Storia della Repubblica di Firenze v. 2/3 - 06

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che in Firenze si mantellava col nome guelfo, in Siena promosse questa
mutazione nello Stato, mandandovi anche ambasciatori sotto pretesto di
cercare la concordia; e celebrò il fatto col suonare le campane e coi
falò e le armeggerie, sebbene a molti quelle cose dispiacessero, come
fatte alla oppressione loro.
Uno degli ambasciatori mandati a Siena era Benedetto degli Alberti
che dapprincipio non voleva, ma gli fu risposto andasse a Siena o a
confine; onde nell’ambasceria tirando in senso contrario a quello dei
suoi colleghi, venne a rendersi più maleviso alla parte che reggeva,
cui pareva essere Benedetto un grande ostacolo da rimuovere. La
famiglia degli Alberti (diversa dai Conti dello stesso nome, signori
antichi delle castella in Val di Bisenzio che poi furono de’ Bardi)
era in Firenze potentissima per le ricchezze, vivendo splendida sopra
le altre e guadagnandosi con le limosine e la larga benignità dei
costumi il favore popolare. Niccolò Alberti moriva l’anno 1377 ricco,
si diceva, di sopra a trecento migliaia di fiorini che il padre suo
aveva acquistati con la mercatura per varie parti della cristianità,
massimamente dei panni francesi e delle lane dell’Inghilterra. Ebbe
egli esequie magnificentissime, nelle quali più di cinquecento poveri
lo piansero alla bara, senza contare quei molti altri nascostamente
beneficati che lui piangevano per le case.[54] Quando nel 1384 si
festeggiava l’avvenimento di Carlo di Napoli alla corona d’Ungheria,
gli Alberti fecero apparato di torneamenti e di giostre che bene
potevasi convenire ad ogni gran principe. Benedetto godeva il favore
che a lui davano le ricchezze, l’autorità delle cose fatte, e certa sua
prudenza facile nei consigli; talchè lo troviamo lodato, sebbene fosse
egli nel 78 primo a chiamare il popolo in Piazza, avesse poi cercata
la morte di Piero degli Albizi, poi fosse ministro a quella di Giorgio
Scali. Un parente suo di nome Cipriano, quando fu tratto Gonfaloniere
se ne adombrarono gli avversari; e s’egli avesse voluto usare il grande
seguito che aveva presso agli artefici, si temette potesse volgere la
Repubblica. Avvenne dipoi l’anno 1387 che essendo uscito gonfaloniere
un Filippo Magalotti, il quale aveva per moglie una figliuola di
Benedetto, ma non arrivava ai 45 anni, età voluta pe’ gonfalonieri,
fu al Magalotti vietato pigliare l’ufficio e invece sua tratto Bardo
Mancini. Di che fu tumulto e creata una Balìa, nella quale entrava
lo stesso Benedetto per essere uno dei gonfalonieri di compagnia. Pur
nonostante quella Balìa privava d’ogni ufficio tutta la famiglia degli
Alberti, eccetto pochi ch’ebbero grazia, e confinava Benedetto fuori
delle cento miglia.[55] Questi esulò in Genova; poi andato a visitare
il Santo Sepolcro, nella tornata moriva in Rodi, d’onde il corpo suo
portato in Firenze ebbe solenni esequie in Santa Croce. Così fino
all’ultimo il nome suo rimase in pregio, per quale merito non sappiamo.
Così avendosi d’in su gli occhi levato quell’uomo e abbassata quella
schiatta di cui potessero più temere, confinarono oltre quell’Adimari
che assai co’ Ciompi se la intendeva, taluni del popolo più minuto;
e per sempre posero a sedere intere famiglie, tra le quali erano gli
Scali, i Covoni, i Mannelli, i Rinuccini. Il dì medesimo vennero alla
Piazza molti di case possenti con fanti armati, e domandavano che altri
fossero levati di Firenze come fautori degli ammoniti, dei fuorusciti
e dei ghibellini; al che i Signori, armati anch’essi in quel frattempo
di gente a piedi ed a cavallo, non consentirono; ma questo si ottenne,
che tutti coloro i quali avessero nell’85 vinto il partito, entrassero
senza altra solennità nelle borse; talchè v’entrarono più di trecento
uomini e molti garzoni e fanciulli: cotesto era vizio da più anni
usato, che i reggitori vi mettessero dei figli loro e discendenti che
non giungevano all’adolescenza, ed allo squittinio venivano nomi di
tali che erano nelle fasce.[56] Deliberarono che le minori Arti, le
quali avevano prima il terzo nel priorato ed in altri uffici, avessero
il quarto, e salvo alcuna particella, la quale era data ai grandi,
tutto il resto alle sette maggiori; e a queste le grosse potesterie
ed i vicariati: imposero pene gravissime ai forestieri se accettassero
alcuno ufficio della città. Da ultimo fecero anche una borsa separata
dei più confidenti a quello Stato così ristretto, dei quali almeno in
ogni priorato ne fossero due; gli chiamavano i Priori del Borsellino,
dappoichè il popolo di Firenze pareva oramai ridotto a quel solo usato
sfogo del motteggiare. Il Gonfaloniere che tante cose aveva fatte,
ebbe in dono un cavallo coverto con le armi della Parte guelfa ed altre
nobili onoranze.[57]


CAPITOLO III.
NIMISTÀ E GUERRE CON GIOVAN GALEAZZO VISCONTI. COSTITUZIONE D’UN
GOVERNO D’OTTIMATI. [AN. 1387-1402.]

Quando avvenivano queste cose, la Repubblica vedeva già incontro a
sè una guerra di grande pericolo, essendosi posta innanzi sola per la
difesa delle città libere contro alla più vasta e ambiziosa Signoria
che insino allora fosse in Italia. La potenza dei Visconti, benchè si
reggesse nel nome di Bernabò, era divisa tra due fratelli; dei quali
Galeazzo essendo morto, ebbe a successore il figlio Giovanni Galeazzo
che avea titolo di Conte di Virtù, giovane di smisurata ma coperta
sete d’impero, e che s’ingegnava con la dolcezza dei costumi, col
biasimare le guerre e in ogni cosa mostrarsi di quieta natura, tirando
a sè l’amore dei popoli, addormentare i sospetti del feroce Bernabò,
cui pareva essere il nipote timido e inerte ed inclinato alle arti di
pace ed alle opere di devozione. La fama andava dietro al giovane, ed
era opinione che Bernabò lo volesse giugnere; ma Galeazzo anticipò,
ed avendo con sottile inganno preso lo zio che gli andava incontro
sopra una via maestra, lo chiuse in carcere, e indi a pochi giorni lo
fece morire: le città, le armi e le ricchezze della grassa Lombardia,
subito ubbidirono a Giovanni Galeazzo. Egli pauroso della persona sua,
quanto era audace nelle imprese per altri condotte, vivendosi chiuso
e cinto d’armati nel castello di Pavia, sapeva dirigere con singolare
accorgimento le pratiche insieme alle militari spedizioni; non faceva
pace che in sè non covasse più semi di guerra, nè guerra senza essere
pronto a giovarsi degli accordi. Grande contesa era tra ’l Signore di
Verona e quello di Padova; Giovanni Galeazzo, dopo lunghi avvolgimenti,
dichiaratosi pel Carrarese, ebbe Verona ponendo fine alla signoria
degli Scaligeri; dipoi Vicenza, e per sopraggiunta voltosi contro a
Francesco da Carrara che aveva tradito, assalì Padova l’anno 1388.
I Veneziani, badando solo a quel grande odio ch’essi portavano ai
Carraresi, e per allora avendo massima di non impacciarsi troppo dei
casi di terraferma, avevano lasciato estendersi le armi e la potenza
del Visconti fin sulle sponde dell’Adriatico. Quel da Carrara, per
lunghi casi e miserevoli sottraendosi all’iniquo vincitore, scampò in
Firenze a lui benevola.[58]
Ma era Giovanni Galeazzo di coloro ai quali non basta sola un’impresa,
e dove non abbiano alle mani cento fila, temono incontro agl’ignoti
eventi d’essere côlti alla sprovveduta, nè alla loro indole
soddisfanno. Aveva disegni anche sulle cose di Toscana; e ad un
ambasciatore fiorentino disse volere mutare titolo, e fu inteso che
divisasse egli farsi re.[59] Nè a ciò mancavano le occasioni: in
pezzi l’Italia, ed all’intorno imperi deboli; armi vendereccie, ed
egli copioso di tanta moneta che nessun principe l’agguagliava:[60]
Napoli consunta da interminabili guerre e di nuovo minacciata, la
Chiesa divisa. Contro a Firenze erano accesi dopo l’acquisto d’Arezzo
i sospetti dei vicini, che un governo ora stretto in pochi vedeano
fatto più aggressivo; Perugia aveva nelle sue mura chiamato il fiero
Papa Urbano, e cacciato quella parte che più aderiva ai Fiorentini.
Questi, padroni di tutte le altre terre e fortezze di Val di Chiana,
aveano costretto a porsi sotto al vassallaggio loro il Signore di
Cortona, il quale da prima era censuario dei Senesi; teneano pratiche
in Montepulciano, dove eccitata una ribellione contro alla Repubblica
di Siena, occuparono la terra co’ loro soldati siccome arbitri nel
dissidio; poi fatti venire in Firenze ambasciatori dei Montepulcianesi,
questi come di soppiatto la descrissero nel libro della Camera della
Repubblica,[61] chè in palese non si ardiva fare ai Senesi cotale onta.
Quindi, a meglio assicurarsi, fatte venire in Toscana certe compagnie
straniere le quali giravano per l’Italia cercando pane, le mandò
sotto bandiera libera a minacciare i Perugini e a fare danni su quel
di Siena. I Senesi allora chiesero d’aiuto il Signore di Milano, il
quale bramoso di porre le mani nelle cose di Toscana, mandava loro alla
sfilata ed a più riprese tre migliaia di soldati sotto le insegne di
Giovanni d’Azzo degli Ubaldini rinomato capitano, e di Giantedesco dei
Tarlati,[62] entrambi nemici capitalissimi sopra tutti della Repubblica
di Firenze. Così era guerra tra ’l più possente signore d’Italia e
la Repubblica (tranne Venezia) più possente, senza che alcuna delle
due parti spiegasse in campo le sue bandiere. Lucignano fu ripresa ed
altre castella tolte ai Fiorentini: sotto la bicocca di San Giusto alle
Monache nel Chianti vennero per la prima volta in questa parte d’Italia
adoperate le bombarde.[63] Poco dipoi Giovanni d’Azzo infermò e in
Siena venne a morte. Grande era frattanto la sospensione degli animi
all’appressarsi d’una guerra, la quale sembrava volere invadere tutta
Italia; ed il vecchio Piero Gambacorti, usando l’antica amistà co’
Fiorentini, con grande animo attendeva a procurare un accordo: godeva
di molta autorità presso gli altri principi e signori per la prudenza
e bontà sua; talchè alla fine gli riuscì farsi mediatore d’una lega,
per la quale a Pisa intervennero ambasciatori del Duca di Milano, dei
Fiorentini e dei Senesi e delle altre città di Toscana, e dei Signori
di Lombardia e di Romagna in molto numero.[64] Non fu stipulata mai
nell’Italia confederazione tanto vasta, nè tanto solenne, nè tanto
inutile per gli effetti che tosto svanirono. Montepulciano, cagione
prima della guerra, non fu ai Senesi restituita che fintamente, ed
in Siena stessa una ribellione fu tramata co’ nobili fuorusciti per
introdurre ivi le masnade che i Fiorentini teneano sempre nei luoghi
all’intorno, mentre che i Senesi viepiù si stringevano al Signore di
Milano: il quale cacciava indi a pochi dì dalle sue terre i Fiorentini,
e facea ritenere Giovanni Ricci che andava in Francia ambasciatore,
maltrattandolo e negando poi restituirlo, perchè l’anno innanzi avea
caldamente orato in Consiglio contro al Visconti e (diceva questi)
messo a partito di avvelenarlo.[65] Fidava poi molto nelle corruttele,
trovandosi avere egli comprato in Firenze stessa la rivelazione di
alcuni segreti per mille fiorini d’oro da un Bonaccorso di Lapo ch’era
stato due volte Gonfaloniere: confessava costui la colpa, onde ebbe
bando e fu dipinto per traditore. Inoltre il Visconti con le pratiche
di dentro e co’ soldati di fuori studiavasi tôrre a Piero Gambacorti la
signoria di Pisa, ed ai Fiorentini ribellare Samminiato e più castella
su quel di Arezzo, dando mano ai signori antichi ed ai gentilotti,
i quali n’erano spossessati. Infine la guerra dalle due parti era
protestata nella primavera dell’anno 1390.
In questo mezzo Francesco da Carrara, condotto com’era da infaticabile
passione, aveva potuto ritorre Padova al Visconti con grande letizia
di quei cittadini; e Verona per subito movimento scuotendo il giogo
che la opprimeva, stava tra ’l porsi in libertà o richiamare un
fanciullo rimasto in vita degli Scaligeri. Nelle quali divisioni
bentosto accorrendo le armi di Giovanni Galeazzo, spensero nel sangue
della infelice città la ribellione; e avendo impedito che Vicenza
si muovesse, si spinsero innanzi infin sotto Padova a soccorso del
Castello, il quale tuttora si teneva pel Visconti. Cotesti fatti
vennero in punto a rinnalzare alcun poco gli animi de’ Fiorentini,
i quali avendo in Toscana molta guerra intorno a Siena e ad Arezzo,
vedevano anche pericolare Bologna, antica difesa delle città guelfe
contro a’ Signori di Lombardia. Richiamarono con grande fretta Giovanni
Aguto, ch’era sempre in Puglia ai servigi della vedova di Carlo di
Durazzo, e assoldarono Rinaldo Orsini buon capitano, che avendo appena
raccolte sue genti moriva all’Aquila; ma l’Aguto per vie nascoste
sottraendosi alle armi nemiche, era giunto con due mila lance al
soccorso di Bologna; intorno alla quale Iacopo del Verme, principale
capitano del Visconti, con forte esercito campeggiava, assistito
dal favore di presso che tutti i signorotti di Romagna, che stavano
col più forte. L’Aguto, riuscendo con grande maestria a prevalere in
molti assalti di qua dal Po, conduceva infine le armi sue a Padova,
costringendo il marchese di Ferrara, il quale inclinava verso il
Signore di Milano, a porsi in lega co’ Fiorentini. Già intorno a Padova
era giunto un altro soccorso, ma insufficiente: il Carrarese aveva
mosso contro al Visconti il duca Stefano di Baviera, marito a una
figlia dell’ucciso Bernabò, e i Fiorentini gli aveano dato ottantamila
fiorini perchè scendesse in Italia con dodicimila cavalli: scendeva
con la metà del promesso numero, e bastato solamente alla riscossa di
Padova, ritornava quindi in Germania senz’altro effetto, o non volesse
o non sapesse o anch’egli fosse corrotto dall’oro di Giovanni Galeazzo.
L’Aguto, avendo inutilmente tentata Vicenza e Verona che trovò essere
ben guardate, potè spingersi però infino all’Adda, sulle cui sponde
celebrarono i Fiorentini correndo i palii, com’era usanza, il dì
solenne di san Giovanni.[66]
Quivi aspettava in forte sito il Capitano della Repubblica infinchè a
lui si congiungesse un altro esercito che scendeva contro al Visconti
giù dalle Alpi. Dappoichè le Sicilie furono date in Regno ad una
famiglia di Francesi, più non cessarono questi d’immischiarsi nelle
faccende d’Italia, ed ora un altro Duca d’Angiò rivendicava con le
armi le ragioni della spossessata regina Giovanna, della quale era
fatto erede. Bene i Fiorentini si tennero fuori da tale contesa, invano
adopratisi a conciliarla con che il figliuolo del Duca d’Angiò sposasse
la figlia rimasta di Carlo di Durazzo: e quando cercarono dal re di
Francia Carlo VI aiuto nella guerra di Lombardia, proponeva questi
due condizioni; riconoscessero come legittimo e vero papa quel suo
d’Avignone, e al Re pagassero un tributo ancorchè minimo, onde avesse
egli alcun titolo a pigliare i Fiorentini in protezione. Rifiutarono,
perocchè l’una delle due cose importava incostanza nella fede, e
l’altra diminuzione di libertà. Ma si apriva loro in Francia altra via,
e senza obblighi verso il Re; appresso a lui poteva molto il fratello
Duca d’Orléans, recente marito a una figlia di Giovan Galeazzo, a
quella poi tanto ricordata Valentina, dalla quale cento anni dopo un
altro ramo di Re francesi pretendeva tenere un diritto al ducato di
Milano. L’oro del suocero accresceva la potenza di quel Duca d’Orléans,
contro del quale stavano gli altri principi del sangue, e acerbo
nemico il Duca di Borgogna: questi volendo abbassarne la grandezza,
metteva innanzi il conte Giovanni d’Armagnac, la cui sorella sposa
a Carlo primogenito di Bernabò Visconti non si dava pace di vederlo
privato ed esule e insidiato sempre. Incitava essa quindi il fratello a
pigliarne la vendetta, e quel di Borgogna faceva che sotto le insegne
di lui si raccogliessero in gran numero i soldati allora dispersi di
certe bande che aveano prima desolato le provincie intorno al Rodano
e alla Loira.[67] I Fiorentini somministrarono all’Armagnac in due
paghe centocinque migliaia di fiorini, e molti più ne promettevano
quando avesse condotto a fine l’impresa. Scendeva costui ne’ piani di
Lombardia con la forza di quindicimila cavalli, ed era dato ordine si
congiugnesse con Giovanni Aguto, che stando sull’Adda divisava farglisi
incontro verso Pavia. Non sia chi si vanti più animoso dei Francesi,
ma era in Italia più arte di guerra; scorrevano quelli pei grassi
piani di Lombardia fidatisi andare a facile preda:[68] ma era consiglio
d’Iacopo del Verme guardare le terre, tra le quali avendo munita quella
di Alessandria con forte presidio ed all’insaputa dei nemici, questi
crederono espugnarla tostochè se l’ebbero incontrata sulla via, mentre
muovevano giù da Asti. Discesi a terra per dare l’assalto, lasciarono
addietro i loro cavalli; addosso ai quali venuto ad un tratto il
Capitano del Visconti, gli prese o disperse, e quindi volgendosi
con la sua buona e grossa mano di uomini d’arme, percosse incauta e
sprovveduta l’oste dei pedoni, la quale già era impegnata fortemente
contro ai soldati della Fortezza. Fu grande la rotta che toccarono i
Francesi, e la fuga sparpagliata senza cavalli e senza capo; imperocchè
l’Armagnac, vinto dal caldo ch’era eccessivo il giorno 25 luglio 1391
e dall’angoscia dell’animo, avendo bevuto molta acqua, fu colto da un
subito accidente, del quale moriva il giorno dipoi. È da vedere come
la morte di questo Signore venga narrata prolissamente dal cronista
francese Froissart, il quale alle volte ti sembra storico e alle volte
romanziere. Dei fuggitivi presi in caccia dai soldati d’Iacopo del
Verme quanto distendesi il Piemonte infino alle Alpi, molti rimasero
prigionieri; uccisi molti altri per le strade di Savoia, e quindi giù
pel Delfinato insino al Rodano e alla Senna, dove gli avanzi di quelle
terribili bande già tanto crudeli non trovavano pietà, pochi e miseri e
mendichi tornati essendo alle loro case.[69]
I Capitani del Visconti nella letizia di tanta vittoria condussero
senza porre tempo in mezzo le armi loro sopra l’Adda, sperando
avere facilità quivi di rompere Giovanni Aguto; che sarebbe stato
fiaccare del tutto le forze nemiche e porre termine alla guerra. Ma
questi già vecchio e prudentissimo capitano, appena sentita la rotta
dell’Armagnac, ritraendosi alcun poco e con buon ordine lentamente fin
verso Cremona, quivi sostenne con suo vantaggio un primo assalto, e
poi varcato co’ nemici sempre addosso l’Oglio ed il Mincio, indi pe’
confini di Verona e di Vicenza pervenne con frettoloso cammino sulle
terre padovane, facendosi spalla di Francesco da Carrara che teneva la
città. Ma era suo fine portare l’esercito alla difesa di Toscana; al
che gli restava ultimo e più difficile impedimento il fiume dell’Adige,
intorno al quale era il terreno allagato dai nemici che sempre a
tergo lo inseguivano: passò tra le acque felicemente,[70] e avendo
amiche le terre estensi e le bolognesi, ebbe poi facile e sicura la
via fin dentro ai confini di Toscana. Quivi era di lui ansietà eguale
al desiderio, imperocchè Iacopo del Verme già vi era disceso a grandi
giornate per l’Alpe di Lunigiana, ed era già intorno a Lucca ed a Pisa,
mentre l’Aguto da Pistoia, passato l’Arno, gli venne a chiudere le vie
di Siena e di Firenze ponendo il campo a Samminiato. Era consiglio
d’Iacopo del Verme andare a Siena battuta forte dai Fiorentini che
ivi tenevano, sotto Luigi da Capua figlio del conte d’Altavilla,
un esercito di quattromila cavalieri e duemila fanti tra italiani e
tedeschi consueti a’ soldi d’Italia: e quindi lasciando l’Aguto a’ suoi
fianchi, per la via di Volterra girò a Siena, dove ingrossatosi delle
genti che potè ivi raccorre e forte di sopra a diecimila cavalli, si
condusse voltando indietro a Poggibonsi. Quivi l’Aguto già era accorso
a guardare il passo, ma non parendogli di bastare contro al troppo
grande numero dei nemici, si chiudeva nelle castella; ed intanto quelli
a file serrate procedendo per la valle d’Elsa, in due o tre giornate
vennero nel piano di Pistoia. L’Aguto, seguendogli, poneva il campo
vicino a loro presso Tizzana, dove grande aiuto gli sopravvenne di
genti del contado di Firenze e di collegati; chè sola Bologna aveva
mandato duemila cavalli e quattrocento balestrieri. Quindi al Capitano
del Visconti parve ritrarsi inverso Lucca; lo inseguiva l’altro, e
avendo colta in sulla Nievole la retroguardia sprovveduta, l’assalì e
percosse con suo grande vantaggio, avendo anche preso Taddeo del Verme
che la comandava, congiunto del Capitano.[71] Ma qui per allora finiva
la guerra: il Doge di Genova Antoniotto Adorno aveva più volte mandato
a Firenze proposizioni di pace, della quale era molto desideroso Piero
Gambacorti, ed a promuoverla s’adoprava il nuovo papa Bonifazio IX;
Giovan Galeazzo era pronto sempre a vantaggiarsi per via d’accordi.
Infine elessero le due parti a comuni arbitri l’Adorno in suo proprio
nome, e il Gran Maestro di Rodi Ricciardo Caracciolo legato del Papa,
e terzo arbitro il Comune e popolo di Genova. Pronunziarono insieme
il lodo; per cui rimase a Francesco da Carrara Padova, ch’era il
principal momento di quella contesa, con che al Visconti pagasse per
cinquant’anni diecimila fiorini l’anno: i fuorusciti di Siena, tra’
quali nobilissime famiglie i Malavolti ed i Tolomei, riavessero i
beni, ma senza però tornare in patria, il che volevano con grande
istanza i Fiorentini; le castella si rendessero dalle due parti; ed al
Visconti non fosse lecito mandare sue genti in Toscana, se non quando
patissero offesa i Perugini o i Senesi che a lui erano collegati.
Nei pochi mesi di quella guerra i Fiorentini aveano speso un milione
e duecentosessantaseimila fiorini d’oro, secondo che scrive Lionardo
Aretino avere trovato nei Libri della Camera del Comune. I cittadini
aveano pagato tanti danari, che quasi niuno poteva più pagare, e
molti erano rimasti deserti. Aveva il Comune sì grande il debito, che
presso che tutte le rendite sue ne andavano a pagare l’interesse del
Monte; e quindi stretti dalla necessità, fecero molti provvedimenti
ad accrescere le entrate e diminuire l’interesse, i quali erano contro
alla fede data, e molti cittadini ne ricevettero grandi danni; ma pur
sel patirono. Tra le altre cose fu ordinato si ritenesse ogni anno
la quarta parte dell’interesse, e coi danari ritenuti gli ufficiali
del Monte comperassero dai creditori al minor pregio che potessero i
titoli iscritti, a fine di scemare via via la somma del debito posato
sul Monte, secondo che era, siccome vedemmo, antica usanza nella
Repubblica.[72]
Ma non cessavano le offese, perchè cessasse la guerra; gli odii
restavano e i sospetti, e i disegni concetti prima si maturavano più in
segreto; nè mai le paci in quella età davano quiete, poichè le bande di
soldati licenziati seguitavano per conto loro correndo le strade a fare
guasti ed imporre taglie pel riscatto delle terre, al che d’ordinario
tenevano mano coloro medesimi che prima gli ebbero assoldati. Parve
quindi necessario ai Fiorentini, conchiuso appena l’accordo del quale
assai si dolevano, di nuovo ristringere coi Bolognesi e coll’Estense
e col Signor di Padova l’antica lega; cui s’aggiunsero alcuni Signori
delle terre della Chiesa, e quello di Mantova in sugli occhi del
Visconti, che in modo crudele ne faceva rappresaglia dentro alla
stessa Toscana. Piero Gambacorti usava ogni industria durante la
guerra a schermirsi dal Visconti, pur sempre restando fedele amico
alla Repubblica, per le cui forze si manteneva nello Stato, costretto
però fin anche a impedire le mercanzie tra Pisa e Firenze, quando
Iacopo del Verme girava in arme attorno a Pisa. Finita la guerra, a
lui parve essere sollevato, ma ignorava l’infelice quello che in casa
gli si tramasse. Era il popolo di Pisa come sempre ghibellino, così da
gran tempo in molta paura della Repubblica di Firenze: ciò dava gran
presa ai disegni del Visconti, il quale si aveva guadagnato ultimamente
Iacopo di Appiano, scellerato uomo, che lo stesso Gambacorti si aveva
allevato in grembo e fattolo suo cancelliere e confidente d’ogni
più occulto pensiero suo. Alle denunzie ripetute che lui mostravano
traditore non volle credere il buon vecchio: infine l’Appiano armatosi
un giorno sotto colore di difesa contro ai Lanfranchi nemici suoi;
quindi alla scoperta sotto agli stessi suoi occhi, facea trucidare
colui dal quale teneva egli tanti benefizi e tutto l’essere suo.
Pigliava poi subito la signoria di Pisa, tenendola ai cenni di Giovanni
Galeazzo, che mandovvi anche soldati suoi.
In Firenze era, come vedemmo, da oltre dieci anni il reggimento nelle
Arti maggiori, e i savi uomini e discreti si rallegravano al vedere
tornata l’antica e buona forma della Repubblica, esclusa la plebe,
e a ogni Arte dato il luogo suo, in quelle essendo la preminenza che
più valevano pel sapere e per la ricchezza, e che alle altre davano
il lavoro: scrive un cronista, che pareva essere tornati in via di
verità. Ma già era il tempo dei governi popolari trascorso, e un
secolo s’appressava di costumi signorili, d’imprese più vaste che
voleano governi stretti, di forze raccolte in mano di pochi: nelle Arti
maggiori sorgeano famiglie insieme capaci d’in sè comprendere tutta
la Repubblica, battuti gli uomini che tiravano alla parte popolare o
fosse a studio d’ambizione o per amore di egualità. La riforma dell’87
manteneva nei pochi lo Stato con la formazione delle Borse e col rigore
degli squittinii pressochè tali da impedire l’incertezza delle tratte;
ma perchè fosse governo stabile, mancava tuttora una forza che bastasse
contro ai ritorni frequenti sempre delle popolari sedizioni, e che
agli uomini del Palagio in ogni evento si assicurasse il dominio della
Piazza. Quello che Giano della Bella aveva fatto nel 1293 armando il
popolo contro a’ grandi, volevano ora cento anni dopo contro al popolo
i nuovi ottimati, usciti da esso e da lui tuttora non bene divisi;
patrizi in abito cittadino costretti cercare giù nel popolo le armi,
non che i titoli e il diritto, e pur sempre essere popolani.
Era tratto pei mesi di settembre e ottobre 1393 Gonfaloniere di
giustizia Maso degli Albizi, nato da un fratello di Piero che aveva
sì alto levata la grandezza di quella famiglia: la memoria dello zio e
quella stessa crudele morte che egli incontrava con dignità, davano a
Maso aderenze grandi; e bene era egli uomo da usarle, avendo appreso
nel lungo corso dei cittadini rivolgimenti come per mezzo del popolo
si possa il popolo governare; uomo tutto fiorentino e sopra ad ogni
altro capace a reggere quello Stato secondo che davano le condizioni
di esso, le quali giammai non ebbe in animo di alterare. A’ 9 di
ottobre, s’udì che avevano due sbanditi rivelato certe intelligenze
di dentro con quelli che erano in Bologna, a fine di rendere lo Stato
al popolo delle ventiquattro Arti. Di tali pratiche ve n’è sempre là
dove sieno fuorusciti, e una denunzia viene in punto quando più giovi
a chi governa farsi arme e scusa di un pericolo a meglio opprimere
gli avversari. Allora essendo per quell’accusa tre artigiani presi e
tormentati, dissero cose _vere e non vere_, e nominarono come fautori
di quel trattato Cipriano ed altri degli Alberti che rimanevano in
città: i quali essendo subito dati al Capitano che gli esaminasse,
nulla confessarono. La domenica veniente, 19 ottobre, suonò a
parlamento, al quale andarono molti giovani di grandi famiglie: fu
data balìa prima a trentaquattro cittadini e poi ad altri in maggior
numero eletti in Palagio dai Signori e dai Collegi, e i più da coloro
che erano in sulla piazza, forse mille uomini che se ne stavano
serrati presso alla ringhiera, dove i Signori erano scesi; costoro
gridavano: «questo vogliamo, e questo no.» Elessero Capitano di guardia
Francesco Gabbrielli d’Agubbio (famiglia che sempre si vede chiamata
a fare le opere più violente); ordinarono che si potesse dai Signori
e dai Collegi soldare più genti d’arme che prima non fosse lecito,
ed imporre per via di prestanza danari senza che il partito andasse
ai Consigli. Le borse antiche si rivedessero, e se alcuno fosse
tratto per Gonfaloniere che non piacesse, altri fosse posto in luogo
suo, ma rimanendo egli dei Priori; tra i quali fossero tre almeno di
quelli scritti nel borsellino: il Gonfaloniere di giustizia, perchè
avesse più autorità, vollero fosse in età almeno di 45 anni, il quale
termine fu d’allora in poi tenuto fermo: il magistrato di Parte guelfa
tornasse com’era prima del 1378, salvochè non avesse un Gonfaloniere
suo, ma fosse retto da Capitani come era in addietro; e mantenuta
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