Storia della Repubblica di Firenze v. 2/3 - 20

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abbandonati dai Veneziani, ai quali due volte era inviato Neri Capponi
a fine d’indurli a muovere in Lombardia la guerra. Al che i Veneziani
andavano lenti, di prima essendosi raffreddati con la Repubblica di
Firenze, e cominciando quasi a temere il Conte già come futuro signore
di Milano. Infine avendo i Fiorentini consentito di pagare a mezzo la
spesa della guerra che si farebbe oltrepò,[359] e il Duca trovandosi
mal provveduto di condottieri, andavano prospere le armi della Lega
fin sotto le mura di Milano. Aveva Filippo invano chiesto soccorso al
Re di Francia e al Duca di Savoia: gettavasi allora in braccio allo
Sforza, scrivendogli non volesse egli abbandonare a estrema ruina il
suocero vecchio e cieco. Lo Sforza pareva cedesse a quella preghiera,
confortato anche dal Papa e dal Re che seco praticavano accordi
segreti;[360] ed era con le armi vicino al Po, quando s’intese il
duca Filippo Maria essere morto nel suo Castello di Porta Zobia, a’
13 agosto 1447. Egli, ultimo della grande e lungamente possente Casa
dei Visconti, aveva trent’anni vessato con guerre continue l’Italia
ed i suoi sudditi e sè stesso: moriva lasciando lo Stato più angusto e
più minacciato di quello lo avesse egli dai progenitori suoi. Fu lode
sua avere con studio incessante impedito l’inalzarsi dei condottieri
dei quali era costretto servirsi; per questo vietava che il Piccinino
facesse acquisto di Stati, e cercò tenere basso lo Sforza benchè lo
avesse già designato a successore. Così la prepotenza dei condottieri
fu in qualche parte diminuita, ma senza che le armi divenissero
più sicure in mano a’ principi o alle repubbliche d’Italia. Avrebbe
Filippo con più antiveggenza adoperato, formando un esercito di fanti
suo proprio; al che il tempo non gli mancò nè il danaro, nè forse gli
uomini a ciò adatti. Allora lo Stato di Milano avrebbe avuto grandezza
solida e durevole, ed egli poteva come gli piacesse col maritaggio
della figliuola aggiugnersi le armi e la mente di Francesco Sforza, o
fare tutt’uno della sua possanza e di quella dei Duchi di Savoia: sì
l’uno e sì l’altro partito poteva essere all’Italia salvamento. Ma era
ciò troppo chiedere all’animo di Filippo Maria ed al secolo, di tali
opere incapaci. Invece la morte di lui, che parve a molti respiro, non
fece che porre di nuovo in sospeso le sorti d’Italia.
Sei mesi innanzi la morte del duca Filippo Maria Visconti era venuto
a mancare un altro Principe irrequieto e nelle imprese poco felice,
che fu il papa Eugenio IV. A lui succedette Tommaso Parentucelli da
Sarzana, e pigliò nome di Niccolò V per la riverenza ch’egli aveva
a Niccolò Albergati pio ed illustre Cardinale di Santa Croce.[361]
Pontefice buono e savio principe, s’illustrava promuovendo le arti e
le lettere da lui medesimo coltivate; grande amatore della pace, e mal
soffrendo le brighe della temporale signoria allora più che in altro
tempo mai ai Pontefici disputata, si contentava lasciare alle città
indipendenza ed ai Signori la vicaría col solo obbligo di pagare alla
romana Sede un annuo tributo riconoscendosi suoi vassalli. Vissuto ne’
primi anni in Firenze, dov’era stato ripetitore dei figli di Rinaldo
degli Albizzi e poi di Palla Strozzi, onorava la Repubblica d’un grado
uguale a quello dei Re nelle cerimonie dell’ambasceria che andava a
lui quando fu asceso alla sedia pontificale.[362] Bramoso non d’altro
che della quiete d’Italia, si diede per prima cosa a praticare che
una pace mettesse fine a quelle misere e perpetue guerre, inviando a
tale effetto in Ferrara il Cardinale Morinense, col quale convennero
gli ambasciatori di Firenze e quei di Venezia; e già dell’accordo
si cominciava a trattare,[363] quando per la morte del Duca rimasero
disciolte le pratiche e senza effetto quel buon volere.
Gli ambasciatori andati in Roma per la creazione di Niccolò V avevano
avuto incarico di recarsi a fare atto di reverenza al re Alfonso che
dimorava allora in Tivoli.[364] Ma intanto che i Commissari fiorentini
per la pace erano in Ferrara, la Signoria ebbe avviso di certi
movimenti che si vedevano sui confini inverso Roma; poi dell’essere
una mano di soldati all’improvviso entrata in Cennina, castello del
Valdarno superiore, gridando _Aragona_. Era il principio d’una guerra
che il re Alfonso muoveva contro alla Repubblica di Firenze; entrato
in Toscana con sette mila cavalli e molto numero di fanti, e avendo
cercato la congiunzione dei Senesi che solamente gli consentirono la
vettovaglia pe’ suoi soldati, volse il cammino inverso Volterra, ed
occupati Ripomarance ed altri castelli, parea disegnasse per la Val
d’Era entrare nel Pisano;[365] ma invece poneva assedio a Campiglia,
dove incontrata difesa valida, andò con l’aiuto dei Conti della
Gherardesca alla espugnazione d’altre terre della Maremma di Pisa.
Quindi, per essere entrato l’inverno, poneva il campo sulla marina,
tenendo il colle dove in antico era la città di Populonia: giace
quivi appresso Piombino, sul quale Alfonso avea gran disegni, ed io
credo che fosse il fine di tutta la guerra. Del Reame di Napoli era
debolezza il non poterlo difendere che fuori del Reame, come si vidde
in ogni età pei tanti eserciti che appena entrativi lo ebbero subito
conquistato. E Alfonso, ch’era uomo di grandi concetti, io non dubito
cercasse di farsi uno scalo nell’Italia superiore, al quale effetto
gli era Piombino luogo tra gli altri opportunissimo. Rinaldo Orsino ne
aveva allora la signoria, tenendo in moglie una donna degli Appiani;
uomo di guerra, chiudea le porte al Re infestandogli le provvigioni
per via di mare. Pareva la guerra dovere essere molto grossa: capitani
per la Repubblica di Firenze erano Gismondo Malatesta e Federigo da
Montefeltro conte d’Urbino, che si rendè chiaro nelle arti di guerra
e di pace fra tutti i Principi di quel secolo; discordi tra loro,
gli contenne la prudenza dei due già bene sperimentati commissari
Neri Capponi, che prima era andato a Venezia,[366] e Bernardetto de’
Medici.[367] Restaurarono, sebbene si fosse nel cuore del verno,
la guerra e riebbero molte perdute castella in quel di Pisa e di
Volterra, essendosi Alfonso ritratto a svernare nelle terre della
Chiesa; ma in quel frattempo tolse ai Fiorentini Castiglione della
Pescaia, che riuscì perdita molto grave. Venuto innanzi a primavera,
si affortificava sotto Piombino, e teneva il mare dal quale venivano
all’esercito i fornimenti; per il che la Repubblica armò galere, ma
per miseria (come scrive Neri) poche e non bene in punto da stare a
petto a quelle di Aragona. Pure condussero in Piombino trecento buoni
soldati e polvere ed armi: quattro però, che recavano le provvigioni
all’esercito, furono prese o sbaragliate da quelle del Re, le quali in
quel mezzo aveano pigliato l’isola del Giglio. Per terra nessuna delle
due parti s’arrischiava frattanto a combattere; e tutte due stavano
male, il Re avendo attorno l’esercito fiorentino sparso nelle macchie
di Campiglia,[368] e questo soffrendo per la mancanza del vino, ristoro
ai soldati necessario in quei luoghi, l’estate essendo sopravvenuta.
Laonde si venne ai ragionamenti di pace, ed a tal fine Bernardetto si
recò al campo del Re; ma questi voleva innanzi tutto che la Repubblica
gli abbandonasse Piombino; il che essendo recato a Firenze, molti
parevano consentire. Ma Neri, venuto dal campo, mostrò quella pratica
essere un tizzone di fuoco che da qual parte si pigliasse bruciava la
mano: pericoloso lo stare in campo, dove i soldati già per l’inopia si
sbandavano: ma il Re con la pace acquisterebbe reputazione e Piombino;
e rimanendo (Neri disse) vicino nostro, poteva torre a noi tutto il
contado di Pisa per la mala disposizione del paese; e tolto il contado,
non saremmo noi atti a difendere Pisa, essendo lui potente in mare ed
in terra. Fu vinto per vent’otto fave sopra trentasette, non venire a
pace se non si salvasse il Signore di Piombino; il quale pigliarono in
accomandigia, dandogli mille cinquecento fiorini al mese. Infine il Re,
che aveva provato con molte bombarde grosse e mangani e con replicato
assalto d’avere Piombino per forza, facendo quei di dentro buona
difesa, e molti essendo infermi dei suoi o morti, e avendo i cavalli
in disordine, deliberò partirsi innanzi giugnesse Taddeo dei Manfredi
da Faenza di nuovo assoldato dai Fiorentini con mille dugento cavalli
e dugento fanti. Tornò nel Reame Alfonso come rotto e malcontento, e
promettendo con molte minacce maggiore assalto a primavera. Ma l’anno
seguente 1449 passò in Toscana senza guerra.[369]
La successione del duca Filippo Maria, sebbene avesse pretendenti
i Duchi di Savoia ed i Reali di Francia ed il re Alfonso, tutti
aspettavano che andasse a Francesco Sforza.[370] Ma la città di
Milano volle fare prova di governarsi da sè per via d’un Senato di
nobili avvezzi alle albagìe dei castelli ed all’ossequio delle Corti;
e chiamandosi Repubblica, mandò dicendo ai collegati che, morto il
Duca, era cessata tra essa e loro ogni cagione di guerra. Intanto però
le altre città del Ducato, una volta che Milano s’era fatta libera,
diceano venire di conseguenza che tornassero libere anch’esse: così
lo Stato si discioglieva, e le cose nella Lombardia quasi parevano
ricondursi al punto dov’erano tre secoli addietro. In questo Venezia,
dopo avere trastullato i Milanesi più tempo, rifiutò la pace,
deposto ogni velo alle ambizioni; ed io per me credo quel patriziato
orgoglioso, quanto più sentiva avere in sè del sangue latino, tanto
più si reputasse chiamato a raccogliere in questa Italia, divisa ed
incauta, l’eredità dell’antica Roma. Parve male al Conte Francesco
che il premio sperato gli venisse innanzi quando egli era men atto a
ghermirlo; ma pure volendo frattanto legare a sè i Milanesi in quel
modo che poteva, consentì ad essere Capitano di quella Repubblica.
Piacenza e Lodi s’erano date ai Veneziani: lo Sforza avendo a sè tirato
con altri condottieri i due Piccinini, rivali perpetui delle armi
sue, ed assicuratosi di Parma, costrinse il nemico di là dal fiume
dell’Adda. Pavia, antica città regale e insofferente d’ubbidire ai
Milanesi, accettò lo Sforza per suo signore; questo era un primo passo
e un segnale che egli dava. Non volle commettersi con le armi francesi
venute innanzi ma in poco numero, e mandò contr’esse Bartolommeo
Colleoni, già chiaro in guerra, che facilmente potè respingerle; ed
egli intanto andato della persona sua contro a Piacenza, con la forza
delle artiglierie l’espugnò, avendola poi abbandonata a saccheggio
crudele inaudito, e tale che per sempre ne fu disertata quella misera
città. Quindi recatosi oltre l’Adda ed afforzatosi in Caravaggio,
ottenne per l’imprudenza dei Veneziani intera vittoria, prima avendo
bruciato un grande naviglio di quella Repubblica nel fiume del Po.
Venezia così pagava la pena de’ suoi scaltrimenti, ma non gli cessava.
Sapea la Repubblica dei Milanesi avere trattati col Duca di Savoia,
col re Alfonso e con quel di Francia: d’Alfonso temeva che la guerra
male riuscitagli in Maremma volgesse sul Po; i quali timori allo
Sforza erano comuni, com’era comune la necessità delle cautele, perchè
la vittoria lo aveva affralito, dei condottieri che aveva seco non
si fidava; ed il Senato dei Veneziani poteva credere, con dare a lui
mano, dividere poi le spoglie, e ridurre la Lombardia in brani, se
torre di mano allo Sforza non potevano l’eredità dei Visconti. Quegli,
fidando in sè stesso, consentiva intanto d’avere Milano con l’armi e
con l’oro della Repubblica di Venezia, e innanzi la fine del 1448 un
trattato fu conchiuso in Rivoltella a questo effetto. I Milanesi a
grande ragione lui chiamarono traditore, ma lo Sforza andava diritto
allo scopo; Piacenza, Tortona, Alessandria, Parma erano venute in
sue mani, e poi Vigevano per lungo assalto fortemente sostenuto dai
cittadini; il Colleoni aveva rotto i soldati di Savoia, sebbene a
combattere più duri di quello che fossero gli Italiani. Ma la guerra
tirava in lungo, e le forze della grande città di Milano non erano
esauste: parve allora ai Veneziani che fosse da cogliere il punto, e di
nuovo mutando lato ed accostandosi ai Milanesi, notificarono al Conte
Francesco un trattato al quale essi lo consigliavano di accedere, per
cui ritenendo egli Pavia e Cremona e tutti gli Stati sulla diritta
del Po, alla Repubblica milanese rimarrebbero Como e Lodi, e quel che
avanzasse tra l’Adda e il Ticino dell’antico principato dei Visconti.
Il Senato di Venezia mostrò questa volta troppo allo scoperto quel
ch’egli volesse; e il Conte, vincendolo d’accorgimento, facea le
viste di acconsentire, lasciando anche i Veneziani impadronirsi di
Crema, secondo era nel trattato: raccolte le genti a svernare in buoni
alloggiamenti, lasciavasi aperti gli sbocchi a Milano dov’egli impediva
l’entrata dei viveri. Dentro erano grandi le divisioni; alcuni nobili,
ch’erano appellati ghibellini, volevano porre un governo temperato in
mano allo Sforza, ma furono uccisi essi e poi lo stesso ambasciatore
veneziano per sedizione. Allora una turba, che si chiamò popolo, invase
il governo ma tenere non lo sapeva; e già la fame avendo condotti a
disperazione i cittadini tumultuanti, fu ordinato deliberare in grande
congrega sopra le sorti della città: gridarono tutti piuttosto al Gran
Turco o al demonio che allo Sforza. Ma quando un Gaspare da Vimercate
osò pronunziare questo nome che teneva da prima in serbo, e dimostrato
non essere altro da fare, o altrimenti Milano sarebbe mancipio a
Venezia; tutti consentirono. Il giorno dipoi, ch’era degli ultimi del
febbraio 1450, sebbene avesse Ambrogio Trivulzio opposta invano qualche
resistenza sulle porte, faceva lo Sforza entrare in Milano i suoi
soldati carichi di pane che per le vie distribuivano: v’entrava egli
stesso nei giorni seguenti, e tra feste e plausi dei satolli cittadini
facea proclamarsi Duca di Milano.[371]


CAPITOLO III.
AMICIZIA CON FRANCESCO SFORZA DUCA DI MILANO. — NUOVA BALÌA E NUOVO
CATASTO. — VECCHIEZZA E MORTE DI COSIMO DE’ MEDICI. [AN. 1450-1464.]

In tutti i fatti che precederono troviamo, al dire degli storici
e nelle memorie di quel tempo, Cosimo dei Medici avere tenuto con
Francesco Sforza costante amicizia, ma nei Consigli della Repubblica
non sempre palese, e quindi sospetta popolarmente o mal gradita.
Quando poco innanzi la morte del duca Filippo Maria faceva lo Sforza
deliberazione di soccorrerlo, rompendo la fede alla Repubblica di
Venezia, racconta l’istoriografo di lui Giovanni Simonetta, che lo
avesse molto esortato a quel partito Cosimo, al quale solea confidarsi
delle cose più segrete, molto ascoltando i suoi consigli.[372] E già
prima di quel tempo troviamo sussidi mandati allo Sforza, ma scarsi
perchè difficili a vincere nelle pubbliche deliberazioni; talvolta
dal Medici dati in segreto e privatamente, o con rivalse sul pubblico
erario nel quale aveva egli le mani. Certo è, che tra due i quali
intendevano a signoria personale era concordia necessaria; e colui che
aveva attraversato in Firenze e infine distrutto un governo d’Ottimati,
non potea molto essere amico alla Repubblica di Venezia: la quale
in quegli anni avendo dismesso con l’arengo (arringo) sin’anche le
ultime apparenze popolari, sdegnava l’antica appellazione di Comune,
sè stessa chiamando la Signoria di Venezia, e tutto lo Stato a lei
suddito, il dominio.[373] Queste erano cose che state sarebbero odiose
in Firenze, e Cosimo andava per opposta via: ma oltre alla essenziale
contrarietà del principio che informava il Governo suo, Venezia con le
armi invadeva quelle che avevano nome d’italiche libertà; nè termine
si vedeva alle ambizioni di lei, siccome non era in quella perenne
diuturnità di volere, la quale a Venezia non cessava mai per caso di
morte o per mutazione di signore.
Per questo non voglio io a Cosimo fare colpa se Francesco Sforza
gli parve essere utile contrappeso, atto a contenere in Lombardia
la minaccia delle venete aggressioni. L’Italia oramai più non aveva
nè guelfi amici e fautori delle popolari libertà, nè Papi nè Re di
Puglia che a quelle si dicessero patroni; nè più all’incontro avea
ghibellini che fossero braccio agl’Imperatori di Germania. Ma quante
città o quanti popoli si tenessero tuttavia liberi, non più essendo
tra loro amicati o non più divisi da un grande pensiero a molti comune,
temevano l’uno dell’altro le forze, combattendo chiunque mirasse alla
formazione di uno Stato che soggiogasse i piccoli e sopra tutti gli
altri prevalesse. Di questo pareva che fosse capace sopra ad ogni altro
Venezia: poi v’era Napoli, che per cento anni partita in sè stessa,
ora alle mani di un Re forte ambiva conquiste nel cuore d’Italia; e già
si erano vedute spuntare nei Papi le ambizioni principesche. In mezzo
a questi Francesco Sforza, grande capitano, prudente signore, parea
necessario a quell’equilibrio che allora formava la politica sapienza
dei migliori uomini in Italia.
Affermano tutti, che a Neri Capponi spiacesse quel torsi dall’amicizia
dei Veneziani e fare in Italia grande lo Sforza; questa opposizione
di Neri ai consigli i quali prevalsero, accennata da Giovanni
Cavalcanti,[374] veniva illustrata con amplie parole dal Machiavelli.
Bene vedevano cotesti ultimi difensori d’una Repubblica temperata,
quella essere piuttosto consorteria che amicizia, ed a Cosimo piacere
come un aiuto a conseguire meno impedita dominazione. Sappiamo che il
buono Giannozzo Manetti stava ancor egli perchè si mantenesse l’antica
lega coi Veneziani,[375] la quale non era nelle apparenze sciolta per
anche; e la Repubblica di Firenze ad essi mandava dopo la rotta di
Caravaggio due mila cavalli, che nulla fecero; ed è poi da dire, che
subito dopo Venezia e il Conte si accordarono. E Neri, che avrebbe
voluto salvare quanto più di libertà fosse possibile, accettava poi le
condizioni che i tempi facevano: la forza sua era nella politica di
fuori; dentro, al bisogno si arrendeva. Ricusò d’andare ambasciatore
allo Sforza quando egli muoveva in aiuto di Filippo;[376] ma due
anni dopo abbiamo da certi documenti essere egli stato fautore del
dare sussidi al Conte contro ai Milanesi, in ciò accostandosi ai più
stretti amici di Cosimo, sebbene degli altri il maggior numero si
opponesse.[377]
Cosimo andava, quanto era in lui, diritto al segno: ma non è da
credere che fosse egli padrone della Repubblica, dove i Consigli
a voti liberi procedevano; e lo studio faticoso da lui adoperato
a guadagnarseli non bastava sempre, o le pubbliche lagnanze lui
facevano circospetto. Odiosissime riuscivano le prestanze imposte a
fine di somministrare danari allo Sforza insino da quando venivano
dati perch’egli continuasse a tiranneggiare nella Marca; e molto più
poi quando nell’anno 1447 si voltava questi alla difesa del Visconti,
nemico antichissimo della Repubblica di Firenze. Troviamo gravezze fino
a ventiquattro per volta, distribuite ad arbitrio dei ponitori: Cosimo
anticipava sovente il danaro, rifacendosi sulle prestanze o sulle
entrate della Repubblica. Lo Sforza chiedeva trentamila ducati per
passare in Lombardia; i Veneziani si opponevano, e ne’ Consigli non si
vinceva. Cosimo fece porre una legge perchè si riscuotessero i crediti
arretrati del Comune, e i deputati a ciò avevano a collo i trentamila
ducati che furono messi fuori da Cosimo rimasto padrone della
riscossione; e le casse delle porte si andavano a vuotare in casa sua.
Più tardi aveva egli imprestato all’amico suo cinquantamila fiorini;
ottenne che fossero a lui donati dalla Repubblica, dicendo sarebbe
quella chiesta il fine di tutte le chieste;[378] e siffatti modi più
altre volte si ripetevano. Ma quando una legge era proposta d’immunità
a chi tornasse e che venisse a stare in Firenze pagando quattro
fiorini l’anno a testa, si oppose Cosimo, allegando che sarebbero
tornati i fuorusciti nemici suoi; e quella legge, che pure a molti
pareva buona, fu rigettata. Più che avanzava egli nell’arbitrio e più
si rendeva odioso a molti: dicevano ch’egli si valeva del danaro per
inalzare edifizi, o sotto pretesto di religiosa pietà o per sua propria
magnificenza:[379] una notte gli fu imbrattato di sangue l’uscio di
casa sua.
Per assicurarsi dello Stato, facevano sempre il Gonfaloniere a mano ed
anche i Priori. Abbiamo un esempio dei modi tenuti allora in Palagio,
che giova esporre succintamente. Per gli ultimi due mesi dell’anno
1448 erano rimasti d’accordo che fosse Gonfaloniere Agnolo Acciaioli,
uno dei primi del reggimento. Sapeasi volere egli promuovere dure cose
d’esilii e d’altro; e Neri di Gino, ch’era uno degli accoppiatori,
voleva il contrario. Mancavano soli due Priori a fare; disse Neri:
«Io voglio esser io, o uno di chi mi possa fidare.» Fu eletto Pandolfo
Pandolfini, giovane di grande animo. S’accozzava egli nel priorato con
tre altri ch’erano dei migliori, i quali insieme segretamente, perchè i
Priori molto erano vegliati, sagramentarono di non rendere mai le fave
loro se non d’accordo. Una mattina il Gonfaloniere, fatta serrare la
porta del Palagio, propose una legge, che niun partito valesse se il
Gonfaloniere non fosse presente e non ci fosse il voto suo: Pandolfo
si oppose, e perchè dei nove voti ce ne volevano sei a vincerlo, stando
ferme le quattro fave giurate, lo impedivano. Vinto a caso, e approvato
da’ Collegi, andò al Consiglio, e quivi i medesimi oprarono fosse
imbiancato, sebbene il Gonfaloniere facesse più volte rimettere il
partito. Ma non posarono gli autori di quel disegno, e praticavano che
molti fossero confinati; diceano volere acconciare le cose in modo che
non ci avessino più a pensare: del che era grandissima nella città la
paura, e mandavano in Palagio a supplicare i quattro perchè tenessero
il fermo: vi andava più volte il buon libraio Vespasiano da Bisticci,
dal quale abbiamo questo ragguaglio; e dice che molti furono salvati
allora, e che fu gran beneficio alla città recato dai quattro onesti
Priori.[380] E vero è poi che per cosiffatte resistenze i cittadini
tra loro non si nimicavano tanto da rompere quell’usata bonarietà di
costume che non mai cessava nella città popolana. L’Acciaioli e Cosimo
stesso rimasero amici al Pandolfini; e si manteneva tra essi e Neri
quella unione della quale fu riprova un fatto che abbiamo lasciato
addietro, ma che ora giova un poco a minuto narrare, per indi tornare
al filo dell’istoria nostra.
Ucciso Annibale Bentivoglio, ma rimasta vincitrice (come s’è detto)
la parte sua, grande era in Bologna la devozione a quella Casa,
della quale rimaneva solo un fanciullo di sei anni. Ora avvenne che
trovandosi ivi Francesco che era stato Conte di Poppi, raccontava
come venti anni prima Ercole Bentivogli zio d’Annibale, dimorando in
Casentino, avesse avuto dimestichezza con la moglie d’un Agnolo da
Cascese, dalla quale nacque un figlio di nome Santi, che tutti dicevano
essere figlio d’Ercole, e la somiglianza ciò confermava; tantochè
essendo ito a Bologna il fanciullo quando vi si riduceva il Conte
di Poppi, Annibale gli aveva detto _tu sei de’ nostri_. Essendo poi
Agnolo e la moglie sua venuti a morte, il fanciullo tornò a Firenze,
dove esercitava l’arte della lana in una bottega nella quale Antonio
da Cascese suo zio gli avea fatto un capitale di fiorini trecento e
lo avea molto raccomandato a Neri Capponi. A questi ne fece le prime
parole Agnolo Acciaioli un giorno mentre erano insieme a diporto,
domandandogli se avesse egli bramato resuscitare, qualora gli fosse
ciò stato possibile, Annibale Bentivoglio ch’era tanto amico suo. E
pigliando Neri la cosa in motteggio, l’altro gli espose tutto il fatto,
e gli disse come la parte bentivogliesca essendo rimasta senza capo,
taluni in Bologna erano entrati in gran desiderio d’avere questo Santi
perchè reggesse la parte, ed avesse cura del fanciullo sinchè non fosse
in età. Rispose Neri ch’ell’era cosa molto da considerare sì rispetto
al giovane e sì per sè stessa: ma essendo molti venuti a vedere Santi
e accertatisi della somiglianza e guardandolo con affezione grande,
consentiva Neri di farne motto a lui, che a prima giunta se ne turbò
per la vergogna della madre. Ma i Bolognesi facendo maggiori istanze,
furono insieme Agnolo e Neri con Santi in casa di Cosimo dei Medici,
il quale dopo altri ragionamenti disse al giovane: «Vedi, se tu sei
figliolo d’Ercole, la natura ti tira in Bologna alle grandi cose; ma
se tu sei figliolo d’Agnolo da Cascese, tu te ne starai in San Martino
alla bottega: però io non ti conforto nè ti sconforto ad andare,
ma dove ti tira l’animo; sarà quella vera sentenza di chi tu sia
figliolo.» Soprassederono più mesi e aveano rimessa la cosa in Neri,
il quale quanto più larghezza gli concedevano, tanto più sentendosi
obbligato a dargli il consiglio fedele e migliore, tenea la sentenza
sospesa. Ma infine essendo Neri per le ambasciate a Venezia passato
più volte da Bologna, lo pressavano fino a dire che se il giovane
venisse loro negato, lo toglierebbero per forza. Neri, accertatosi del
loro buon animo, confortò Santi a commettersi alla fortuna e andare,
dicendogli: «Io che sono in Firenze non dei minori e da dovermi
contentare quanto niun altro cittadino, e anche ben voluto; se mi
volessero in quel luogo non come figliolo d’Ercole ma come figliolo
di Gino, io v’anderei ad essere loro partigiano e capo; perchè ivi si
poteva dire d’avere a disporre a suo volere di quella città, la quale
era una delle otto maggiori d’Italia; e a Firenze si aveva a pregare
con grande umiltà a volere una piccola cosa non che una grande.»
Mandarono quindi con grande onore a pigliarlo, e menatolo a Bologna con
festa, lo misero in casa d’Annibale ed al governo della città, il quale
poi tenne sino alla morte felicemente.[381]
Sì tosto come Francesco Sforza fu entrato al possesso dello Stato
di Milano, la Repubblica di Firenze gli inviava quattro de’ suoi
maggiori cittadini a rallegrarsi del grande acquisto: erano con
Piero di Cosimo dei Medici Neri Capponi, Luca Pitti e Dietisalvi di
Nerone. Scambiate parole com’era usanza festive, e oltre all’usanza
per quella volta sincere; gli altri tornandosene, Piero e Neri ebbero
incarico di recarsi a Venezia. Quivi era di già residente Giannozzo
Manetti, il quale sembrando in quelle congiunture troppo amorevole
al Senato, parve bene mandare quei due che a lui s’aggiugnessero. Le
apparenze di amistà che tuttavia si mantenevano tra le due Repubbliche
covavano semi di forte dissidio per gli scambievoli malcontenti:
Cosimo in Firenze antivedeva che bentosto tra’ Veneziani e il Duca
sarebbe guerra, nella quale era egli risoluto di tenere la parte di
questo; ed i Veneziani ciò sapendo, cercavano indurre i Fiorentini
ad una lega con essi loro, tardi pentiti dell’averli prima col falso
procedere da sè alienati e per quei modi avere lo Sforza fatto signore
di Lombardia. La quale pratica molto essendo avviata con Giannozzo, e
perchè a Firenze nel Palagio non si poteva ottenere che si rompesse,
Cosimo scrisse al figlio privatamente, che senza indugio si partisse
da Venezia:[382] Neri per l’usata circospezione e Giannozzo di mala
voglia lo seguitarono, cominciando infin da quel giorno apertamente a
dividersi le due Repubbliche, le quali intanto ciascuna per sè avevano
fatta pace con Alfonso. Venezia stringeva con lui durevole amicizia;
ma la pace coi Fiorentini non fu che tregua da essi accettata ad inique
condizioni, rimanendo Alfonso in possesso di Castiglione della Pescaia
che gli apriva per la via del mare l’entrata in Toscana, ed il Signore
di Piombino facendosi a lui vassallo con dargli in segno d’omaggio
ciaschedun anno una coppa d’oro.[383]
Veniva in Italia come a dislocarsi tutto l’ordine delle alleanze
tenute fin qui; e i singoli Stati, prima di entrare in guerra tra loro,
s’adopravano a riconoscersi, continuo essendo per tutto quell’anno il
vario muovere degli ambasciatori da un capo all’altro dell’Italia.
Venezia, che s’era oltrechè ad Alfonso collegata al Duca di Savoia
ed al Marchese di Monferrato, richiedeva di lega i Senesi: cercava in
Bologna mutare lo Stato per una congiura scoppiata in città, e da Santi
Bentivoglio compressa non senza combattere; egli mostrandosi degno del
grado a cui lo ebbe per modi sì strani alzato il gioco della fortuna.
Le quali pratiche essendo intese contro al Duca ed ai Fiorentini,
questi da principio mandarono loro legati a Venezia, che ivi non furono
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