de’ suoi[34] che avesse dato mano
alla vittoria contro alla setta di quei di Santa Maria Novella. Ma i
nuovi Signori la stessa mattina assieme ai Collegi ed alle Capitudini
delle Arti, e al grido di quelli ch’erano in piazza, deliberarono: che
l’Arte dei Ciompi, ultima aggiunta, fosse abolita; che il Gonfaloniere
e un altro Priore i quali erano del minuto popolo, chiamati uno il Tira
l’altro il Baroccio, fossero cassi; che rimanessero le due altre Arti
di nuovo create, sicchè le minori fossero sedici, rimanendo le maggiori
sette; che dei Priori fossero quattro delle maggiori Arti e cinque
delle minori, le quali avessero nella stessa proporzione la maggioranza
nei Collegi, e che dei due ordini ciascuno avesse alternamente il
Gonfaloniere. Poi consigliatisi con alcuni savi e discreti cittadini
a questo effetto richiesti in Palagio, annullarono le esenzioni del
portare armi ed il respiro di due anni dato ai debiti sotto una certa
data somma; renderono a favore dei creditori del Monte il pagamento
dell’interesse, dal che i danari del Monte i quali valevano tredici
per centinaio, salirono in pochi giorni a ventiquattro. Fecero
eletta di sessantaquattro ufficiali a fare l’estimo degli averi di
ciascun cittadino; rinnovarono la taglia di mille fiorini posta a
Lapo da Castiglionchio, chi lo desse morto o vivo; conservarono a
Salvestro de’ Medici l’entrata sulle botteghe del Ponte Vecchio, ed
a Giovanni di Mone quella del Mercato. Crearono Otto per la guardia
della città, ma senza balía, e che esercitassero la vigilanza su’
forestieri. Riformarono il Consiglio del popolo in quaranta cittadini
per quartiere, e in simile numero il Consiglio del Comune, con più
dieci grandi per ogni Quartiere; con che in ciascuno dei Consigli
le Arti maggiori e le minori avessero parte eguale. Ordinarono che
in avvenire i Capitani di parte guelfa fossero undici, due magnati,
quattro delle Arti maggiori, e cinque delle minori, dividendosi con
la stessa proporzione gli uffici e collegi e consigli della Parte.[35]
Annullarono le cavallerie date in mezzo al tumulto; ma resero il grado
nell’usato modo a trentun cittadini per lo più delle maggiori case, i
quali prestarono il solito giuramento,[36] e cavalcarono per la terra
con popolare solennità. Sostituirono al Gonfaloniere levato d’ufficio
un rigattiere, e Giorgio Scali entrò nel numero dei Priori. Resero
alle Arti i gonfaloni che per sospetto si tenevano appiccati alle
finestre del Palagio, e le Arti vennero e se li portarono con grande
festa ed allegrezza. Gli Otto che avevano governata la guerra col Papa
lasciarono alla fine, dopo tre anni, l’ufficio. I due di quelli altri
Otto di Santa Maria Novella, che furono presi poichè Michele di Lando
gli ebbe feriti, andarono a morte per sentenza pronunciata contro gli
autori dell’ultima sedizione; dei quali furono condannati nella persona
e negli averi una trentina ch’erano contumaci. Coteste giustizie
facevansi in nome d’un governo d’artigiani: il popolo, come in Firenze
natural signore, non volle sapere di feccia plebea; ed io non so
quale altro popolo al pari di questo valesse a reggere sè medesimo,
qualora avesse trovato forme a ciò adatte, e fosse stata vera e sincera
l’egualità su cui fondavasi la Repubblica.[37]


CAPITOLO II.
GOVERNO DELLE ARTI MINORI, CHE INDI PASSA NELLE MAGGIORI. RACQUISTO
D’AREZZO. [AN. 1378-1387.]

Ma era impossibile ad uno Stato di troppi ed improvvidi e ciascuno
bisognoso, mantenere la fiducia di sè medesimo ch’è principio come di
forza, di libertà cui fanno guerra fiera e continua le paure: quanti
più sieno i partecipi, tanti più sorgono gli avversari. Accade sovente
nelle intestine divisioni, che mentre a una parte di quei che furono
vincitori non sembra d’avere mai fatto abbastanza per la oppressione
dei contrarii, ad altri il fatto riesca troppo e sieno pronti a
rinunziare, per desiderio della pace, alla vittoria conseguita; perchè
alla fine tutti abbiamo bisogno di tutti, e questo che spesso diventa
lievito di discordia nelle umane società, è pure vincolo che non si
disfacciano. Qui era un popolo di artefici, ed i mestieri più penuriosi
facevano guerra alle officine che gli adoprano, e al capitale,
strumento primo alla produzione del lavoro, ed ai commerci che lo
alimentano; così i braccianti, per ottenere a forza mercedi più eque,
veniano a perdere il lavoro. Oltre ai mercanti fatti ribelli e a quelli
che aveano per arte o paura cessato le industrie e a quelli che dentro
contrariavano lo Stato, aveva il popolo degli artefici respinto da sè
anche una parte di sè medesimo; e i più forti per audacia, ribelli
anch’essi, ora si accostavano a quelli che innanzi avean chiamato
tiranni loro e facean causa con gli spossessati. Nei primi tempi della
Repubblica le Arti maggiori facilmente dominavano con la potenza e col
senno il nuovo popolo che sorgeva, ma tuttavia disciplinato dall’antica
suggezione; ora ambe le parti, fatte procaci ed intemperanti ciascuna
per sè, non avean modo a ricomporsi. Nel breve governo delle Arti
minori vedremo continue da una parte le congiure, dall’altra i
sospetti, le esorbitanze, ed il sangue versato a spegnere i sospetti;
nei quali conati vedremo la vita di questo popolo consumarsi,
imperocchè il popolo quando una volta abbia assaggiato il governarsi
tutto da sè, riesce più agevole a lasciarsi governare, quasi egli sia
fatto a somiglianza di certe piante le quali come hanno portato il
fiore periscono: ma benchè il popolo qui perdesse la vita politica,
Firenze fu sempre città popolana sotto ogni forma di reggimento.
Nei primi anni, quando ebbe avuto più fermo assetto questa Repubblica,
ci occorse notare come al promuovere la potenza, al fare le imprese e
a tutto insomma il governo dello Stato, sembrasse tutta partecipare
la comunanza dei cittadini, essendo tra molti divisa l’autorità, nè
per il corso di molti anni alcun nome ricordandosi che sopra agli
altri si elevasse. Ma col procedere dei tempi troviamo il contrario,
e già cominciano pochi nomi a farsi innanzi e a tirare quasi dietro sè
tutta la narrazione, ch’è primo indizio al disfacimento, quando anche
lento, delle repubbliche. Avea bisogno la moltitudine di capi esperti
che la guidassero, e gli ambiziosi di lei facevano strumento abile ai
disegni loro. Conducevano lo Stato coloro medesimi ch’aveano condotta
e preparata la mutazione; Giorgio Scali che fra tutti ebbe più audaci
pensieri, Tommaso Strozzi della famiglia stessa ond’era Carlo che fu
tra’ sommi sul magistrato di Parte guelfa, Benedetto degli Alberti che
fra tutti era il più veramente popolare; e accanto ad essi alcuni altri
sorti di plebe, e posti in alto dai moti recenti, per indi sparire
senza ricordo nelle istorie. Salvestro de’ Medici, quale se ne fosse
la cagione, figurò poco nel nuovo Stato; Michele di Lando, o fosse in
lui necessità o senno, rimase in disparte: ma quegli antichi Otto che
aveano fatto la guerra col Papa e avuta gran mano nel sovvertimento
dello Stato, rimasero quindi a parte di esso e n’ebbero beneficii: uno
di loro, Andrea Salviati, fu il secondo Gonfaloniere dopo Michele di
Lando; allora la volta del supremo magistrato dovendo tornare alle Arti
maggiori, secondo gli ordini nuovamente posti.
Furono quegli anni senza guerra fuori, ma le congiure dentro lo Stato
mai non cessavano, gli sbanditi essendo uomini dei più facoltosi e di
maggiore autorità, che non tenevano il confine; ma forti ancora delle
aderenze le quali avevano per l’Italia, di continuo praticavano tornare
in patria nell’antico grado, ed ogni giorno se lo credevano: v’erano
i Ciompi, rimasti fuori, che aizzavano quei di dentro. Già nei primi
mesi, avuto sentore di certe pratiche o congiure, altri settantasei
cittadini ebbero bando, e a due fu tagliato il capo. Molti più erano
gli indiziati; ma per non fare troppo gran fascio, il processo fu
abbuiato; e i nuovi Signori attesero invece a riunire la città per
via di nuove imborsazioni, rendendo più eguale fra tutte le Arti la
distribuzione degli ufficii, e per le inferiori o Arti più minute
scemando il numero degli imborsati; massimamente togliendo via quei
molti fattori o discepoli o compagni, che prima tenevano il luogo dei
maestri, e dove stava il maggior male. Cercarono anche di rinnovare
le antiche leggi contro a’ forestieri, facendo che niuno il quale non
fosse della città o del contado avesse ufficii; ma era legge odiosa
troppo, che parve come un ammonire, e andò a terra con poco effetto.
Nè la concordia fu durevole, e poco dipoi venne scoperta un’altra
congiura, per la quale furono decapitati sette cittadini, altri
essendosi posti in salvo; tra’ quali uno Strozzi ch’era Priore di San
Lorenzo, e quel Guerriante Marignolli che noi vedemmo, quando era della
Signoria, male tenere il grado suo. Venne la volta poi di Giannozzo
Sacchetti, fratello al Novelliere, ed egli medesimo autore di laudi e
d’altre pie composizioni; onde fu chi tenne con plausibili argomenti
falsa l’accusa per cui Giannozzo perdè la vita.[38]
Era disceso in Italia dall’Ungheria Carlo di Durazzo di Casa d’Angiò
a cacciare la regina Giovanna di Napoli: appena era egli giunto
in Padova, si misero attorno a lui con Lapo da Castiglionchio i
fuorusciti; ed al Re pareva meglio potersi assicurare dei Fiorentini,
se la Repubblica tornasse in mano dei vecchi amici di parte guelfa,
usi al governo e di più credito nelle Corti. Troviamo essere in
quegli anni dalla popolare diffidenza aggiunti nelle ambascerie ai
chiari uomini bassi artefici; mistura da essere gradita poco a quei
Principi ai quali andavano: per queste cose avevano favore appresso
a Carlo i fuorusciti. Intanto i Ciompi fuggiti a Siena ed a Bologna
s’intendevano con quei di dentro: era in Firenze grande bisbiglio e
avvisi di trame che s’ordissero dentro e fuori; scriveano pei canti
i nomi sospetti; chi accusava i magistrati di connivenza, chi voler
far morire gente per nimicizie private, chi l’una cosa e chi l’altra.
E già una mano di sbanditi da Siena pel Chianti aveano tentato di
sorprendere Figline. Furono creati nuovi Otto di guardia, tra’ quali
troviamo Michele di Lando stovigliaio (il mestiere della madre); e
guardia si faceva molto diligente nella città e nei dintorni; dove
sulla fine del 1379, senza averne prima sospetto, trovarono Piero degli
Albizzi; intantochè altri ribelli di minor nota ma che erano stati dei
maggiori della città, in altri luoghi furono presi, e tosto dati al
Capitano che gli condannasse. Negava questi; essendo allora coscienza
dei giudici non proferire condanne senza la confessione dell’accusato,
ma poi tenere per buona quella che fosse cavata di bocca per forza di
prolungati tormenti. Intorno al Palagio tumultuava la moltitudine, e
la città era sotto l’arme; Benedetto degli Alberti salì al Capitano,
e disse che il popolo voleva la morte dei prigionieri. Allora Piero,
con forte animo volto ai compagni, mostrò il pericolo che ne anderebbe
alle famiglie loro, e che essi in niun modo non camperebbero ma
sarieno tagliati a pezzi come cani: mandarono al Giudice dicesse
loro quel che dovessero confessare, e ch’erano presti. Quegli rispose
che ne lasciava il pensiero a loro: deliberati morire, lo pregarono
onestasse la condannagione il più che potesse, e confessarono chi una
cosa e chi l’altra; tantochè il Capitano diede loro (come dicevano)
il comandamento dell’anima; e cinque ch’erano stati dei primarii
cittadini di Firenze, tra’ quali Bartolo Siminetti e uno Strozzi, e
con essi altri di oscuro nome, perirono insieme a Piero degli Albizzi.
Di lui si narra che facendo egli pochi anni prima un grande convito,
gli fu presentata una scatola di confetti sotto ai quali era nascosto
un chiodo; fu interpretato che dovesse conficcare la ruota della
fortuna, della quale era egli sul colmo. Ed un altro cittadino di
molta stima e non ignoto ai nostri lettori, perdeva la vita nei giorni
medesimi: questi fu Donato Barbadori che, solito andare nelle maggiori
ambascerie, stava in Padova appresso a Carlo, dov’ebbe accusa d’avere
cenato con gli sbanditi; il che bastò perchè gli fosse tagliato il
capo. Continuarono però sempre le trame, o vere o sospettate, e ne
seguirono altre morti.[39]
A questi tempi un fatto nuovo s’era in Italia manifestato. Le Compagnie
d’oltramontani, che a noi recarono tanti mali, già si andavano
consumando, senza che altre sopravvenissero; e noi vedemmo Compagnie
minori di gente nostrale vaganti ai soldi delle città; quando un
gentiluomo lombardo, Alberico da Barbiano dipoi Conte di Belgioioso,
ne formava una che sotto nome di Compagnia di San Giorgio divenne
celebre, e fu educatrice prima delle armi Italiane, tali quali erano
a quel tempo. Del resto, quei nuovi condottieri di milizie anch’essi
non ebbero nè fede nè patria che le armi loro giustificassero, non
erano meno rapaci e crudeli di quel che fossero gli stranieri, e qual
pro ne avesse l’Italia non so; quel che a lei fecero noi vedremo.
Nella primavera del 1380 la Compagnia di San Giorgio era venuta su
quel di Siena, dove si erano riparati in grande numero fuorusciti
delle principali case di Firenze, e molti dei Ciompi che ivi erano
iti a lavorare, Siena reggendosi in quelli anni a governo popolare.
Costoro persuasero agevolmente la Compagnia, che non aveva che fare,
a muovere contro allo Stato di Firenze: discese pertanto nella Val
di Pesa; ma poichè in Firenze non avvenne alcun movimento come gli
usciti speravano, passò in Val d’Elsa, e indi sulle terre dei Pisani e
dei Lucchesi, pure aspettando buona occasione: ma poi che udirono che
in Firenze aveano chiamato Giovanni Aguto, ed i Capitani della Parte
si profferivano di condurre genti d’arme a loro spese; la Compagnia
per Maremma si condusse a Roma. Ivi papa Urbano aveva sollecitato
Carlo di Durazzo perchè scendesse contro alla regina Giovanna, che
molto favoriva l’Antipapa; e Carlo essendo venuto a Rimini e di là in
Toscana, ebbe Arezzo in signoria per fatto d’alcune possenti famiglie;
dove mentre egli dimorava, i Fiorentini gli mandarono ambasciatori;
uno dei quali, Giovanni di Mone, quel popolano che noi vedemmo salito
essere molto in alto, fu ivi ucciso dai fuorusciti. Al che essendosi la
città commossa, crearono nuovi Otto di guerra, e con modo insolito ma
già usato dai Veneziani, altri Otto per la pace; i quali avendo mandati
nuovi ambasciatori, fu stretto accordo pel quale il Re si obbligava
non offendere in modo alcuno i Fiorentini; e questi dal canto loro
promettevano non dare aiuto alla Regina, e imprestare a Carlo quaranta
mila fiorini, da scontare sugli ultimi pagamenti dovuti ad Urbano per
la conclusione della pace. Dopo di che Carlo di Durazzo entrò nel Reame
e n’ebbe la possessione, avendo rinchiusa in carcere la Regina e il
tedesco marito suo.
Ora tornando alle interne cose, mi piacerebbe che tutto il vivere di
questa città in quelli anni di predominio delle Arti potesse scorgersi
a minuto, perchè da un popolo come questo si avrebbe tale insegnamento
che raro incontrasi nelle storie. A riconquistare i diritti loro,
si ponean sopra al diritto altrui; e nel correggere le ingiustizie
e porre un freno alle violenze, violenti erano ed ingiusti. Al che
si aggiungano i viluppi delle private passioni, e più aguzzate le
cupidigie mentre col sovvertimento delle industrie era cresciuta
la povertà; e a trovare ordine che soddisfacesse, conati ognora più
impotenti e più eccessivi ed irragionevoli. Era un continuo ingerirsi
delle Arti minori nelle cose del Palagio a esercitarvi un sindacato,
quanto più incerto di sè medesimo, tanto più ingiusto e diffidente.
Nè bastava loro l’andare in Palagio a imporre le leggi, che ci
volevan anche desinare: contro di che fu ordinato che niuno potesse
desinare co’ Priori, se non ne avesse licenza per partito vinto di
sei fave nere. Sebbene fossero più di mille allo squittinio per la
Signoria (che prima erano soli trecento), e che attorno ai magistrati
fossero sempre dei popolani, qualunque volta uscisse un nome che agli
artefici non soddisfacesse, o pretendevano si stracciasse, o facean
prove di nuovi ordini pe’ quali credessero chiudere ogni adito ai
nemici loro, e a sè pigliare tutto lo Stato. Al che ottenere per vie
pacifiche frequenti erano le consultazioni; parve qualcosa avere fatto
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