Storia della Repubblica di Firenze v. 2/3 - 23

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gran divisione, il Papa essendone adirato forte; insinchè alla fine e
dopo lunghe pratiche n’ebbe ragione, ed egli si tenne almen per allora
neutrale in mezzo alle divisioni che pur minacciavano per tutta Italia
di manifestarsi. Imperocchè tra’ Signori di Milano e la Repubblica di
Venezia, se guerra non era, mantenevasi costante l’inimicizia: vedeano
quelli dalle finestre del loro castello sventolare la bandiera di
San Marco sulle mura di Brescia e di Bergamo, freno e minaccia alla
potenza loro. I Veneziani mal sofferivano che le emule navi di Genova
andassero congiunte agli eserciti di Lombardia, sempre avendo l’animo
all’acquisto di questa provincia. In Romagna con la possessione di
Ravenna tenevano come stretta Ferrara, obbligando quel Signore, e seco
più altri minori Principi, a seguire la parte loro. Bologna intanto,
sotto al governo de’ Bentivogli, stava con lo Sforza e coi Fiorentini:
tra queste due parti dividevasi l’Italia, e guerra poteva uscirne ogni
tratto, se quella col Turco non avesse trattenuto le male nascoste
cupidigie del Senato di Venezia. Su questo fondavano gli avversi al
Medici le speranze loro, mutare lo stato della Repubblica di Firenze
essendo lasciare lo Sforza solo, e non temendo essi di rompere quella
sorta d’equilibrio per la quale teneasi allora che stesse ferma la pace
d’Italia.
A questo effetto andavano messi innanzi e indietro, segreti e palesi:
fine d’ogni cosa era, una lega con la Repubblica di Venezia, la quale
non si volendo scuoprire per allora sinchè non avesse fatta la pace
col Turco, si tenevano le pratiche personalmente con Bartolommeo
Colleoni da Bergamo, il quale essendo in sul finire della condotta
co’ Veneziani, avrebbe in suo nome fatto quell’impresa. Trattavano
anche di far venire in Italia il duca Giovanni d’Angiò, quando uopo
fosse di contenere il re Ferrando mentre che i Veneziani, entrati
nel ballo, opprimessero lo Sforza; al che si credevano anche soli
di potere essere sufficienti. Conduceva queste pratiche Dietisalvi
Neroni, intanto che Agnolo Acciaioli in nome di tutti scriveva al duca
Borso d’Este richiedendogli consigli e aiuti, siccome quello che assai
mostravasi ad essi amico. Rispose il Duca offrendosi andare, quando
tempo fosse, co’ Veneziani, e che darebbe con le genti sue frattanto
la mano alla mutazione dello Stato.[434] Era il mese d’agosto, e
la Signoria che allora sedeva incerta e divisa, essendo prossima a
cessare, poteva uscirne un’altra a Piero tutta amica; nella quale
dubbiezza, e fidati sopra l’aiuto di Modena e accesi molto dalle
parole di Niccolò Soderini, fermarono insieme un obbligo terribile
innanzi a Dio e innanzi agli uomini e molto segreto, al quale accenna,
ma senza più dichiararsi, lo stesso Agnolo Acciaioli in una sua
lettera.[435] Chiamarono in Toscana subito le genti del Duca; il quale
con ottocento cavalli, due mila fanti e mille balestrieri, mandava
Ercole suo fratello: e questi era pervenuto insino a Fiumalbo, quando
per lettere di Giovanni Bentivogli ne giunse avviso a Piero dei Medici
che villeggiava infermo a Careggi. Era nel Bolognese un capitano del
Duca di Milano, al quale in quella sorpresa Piero tostamente scrisse,
comune essere il pericolo, comune dovere essere anche la difesa; e
quegli, come erano le intenzioni del Duca, scendeva con le sue genti
a Firenzuola. Intanto Piero si faceva quel giorno stesso portare a
Firenze, aveva la moglie seco e molti armati: si trova scritto presso
che da tutti, e variamente narrato, che i congiurati lo aspettassero
a Sant’Antonio del Vescovo per ammazzarlo; ma che avendo Piero tenuto
altra via occulta ed insolita, scampasse la vita. Al che gli giovava,
secondo taluno, la sagacità del figlio Lorenzo, che andato francamente
per l’usata via, teneva a bada gli appostati col dare ad intendere che
il padre lo seguitasse.[436] E intanto Piero, giunto a casa, facea dal
contado venire armati segretamente in Firenze: quei della contraria
parte mandarono anch’essi per gli amici loro: la città era piena di
fanterie, ed in gran pericolo.
Piero de’ Medici, venuto in Firenze, ragunava gli amici e ordinavasi
alla difesa; chiamato essendo quindi dalla Signoria, mandava in Palagio
i due suoi figli Lorenzo e Giuliano con le lettere del Bentivoglio,
che annunziavano l’avanzarsi già presso a Toscana d’Ercole da Este.
Al quale i Signori mandato avendo un Commissario perchè si fermasse,
ordinarono a ciascuno posare le armi, e che le discordie per vie
civili si componessero. La parte di Luca, perchè a lei pareva essere
più debole, mostrò consentire: Piero, licenziati alcuni di fuori ma
tenendo armati gli amici di dentro, faceva nascondere nelle sue case
ed all’intorno assai numero di soldati. Volendo frattanto che i nemici
si scuoprissero e che gli amici incerti o deboli si obbligassero,
siccome colui che in città stracca sapeva bene il maggior numero essere
i paurosi, metteva in giro dei fogli su’ quali chi a lui aderiva si
dovesse sottoscrivere; e tanto era incerta la fede degli uomini, che
taluni apposero in quelle liste i nomi loro che prima gli avevano in
su’ registri dei congiurati. Venivano a Piero anche fanti dal contado,
e molti ne aveano mandati da Figline i Serristori. La parte contraria,
che aveva più capi, andava tarda nelle provvisioni: teneano consigli
senza effetto nelle case di Luca Pitti; dove il Soderini avendo messo
partito, che senza indugio si muovesse contro a Piero e si levasse la
plebe a rumore, non ebbe seguaci; contrapponendosi alle accese parole
di lui, più vivo degli altri, Dietisalvi Neroni, perchè avendo la sua
casa prossima a quella dei Medici, temeva la plebe, mossa una volta,
non si desse a saccheggiare anche lui. Ma Luca Pitti, cessando ad un
tratto dall’usata sua temerità, già era tirato in contraria parte dalle
seduzioni di Piero, che a lui per mezzo di amici comuni prometteva
maggiore stato di quello che era Luca solito d’avere a tempo di Cosimo;
e che lo terrebbe in luogo di padre, facendogli anche brillare sugli
occhi il maritaggio di una figliuola sua col giovine Lorenzo. È certo
che Piero, il quale dai consigli di sangue ripugnava e dei partiti
animosi non era capace, usando le arti ch’erano vecchie in casa sua,
ottenne che Luca lo andasse a trovare giacente nel letto, quivi in
presenza dei figli facendogli patti i quali sapeva che tosto verrebbero
a cadere.
Intanto giugneva il dì 28 d’agosto nel quale doveansi fare le tratte;
la nuova Signoria con Ruberto Lioni Gonfaloniere essendo uscita (non
senza qualche sospetto di frode) amica ai Medici, si consumavano i
giorni seguenti ad allestire le cose: tosto ai due settembre Piero
essendosi assicurato nella città, della quale aveva fatto chiudere la
porta a San Gallo ed arrecarsi le chiavi a casa, metteva in piazza
grande numero d’armati ch’aveano per capi due della famiglia Bardi
d’onde era uscita la madre di Piero.[437] Suonò la campana, e il
popolo fu chiamato in sulla Piazza a parlamento, nel quale trovasi
che intervenissero Luca Pitti di già guadagnato; e Dietisalvi, che si
studiava in ogni evento restare a galla. Ma presa Balìa e data questa
a’ 6 settembre a otto cittadini insieme col Capitano del popolo,
uscirono tosto i nuovi provvedimenti. Primo dei quali fu l’ordinare che
per dieci anni le borse del Priorato si tenessero a mano, ed appresso
furono letti i nomi dei confinati: l’Acciaioli con i figliuoli a
Barletta, il Neroni con due fratelli in Sicilia, e Niccolò Soderini
in Provenza, tutti per venti anni; un Gualtieri Panciatichi, per dieci
fuori del dominio. La domenica seguente, mentre s’allestiva una grande
processione e i Magistrati erano in Duomo ad ascoltare la messa, gli
Otto di Balìa faceano pigliare per la città dai famigli loro più altri
che avevano nel loro animo già proscritti. Nella chiesa stessa metteano
le mani addosso ad un Nardi; il quale essendosi rifuggito ai piedi
del Gonfaloniere suo parente, questi tenendoselo sempre appresso lo
conduceva salvo in Palagio. Uno dei Capitani di Parte guelfa, Guido
Bonciani, fu tratto dalla schiera dei suoi compagni e messo in carcere
con grande oltraggio a quel magistrato.[438] Con molti altri cittadini
tutti i parenti di Dietisalvi Neroni andarono presi: era di quella casa
l’Arcivescovo di Firenze, il quale si elesse in Roma esilio volontario.
Luca Pitti, con sua gran vergogna rimasto in patria spregiato ed
abietto, perdè quelle vane mostre di potenza le quali fruttavano a
lui più che altro privati favori e guadagno di ricchezze: i doni già
fattigli veniano richiesti, ora allegando ch’erano prestiti: il Palagio
ch’egli innalzava restò imperfetto, sino a che i Medici per farsene
reggia non lo compiessero: e Luca finiva oscura la vita, senza che
l’istoria nemmeno ricordi l’estremo suo giorno.[439]
I principali degli sbanditi, per non avere osservato il confine ed
essere andati a Venezia, ebbero condanna di ribelli: quella Repubblica
assegnava a Niccolò Soderini, stante la povertà sua, cento ducati al
mese.[440] Agnolo Acciaioli, ch’avea sperato salvarsi e poteva forse
perchè meno intinto degli altri e per gli antichi suoi meriti verso la
Casa dei Medici, avea da Siena scritto a Piero con parole dignitose
mostrandogli essere dell’onor suo rimetterlo in patria: a cui Piero
con orgogliosa benignità rispose, che bene poteva egli perdonare, ma la
Repubblica non poteva («la quale di noi ha piena e libera potenza»), e
per l’esempio non doveva.[441] Così l’Acciaioli sconfortato andava in
esilio. Ma il Neroni continuava le arti solite, e nell’adombrare in una
sua lettera le grandi cose che s’apparecchiavano, promette, quando egli
potesse tornare in patria, mostrare i rimedi e adoprarsi a mantenere
lo stato di Piero.[442] Questo scriveva egli da Malpaga, dove risedeva
Bartolommeo Colleoni capitano generale della Repubblica di Venezia;
ma era la condotta sua vicina a scadere, ed egli audacissimo sebbene
già vecchio, e imbaldanzito dal non avere più chi l’agguagliasse tra’
condottieri d’Italia e dalla fortuna toccata allo Sforza, mulinava
strani disegni. Gli scriveano da Milano promettendogli gran cose in
quella inesperta gioventù del nuovo Duca, intanto che il Neroni e gli
altri fuorusciti seco o ch’esulavano per l’Italia da’ tempi di Cosimo,
standogli attorno, gli soffiavano nelle orecchie potere egli farsi
grande arbitro e grande innovatore delle sorti d’Italia: mutare le
condizioni di questa, solo che in Firenze mutasse lo Stato; qui essere
la chiave la quale teneva Napoli e Milano insieme unite in continuità
di lega, opposta come argine alla potenza dei Veneziani. Tutte queste
cose il Colleoni ascoltava; e il Senato di Venezia bene s’accorgeva
ch’era da farne suo pro, ma con l’usata circospezione, temendo entrare
in un’altra guerra prima d’avere assicurata la pace col Turco, per la
quale s’adoprava: e però lasciando che si muovesse il Colleoni a tutto
suo rischio e dandogli mano, poteva poi sempre dire che non era egli
più a’ soldi di lei, e ogni volta che le cose volgessero male ritrarsi
dal ballo più agevolmente. Ma confidava che il Duca di Milano, avendo
nemico quello di Savoia e gli Svizzeri male disposti e nei sudditi poca
affezione, perderebbe anche gli incerti soccorsi che a lui potessero
venire da Napoli, massimamente se intercetti dal volgersi contro a
lui lo stato dei Fiorentini.[443] Così muoveva il Colleoni nel maggio
dell’anno 1467, accompagnato dai fuorusciti, in nome dei quali faceasi
la guerra e che ne portavano per grande parte la spesa; guidava un
esercito di otto mila cavalli e sei mila fanti, seco avendo Ercole da
Este, e Alessandro Sforza signore di Pesaro e zio dello stesso Duca
di Milano, e gli Ordelaffi di Forlì, ed il Manfredi di Faenza, ed i
Signori di Carpi e di Camerino, e il Conte dell’Anguillara: fiorente
esercito, che l’eguale non aveva messo insieme in Italia, dopo al
Piccinino, alcun altro condottiero.
A queste mosse i Fiorentini, ristretta la lega con Galeazzo duca
di Milano e col re Ferrando di Napoli, e datisi a raccorre genti,
fecero di tutti capitano il valoroso Federigo conte d’Urbino. Il
quale osservando cautamente i nemici finchè l’esercito intorno a lui
si formasse, non lasciava ad essi occupare altro che poche castella
dell’Imolese; ma giunto essendo con molte forze lo stesso Duca di
Milano e genti mandate da Giovanni Bentivoglio e da Taddeo degli
Alidosi signore d’Imola, poneva il campo non lungi da questa città
ed incontro al Colleoni, il quale s’era fortificato alla Mulinella.
Poco si ottenne nei primi giorni per l’impedimento che avea il
Capitano dalla persona di Galeazzo; il quale, giovane e presuntuoso,
nè sapeva fare nè lasciava che altri facesse. Talchè i Fiorentini con
bella maniera invitatolo a sollazzo nella città di Firenze, ed egli
recatovisi; il savio Conte, cogliendo il destro di quell’assenza, mosse
l’esercito in ordinata battaglia; la quale durata più ore del giorno, e
riuscendo molto sanguinosa, terminava quando le tenebre sopravvennero,
con esito incerto sicchè ambe le parti si arrogassero la vittoria,
ma però bastata d’allora in poi a contenere da ogni altro assalto il
Colleoni. Tornava nel campo il duca Galeazzo a cose fatte; ed offeso
molto che avessero scelto il tempo a combattere quand’egli non v’era, e
perchè gli giunsero novelle avere in quel mezzo il Duca di Savoia mossa
la guerra contro al marchese Guglielmo di Monferrato col quale era in
lega, facendo ritrarre tutte le sue genti, si riconduceva egli medesimo
oltre Po. Ma intanto il Re, che alle prime mosse andava a rilento
nell’inviare soccorsi,[444] avea fatto passare il Tronto con due mila
cavalli al giovane Alfonso duca di Calabria, a lui dando come guida e
consigliero il conte Orso degli Orsini vecchio capitano. I Veneziani
dal canto loro essendo nel mare soliti procedere con meno rispetti,
avevano prese quattro navi anconitane cariche di robe dei Fiorentini; e
perchè il Re metteva nel Porto Pisano otto galere le quali, unite alle
galeazze che erano ivi, poteano infestare i commerci loro, comandarono
al Capitano del golfo che andasse con dodici galere a Messina e
dovunque bisognasse, sgombrando il mare e facendo preda di qualunque
nave si recasse anche per solo traffico in Levante. Faceano promesse
all’Arcivescovo di Genova e ad Obietto del Fiesco, i quali cercavano di
sollevare la Riviera contro il Duca di Milano.
Viveano però tuttora con esso come in termini d’amicizia; e un
Segretario della Repubblica passando a Milano per altre faccende, ebbe
parole col Duca, da prima guardinghe e contenute; ma un altro giorno
Galeazzo incontratosi col Segretario e rimanendo solo con lui: «Certo
(gli disse) voi Veneziani, avendo il più bello stato d’Italia, avete
gran torto a non vi contentare e a turbare la pace d’altri. Se sapeste
la mala volontà che tutti hanno contro di voi, vi si rizzeriano i
capelli, e lasceresti vivere ognuno nel suo Stato. Credete che queste
potenzie d’Italia legate insieme sieno amiche fra loro; certo no; ma
la necessità gli ha condotti e si sono stretti per paura che hanno di
voi e della vostra potenza. Vi pare aver fatto una bell’opera, aver
messe le armi in mano a tutta Italia? Se sapeste quel che mi viene
offerto in Lombardia acciocchè vi rompa guerra; vi maravigliereste.
E quelli de’ quali vi fidate, saranno i primi a farvela. Credete
che io vi dico il vero, e ve ne avvedrete; lassate, lassate vivere
ognuno. Quando morì mio padre, parendomi avere un bello Stato, andava
a sparviero, mi dava buon tempo e non mi pensava ad altro; ora m’è
stato necessario unirmi col re Ferrando, ch’è mio nemico capitale. Con
questo vostro Bartolommeo avete messo le armi in mano a tutta Italia,
e vi par d’avere fatto bene; ma ve n’avvedrete. Vi giuro che il Papa,
che è vostro gentiluomo, farà peggio che gli altri; e se la guerra
continua, egli sarà il primo che si muoverà contro di voi per avere
Faenza, Forlì, Ravenna e Cervia. Il Re, se avesse tanta possanza quanto
ha mala volontà contro di voi, non vi lassería comparire al mondo. Non
è un’ora che il suo ambasciatore m’era all’orecchio; e perchè vede che
io non mi muovo, crede ch’io abbia qualche segreta intelligenza con
voi. Fiorentini e Genovesi, quanto vi siano amici lo intendete, e così
tutte le altre comunità d’Italia. Si dice che volete divorare ognuno:
e adesso avete tanta spesa, che non vi avanza danari. So in che modo
riscuotete queste vostre decime, con quanta fatica e difficoltà per
i gridori di tutta la città. So che v’avete fatto prestar danari ai
banchi e a’ vostri cittadini, e che non li avete ancora soddisfatti (e
qui il Segretario, che riferisce il discorso, dice che il Duca parlava
come se fosse stato a Venezia presente a tutte le cose). I Signori
hanno un gran vantaggio sopra le Signorie, perchè ad esse conviene
fidarsi d’altri, ed i Signori sono di continuo sul fatto. Io non
conosceva nessuno degli uomini d’arme di mio padre, io era un bufalo
nelle cose della guerra, e voi mi avete fatto diventare un Merlino
mago. Se volete pace, l’avrete; se volete guerra, averete la più
pericolosa che abbiate avuto ai vostri dì. Siete soli, e avete tutto
il mondo contra; non solamente in Italia, ma anche di là dai monti.
Consigliatevi bene, e perdio ne avete bisogno; so quel che vi dico.
Avete un bello Stato e maggiore entrata che potenza d’Italia: non la
sbaragliate; _dubius est eventus belli_. Non vi potete scusare che non
siate stati causa d’ogni inconveniente. Vi prego non date fastidio ad
altri; state in pace per bene vostro e della Cristianità.» E perchè il
Segretario cercava di scusare la Signoria, Galeazzo soggiunse: «Quanto
più mi dite, tanto men vi credo.[445]»
La guerra continuava, e il Colleoni entrato nella valle di Castrocaro,
prese Dovadola, ch’egli voleva si desse ai fuorusciti fiorentini;
i quali erano seco in campo. Questo negarono i terrazzani, ma in
Firenze era timore d’assalto maggiore in Toscana, per il che facevano
istanze col Duca rompesse la guerra in Ghiaradadda. Ma nè il Duca
nè i Veneziani voleano troppo grande incendio; e questi delle cose
avvenute si scusavano dicendo, il Colleoni, libero dalla ferma, avere
per proprio suo conto fatto prova della fortuna, ond’essi temendo
non s’accostasse ai nemici loro, e non facendo per la Repubblica che
egli fosse oppresso, gli aveano dato qualche aiuto, ma non però tanto
quanto sarebbe bisognato. Le cose stesse diceano a Tommaso Soderini
ambasciatore della Repubblica di Firenze; ed aggiugneano, desiderare
sopra ogni cosa che fra le due Repubbliche fosse buona lega, la quale
vietando al Duca ed al Re di accrescere le forze loro, avrebbe dato
sicura pace a tutta Italia. Teneano frattanto in ponte il negozio
delle robe tolte sulla nave Anconitana, che poi furono liberamente
restituite. Il Soderini avrebbe molto ambito l’onore di conchiudere
egli la pace in Venezia, per la quale Borso marchese d’Este, com’era
costume di quei Principi, s’adoperava;[446] ma intanto a fermarla
avea posto mano con grande passione Paolo II, e in Roma già erano
ambasciatori delle due parti; i quali perchè non s’accordavano,
pronunziava ai due di febbraio 1468 il Papa di proprio suo moto e
imponeva con la pienezza della potestà sua l’accordo in tal modo, che
ognuno tenesse quello che avea prima della guerra, e che a Bartolommeo
Colleoni fossero pagati cento mila ducati l’anno per fare impresa
in Albania contro ai Turchi, contribuendo alla spesa tutti gli Stati
d’Italia, ed il Papa stesso offrendosi darne la parte sua.[447] Ciò
andava a grado dei Veneziani; ma v’era poi anche ordinata una lega
universale, della quale non volevano sapere: quando ebbero però veduto
che l’altra parte non consentiva l’accordo, l’accettaron essi; e
intanto facevano danari e soldati e mettevano in golfo galere, del
pari mostrandosi apparecchiati alla guerra e alla pace. I Fiorentini
s’armavano anch’essi, e ponevano gravezze d’un milione e duegento
mila fiorini da riscuotersi in tre anni; facevano grandi pratiche
per l’Italia, e diceano essere intollerabile cosa che tutti avessero
a mantenere colui ch’era stato sola cagione di tutto il male, come
se fossero da lui stati vinti. Per questi rifiuti il Papa forte
incollerito, minacciava la censura contro a chiunque non accettasse
la Bolla; i Fiorentini faceano motto di appellarsene al Concilio; ma
quando le cose più minacciavano di guastarsi, il Papa togliendo via
la parte che risguardava il Colleoni, pubblicava la Bolla corretta; e
questa essendo da tutti accettata, venne la pace conchiusa nel maggio
seguente. Nè fu in Italia altra turbazione; se non che essendo poco
di poi morto Gismondo Malatesta signore di Rimini, e la successione
andando in Roberto suo figlio bastardo, Paolo II diceva estinta la
linea, e mandò genti per la rioccupazione di quello Stato: ma in
breve guerra le forze del Papa essendo sbaragliate da Federigo conte
d’Urbino, col quale andavano cinquecento cavalli assoldati dalla
Repubblica di Firenze, Roberto ebbe la possessione che poi tenne con
molto onore del nome suo.[448]
In questo tempo i Fiorentini aveano comprato da Lodovico Fregoso, per
trentasette mila fiorini d’oro, Sarzana, Sarzanello ed altre fortezze;
che fu tenuto buono acquisto, guardando esse la via di Genova e quella
della Val di Taro, donde erano spesso venuti assalti di Lombardia. Ma
i fuorusciti non ristavano, e in città e fuori o trame si ordivano,
o i reggitori le supponevano a fine di togliere con altre condanne a
sè la paura o sfogare odii e cupidigie. Un altro Neroni fu giudicato
ribelle, perchè aveva rotto i confini; mozzo il capo ad un Orlandi,
perchè voleva dare Pescia ai banditi; per un trattato che si disse
avere scoperto, presi e sbanditi un Capponi, un Alessandri, un Pitti,
uno Strozzi, e con essi un figlio di quel Tommaso Soderini ch’era primo
nella parte di Piero dei Medici; così le famiglie divise e disfatte
cadevano dalla antica potenza, e nel comune abbassamento rendeasi
agevole la tirannide. Nella Romagna un Francesco da Brisighella era
venuto per occupare di furto la rôcca di Castiglionchio su quel di
Marradi, spalleggiato da Pino degli Ordelaffi signore di Forlì e da
Galeotto Manfredi che, morto il padre suo Astorre, teneva allora il
dominio di Faenza: in poco tempo gli assalitori furono presi e dannati
a morte. Maggiore caso avvenne in Prato l’anno di poi, che anticipando
i tempi vogliamo narrare qui. Due della famiglia Nardi, Silvestro
e Bernardo, con più ardimento che senno e pochi compagni, entrati
un giorno in Prato e corsa la terra a rumore chiamando il popolo a
libertà, della quale non avrebbe saputo che farsi, fecero prigione il
Potestà Cesare Petrucci, pigliato avendo in nome loro il governo della
terra. Ma durò poche ore, imperocchè essendo in Prato per sue faccende
Giorgio Ginori cittadino fiorentino e cavaliere di Rodi, e visto il
poco fondamento che aveva l’impresa, raccolse in fretta quanti erano
ivi di sua confidenza, e assaltò il Palagio dove uno dei due fratelli
fu preso e ferito. Da Firenze andava, saputosi il fatto, soccorso di
fanti con Ruberto da Sanseverino Capitano della guerra; ma udirono in
Campi finita ogni cosa; e il Nardi con altri, menati in Firenze, furono
decapitati.[449]
Aveano i Medici così ottenuto finale vittoria, non che su’ nemici
ma sopra i complici e strumenti dell’inalzamento loro, resistenza
ultima che incontrino intorno a sè le Signorie nuove: possedeva
Piero, gottoso ed attratto che non gli restava altro di libero che
la lingua, più assoluta dominazione di quella che avesse avuta Cosimo
padre suo. Fu detto che, o fosse benignità o cautela, sapendo lasciare
dopo sè due figli per anche immaturi, volesse quando era all’estremo
della vita richiamare in Firenze tra’ fuorusciti coloro che meglio
credesse potersi riguadagnare col beneficio, e primo fra tutti Agnolo
Acciaioli.[450] Pigliava egli intanto coscenza e abitudini quasi di
principe, e in Casa i Medici si viveva più signorilmente di quello che
fosse usato da Cosimo. A nuovi costumi crescevano i figli; Lorenzo,
il maggiore e il più promettente, dal padre era inviato per viaggi
frequenti alla familiarità dei Principi e al vivere ornato e gaio, e
splendido soprammodo per tutta Italia, delle corti. Troviamo Lorenzo
che aveva appena diciotto anni, mandato a quelle dei Bentivogli in
Bologna e degli Estensi in Ferrara, indi a Milano ed a Venezia; in
Roma ed in Napoli era nell’estate del 1466. Il padre scrivevagli:
«ricordati di farti vivo, e fare conto d’essere uomo e non garzone,
e metti ogni industria e ingegno e sollecitudine in renderti tale che
s’abbi materia operarti in maggiori cose; e questa gita è il paragone
de’ fatti tuoi.[451]» I fatti mostravano già in lui singolare prontezza
di spiriti e precocità di senno, e nato l’animo alle grandi cose;
lo vedemmo sagace ed ardito salvare il padre nei pericoli del 66,
e avere la mano in quelle pratiche, e trattare con la Signoria come
uomo già fatto: per queste cose il re Ferrando a lui scriveva lettera
amplissima di gratulazioni e laudi tali, che a fatica si crederebbero
da lui date a un garzoncello quasi imberbe. Lorenzo aveva dai primi
anni esercitato l’ingegno nelle lettere, alle quali Gentile da Urbino
e il greco Argiropulo erano stati dal padre chiamati a indirizzare
il presagio ch’egli di sè dava: abbiamo di lui componimenti d’amore
scritti in età quasi fanciullesca. Marsilio Ficino iniziava il giovane
Lorenzo alla filosofia di Platone; della quale un libro, lodato a quei
tempi, di Cristoforo Landino lui figurava disputatore con Leon Battista
Alberti ed altri dotti fiorentini nelle selve di Camaldoli.[452] In
casa i Medici era gran ritrovo di uomini letterati, ed ivi faceano
capo gli stranieri: madre a Lorenzo fu Lucrezia Tornabuoni, matrona
che tutta era nel coltivare la poesia religiosa, e della quale abbiamo
a stampa inni sacri dove il sentimento prevale sull’arte: della
materna educazione le tracce rimasero non mai abolite, sebbene confuse
pel vivere sciolto di lui, per la fantasia ardita, e per la torbida
incostanza di quella età quando il paganesimo s’intrudeva negli studi
e nella vita e in ogni cosa anche più sacra. Ebbe Lorenzo statura più
che mediocre, robuste le membra, ma priva la faccia di venustà pel naso
schiacciato e le ampie mascelle; róca la voce, la vista debole, e nullo
il senso dell’odorato. Di ventun’anni tolse in moglie la Clarice figlia
del signor Iacopo Orsino, _ovvero_ (scrive egli in certi Ricordi) _mi
fu data_. Per quella occasione sulla piazza di Santa Croce fu celebrata
a’ 7 febbraio 1469 una Giostra molto grande e molto magnifica, la quale
era stata bandita più mesi innanzi; e vi accorsero da tutta Italia
signori e giovani cavalieri. «Per seguire e far come gli altri, (scrive
lo stesso Lorenzo) giostrai con grande spesa e gran sunto, nella quale
trovo che si spese circa a ducati dieci mila; e benchè in armi e di
colpi non fossi molto strenuo, mi fu giudicato il primo onore, cioè un
elmetto tutto fornito d’ariento con un Marte per cimiero.[453]» Non
egli cercava la gloria delle armi, cui non l’avevano educato; ma in
lui s’accoppiava con l’elevatezza dell’ingegno, l’industria paziente
dell’uomo di Stato. Così era già egli tale da reggere ed ampliare la
Casa sua, quando Piero dei Medici finiva la vita ai 3 dicembre 1469.


CAPITOLO V.
GIOVINEZZA DI LORENZO E DI GIULIANO DE’ MEDICI. — RIBELLIONE DI
VOLTERRA. — CONGIURA DE’ PAZZI; MORTE DI GIULIANO. [AN. 1469-1478.]

Convennero insieme dopo la morte di Piero gli amici di casa e con essi
molti dei più solleciti all’ossequio, da tutti essendosi deliberato
di mantenere nei due giovani, Lorenzo e Giuliano, la preminenza nella
città, che l’avo ed il padre erano soliti di godere. Ma questa nè
dare veramente si poteva, nè oramai togliere per consigli; nè Tommaso
Soderini, il quale orò nella radunanza siccome fra tutti il più
autorevole, avea tale seguito di partigiani da porre in dubbio se alle
sue case o a quelle dei Medici dovesse far capo e ivi consistere la
Repubblica. Scrive Lorenzo nei _Ricordi_, come a lui andassero, «il
secondo giorno dopo la morte del padre, i principali della città a
confortarlo ch’egli pigliasse la cura dello Stato, come aveano fatto
i suoi maggiori;» il che avrebb’egli, «per essere contro all’età sua
giovanile e di gran carico e pericolo, mal volentieri accettato, e
solamente per conservazione degli amici e delle sostanze, perchè a
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