Storia della Repubblica di Firenze v. 2/3 - 18

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voleva pur egli ornarsi di qualche splendido acquisto alla Repubblica;
oltrechè a lui faceva bel gioco avere gli ufizi in Lucca e le terre
dei Lucchesi da dividere ai suoi partigiani; e con quella esca, da
altri non tocca, un maggior numero guadagnarsene. Anche tra ’l popolo
quella guerra avea però sempre grande favore, ed alla spesa tutti
concorrevano in quei principii alacremente.[302] Nel mese d’aprile
1437 il Conte Francesco muoveva l’esercito; e prima andato a recuperare
Sarzana e Lavenza, e alcune terre di Lunigiana o genovesi o fiorentine,
prese facilmente Viareggio e Camaiore ed altri luoghi,[303] mentre
che i Lucchesi tenevansi chiusi nella città, confidando questa potere
guardare per le sufficienti forze che avevano dentro e perchè il popolo
tutto intero vegliava geloso alla cittadina libertà. Laonde l’esercito
dei Fiorentini avendo fatto nel piano di Lucca quei maggiori danni
che poteva col guastare i campi allora coperti di grano e di biade,
tagliare le viti, e dei bestiami fare preda,[304] volgevasi tosto alla
espugnazione di Monte Carlo, castello tenuto infino allora come difesa
e guardia di Lucca; ma fatta piccola resistenza, cedeva: e fu quello
il termine ultimo alle cupidigie fiorentine, per gli accidenti che indi
avvennero.[305]
I Veneziani avendo a petto in Ghiaradadda il Piccinino, ed essi rimasti
senza Capitano, perchè il Gonzaga mutando parte era passato ai soldi
del Duca, facevano istanza per avere Capitano di tutta la guerra in
Lombardia Francesco Sforza. Il che ai Fiorentini dispiaceva molto,
vedendo fallire a questo modo l’impresa di Lucca, della quale aveano
tanta passione: ma erano soli in tal desiderio, perchè nè il Conte
nè i Veneziani per nulla bramavano che la Repubblica acquistasse la
signoria di una città la quale aveva per sua difesa più volte aperto
gli appennini agli eserciti di Lombardia. Era il Conte rattenuto da
altri pensieri, non volendo egli con l’impegnarsi oltrepò lasciare
esposti alle aggressioni gli Stati suoi nella Marca;[306] e avendo
poi sempre gli occhi a Milano, della quale il Duca facevagli innanzi
balenare con fine arti la successione: strumento a quei giuochi di
vile astuzia essendo la misera e tuttora giovinetta Bianca Maria,
figlia sola ed erede, benchè illegittima, al Duca Filippo. Laonde
lo Sforza tergiversava: ed una volta, per certi ammenicoli che i
Fiorentini inventarono ed ai Veneziani poco soddisfecero, consentì
andare fino a Reggio; dove un ambasciatore veneziano, Andrea Morosini,
avendogli protestato pigliasse la guerra di là dal Po francamente,
o la Repubblica gli torrebbe la paga e il comando; venuti insieme a
grave alterco si separarono, e lo Sforza ripigliava la via di Toscana,
allora prestando più facili orecchie alle insinuazioni di Filippo.
Alla Repubblica di Firenze parea male stare; e lo stesso Cosimo de’
Medici andava ambasciatore a Venezia, sperando col caldo dell’amicizia
a lui mostrata dai Veneziani potere a questi persuadere, provvedessero
che il Conte non si accordasse col Duca, dal che verrebbe pericolo
grave egualmente alle due Repubbliche; intanto lasciassero (qui era
la somma di tutto il negozio) fornire al Conte l’impresa di Lucca. Ma
il Doge Francesco Foscari gli replicava, bene conoscere il Senato le
forze sue proprie e quelle degli altri Stati d’Italia, non essere usi
i Veneziani pagare coloro che ad essi non servivano, nè avere voglia
di fare crescere il Conte Francesco a loro spese: in quanto a Lucca,
i Fiorentini provvedessero; per sè, non capire qual motivo avessero
d’entrare con loro in cosiffatti ragionamenti.[307] Così fu Cosimo
ributtato, senza che potesse ai Veneziani mai cavare altro di bocca:
donde egli principiò ad alienarsi da loro;[308] e avendo in quel
mentre le arti del Duca tirato a sè Taliano da Forlì, che per lo Sforza
teneva la Marca, questi pauroso di perderla, o doverla guardare da sè,
concluse l’accordo col Duca, e costrinse i Fiorentini ad accettare
la pace con Lucca, ritenendo questi per sè Monte Carlo e Uzzano che
aveano successivamente guadagnato. Fu buona pace, perchè muniva ad
essi il confine inverso Lucca; ma i Fiorentini, che ebbero a male
vedersi levata la terza volta in cento anni come di bocca questa città,
riempirono Italia con lettere piene di rammarico; e, come nota bene
il Machiavelli, «rade volte occorre che alcuno abbia tanto dispiacere
d’aver perdute le cose sue, quanto ebbero allora i Fiorentini per non
aver acquistate quelle d’altri.[309]»
Mentre era in Venezia Cosimo de’ Medici, trovò anche nata ivi gelosia
per le cose del Concilio, delle quali egli aveva prima tenuto discorso
in Ferrara con Eugenio che da più tempo vi dimorava. Imperocchè sedendo
in Basilea la Sinodo che doveva essere continuazione di quella in
Costanza, pel molto numero che vi era di Prelati tedeschi e per quelle
semenze che già nella Germania pullulavano, si andò tant’oltre, che
fatto scisma da Eugenio, elessero antipapa sotto nome di Felice V quel
Duca Amedeo VIII di Savoia, il quale avendo deposto il governo nelle
mani deboli del figlio, viveva irrequieto con le apparenze d’eremita
in un suo castello presso al Lago di Ginevra.[310] Laonde Eugenio,
riprovando quel di Basilea, aveva intimato un altro Concilio da tenersi
in qualche città d’Italia; e perchè non si poteva in Lombardia, per
qualche aderenza che era tra ’l Duca Filippo e quel di Savoia e perchè
non voleano andare a mettersi sotto all’ombra della Repubblica di
Venezia, fu scelta Ferrara. Già s’eran ivi cominciati a radunare; ma
per la peste che v’era entrata, ottenne Cosimo si trasferissero in
Firenze, con qualche invidia di quella Signoria e amare parole verso i
Fiorentini. Voi Papa (dicevano), voi Concilio, voi Lucca, voi tra poco
volete ogni cosa.[311] Nel Concilio si doveva trattare d’unione della
Chiesa greca alla latina, e l’Imperatore Giovanni Paleologo stretto dai
Turchi, e per ogni modo ma invano cercando avere soccorso dagli Stati
d’occidente, era con molti de’ suoi Prelati venuto in Ferrara, donde
egli ed il Papa ed il Patriarca di Costantinopoli facevano entrata
con grande seguito in Firenze negli ultimi di gennaio 1439. Alloggiò
il Papa, com’era consueto, nel convento di Santa Maria Novella, dove
si tenne il Concilio; e l’Imperatore nelle case dei Peruzzi, allora
sbanditi. Cosimo de’ Medici avea in quei due mesi il grado supremo
di Gonfaloniere; ed i Fiorentini, quanto soleano essere parchi nelle
private cose, tanto più godevano mostrarsi splendidi nelle pubbliche.
Fu aperta la Sinodo, alla quale intervennero da centosessanta tra
vescovi e abati latini e greci;[312] e gli animi essendo alla concordia
inclinati, l’unione tra le due Chiese e sovra esse la supremazia del
Papa fu pubblicata con grande solennità e letizia a’ 6 di luglio nel
maggior tempio di Santa Maria del Fiore. Moriva in Firenze poco avanti
la promulgazione il vecchio Gioseffo Patriarca di Costantinopoli, ed
ha sepoltura in Santa Maria Novella. L’Imperatore innanzi di partire
fece privilegio e carta solenne al Gonfaloniere Filippo Carducci, e
(stando al Cambi) l’avrebbe fatta anche ai Priori, che fossero Conti di
Palazzo, portando nelle armi loro il segno dell’Impero, ch’era l’aquila
a due teste, con autorità di fare Notari, con dare ad essi anche
l’esercizio, e di legittimare i figli naturali. Concesse altresì alla
Repubblica esenzioni di gabelle e grazie in tutto l’Impero suo, che
estendevasi allora non molto fuori delle mura dove Costantino più di
mille e cento anni prima lo aveva condotto. Rimase in Firenze il Papa,
ed in seguito appianò le differenze ch’aveano diviso la Chiesa pure
degli Armeni da quella di Roma.
La pace che tolse ai Fiorentini l’impossessarsi di Lucca, non avea
dato all’Italia requie; la qual non era nell’animo di Filippo,
insofferente di vedersi privato di Genova, e dai Veneziani stretto
per la possessione ch’aveano acquistata di Bergamo e Brescia: temeva
la lega tra essi ed il Papa e i Fiorentini ed il Conte. A questo
faceva brillare sugli occhi il vicino parentado, andando sì oltre
ch’egli fermava alla cerimonia il luogo ed il giorno, apparecchiava
pubblicamente alla figliola il corredo, e al Conte sborsava i trenta
mila ducati promessi pagarli nei patti nuziali. Nè di ciò contento,
praticava a fine, che messo il Conte in sospetto pei suoi Stati della
Marca, mentre attendeva a guardare questi, si tenesse fuori del giuoco
e non cercasse recare aiuto ai Veneziani. Bramava puranche staccare il
Papa dalla Lega; ai quali effetti il Piccinino ad un tratto sparse come
egli si fosse alienato da Filippo dappoich’era questi tutto del Conte,
ed al Papa scrisse offrendosi andare contro al Conte nemico suo vecchio
alla recuperazione della Marca, facendo guerra per Santa Chiesa. Rimase
Eugenio pigliato all’esca, e mandò danari al Piccinino, e gli offerse
terre in feudo, a lui ed a’ suoi figli: così occupava questi in breve
ora Bologna e Forlì e Ravenna, il Duca gridando che tuttociò era senza
sua saputa, e dando ad intendere che, se una volta potesse, farebbe
al Piccinino tagliare la testa. Ma questi allora dal canto suo mutato
registro, si fece a dire ed a giurare che traditore non era, e che
era il Papa che lo accusava a fine di torlo dall’amicizia del Duca,
onde era ben giusto ch’egli ed il Duca se ne ritenessero le terre.
Così empiva de’ suoi soldati la riva destra del Po, donde impediva ai
Fiorentini e al Papa ed al Conte di soccorrere i Veneziani, mentre egli
ad un tratto contro essi muoveva l’armi sue insieme a quelle del Duca.
Quanto era iniquo e svergognato l’inganno, tanto fu sapiente quella
evoluzione di guerra, per la quale il grande condottiero subitamente
e senza impaccio varcato il Po, andava a porre l’assedio a Brescia.
Spingeva la guerra dipoi fin sotto alle mura di Verona; e se una di
queste due città espugnasse, mostravasi certa la ruina dei Veneziani
che di per sè non aveano forze sufficienti alla difesa di terraferma.
Allora prestarono opera egregia i Fiorentini; i quali sebbene offesi da
loro, ma fattisi innanzi a provvedere al comun pericolo, rinnovarono la
lega co’ Veneziani affinchè la guerra a spese comuni fosse condotta in
Lombardia.[313]
Ma tutta la somma consisteva in questo, che il Conte Francesco
passasse il Po; egli peraltro avea l’animo sempre al parentado, e
non voleva lasciare esposti i suoi Stati della Marca sino a che le
armi del Duca fossero in Romagna. Ai Fiorentini era pericolosa quella
passata del Conte, il quale essendo di là dal Po, il Piccinino avrebbe
libera l’entrata in Toscana: ma pure scegliendo tra’ due pericoli il
minore, inviarono Neri; il quale incontrato lo Sforza nel campo sotto
Forlimpopoli, gli dimostrò che, «se i Veneziani perdeano Verona, si
abbandonerebbono dello Stato di terraferma, e a lui leverebbero il
pagamento; nè i Fiorentini potrebbono soli reggere la spesa; essi
medesimi divenuti al tutto inabili a difendersi.» Consentì lo Sforza
che Neri andasse ad offerire in Vinegia la sua passata e trattare della
via da eleggere. Andava Neri, ed appena giunto, orando innanzi alla
Signoria disse: «che avendo esaminate le condizioni loro, s’era nei
Consigli della Repubblica di Firenze venuti d’accordo, non essere altro
rimedio che nella passata del Conte col suo esercito alla difensione
dello Stato di Venezia; che un tale partito bene conoscevano quanto ad
essi, che lo proponevano, riuscisse pericoloso, e che i Lucchesi ed i
Senesi se gli scoprirebbero nemici, quando vedessero il Conte tanto
dilungato: pure, perchè il pericolo non si vince senza il pericolo,
consentivano essi a cedere il Conte ai Veneziani; il quale appena fosse
avvisato della via da fare, sarebbe mosso.» Nel Senato fu con lacrime
di allegrezza quella proposta ascoltata, e dove prima erano abbandonati
d’ogni difesa e vestiti a bruno, ripigliarono vigore, e i loro
imprestiti migliorarono parecchi per cento. Renderono a Neri ed alla
Repubblica di Firenze solenni grazie del beneficio con tali parole, che
Neri dichiara come a lui non istesse bene scriverle. Fermata appena la
via da pigliare, subito il Conte si mise in via con tutto l’esercito:
a’ 20 di giugno era già in Padovana, spiegando i vessilli di Venezia,
Genova e Firenze, a lui mandati in segno d’accordo.[314]
Queste cose erano avvenute innanzi che si chiudesse il Concilio: e non
è intendimento nostro descrivere i casi vari e memorabili di quella
guerra che si combatteva tra due Capitani, i quali non ch’essere i
più esperti di quella età, furono maestri di un’arte nuova, secondo
che davano le condizioni dei tempi e la qualità delle milizie usate
in allora. Trattavano eglino veramente la guerra come arte e quasi a
modo di giostra, non correndo essi nè grandi rischi nelle battaglie, nè
dalle perdite avendo altro danno da quello in fuori della riputazione.
Imperocchè andando coperti i soldati di gravissime armature, pochi
erano i morti nelle più grosse battaglie; e gli eserciti dispersi
dalla sconfitta e svaligiati, cercando tornare agli usati soldi, stava
ogni cosa nel rinvenire chi questi pagasse.[315] Gli Stati, perdendo
terreno, perdevano le fonti all’entrate; ma i condottieri faceano
vivere i soldati loro a spese dei miseri abitatori dei luoghi dove
la guerra si combatteva; e il Capitano ch’avea perduto, se più non
trovasse da smugnere quelli che lo avevano condotto, andava a cercarsi
più ricco signore, o luoghi non tocchi insino allora, da farvi sacco.
Di questa fina arte e iniquo mestiere, solenni maestri erano Francesco
Sforza e Niccolò Piccinino: le mosse pertanto di quella guerra, le
astuzie, le grandi opere condotte a fin di creare impacci al nemico
o a sè agevolezza di marce, sovente inopinate e rapidissime, in tutti
quei mesi che andarono fino al verno avanzato, produssero fatti per sè
grandissimi, ma per gli effetti che ne seguirono quasi nulli. Intorno a
Brescia più volte battaglia; Verona perduta dallo Sforza, e racquistata
in quattro giorni; il Piccinino sconfitto, fuggire traverso i nemici,
portato, com’era di corpo esile, dentro un sacco da uno de’ suoi, e in
pochi giorni tornare in campo più forte di prima.
Infine, parendo a lui che fossero del pari inabili i due eserciti
in quelle contrade durante il verno, tornò al pensiero d’assaltare
la Toscana, mostrando a Filippo come i Fiorentini sariano costretti
a richiamare di Lombardia il Conte o perdersi; e che in ciascheduno
di que’ due casi, i Veneziani da sè non poteano nutrire la guerra:
al quale consiglio muovevalo in proprio il desiderio di acquistare a
sè uno Stato, cacciando Francesco Sforza dalla Marca. Poterono molto
appresso al Duca anche le istanze grandissime che faceano Rinaldo degli
Albizzi ed i fuorusciti fiorentini, venuti a Milano già prima che il
Duca si risolvesse alla guerra, e stati non ultima cagione a fargliela
cominciare. Rinaldo, com’era di natura confidente, sperava certissimo
in patria il ritorno; ed a Cosimo faceva dire, che la gallina covava.
Rispondea questi; male potrà fuori del nido. Un’altra volta gli mandò
avviso, che i fuorusciti non dormivano; e Cosimo disse che lo credeva,
ad essi avendo cavato il sonno. Ora prometteva l’Albizzi sicuro il
passaggio nel Casentino, dove il Conte di Poppi teneva seco amicizia:
diceva poi, che dove le armi di Niccolò s’accostassero a Firenze, era
impossibile che il popolo, stracco dalle gravezze ed oppresso, non si
levasse ad accogliere gli antichi uomini e gli antichi ordini.
In Firenze fu grande sgomento; e quello che dava maggiore sospetto
era il pensare che senza un qualche vicino aiuto avrebbe dovuto al
Duca parere imprudentissima quella mossa, nè egli era uomo da troppo
arrischiarsi. Temeano pertanto che segretamente fosse il Duca sicuro
del Patriarca Vitelleschi da Eugenio preposto al governo dello
Stato, sì fattamente che mentre il Papa dimorava tuttora in Firenze,
costui in Roma era come principe. Temeano cercasse novità in Firenze,
intendendosi coi fuorusciti; e quindi con molta diligenza s’adopravano
prima a scalzare nell’animo del Papa la fede grandissima che egli
aveva nel Patriarca, dipoi mostrandogli come lo avesse egli troppo
alto locato da poterne vivere sicuro. A questo fine, cogliendo il
tempo, gli misero innanzi una lettera intercetta a Montepulciano, che
il Vitelleschi senza consenso del Papa scriveva a Niccolò Piccinino.
Laonde il Papa deliberò infine assicurarsi del Patriarca: al quale
effetto Luca Pitti andato in Roma, s’intese col Capitano che aveva la
guardia di Castel Sant’Angelo. Costui aspettava il destro; ed un giorno
che il Patriarca, essendo in sul muovere verso Toscana, gli aveva fatto
dire scendesse giù fuori del Castello perchè aveva cose da conferir
seco, uscì ad incontrarlo; e in mezzo a discorsi trattolo sul ponte,
che mobile era, fece segno ai suoi d’alzarlo: rimasto così prigione ad
un tratto quell’uomo infine allora potentissimo, non si seppe più altro
di lui. Il Papa mandava poi di buon animo le sue genti alla difesa di
Toscana.[316]
Tra ’l Conte frattanto e i Veneziani erano dispareri circa la condotta
di quella guerra. Voleva quegli ripassare il Po e scendere verso
Toscana dietro al Piccinino, massime dopo avere udito che i figli di
Pandolfo Malatesta, i quali erano nella Lega, aveano dovuto venire
a patti col Visconti; dal che si temeva che Pier Giampaolo Orsini,
mandato con cinquecento cavalli dai Fiorentini in quelle parti, essendo
preso e disarmato, le terre del Conte rimanessero senza difesa: questi
protestava, che da signore di Stati non volea tornare condottiero.
Laonde mandava la Repubblica Neri Capponi ad aggiustare le cose: il
quale avendo prima trattato in Venezia con la Signoria, e quindi in
Verona col Conte, pareva l’imminenza del doppio pericolo non dare alcun
modo che a tutti soddisfacesse; quando venute novelle che i Malatesta
non mancherebbero alla fede, e che l’Orsino avea potuto liberamente
scendere in Toscana, consentì lo Sforza di rimanere oltrepò, avendo
anche dati millecinquecento de’ suoi cavalli a Neri, che seco in
Firenze gli condusse, dov’egli giugneva nel mese d’aprile 1440.
E già il Piccinino scendeva in Toscana; della quale non credendo
vincere il passo attraverso le alpi di San Benedetto, dove Niccolò
da Pisa prode Capitano facea buona guardia, disegnò forzare quello
di Val di Lamone, dov’erano genti raccogliticcie, ed alla difesa
del castello di Marradi Bartolommeo Orlandini vilissimo uomo, che al
primo appressarsi dei nemici fuggì, non prima fermatosi che a Borgo
San Lorenzo, e quando già era il Capitano del Visconti con tutto
l’esercito entrato in Mugello. Di là scorreva liberamente infino ai
poggi di Fiesole; e questi varcati, si era accostato fino a tre miglia
vicino a Firenze, avendo fermato il campo a Remole e passato l’Arno,
facendo prede e devastazioni fino a Villamagna. I contadini s’erano
messi in salvo dentro alle mura della città con le robe loro; i bovi e
le mandrie ingombravano le vie; e la penuria, la quale incominciava a
farsi sentire, cresceva il tumulto.[317] Nel quale Rinaldo prometteva
nascerebbe qualche movimento in favore degli usciti; ma non fu nulla,
perchè già tutta la moltitudine dei più infimi stava pe’ Medici, e
questi tenevano il governo stretto in mano di pochi, pronti a frenare
con la severità chiunque tentasse alzare il capo.[318] Crudele ambascia
dovette premere allora l’animo di Rinaldo, che giunto in vista della
città sua non ebbe persona che si muovesse per lui; e già era il
Capponi entrato in Firenze con le genti di Lombardia, e quindi Piero
Giampaolo ed altre genti. Null’altro potendo, Rinaldo faceva istanza
perchè andasse almeno il Piccinino all’impresa di Pistoia, la quale
fidava condurre col mezzo dei Panciatichi suoi aderenti. Ma quegli
che non avea le speranze ostinate di Rinaldo, e non voleva cedere a
consigli disperati, pigliava altra via.
La famiglia dei Conti Guidi possedeva da oltre quattro secoli il
Casentino, del quale Francesco del ramo da Battifolle teneva allora
la signoria col titolo di Conte di Poppi: quivi era e tuttora si vede
il palagio di quei Signori, bello ed ornato ed in bel sito, essendo
la terra di Poppi nel centro del piccolo principato, ma lieto per la
freschezza dei luoghi e la vigoria degli uomini; oltrechè abbondante
di forti castelli nelle pendici dei colli o nei gioghi degli appennini
che soprastanno a quella provincia. Quel ramo dei Conti Guidi aveva
seguitato dai primi tempi la parte guelfa, talchè dipoi vissero in
grande amicizia con la Repubblica di Firenze. La quale poichè ebbe
esteso il dominio così da cingere poco meno che da ogni lato il
Casentino, rendevasi quella amicizia necessaria più e più sempre
ai Signori del piccolo Stato, rimasti soli in mezzo a tante baronie
distrutte; cercavano che alla Repubblica paresse d’avere nei Conti un
vicario. S’aiutavano anche di matrimoni pei quali a sè procacciassero
appoggio di qualche potente signore, e il Conte Francesco avea maritata
una sua figlia al Fortebraccio, che fu principio ad alienarlo dalla
Repubblica per le cose che tosto vedremo. S’aggiunse dipoi altra
cagione di mali umori verso Cosimo dei Medici, il quale avendo prima
trattato di maritare il figlio suo Piero ad una figliola del Conte
di Poppi, ruppe le pratiche perchè a Neri e ad altri amici di Cosimo
non piaceva questo imparentarsi con signori che avessero Stati.[319]
Cosimo, perch’era signore di fatto, dovea fuggire ogni apparenza che
fosse contraria alla civile egualità. Per queste cagioni il Conte
di Poppi era tutta cosa di Rinaldo degli Albizzi e della sua parte,
ai quali si diede in braccio da quando il Piccinino entrò in Toscana
così da fidare alla vittoria di quello le sorti sue, che fu cagione a
lui di ruina. Ma quanto a me tengo che in fondo a ogni cosa stesse la
certezza che la Repubblica ad ogni modo avrebbe voluto ingoiarsi il
Casentino: il ch’egli cercava prima evitare legando a sè col parentado
la Casa Medici; e poi fallito questo disegno, non ebbe più altro che
da sperare nella vittoria dei fuorusciti, a sè obbligandoli per un
beneficio di tanto più grande quanto era a lui più arrischiato. La
Repubblica pur nonostante lo aveva eletto suo Commissario, e datogli
bombarde per la difesa; ma egli chiamava le armi ducali nel Casentino:
dove entrato il Piccinino, prese alcuni minori castelli, e quindi
Bibbiena che si teneva pei Fiorentini. Ma trovò intoppo grandissimo e
fuori d’ogni sua credenza nella piccola fortezza di Castel San Niccolò,
alla quale poneva assedio e con ogni ingegno di guerra e con ogni
crudeltà sforzandosi d’espugnarla, rimasero le sue genti sotto a quelle
anguste ma forti mura ben trentadue giorni; che fu salvamento alla
Repubblica.[320] Perchè avendo quella dimora infruttuosa del Piccinino
lasciato tempo che giungessero soldati in copia, e che ogni maniera di
provvigioni nella città si facesse; al Piccinino venne a mostrare che
la impresa di Firenze, non sovvenuta da commozioni civili, riusciva
impossibile. Ben avrebbe il Conte di Poppi voluto che egli dimorasse
tra que’ monti, ma non erano luoghi da farvi stanziare un esercito:
il Piccinino gli rispose, che i suoi cavalli _non mangiavano sassi_; e
avendo già fatta risoluzione di tornare in Lombardia, prima s’accostava
ai monti per la Valle Tiberina, e quindi pigliandogli vaghezza di
rivedere la patria sua, fece con pochi soldati entrata in Perugia,
magnifica sì ed acclamata da’ cittadini, ma tosto seguìta da cosiffatte
dimostrazioni che a lui parve bene uscirne, perchè dava ombra a molti
l’avere in casa un tanto grande concittadino; il quale sapevano quanto
si struggesse di acquistare anch’egli una qualche città in possessione.
Tornando, faceva sopra Cortona qualche disegno; ma fu la congiura dei
malcontenti nella città scoperta bentosto; e Niccolò venne con tutto
l’esercito a porsi nel Borgo di San Sepolcro, per indi pigliare la via
dei monti e ricondursi in Lombardia.
Innanzi però, ed egli bramava molto di onorare le armi sue con qualche
fatto, e i fuorusciti vivamente a ciò lo pressavano, e l’occasione
pareva buona perchè l’esercito dei nemici avendo più capi e più voleri,
l’autorità dei Commissari Neri Capponi e Bernardetto dei Medici era da
credere fosse attraversata: per la Chiesa era il Cardinale Scarampi,
nuovo patriarca d’Aquileia, con titolo di Legato; ed i soldati di
Lombardia scesi ubbidivano a Pier Giampaolo Orsino ed a Micheletto
Sforza Attendolo. Aveano fermato il campo sul colle che ha in alto
il forte castello d’Anghiari, di dove stendevasi per l’ampia pendice
la quale discende giù verso il Tevere, sito bene scelto:[321] ma il
Piccinino si fidò coglierli trascurati un giorno di festa, a’ 29 giugno
che è dì di San Pietro, e quando il caldo era grandissimo, quattro ore
innanzi al tramontare del sole.[322] Il che a lui sarebbe venuto fatto
se Micheletto, vecchio capitano, da un polverio ch’egli scorse di là
dal Tevere accostarsi per la strada che da Borgo San Sepolcro conduce
ad Anghiari fatto certo d’avere battaglia, non avesse chiamato alle
armi il campo, che in fretta potè ordinarsi. Il Tevere ha un ponte,
che il Piccinino passò a furia co’ suoi; ed avendogli affoltati giù
nella pianura, fece impeto sopra i primi nemici che erano discesi, i
quali cedendo e pel terreno che saliva congiugnendosi man mano alle
squadre che sopravvenivano, fu per tre ore varia fortuna, senza che
potessero nè il Piccinino rompere l’oste dei collegati che in largo
sito poteano muoversi ordinatamente, nè questi forzare il passo del
fiume sin verso sera. Ma non sì tosto furono i Ducheschi costretti a
ritrarsi sull’altra ripa, qui la difesa era tutta impedita da fosse
ed argini e vie strette, nè il Piccinino che non potè raccogliere in
grossa mano i soldati suoi, ebbe agio di fare degna resistenza. Fu
grande la rotta, preso lo stendardo del Capitano, i prigionieri molte
centinaia, tra’ quali erano uomini di qualità; ma sempre i numeri noi
dobbiamo tenere mal certi; tremila sarebbero i cavalli venuti in potere
dei vincitori. Il Piccinino s’andò a chiudere nel Borgo San Sepolcro
con forse millecinquecento cavalli, tra buoni e cattivi e quelli da
carriaggio. Di là non aveva l’uscita libera, e sarebbe stato anch’egli
preso; ma i Commissari, benchè facessero la mattina dopo infino a
terza il possibile, non trovarono un condottiero che gli seguisse,
perchè i soldati attendevano alla preda, e spogliati i prigioni gli
lasciavano andare in farsetto; tanto vili erano quelle guerre: Niccolò
Piccinino in sulla terza muoveva per tornare in Lombardia.[323]
Quella battaglia assicurava lo stato dei Medici, avendo levati d’ogni
speranza i fuorusciti, i quali dipoi non fecero mossa: di Rinaldo
degli Albizzi sappiamo, che essendo ito a visitare il Santo Sepolcro,
moriva in Ancona l’anno 1442: aveva sposata una figliola sua ad uno dei
Gambacorti cacciati di Pisa.[324]
Essendo rimasto vuoto il Borgo San Sepolcro, i Commissari della
Repubblica l’occuparono. Era quella terra ai Fiorentini già stata
offerta dal Conte di Poppi, che vi teneva ragioni per la figliola
sua stata moglie al Fortebraccio. La Repubblica rispose allora di non
volersene impacciare per rispetto del Papa che aveva in casa, ma si
fece raccomandatrice delle ragioni del Conte presso ad Eugenio che
non voleva sentirne parlare. Questi allora diede Borgo San Sepolcro in
deposito alla Repubblica di Firenze: dopo la battaglia, tra’ Commissari
e il Legato fu qualche vertenza con male parole;[325] ma infine il
Papa, bisognoso di danaro, lasciava occupare per venticinquemila ducati
d’oro Borgo San Sepolcro come pegno ai Fiorentini, nei quali rimase.
Subito dopo la vittoria, Bernardetto dei Medici andato a Monterchi,
aveva avuto a patti la possessione di quella terra da una madonna
Alfonsina o Eufrosina, figlia del Conte di Montedoglio e vedova di
Bartolommeo da Pietramala con tre figlie da marito. Dissero a lei: «se
aveste atteso come donna al governo della famiglia, non avreste ora
perduto lo Stato vostro.» Ma i signori de’ castelli avevano sempre gli
occhi al Duca di Milano, protettore e capo di quanti erano per l’Italia
continuatori di signorie al modo antico ghibellino. Rispose la donna:
«che avea fatto quello gli era ito per l’animo, e che sperava nel suo
signore Duca di Milano, che aveva assegnato a lei millecinquecento
ducati d’oro all’anno, e dal quale avrebbero essa e le figlie sue
buono stato.» «Saranno di quelli del Re Erode,» a lei replicarono i
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