Storia della Repubblica di Firenze v. 2/3 - 11

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ogni anno a Venezia panni sedicimila, i quali erano consumati nella
Barberia, nell’Egitto, nella Sorìa, in Cipro, in Rodi, nella Romania,
in Candia, nella Morèa e nell’Istria; ed ogni mese conducevano
a Venezia settantamila ducati di tutte sorte mercanzie, che sono
all’anno ducati ottocentoquaranta mila e più; cavandone lane francesi
e catalanesi, cremisi, stame, sete, ori, argenti filati e gioie.[151]»
Parole del Doge Tommaso Mocenigo, che poco innanzi di rendere l’anima,
l’anno 1423, si compiaceva di presentare ai concittadini suoi lo stato
fiorente in cui lasciava la sua Repubblica; maggiore di troppo della
Fiorentina quanto alla ricchezza ed alla possanza, ma bene altrettanto
ad essa inferiore per quello che spetta alle opere dell’ingegno, e
addietro per anche nella coltura delle Arti belle.[152]
Studiavansi molto ampliare i commerci; al quale effetto dappoichè
furono divenuti signori di Pisa, attendevano alle cose del mare, ed
ambivano di possedere un naviglio che fosse proprio della Repubblica,
la quale era solita infino allora di assoldare galere forestiere.
Elessero quindi Consoli del mare, ufficio che noi vedemmo essere
altra volta istituito nella guerra che fu co’ Pisani per conto di
Talamone: sei furono i Consoli eletti l’anno 1421,[153] e primo tra
essi Niccolò da Uzzano: avevano obbligo di curare la fabbricazione di
due grosse galere di mercanzia e sei delle sottili per guardia. La
prima galera fu l’anno dipoi varata con grande solennità; e perchè
al mare la gioventù s’avviasse, posero in quella dodici giovani di
buone famiglie. Andò in Alessandria la prima galea, dove era disegno
aprire un traffico di spezierie e di altre merci, veduto i guadagni
che ne ritraeva la Repubblica de’ Veneziani. A tal fine inviarono
ambasciatori al Soldano un Federighi e un Brancacci, i quali ottennero
che la nazione fiorentina potesse avere in Alessandria Consolo, Chiesa,
Fondaco, Bagno e ogni altra cosa che avesse domandato per la sicurezza
dei mercati e mercanzie e per decoro della nazione.[154] Avevano anche
per la facilità dei commerci ridotto il Fiorino al peso di quel di
Vinegia, e fu chiamato Fiorino largo di galea. Ma una siffatta, come
ora si direbbe, concorrenza avendo destato gelosia nei Veneziani;
questi, pochi anni dopo, richiesti di lega dai Fiorentini, vollero
patto che nessuna galea o altro legno de’ nostri potessino navigare
ne’ mari che portano ad Alessandria. Tardi giugneva a queste cose
la Repubblica di Firenze, invano tentando succedere alla grandezza
ch’ebbero i Pisani e al favore del quale avevano questi goduto;[155]
nè potè farsi mai potente sul mare, dove però grandi erano le industrie
private dei Fiorentini ed i guadagni che si facevano alla spicciolata e
che la Repubblica molto adoperavasi a proteggere: talchè le istruzioni
che si davano agli ambasciatori contengono molte raccomandazioni di
privati cittadini e dei traffici e interessi loro. Troviamo mandassero
in quelli anni stessi ambasciatori nella Morèa, dove tuttora gli
Acciaiuoli avevano ducato, ed in altre parti del Levante: altri ne
andarono a Maiorca. Facevano partire per sicurezza dei mercanti due
galere grosse da mercato nel mese di febbraio e due altre nel settembre
per Fiandra e Inghilterra, a cura dei Consoli del mare che un’altra
galera tenevano pei viaggi di Romanìa. Un’altra recava panni in Ragusa
e ne riportava oro, pellami ed altre merci.[156] La Repubblica molto
ebbe da fare in Liguria co’ Grimaldi signori di Monaco, i quali tolse
in accomandigia insieme co’ Fieschi. Avevano questi terre in Lunigiana,
che fronteggiavano le possessioni della Repubblica di Firenze. Era
mestiere dei Grimaldi signori di Monaco rubare in sul mare, e uno
d’essi dichiarava che Monaco essendo terra di nessun provento, il
signore non vi camperebbe senza aiutarsi della pirateria; chiedeva
pertanto se gli pagasse una pensione a titolo di riscatto, ed i
Fiorentini pattuirono dargli ogni anno millecinquecento fiorini d’oro.
Dei commerci e d’ogni impresa dei Fiorentini sul mare natural sede era
la città di Pisa, dove anche avevano decretato che risiedessero due
tra’ Consoli del mare, essendo ivi edifizi e pratica sufficiente alla
costruzione delle navi. Pur non ostante noi troviamo la Repubblica
nulla fermare intorno al luogo per l’arsenale, fosse gelosia di Pisa o
che veramente il Porto Pisano, già mezzo interrato, non fosse capace a
farne emporio di commerci. Al che s’accorgevano essere atto Livorno,
castello fondato prima dai Pisani a guardia delle marine loro; ma
intorno al castello per la comodità della rada crescevano gli edifizi,
e già da più anni pigliava importanza. Venduto ai Francesi, come noi
vedemmo, lo tennero essi finch’ebbero Genova; ma questa essendosi
rivendicata in libertà l’anno 1412, Livorno divenne come una briglia
che i Genovesi voleano tenere sul collo a Firenze, che non acquistasse
potenza sul mare. Ma Genova istessa pericolando bentosto per le
risorgenti ambizioni dei Visconti, chiedeva soccorso ai Fiorentini,
che da principio ponevano condizione avere Livorno per vendita; se non
che i Genovesi chiedevano prezzo che parve troppo alto, e per due anni
si fu sul tirare; infinchè Genova, più che mai stretta per terra e
per mare, vendeva Livorno per centomila fiorini d’oro alla Repubblica
di Firenze a’ 30 di giugno 1421. Portavano i patti, che in Pisa e in
Livorno godessero i Genovesi le usate franchigie, e che dovessero i
Fiorentini caricare sopra navi genovesi le merci di transito. Si fece
in Firenze grande allegrezza di quell’acquisto, pel quale compievasi
l’impresa di Pisa, e parvero aperte le vie del mare ai Fiorentini.
Avevano speso nelle guerre precedenti, secondo si trova, undici
milioni e mezzo di fiorini d’oro. «Nella guerra col Papa dal 1375 al
78, due milioni e mezzo di fiorini; nelle tre guerre col Visconti,
sette milioni e mezzo; e in quella di Pisa un milione e mezzo, senza
contare le altre minori guerre in quel frattempo.[157]» Ma non era il
credito dei libri del Monte venuto meno; cosicchè in questo correano
a impiegare i danari loro anche i signori forestieri: tra gli altri
vi ebbe depositato in quegli anni ventimila fiorini Giovanni re di
Portogallo, del quale il figlio secondogenito per nome Don Pietro, più
tardi veniva in Firenze, dopo aver corso altre provincie d’Europa:
apparve leggiadro e costumatissimo cavaliere, e fu alloggiato nel
palagio di Matteo Scolari fratello allo Spano.[158] Essendo la pace
dopo la morte di Ladislao quasi dieci anni continuata, i libri del
Monte a poco a poco si alleggerivano con venire parte delle prestanze
a restituirsi, perchè nella pace le rendite del Comune sovrabbondavano
alle spese. Le quali prestanze, sebbene riuscissero quand’erano imposte
molto gravose a’ cittadini, siccome vedremo, pure all’universale non
erano causa di povertà, perchè delle spese fatte e dei danari che
uscivano, la maggior parte ritornava spandendosi dentro al minuto
popolo, che anzi che perdervi se ne avvantaggiava.[159] Così era in
quegli anni prosperata la città, la quale s’ornava di elegantissimi
edifici e di opere d’arte a spese dei cittadini; i quali non furono
mai tanto larghi nel sovvenire co’ lasciti e con le pie fondazioni ai
bisognosi: nel che io non so se altre città pure in Italia a questa
nostra si agguagliasse. Fu allora fondato lo Spedale per i fanciulli
esposti, col nome di Santa Maria degli Innocenti, a cura dell’Arte di
Por Santa Maria, che era l’Arte della Seta, e col soccorso di donazioni
fatte da privati cittadini. Rinaldo degli Albizzi cedeva per tenue
prezzo il locale da fabbricarvi il vasto edifizio, di cui fu architetto
Filippo Brunelleschi: ebbe dal Comune i privilegi medesimi che aveva il
grande Spedale per gli infermi in Santa Maria Nuova, e prosperò assai
ne’ tempi che seguitarono.[160] Nè vuolsi omettere la grande riforma
e correzione degli Statuti del Comune di Firenze, commessa per opera
degli uffiziali del Monte, l’anno 1415, a Paolo da Castro insigne
giureconsulto ed a Bartolommeo De Volpi da Soncino, con l’assistenza
di nove notari e procuratori; grandiosa raccolta, che divisa in cinque
Libri, pigliava in quell’anno vigore di sola ed unica legge di questo
Comune, essendo aboliti gli antichi Statuti, salvo le Balíe degli anni
dopo al 1381, che furono mantenute, e salvo gli Ordini della Parte
guelfa. Venne pubblicata per le stampe non prima dell’anno 1783, quando
ella cessava di aver valore altro che storico, in tre grossi volumi
in-4; i quali sebbene contengano spesso insieme confusi gli Ordinamenti
e le Provvigioni di tempi diversi, hanno ampia materia da utilmente
consultare quanto alla struttura della Repubblica ed agli uffici ed ai
giudizi ed alle pene, e in quanto ancora ai costumi di questo popolo,
e alla ragione di molte cose che dai racconti degli scrittori non bene
vengono dichiarate.[161]


CAPITOLO VI.
GUERRA CON FILIPPO MARIA VISCONTI. — NICCOLÒ DA UZZANO, GIOVANNI DE’
MEDICI, RINALDO DEGLI ALBIZZI.[AN. 1422-1428.]

Lo stato di pochi, pel quale reggevasi allora Firenze, aveva in
quelli anni toccato il colmo di sua grandezza. Fondato nel 1382 con
l’abbassamento delle Arti minori; ordinato nell’87, dopo la prima
cacciata degli Alberti, con le leggi poste da Bardo Mancini; munito
d’armi e d’ordini più stretti da Maso degli Albizzi nel 93; avea
nel corso di quarant’anni tenuto a freno la potenza del Visconti,
felicemente condotto a fine due guerre pericolose, acquistato Pisa,
Livorno, Arezzo, Montepulciano, Cortona; che poco più era l’antico
dominio. Rimosso ogn’impaccio d’avversarii dentro, non mai tanta
quiete fu compagna di tale prosperità. Regnava l’ordine, il che
all’universale permette almeno il beneficio della libertà civile, della
quale facilmente i più si contentano, qualora non siano troppo stranati
dalle imposte. Pochi erano quelli che dominavano, e non molti furono
gli oppressi; non si abbondò nelle uccisioni, le quali producono odii
più acerbi ed inestinguibili: Maso degli Albizzi, che fu principale
autore d’ogni cosa, pare comprendesse come nei casi politici i morti
risuscitano. Un altro solo e tra’ più oscuri della casata degli
Alberti fu decapitato: ma negli anni 11 e 12 avendo trovato (così
dice il bando) che la famiglia degli Alberti aveva di nuovo tentato
congiure, una sentenza mandò esuli tutti di quella famiglia sino ai
fanciulli nelle fascie, che le altre condanne avevano risparmiato: con
essi andarono un Ricci e uno Strozzi. Che tutto ciò debba attribuirsi
all’odio personale di Maso degli Albizzi, può indursi anche dalla
circostanza, che dopo alla morte di lui cominciarono le condanne degli
Alberti a essere gradatamente revocate, o in qualche parte attenuate
con quello studio e con quell’arte di cui sono capaci i Governi che
stanno ristretti in mano di pochi.[162]
Pure quello Stato altro non era che un fatto mantenuto a grande studio
da più anni, e, come nota sapientemente Donato Giannotti, lo reggeva la
virtù dei capi, non la bontà delle leggi; violava insino alle apparenze
d’egualità cittadina, nè aveva potuto trovarsi radici giù dentro alla
stessa costituzione della città. Manteneva degli antichi ordinamenti
della Repubblica quello che avevano di peggiore, il trarre a sorte i
magistrati, ed in ciascuno fino ai sommi porre insieme gli elementi
tra sè più contrari, ma sì che sempre il maggior numero stesse con
gli uomini che reggevano, cosicchè ogni deliberazione usciva divisa
e in ogni voto era un dileggio. Le Arti minori contavano sempre in
ogni collegio un piccol numero di rappresentanti, chiamati a dare voti
inutili se ai possenti uomini non si accostassero. Ma queste e tutta
generalmente la costituzione delle Arti aveva dismesso l’antica sua
forza, e, se oso pur dirlo, la verità di sè stessa, quando sotto ai
Ciompi si aggregarono le Arti nuove, ed una ne fecero degli uomini
senza lavoro. Dipoi vedemmo giovani ricchi farsi scrivere alle
Arti minori, strumenti egregi alle corruttele, che già d’ogni parte
s’insinuavano negli artefici. Col tanto ampliarsi delle industrie già
il capitale era ogni cosa, e la ricchezza imprimeva il moto a una gran
macchina di lavoro, della quale erano gli opranti come pezzi che non
avevano vita politica di per sè. In questo secolo XV le Arti maggiori
e le minori e i loro Consoli o le Capitudini già nei congegni della
Repubblica erano fatte un nome vano; più non v’era altro che ricchi
e poveri; le borse erano fatte a mano, per ogni ufizio una borsa
propria;[163] ed in quelle della Signoria e dei Collegi e maggiori
ufizi, che ad ogni tratto si riformavano, la sola regola consisteva
anco di nome nel mantenere gli stessi uomini e famiglie ch’erano
state prima in ufizio: pigliare gli uomini prima dell’82 era allargare
il reggimento; pigliare quelli dell’87, o più ancora del 93, era un
ristringerlo più che mai. Nè il magistrato di Parte guelfa serbava
più nulla di quella sua vecchia e trasmodante potenza, dacchè fu
arnese contro ai guelfi, cioè agli uomini popolani, usato dai grandi
o dalle famiglie che in fatto ai grandi s’accostavano. Battuto nel
1378 e rottagli in mano quell’arme logora delle ammonizioni, venne in
discredito; e noi troviamo nei primi anni del quattrocento il palazzo
e i Capitani della Parte guelfa tanto essere vilipesi, che non si
trovava chi volesse nella grande solennità cittadina andare con loro
all’offerta in San Giovanni:[164] mancava una forza ed un ingombro
nella Repubblica.
La quale avrebbe pe’ nuovi tempi abbisognato di forme nuove, e quel
che non era se non accozzo quasi fortuito di pochi uomini e di famiglie
che aveano incontro famiglie ed uomini poco disuguali, quel ch’era un
fatto, avria voluto munirsi d’ordini e di leggi che forma dessero allo
Stato. Agli ottimati che lo tenevano, stava in quel secolo più che mai
dinanzi agli occhi grande esemplare la Repubblica dei Veneziani, cui
molto ambivano d’agguagliarsi, ma nulla avevano a tal fine: nulla in
Firenze si accomodava a quella forma di reggimento, la quale in Venezia
può dirsi che uscisse giù dalle viscere di quel popolo, e avesse forti
dalla natura i mezzi acconci a mantenerlo. Venezia teneva fin dalla
sua cuna tradizioni principesche nel Doge che n’era stato per più
secoli signore, e sempre re in piazza, sebbene con poca autorità nei
Consigli,[165] teneva con certe regali apparenze tuttora il popolo
in ossequio, e stava a petto degli altri principi. Venezia aveva
un patriziato di stampa latina, le cui origini si annestavano alla
istessa formazione ed a tutto il crescere d’una città per ogni conto
maravigliosa e dalle altre singolare. Avea commerci più che industrie,
e commerci d’oltremare che stanno in pochi; le possessioni dei suoi
patrizi erano le navi, quasi castelli dove un solo capo i vassalli
costringeva a dura opera e forzata. Nei marinari la stessa necessità
di salvarsi contro a pericoli incessanti impone ubbidienza continua,
docile, assoluta; tornati a casa, i marinari null’altro cercano che
riposo, nè mai riuscirono strumento facile ai tumulti. I quali in
Venezia erano vietati per fin dalla stessa struttura della città,
che dalle acque tramezzata rendea malagevoli i popolari adunamenti,
talchè a tenerla era bisogno di pochi armati; nè questi facevano alcun
pericolo allo Stato, che dentro Venezia non mai ricettava quelle
milizie forestiere di cui si valeva per le guerre e per la guardia
delle provincie di terraferma.
Firenze ebbe in tutto condizioni differenti: avea con Venezia comuni
soltanto le antiche scaturigini del sangue etrusco, e più che altrove
inalterate da innesto germanico le latine tradizioni; talchè nei due
popoli una cert’aria di fratellanza traspare tuttora. Ma il popolo di
Firenze, più mobile e arguto e più inclinato allo speculare, voleva
reggersi a democrazia; e se ora pendeva da pochi ottimati, non era per
altro che per l’impotenza naturale all’altra forma di reggimento; e il
popolo aveva più che le apparenze tuttavia sempre della sovranità. Era
pei governanti un lavoro senza fine formare le borse, poi regolare le
tratte ai magistrati ed ai collegi, ed ai consigli, ed agli ufizi di
dentro e di fuori, secondo giovasse alla parte che reggeva; le molte
pratiche e le regole che si adopravano minutissime serbavano certe
loro peculiari e vive e affatto popolari locuzioni a noi trasmesse dai
cronisti.[166]
Erano capi di quel governo Maso degli Albizzi, Gino Capponi, Niccolò da
Uzzano, co’ quali stavano Bartolommeo Valori, Matteo Castellani, Palla
Strozzi, Lorenzo Ridolfi, Nerone di Dionigi Neroni, Lapo Niccolini;
altri minori giù giù scendendo formavano come la piramide di quello
Stato. Maso degli Albizzi venne a morte l’anno 1417, forse della peste
frequente in quel secolo e che era di nuovo entrata in Firenze:[167]
nato l’anno innanzi la mortalità del 1348, avea nel vigore della
giovinezza veduto molte cose avverse, le case sue abbruciate, lo
zio decapitato, sè stesso bandito, parte de’ suoi consorti sciamati
aver preso altre armi ed altro cognome. Richiamato a casa dappoichè
l’impero fu tolto di mano ai Ciompi, tutte le cose se gli voltarono in
favore: ed egli rimase come principe nella città, tenendo quel grado
non solamente dalla ricchezza e autorità della casa, ma dalla prudenza
sua e da quella civile modestia, per la quale fu contento essere
grande più che parere; talchè il suo nome, che indi rimase lungamente
celebrato, si trova confuso infinchè egli visse a quello degli altri
più qualificati cittadini. Avea scelto per impresa un Bracco col muso
serrato, la quale vedevasi incisa sopra al suo sepolcro in San Pier
Maggiore: con essa voleva significare, che non si debba fare rumore
innanzi al tempo.[168] Il quale precetto osservava egli costantemente,
e lo Stato andava senza divisioni che apparissero: le offese che altrui
recasse velava, poi con le piacevolezze temperava; contento impedire
agli altri d’offenderlo, faceva le viste d’ignorare i mali umori i
quali egli avesse destati in altrui; gli amici dubbi provvedeva non
gli divenissero aperti nemici. Gino Capponi gli fu denunziato come se
volesse mutare lo Stato; Maso rinviava l’accusatore alla Signoria, la
quale gli fece mozzare il capo: tra quei che reggevano non parve mai
rotta l’unione, vivevano sempre tra loro familiarmente.[169]
Moriva nel 1421 anche Gino Capponi: a questi sopravvisse Niccolò da
Uzzano, sebbene già vecchio. Questi non si era levato sì alto per la
potenza della casa, la quale rimasta fino allora nei castelli, non
avea sèguito in città, ma pei servigi da lui prestati alla Repubblica
lungamente; nè credo Firenze avesse mai cittadino che lo agguagliasse
per la grande autorità dal senno di lui esercitata nei Consigli,
frenando i più audaci e a sè conciliando col mite animo gli avversi.
Girava il partito sì tosto che avesse Niccolò parlato, egli essendosi
prima inteso con gli altri potenti, dai quali poi fosse fatto vincere
il parere che insieme avessero accordato. Imperocchè «molti erano
eletti agli ufizi e pochi al governo,» questo risedendo in quanto alla
forma dei Collegi e ne’ Consigli; dove si veniva però a cose fatte
nelle botteghe, negli scrittoi e nelle cene dei maggiori cittadini;
degli altri essendo pressochè inutile la parola, concessa a mostra di
libertà.
Il quale stato della Repubblica ci viene descritto da Giovanni
Cavalcanti, autore di storie[170] che assai volte adopreremo.
Abbiamo da esso la viva pittura di un Consiglio di richiesti al quale
intervenne. «Il Gonfaloniere, uomo di dolce condizione e di grossa
pasta, avendo in principio fatta la proposta e quindi messosi a sedere,
lette le carte, chi disse una cosa e chi un’altra; erano i pareri
assai differenti: mentre la turba consigliava, Niccolò da Uzzano dormia
fortemente e nulla udiva di quelle cose, non che le intendesse. Infine,
o che il sonno avesse in lui finito il suo corso o che lo avessero
tentato perchè si svegliasse, tutto sonnolento salì alla ringhiera, ed
esposto quello che fosse da fare, gli altri confermarono il suo detto.»
Il Cavalcanti, di casa grande, era in quel numero come Capitano della
Parte guelfa e non come cittadino stimato nè accetto al Palagio, dove
pare sedesse allora la prima volta. «L’ingrata e plebea moltitudine
(così egli scrive) niente o poco ci volevano alle preminenze del Comune
in compagnia, e ci tenevano addietro, dicendo che avevamo a purgare
la potenza ed i peccati de’ nostri antichi, se peccati erano; e se
pure alcuno di noi eleggevano, sceglievano uomini disutili e molli,
che stavano ristretti agli scamuzzoli di sotto le loro mense.» Questo
l’antico nobile chiama modo tirannesco e non vivere politico nella
città di Firenze.[171]
Era nella parte popolare venuto in grandezza Giovanni dei Medici
chiamato di Bicci, non del ramo stesso dal quale uscirono Salvestro
e Vieri, ma ebbe da questo ereditata la temperanza, e fu dell’altro
meglio avveduto e più fortunato. Trovossi da giovane in povertà,
essendo la casa dei Medici battuta con le altre della parte popolare:
aveva poi fatto a sè medesimo la fortuna sua col mercatare, esercitando
l’arte del Cambio felicemente, così da essere divenuto non che il
più ricco cittadino di Firenze, forse anche d’Italia. Vecchio, ora
godevasi la grazia popolare che aveva dal nome e dalle ricchezze e che
egli nutriva con quell’accortezza che ha sede nell’animo, disposto ai
savi e miti consigli e in tutto alieno dalle violenze. Fuggendo le
sêtte, in Palagio non andava se non chiamato; e fondò così alla sua
casa una grandezza per sè non cercata. Riammesso a godere gli uffici
della Repubblica e avendo la mano nelle maggiori faccende, usciva
Gonfaloniere l’anno 1421; al che fu scritto che Niccolò da Uzzano
avesse in animo di attraversarsi: ma fatto è che il gonfalonierato suo
passava innocuo e tranquillo.[172]
Motivo alle accuse contro alla parte dominatrice erano le guerre,
le quali dicevasi da questa accese e mantenute a fini privati;
intollerabili le prestanze, che sempre cadevano disugualmente sugli
avversi e sopra il grosso dei cittadini quieti e senza parte, laddove
a’ pochi ed agli aderenti loro venivano i guadagni e la gloria delle
imprese, e il sèguito che si faceva ogni dì maggiore per le accresciute
necessità. Quindi grandissime le lagnanze. «L’uno nominava chi era
stato la cagione della sua gravezza, dicendo: e’ sa bene che mi è
impossibile pagare sì sconcia cosa: s’egli appetiva il mio luogo,
perchè non me lo chiedeva egli in vendita? e per meno del giusto pregio
glielo avrei dato. L’altro diceva: e’ m’annoverano i bocconi, e, non
che mi voglino lasciare il bisogno, ma mi niegano il necessario, solo
per indurre la mia famiglia a disonore e peccato.» I luoghi, cioè le
possessioni appetite, dovevano essere massimamente quelle dei grandi;
o almeno a queste io credo accenni con più passione il Cavalcanti, che
abbiamo noi finquì trascritto.[173] Le quali accuse molto aggravarono
per la guerra contro a Ladislao; e Maso degli Albizzi ebbe taccia di
avere condotta alla oppressione de’ suoi contrari la falsa pace che
precedette alla morte di quel Re.[174] Laonde nel 1411 fu ordinato un
altro Consiglio, ch’ebbe nome del Dugento perchè si compose di dugento
cittadini, senza del quale non si potesse far guerra nè cavalcata fuori
del dominio, non fare leghe nè confederazioni, non tenere stipendiati
più di cinquecento lance e mille cinquecento tra balestrieri e
palvesari, non pigliare in nome del Comune terra o fortezza, e non
ricevere alcuno in accomandigia e protezione. Di queste cose vinto
che fosse il partito nella Signoria, doveva proporsi al Consiglio
del Dugento; e in questo approvato pe’ due terzi almeno, andare a un
Consiglio di cento trentuno, che si componeva de’ Collegi e di altri
ufficiali e di cittadini aggiunti, e poi al Consiglio del Popolo, e
in ultimo a quello del Comune.[175] Era, come ciascun vede, un rendere
più che mai difficile ed incomodo quel già sì intricato roteggio della
Repubblica; ma erano infine gli uomini stessi che sempre deliberavano,
perchè al Consiglio del Dugento doveano essere imborsati quelli che
fossero stati essi o i padri loro ne’ maggiori uffici dopo al 1381, o
come diceano veduti, cioè tratti a quelli uffici, o solamente chiamati
abili e imborsati.
Dopo la morte di Giovanni Galeazzo era co’ Visconti cessata la guerra
per un tacito consentimento tra le due parti, e per l’impotenza nella
quale erano di rinnovellarla i due figli lasciati dal Duca in età
minore: vedemmo dipoi lo Stato disfatto, ed essi medesimi senza libertà
della persona oppressi da quegli stessi condottieri che gli tenevano
in tutela. Ma ucciso nell’anno 1412 il maggiore figlio Giovanni Maria,
portento di crudeltà in età ancora quasi imberbe, Filippo Maria pigliò
la corona ducale rialzandone assai la potenza, nè occorre a me dire
per quale serie d’iniquità: brutto del corpo e basso di animo, teneva
nel resto delle qualità del padre suo, ma senza quel tanto ch’esse
avevano di magnifico. Per vari modi e con artifizi lenti usando
l’ossequio che aveva Milano alla casa dei Visconti, e bene sapendo
valersi de’ condottieri che assai di buon grado s’acconciavano con
quella casa, aveva nell’anno 1419 racquistato al suo dominio presso
che tutte le città Lombarde, teneva assedio contro a Brescia venuta
in mano dei Veneziani, ed avea disegni sopra Genova, della quale era
Doge Tommaso di Campo Fregoso, cittadino egregio, valente ed abile
a difenderla. Per tale impresa importava al Duca non tenere ostilità
dalla Repubblica di Firenze, dove egli mandava grande ambasciata con
la richiesta di fermare con patti solenni la pace durata tra loro
più anni: e i patti erano, che nè egli s’ingerisse nelle cose di qua
della Magra e del Panaro, nè i Fiorentini al di là. A quella proposta
si divisero i pareri, e nei Consigli della Repubblica fu molto grave
disputazione;[176] prevalsero quelli che volevano la pace, avendoli
mossi l’ingordigia di Livorno, per cui giovava lasciare Genova nelle
strette. Pareva che fosse glorioso dividere i Fiorentini col Duca
la parte d’Italia la quale è posta di qua dal Po, siccome avendo
racquistata Brescia divideva egli co’ Veneziani la parte al di là:
godeansi avere libero il campo e consentito alle ambizioni cui si
erano molto i Fiorentini lasciati andare; ed ai caporioni dello Stato
pareva, qualora Filippo Maria mancasse ai patti, potere a lui più
giustificatamente muovere guerra, nè si direbbe che l’aveano fatto per
comandare e per arricchirsi. Qui pure l’esempio della Repubblica di
Venezia seduceva quelli ottimati; quasi che avessero eguale la forza
dei chiusi Consigli, e un popolo docile al pari di quello, e pingue
l’erario delle entrate d’oltremare con poco bisogno d’aggravare i
cittadini.
Siffatte ambizioni gonfiavano, dopo gli acquisti recenti, assai l’animo
dei Fiorentini, i quali tendevano a rotondarsi lo Stato: e mentre il
reame di Puglia, invaso dagli Angiovini di Provenza che Martino V vi
ebbe chiamati, invaso poi tosto dal re Alfonso d’Aragona cui s’era
Giovanna dissennatamente confidata, non potea reggersi in sè stesso;
e mentre che in quelle bruttissime guerre i due grandi condottieri
Braccio e Sforza erano implicati, finchè vi trovarono ambedue la
morte; i Fiorentini tenevansi libero il mezzo d’Italia, sul quale
avevano in quelli anni distese le braccia. Dei piccoli Principi che
allora cingevano gli Stati della Repubblica, non pochi si erano dati
ad essa in protezione. Da un lato i Marchesi del Monte Santa Maria
ed i Conti Guidi di Dovadola, non che gli ultimi resti dei Tarlati;
e in Romagna gli Alidosi, nell’Umbria i Trinci di Foligno, erano
anch’essi raccomandati della Repubblica; cui s’era dato con egual
titolo Guid’Antonio conte di Montefeltro e d’Urbino, con tutte le
terre in sua dipendenza. Aveva, siccome vedemmo, in tutela gli Appiani
di Piombino, dove ciascun anno andava per ivi amministrare il governo
uno dei più qualificati cittadini di Firenze; e molti dei rami in cui
dividevansi i Malespini di Lunigiana venivano anch’essi in dipendenza
della Repubblica; potendosi dire così veramente che ella distendesse in
fatto il dominio sino al fiume della Magra. Facevansi tali accomandigie
generalmente per cinque o sei o per dieci anni, dopo dei quali, se
nulla accadesse, venivano rinnovate.[177]
Frattanto le armi del Duca di Milano aveano costretto Genova a darsegli
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