Storia della Repubblica di Firenze v. 2/3 - 29
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canonico di Lisbona, il quale avendone tenuto discorso al Colombo,
questi per mezzo di un Giraldi fiorentino ch’era in Lisbona mandò per
lettera al Toscanelli l’annunzio del suo disegno ed una piccola sfera
sulla quale aveva segnato il viaggio; donde il Toscanelli mandava al
Colombo una Carta da navigare con gli spazi segnati a suo modo: a tutti
è noto che il Colombo credeva la prima terra da lui toccata fossero le
Indie. Il Toscanelli non ebbe tempo di sapere a quale uomo e a quale
scoperta avesse in perpetuo egli associato il nome suo, morendo l’anno
1482.
Qui male possiamo noi definire in brevi tratti Leonardo da Vinci [n.
1452, m. 1519], intelletto portentoso e inesplicato nella vasta potenza
sua, che in sè racchiudeva come una divinazione iniziatrice delle
scienze le quali si ampliarono dopo di lui. Tiene Leonardo come artista
tra i sommi un luogo tutto suo proprio e quasi appartato, perchè non
bastandogli il bello esprimere come forma, intese a condurlo per via
del pensiero fino all’ultima idealità sua; cercò degli affetti le
ragioni più riposte; e dopo averne dentro all’animo concetta l’essenza
per via d’astrazione, fece suo studio tradurla con l’arte in immagine
visibile: nè ciò gli bastava, chè un altro studio tutto diverso poneva
egli quindi nei mezzi meccanici che all’arte dessero compimento. Dei
suoi dipinti, che procedevano lentamente, pochi rimangono: il Cenacolo
in Milano, sebbene quasi perito, è per eccellenti copie negli occhi di
tutti; gli studi, i bozzetti, le prove mutate con sottili differenze
abbiamo in gran numero, perchè egli fu ingegno ch’era impossibile
soddisfare. Un colosso equestre di Francesco Sforza, del quale aveva
già fatto il modello, fu distrutto dai Francesi quando l’anno 1500
entrarono in Milano; si perdè il cartone d’un grande dipinto che doveva
ornare Firenze. Ma egli ebbe intelletto essenzialmente speculativo:
scrisse trattati sulla Pittura e sopra l’Idraulica: abbiamo libretti
dov’egli segnava i suoi calcoli e le invenzioni sue, le macchine da
lui tentate, gli studi d’algebra, di geometria e quelli intorno alla
meccanica razionale, alla dinamica, all’ottica, all’anatomia degli
uomini e degli animali; trovò la teoria del moto dell’onde, studiò
il volo degli uccelli, osservò fatti tra i più reconditi ch’abbia la
natura, intorno ad essi lasciando formule che tuttavia sono rimaste
alla scienza. In questi frammenti dei suoi studi, gli ardui problemi
che egli aggrediva col pensiero ne mostrano quanta solidità fosse
in quella sua mirabile estensione. Era oltreciò bello e forte della
persona; eccellentissimo nella musica e inventore d’alcuni strumenti.
Non ebbe fortuna con Leone X; accolto in Milano da Lodovico il Moro,
condusse l’opera del Canale detto il Naviglio, e lavorò intorno alle
fortificazioni; amato dal re Francesco I, dimorò in Francia alcuni anni
e quivi moriva in un castello presso Amboise, nè già in Milano e nelle
braccia di quel Re come fu detto fino ai giorni nostri. Aveva Leonardo
spinto il pensiero fino a cercare una generale proporzione la quale
servisse a lui come artista per la figura dell’uomo, e come fisico gli
mostrasse le leggi supreme a cui si conforma la struttura delle cose.
Quindi Fra Luca Pacioli da Borgo San Sepolcro, amico e compagno di lui
pubblicava, su quell’idea un libro _della divina proporzione_: era il
Pacioli pratico nei calcoli, avendo in più libri raccolto d’algebra e
di geometria quanto si sapeva al tempo suo, e dato notizia di antichi
studi matematici in oggi perduti, tra’ quali primeggiano alcuni
frammenti del pisano Fibonacci.
In Leonardo vennero a far capo le due correnti per le quali si era
condotta innanzi l’Italia, da un lato nelle Arti e dall’altro nella
Scienza; ma le Arti ebbero più facile e necessariamente meno incerto
il cammino. La forte vita che si agitava per tutto il dugento aveva
prodotto quasi a un portato Dante e Giotto; ma bastò a Giotto avere
in sè stesso la forma del bello, poichè i mezzi capaci ad esprimerlo
erano a lui già sufficientemente forniti dall’uso che era ai suoi tempi
della pittura. Quei mezzi che stanno invece della parola, nelle Arti
d’imitazione sono quasi del tutto meccanici; quindi è più semplice
l’andamento pel quale riescono esse a procedere e a perfezionarsi.
Un genio era apparso da principio e aveva mostrato una via nuova,
donde la pittura per quasi un secolo parve come stare intorno a lui,
da lui pigliando l’esempio a certe significazioni degli affetti e più
accurate regole al disegno e più ardimento nelle composizioni; facendo
di tutte queste cose all’Arte come un patrimonio capace a vivere ed
a passar oltre. Il che essa fece dopo a Masaccio. Il quattrocento fu
secolo d’artisti, i quali bisogna dire che in Firenze nascessero come
spontanei dal suolo; molti gli eccellenti, e male pareva che non si
sapesse fare. Il nome d’Arte, come si usa oggi a modo astratto, non
conoscevano: facevano come se esercitassero un mestiere, del quale i
maestri insegnavano le pratiche; il resto avevano in sè stessi.
Basti a noi dire i nomi dei capi scuola o quelli ch’ebbero maggior
fama. Fra tutti primeggia la famiglia dei Ghirlandai, dei quali
Domenico per evidenza di esecuzione e per naturalezza in certe sue
opere di molte figure ci fa vedere come in ritratto l’antico popolo
di Firenze; ma gli sta innanzi per la finezza dell’espressione e pei
concetti Fra Filippo Lippi, seguito da un figlio dello stesso nome:
Sandro Botticelli espresse affetti squisiti con forme più larghe:
Benozzo Gozzoli dipingeva in Pisa con lunga serie di composizione tutta
una parete di quel mirabile Campo Santo, dove il pensiero della morte
pare che inalzi la coscienza della vita. Nella scultura s’illustrò
molto in patria e fuori Andrea del Verrocchio: spesso i tagliatori di
pietre, da lavoranti nelle cave intorno a Firenze riuscivano scultori
fra tutti carissimi, perchè a vedere quei volti di marmo tu gli credi
vivi e che ne debba uscire una voce; com’è nelle opere di Mino da
Fiesole, di Desiderio da Settignano e di due da Rovezzano. Spesso
gli scultori insieme erano architetti, come i due da Maiano, i due da
San Gallo, Andrea da Montesansavino e il Cronaca, autore del Palazzo
degli Strozzi, dove è vergogna che tuttavia rimanga non compiuto il
cornicione del quale il mondo non ha il più perfetto. Ma intanto le
Arti erano salite a maggior grado anche fuori di Toscana, e già d’altre
scuole erano usciti pittori che inaugurando con altre maniere l’età
susseguente, preparavano da tutta Italia il tempo nel quale si viddero
esse toccare il colmo. Tra questi è debito annoverare Giovanni Bellino
che diede principio alla grande scuola Veneta, e Andrea Mantegna che
illustrò la Lombarda; Pietro Perugino diede all’arte del dipingere una
maggiore dolcezza, Francesco Francia bolognese la usò con più ardita
e più originale maniera. Un poco più tardi Fra Bartolommeo da San
Marco [n. 1469, m. 1517] s’accostò ai sommi, o sta con essi, tanto in
lui tutte le parti del dipingere toccarono alla eccellenza; che sono
disegno compito, nobiltà di forme, scienza nel comporre e un grande
intendere della prospettiva: ed in tutte queste doti certa proporzione,
per cui niuno forse de’ grandi artefici è di lui più dotto. Ma qui,
per dare compimento a quella scuola la quale fu tutta peculiare
Fiorentina, vogliamo per ultimo anche registrare il nome d’Andrea del
Sarto [n. 1488, m. 1534], il quale sebbene per gli anni appartenga
all’età seguente, continua l’antica scuola cittadina, condotta da lui
a perfetta finitezza pel movimento delle figure, pel rilievo, per la
vita in esse più varia, per evidenza insomma più intera, curando egli
familiarmente il vero più che l’ideale. In queste cose Andrea del Sarto
vince il Frate istesso, di cui le forme pare alcune volte ti stieno
innanzi come a mostra, o hanno movimento ed atto forzato, com’è nel San
Marco, dove non so se egli pure cedesse all’esempio formidabile del
Buonarroti, ovvero se come frate di San Marco volesse a quell’iroso
colosso prestare l’anima del Savonarola. Ma di Arti parlando, è da
dire anche dell’incisione in rame cui diede forse un qualche principio
Maso Finiguerra fiorentino, derivandone le pratiche dall’arte dei
Nielli nei quali fu egli eccellente: o se l’incidere dal rame in carta
fu inventato prima in Allemagna, è certo almeno che il Botticelli
ed Antonio Pollaiolo, insigni pittori, figurarono tra’ primi che
l’esercitassero in Italia. Ne stringe lo spazio, talchè non possiamo
qui molto estenderci nè sulla orificeria che fu nutrice a grandi
artisti, nè sopra l’arte qui molto estesa dell’ornare con miniature le
cartapecore, nè su quella d’incidere in gemme.
Continuava la Poesia volgare ad essere come soffocata dall’erudizione
che fa sua scienza il sapere altrui; volendo invece la poesia pensiero
libero, che si possa tradurre in immagini intere e viventi: al che si
aggiungeva che gli esemplari latini e greci, allora tra mano, davano
ai poeti come una sorta di scoramento, non credendo essi l’idioma loro
capace per anche di tanta coltura. Stava l’Alighieri come segregato
quanto alla lingua ed allo stile, e prove infelici riuscirono quelle
per cui fu cercato più volte di seguitarlo nei concetti scrivendo
poemi di argomento filosofico e morale. La sola canzone, perchè era
venuta su con la lingua, aveva cultori e stile suo proprio; ma dopo
avere nel Petrarca toccato la cima, lui seguitava ora da lungi e
nulla inventava. Queste erano traccie oramai segnate, ma quante volte
i letterati volessero uscirne scriveano latino, avendo il Petrarca
mostrato la forma di certe che appellò Egloghe, dove si avvolgevano
pensieri talvolta da non propalarsi. Nasceva però incontro ai più
dotti una scuola nuova d’autori più schietti, che solo intendevano a
trarre dal fondo della lingua viva quel tanto che avessero ciascuno
di loro in sè di poesia. Tra’ più umili Feo Belcari scrittore di
Laudi e di Rappresentazioni sacre e profane, avea sufficiente copia
di vena limpida come l’acqua pura, ma fu più felice in prosa che in
verso. È pure qui obbligo di registrare anche il Burchiello, barbiere
di nome rimasto famoso, perchè fece d’un certo suo gergo poesia forse
arguta, ma triviale; oscura oggi, ma popolare nei tempi suoi e che ebbe
inclusive imitatori. È tempo qui dire come la stampa recata da qualche
anno in Firenze producesse in lingua greca la prima edizione dei poemi
d’Omero, curata dal greco Demetrio Calcondila, e da Bernardo Nerli, che
ne fece la spesa, offerta con una sua lettera al giovinetto Piero de’
Medici, l’anno 1488: seguitarono a questa alcune altre nobili edizioni
di classici Greci in carattere maiuscolo.
Noi siamo ai tempi del Magnifico e al declinare del secolo. Un libro
a tutti noto e da pochi letto, è il _Morgante Maggiore_, poema
cavalleresco di Luigi Pulci. Costui fece prova di buon giudizio
trattando quella sorta di argomenti come cosa da ridere; ma è poi
vero che non avrebb’egli potuto per l’animo, o saputo per la tempra
di quella sua vena, salire a più alta sfera e tenervisi: ebbe egli
potente l’ingegno, ma incurante d’ogni cosa e di sè stesso, beffardo,
scettico, atto a dissolvere più che a comprendere e all’innalzare,
nel che sta l’ufficio della poesia vera. Gli accade alle volte di
raccogliere per via concetti pensati fortemente, o più di rado affetti
soavi e semplici, ma non vi si ferma; scrive a rallegrare prima sè
stesso e poi Lorenzo e i suoi convitati: alla fine del Poema, quando
egli descrive la morte d’Orlando, lo diresti epico, se alla invenzione
avesse egli data coltura e splendore d’espressione che bastasse.
Compose il Poema nei primi anni di Lorenzo e sotto al patrocinio della
madre di lui, severa e pia matrona, la quale invero male sappiamo
capire qual viso facesse ad un libro dove le cose più sacre son
poste in dileggio e, quello ch’è peggio, sotto al velame di un’ironia
fina. Ma egli era cantore pei conviti spensierati, nei quali dovette
riuscire mirabile per quella facile abbondanza di cui fa sfoggio come
improvvisatore, mettendo a prove difficili e strane, ma non però
affatto disaggradevoli, una copia di modi e di forme ch’era in lui
grandissima e che egli profonde con sempre continua scorrevolezza.
In lui non si cerchi le squisitezze dell’arte, ma sollevando l’ottava
rima dalla pesantezza del Boccaccio e dalle bassezze degli altri, ne
diede esempio utile a que’ sommi maestri ch’essa ebbe dipoi: quanto
alla lingua è facile rinvenire in essa qualcosa di meglio compito nella
struttura del discorso, di più andante nei periodi, qualcosa insomma di
più avanzato e più universale di quello che fosse (tranne il Petrarca)
negli scrittori del trecento, e che in sè annunzia ingegni più adulti.
Luca e Bernardo, fratelli di Luigi Pulci, e un Matteo Franco prete
famigliare di Lorenzo, scrissero anch’essi con lode poesie di vario
genere.
Negli stessi anni scendeva in Firenze da Montepulciano un giovane,
povero, ma già mirabile nei precoci studi, bentosto salito in fama
col nome di Angelo Poliziano [n. 1454, m. 1494]. Veduto l’ingegno
di lui singolare, Lorenzo de’ Medici lo fece subito cosa sua: i
letterati pareano a quel tempo nascere latini, ma il Poliziano ebbe
familiare anche la greca lingua così da nutrire coll’uso di entrambe
quella classica eleganza che era tutta sua: imberbe ancora traduceva
l’_Iliade_ in esametri questo omerico fanciullo, come il Ficino lo
appellava; tradusse poi nella breve sua vita, dal greco in latino,
altri scrittori di verso e di prosa. Ebbe anche potenza di critica
filologica, e col raffrontare autori antichi, o ne correggeva la
lezione, o ne illustrava col vasto sapere, non che le lingue, anche
le dottrine. Ma sopra ogni cosa era egli latino veramente nel poetare
in tutti i metri e in tutti gli stili, sempre con eguale felicità,
tanto erano a lui connaturali non che le forme anco il sentire delle
età classiche, delle quali coglieva il fiore, nessuno imitando, ma
com’egli fosse uno dei loro. Il che non può dirsi, ed è cosa da notare,
di lui nelle scarse ma pure eccellenti poesie ch’egli scrisse in
lingua italiana. Appare in queste non che l’imitazione generalmente
dei Latini, ma specialmente di questo o di quello scrittore, e (come
sogliono gli imitatori) non già dei sommi, perocchè questi non sai dove
cogliere, ma gli altri puoi credere più facilmente di agguagliare. Del
Poliziano abbiamo in lingua italiana il Dramma l’_Orfeo_ e le Stanze
sulla _Giostra_ e poche altre minori poesie; le Stanze, in quanto alla
leggiadria di lingua e gusto finissimo ed agli artifizi dello stile,
non ebbero prima chi le agguagliasse nè di poi forse chi per tali pregi
le abbia superate. Giace in San Marco il Poliziano accanto a Pico
della Mirandola: sotto a loro volle avere sepoltura, con iscrizione
commovente, l’amico d’entrambi Girolamo Benivieni; anima candida di
poeta e cólto scrittore di versi platonici, che in età vecchia osava
raccomandare a Clemente Settimo il nome del Savonarola e il Governo
popolare di Firenze.
Tra gli scrittori dell’età sua Lorenzo de’ Medici avrebbe un luogo
tuttavia eminente, quando anche a lui non l’avessero dato i servigi
per altro modo resi alle lettere. È tempo qui dire che Lorenzo non
era poeta nel più alto valore di questa parola, ma ebbe a sufficienza
facilità e copia, e ingegno educato a eleggere il bello: poco studioso
del greco e del latino, amò come uomo e come principe quella lingua
ch’egli udiva allora in sul fiore, e vivacissima sulle labbra dei sommi
uomini come dei volgari, da quei che salivano le scale del Palazzo di
Via Larga, fino ai contadini del Poggio a Caiano e di Careggi che molto
si piaceva di praticare. Abbiamo di lui Canzoni e Sonetti in molto
numero, dove con elevatezza di stile trattava l’amore platonico, e
versi ch’erano espressione d’amori volgari, e Scherzi satirici e Stanze
in lingua contadinesca; abbiamo Prose gravi e studiate ad illustrare,
com’era costume, Sonetti che aveva egli lavorati per indi porvi quella
illustrazione: nessuno di questi scritti basterebbe a fare di lui un
grande autore, nessuno è tale che un valent’uomo se ne vergognasse. Ma
quando Pico della Mirandola poneva Lorenzo come scrittore più in su di
Dante e del Petrarca, noi dobbiamo in tale giudizio ravvisare una di
quelle storture di cui si rendono capaci alle volte i sommi ingegni:
e altresì l’effetto di quelle incertezze, di quel disordine in cui
s’aggirava tra’ letterati allora il concetto della lingua nostra da
essi creduta o poco degna, o non sufficiente a chi volesse usarla nei
libri.
Da noi si chiama buon secolo della lingua nostra quello di Dante e del
Petrarca e del Boccaccio: ma gli scrittori in quella età non ebbero
tanta fiducia di sè stessi nè tanta superbia. Il che si dimostra in
primo luogo dal disputare che si fece subito intorno alla lingua,
la quale avendo taccia di bassezza, non era autorevole bastantemente
sulla nazione; era un dialetto venuto su quando una spinta maravigliosa
fu data agl’ingegni, ma senza corredo di scienza bastante. Sentiamo
mancare nella prosa all’efficacia della lingua l’arte del dire; in
quella età noi cerchiamo la potenza della parola e della frase, ma non
vi troviamo bastante evidenza nei costrutti, e l’orditura dei periodi
si dimostra per lo più timida o intralciata. Questo sentivano gli
scrittori, massimamente poi quando ebbero assaggiato gli autori latini:
Filippo Villani tace di Giovanni; e di Matteo suo padre dice avere egli
usato «lo stile che a lui fu possibile, apparecchiando materia a più
dilicati ingegni d’usare più felice e più alto stile.[561]» Nè avrebbe
il Boccaccio al nostro idioma fatto la violenza ch’egli fece, se non
avesse nella prosa creduto trovarlo come giacente e da cercare altrove
i modi e le forme a dargli grandezza. Le varie parti della coltura non
avendo le une con le altre avuto in Italia rispondenza sufficiente,
quei primi sommi parve si alzassero come giganti per virtù propria,
dopo sè lasciando un intervallo per cui le lettere cominciassero un
altro corso dove i primi gradi già fossero stati con inverso ordine
preoccupati. Il che nelle arti belle non avvenne, e quindi poterono
esse regolatamente salire alla loro perfezione: ma le lettere invece
di Giotto ebbero subito Michelangiolo, terrore agli altri piuttosto
che guida; ed il Boccaccio avendo trovato la lingua già bene adulta
ma inesperta, la fece andare per mala via; il solo Petrarca, più degli
altri fortunato, lasciò dietro sè lunga e prospera discendenza.
Avvenne per questa mala sorte che la lingua, innanzi di farsi e di
tenersi donna e madonna come si conveniva a tali uomini ed a tale
popolo, non bene osasse distaccarsi dal latino che stava siccome suo
legittimo signore, talchè all’italiano si diede per grazia l’umile
titolo di volgare. Nè questa ignobile appellazione cessava col volger
dei tempi, e le traduzioni dal latino s’intitolavano volgarizzamenti;
ed anche oggi quel che si scrive da noi letterati diciamo scrivere in
volgare, Dio ce lo perdoni. Ma quando pei cercatori dei libri classici
il latino fu ogni cosa, e chi non facesse di quello il suo unico studio
ebbe nome d’uomo senza lettere; allora alla lingua stata compagna
dei loro affetti mandarono i dotti il libello del ripudio, anzi fu
cacciata via come la serva quando torna la matrona. Sarebbe al Poggio
ed ai suoi pari sembrato vergogna scrivere italiano, onde egli scriveva
latine le Istorie dei tempi suoi e le Lettere e perfino le Facezie.
I poveri scritti di chi aveva narrato le cose come le aveva fatte, si
traducevano in latino perchè si acquistassero un poco di stima. Nè Pico
della Mirandola fu il primo che dicesse mancare al Petrarca le cose, e
a Dante le parole; questi era stato già tempo innanzi vituperato come
sciupatore del bello classico da Niccolò Niccoli erudito raccoglitore
di vecchi libri, che lui chiamava (così almeno lo fanno parlare) «poeta
da fornai e da calzolai,» perchè non seppe nè bene intendere Virgilio
nè avviarsegli dietro pei campi floridi della poesia.[562]
Più tardi Cristoforo Landino, che fra tutti difese la lingua toscana e
la usava felicemente, sentenziò pure «ch’era mestieri essere latino,
chi vuol essere buono toscano.[563]» Encomia l’industria che Leon
Battista Alberti pose a trasferire in noi l’eloquenza dei Latini; nè
certo si vuole togliere merito a siffatto uomo, nè a Matteo Palmieri nè
ad altri lodati con lui: ma fatto è poi che il seguitare nell’italiano
le norme latine, come essi fecero, tolse loro di essere letti mai
popolarmente, così che si giacquero per lungo tempo come dimenticati,
ed oggi guardandoli a fine di studio, ne pare di leggere una lingua
morta. Cotesti almeno erano uomini educati ai buoni studi: ve n’erano
altri d’ingegno più rozzo, i quali per volere essere eloquenti in verso
ed in prosa, cercando norme all’italiano fuori di sè stesso, facevano
certi pasticci di lingua nè latina nè volgare, la quale usciva come per
singhiozzi che fanno spavento; di che, strani esempi potrei allegare se
fosse qui luogo. Ma vale fra tutti quello di Giovanni Cavalcanti, del
quale abbiamo lungamente più sopra discorso: costui, che avrebbe potuto
essere buon cronista, fu dall’abuso dei precetti che allora correvano
condotto ad essere malo istorico.
Così andarono le cose nella repubblica delle lettere fino a Lorenzo de’
Medici e al Poliziano; questi certamente mostrò nelle Stanze scritte da
lui a venticinque anni, e poi non finite, una squisita forma di poesia
che annunziava già i tempi nuovi, di cui può dirsi prima e gentile
apparizione. Cionondimeno quell’uomo stesso faceva latini poi finchè
visse i versi e le prose fino al racconto della Congiura de’ Pazzi,
fatto domestico e tremendo, al quale era stato in mezzo e che tante
passioni doveva destargli nell’animo; ed abbiamo poc’anzi notato che il
Poliziano nella poesia pareva trovarsi più in casa sua quando scriveva
latino; più imitatore in quel componimento che s’era arrischiato egli
a scrivere italiano. Lorenzo de’ Medici si scusa d’avere in lingua
volgare commentato i suoi sonetti, tale quale come Dante se n’era
scusato dugent’anni prima.
Ma nulla dunque si era fatto in quei dugent’anni quanto all’uso della
nostra lingua? S’era fatto molto, ed ogni giorno si faceva; ma il male
stava in ciò, che tale uso procedeva bipartito, essendo pel naturale
andamento suo più cólto nei popoli, ma insieme più guasto nei libri.
Un assai grande numero di lettere scritte nel quattrocento furono in
questi anni pubblicate, e ne abbiamo noi vedute molte manoscritte;
e molte, tratte dagli Archivi di Firenze, sono allegate nel grande
Vocabolario. Ora le lettere familiari danno sempre l’espressione
più naturale e più immediata del vivo parlare, e chi le raffronti ad
altre più antiche, le troverà scritte in modo che annunzia lingua più
adulta e più conforme a quella che poi fu la moderna italiana lingua.
Ma nei libri stessi usciti in quel secolo, sebbene pallido ne sia lo
stile, pure il discorso procedeva meglio ordinato e più finito e più
somigliante ad uomo già fatto; ma non però bello quanto promettevano
le grazie e il fuoco delle età prime. Io pure grido, Studiamo il
trecento, secolo che aveva in sè certamente quella potenza che più
non ebbe la lingua nostra: ma vero è poi, che di tutte le nazioni gli
antichi scrittori si riveriscono come vecchi intanto che si amano come
fanciulli; si ammirano per la ingenuità loro e per la forza, ma non si
saprebbe nè si vorrebbe per l’appunto scrivere a quel modo. Tuttociò
avviene sempre e dappertutto; ma fu a noi tristo privilegio che la
lingua dipoi si dovesse o si credesse dovere attingere dal trecento,
quasichè in essa il corso del tempo facesse il vuoto o altro non avesse
fatto che guastarla.
Negli ultimi anni del quattrocento aveva la lingua dunque per sè
medesima progredito quanto a una struttura più regolare, ma dall’essere
usata poco e trascuratamente nei libri, pareva e anche oggi a noi pare,
in fatto essere decaduta da ciò che ella era nel secolo precedente.
Lorenzo de’ Medici, il Landino ed altri dicono spesso alla lingua
nostra essere mancati gli uomini e il buon uso che appellano stile.
Il che fu vero quanto allo scriverla come abbiamo qui sopra notato;
ma fu anche vero quanto al parlare questa lingua in modo che fosse
norma ed esempio agli scrittori: su questo punto ne conviene un poco
fermarsi. Mi sovviene avere una volta udito il Foscolo dire nell’impeto
del discorso, che «la lingua nostra non era stata mai parlata:» nella
quale enfasi di parola pare a me stesso il germe di un vero che ora
si svolge sotto agli occhi nostri. Ma il campo non era libero a quel
tempo, e si disputava chi avesse ragione, se il Cesari purista, o
il Cesarotti licenzioso, o il Perticari con quella sua lingua che
stava per aria. Oggi il Manzoni, sgombrando quel campo, ha dato a noi
terreno fermo col fare consistere nell’uso ogni cosa: nè chi voglia
uscire da quella dottrina può stare sul vero. Ma se a dire lingua si
dice qualcosa fuori d’una semplice nomenclatura, e se invece si tenga
essere l’espressione di tutto il pensare d’un popolo cólto, certo è
che gli usi di questa lingua sono diversi quanto diverse le relazioni
cui deve servire; e che in ciascuna, oltre all’essere disuguale il
numero delle parole che si adoperano, è varia la scelta di queste
parole. Al che si aggiunga (e ciò è capitale) che oltre alle parole,
le frasi e il giro e i collocamenti di esse e la contestura del
periodo, ed in certi suoi elementi la forma di tutto il discorso che
sempre ha del proprio e del distinto in ogni nazione, tutte queste
cose fanno insieme la lingua di quella nazione. So che la lingua in
tal modo intesa dovrebbe piuttosto chiamarsi linguaggio, ma so che
a distinguere con secco rigore l’una dall’altra queste due parole,
starebbe la lingua tutta intera nei vocabolari, dov’ella si giace come
cosa morta. Sotto questo aspetto bisogna pur dire che la lingua che si
parla differisce in molte sue forme dalla lingua che si scrive, secondo
che variano parlando o scrivendo gli intendimenti, le volontà ed in
qualche modo lo stato degli animi in chi mette fuori il suo pensiero
e in chi lo ascolta presente o deve poi da sè leggerlo sulla carta.
Per esempio, nella rapidità del discorso familiare non sempre avviene
fare periodi che stieno in gambe, come suol dirsi, perchè in tal caso
alla intelligenza molti aiuti provvedono, e la parola come alterata
da una concitazione d’affetti, ne diventa spesso più efficace. Chiaro
esprimeva questo pensiero Giovan Battista Gelli nella prefazione d’una
sua commedia:[564] «Altra lingua è quella che si scrive ne le cose alte
e leggiadre e altra è quella che si parla familiarmente; sì che non sia
alcuno che creda che quella nella quale scrisse Tullio, sia quella che
egli parlava giornalmente.» Questo dice il Gelli; nè intendevano del
comune parlare coloro che innanzi di lui scrivevano essere _mancati gli
uomini alla lingua_.[565]
Ma se poi si guardi non più al discorso familiare, sibbene a quello
di chi parla solo ed a bell’agio e non interrotto, in faccia ad un
pubblico o ad una qualsiasi radunanza; allora il linguaggio s’avvicina
molto allo scrivere, di cui ben fu detto non essere altro che un
pensato parlare: nondimeno chi ponga mente, per non dire altro, al
tempo che mette generalmente più lungo in questo pensare l’uomo che
scrive di colui che parla, non che al discorso che n’esce fuori; noterà
essere delle differenze per cui la parola scritta è meno viva sempre di
quella ch’esce parlando quanto mai si possa pensatamente. Si vede nei
libri, quando l’autore poco avvezzo a dire le cose, va cercando ad esse
una forma che si adatti ai libri: nei Greci antichi e nei Latini ci si
fa innanzi sempre l’oratore. Imperocchè allo scrivere con efficacia è
grande aiuto l’uso del parlare, dove uno s’addestra a certo artifizio
cui più di rado pervengono le scritture; dico quella distribuzione
sagace di concisione e di abbondanza e di facilità e di sostenutezza,
e quei colori appropriati a’ luoghi secondo richiedono i vari argomenti
e le diverse parti dell’orazione: s’imparano queste cose dagli effetti
che in altrui produce la nostra parola. Laonde a chi scrive manca una
scuola molto essenziale, quando egli non abbia la mente già instrutta
di quelle forme per cui si esprimono parlando le cose che egli vuole
scrivere. La quale mancanza, che fu in Italia dai tempi antichi e si
questi per mezzo di un Giraldi fiorentino ch’era in Lisbona mandò per
lettera al Toscanelli l’annunzio del suo disegno ed una piccola sfera
sulla quale aveva segnato il viaggio; donde il Toscanelli mandava al
Colombo una Carta da navigare con gli spazi segnati a suo modo: a tutti
è noto che il Colombo credeva la prima terra da lui toccata fossero le
Indie. Il Toscanelli non ebbe tempo di sapere a quale uomo e a quale
scoperta avesse in perpetuo egli associato il nome suo, morendo l’anno
1482.
Qui male possiamo noi definire in brevi tratti Leonardo da Vinci [n.
1452, m. 1519], intelletto portentoso e inesplicato nella vasta potenza
sua, che in sè racchiudeva come una divinazione iniziatrice delle
scienze le quali si ampliarono dopo di lui. Tiene Leonardo come artista
tra i sommi un luogo tutto suo proprio e quasi appartato, perchè non
bastandogli il bello esprimere come forma, intese a condurlo per via
del pensiero fino all’ultima idealità sua; cercò degli affetti le
ragioni più riposte; e dopo averne dentro all’animo concetta l’essenza
per via d’astrazione, fece suo studio tradurla con l’arte in immagine
visibile: nè ciò gli bastava, chè un altro studio tutto diverso poneva
egli quindi nei mezzi meccanici che all’arte dessero compimento. Dei
suoi dipinti, che procedevano lentamente, pochi rimangono: il Cenacolo
in Milano, sebbene quasi perito, è per eccellenti copie negli occhi di
tutti; gli studi, i bozzetti, le prove mutate con sottili differenze
abbiamo in gran numero, perchè egli fu ingegno ch’era impossibile
soddisfare. Un colosso equestre di Francesco Sforza, del quale aveva
già fatto il modello, fu distrutto dai Francesi quando l’anno 1500
entrarono in Milano; si perdè il cartone d’un grande dipinto che doveva
ornare Firenze. Ma egli ebbe intelletto essenzialmente speculativo:
scrisse trattati sulla Pittura e sopra l’Idraulica: abbiamo libretti
dov’egli segnava i suoi calcoli e le invenzioni sue, le macchine da
lui tentate, gli studi d’algebra, di geometria e quelli intorno alla
meccanica razionale, alla dinamica, all’ottica, all’anatomia degli
uomini e degli animali; trovò la teoria del moto dell’onde, studiò
il volo degli uccelli, osservò fatti tra i più reconditi ch’abbia la
natura, intorno ad essi lasciando formule che tuttavia sono rimaste
alla scienza. In questi frammenti dei suoi studi, gli ardui problemi
che egli aggrediva col pensiero ne mostrano quanta solidità fosse
in quella sua mirabile estensione. Era oltreciò bello e forte della
persona; eccellentissimo nella musica e inventore d’alcuni strumenti.
Non ebbe fortuna con Leone X; accolto in Milano da Lodovico il Moro,
condusse l’opera del Canale detto il Naviglio, e lavorò intorno alle
fortificazioni; amato dal re Francesco I, dimorò in Francia alcuni anni
e quivi moriva in un castello presso Amboise, nè già in Milano e nelle
braccia di quel Re come fu detto fino ai giorni nostri. Aveva Leonardo
spinto il pensiero fino a cercare una generale proporzione la quale
servisse a lui come artista per la figura dell’uomo, e come fisico gli
mostrasse le leggi supreme a cui si conforma la struttura delle cose.
Quindi Fra Luca Pacioli da Borgo San Sepolcro, amico e compagno di lui
pubblicava, su quell’idea un libro _della divina proporzione_: era il
Pacioli pratico nei calcoli, avendo in più libri raccolto d’algebra e
di geometria quanto si sapeva al tempo suo, e dato notizia di antichi
studi matematici in oggi perduti, tra’ quali primeggiano alcuni
frammenti del pisano Fibonacci.
In Leonardo vennero a far capo le due correnti per le quali si era
condotta innanzi l’Italia, da un lato nelle Arti e dall’altro nella
Scienza; ma le Arti ebbero più facile e necessariamente meno incerto
il cammino. La forte vita che si agitava per tutto il dugento aveva
prodotto quasi a un portato Dante e Giotto; ma bastò a Giotto avere
in sè stesso la forma del bello, poichè i mezzi capaci ad esprimerlo
erano a lui già sufficientemente forniti dall’uso che era ai suoi tempi
della pittura. Quei mezzi che stanno invece della parola, nelle Arti
d’imitazione sono quasi del tutto meccanici; quindi è più semplice
l’andamento pel quale riescono esse a procedere e a perfezionarsi.
Un genio era apparso da principio e aveva mostrato una via nuova,
donde la pittura per quasi un secolo parve come stare intorno a lui,
da lui pigliando l’esempio a certe significazioni degli affetti e più
accurate regole al disegno e più ardimento nelle composizioni; facendo
di tutte queste cose all’Arte come un patrimonio capace a vivere ed
a passar oltre. Il che essa fece dopo a Masaccio. Il quattrocento fu
secolo d’artisti, i quali bisogna dire che in Firenze nascessero come
spontanei dal suolo; molti gli eccellenti, e male pareva che non si
sapesse fare. Il nome d’Arte, come si usa oggi a modo astratto, non
conoscevano: facevano come se esercitassero un mestiere, del quale i
maestri insegnavano le pratiche; il resto avevano in sè stessi.
Basti a noi dire i nomi dei capi scuola o quelli ch’ebbero maggior
fama. Fra tutti primeggia la famiglia dei Ghirlandai, dei quali
Domenico per evidenza di esecuzione e per naturalezza in certe sue
opere di molte figure ci fa vedere come in ritratto l’antico popolo
di Firenze; ma gli sta innanzi per la finezza dell’espressione e pei
concetti Fra Filippo Lippi, seguito da un figlio dello stesso nome:
Sandro Botticelli espresse affetti squisiti con forme più larghe:
Benozzo Gozzoli dipingeva in Pisa con lunga serie di composizione tutta
una parete di quel mirabile Campo Santo, dove il pensiero della morte
pare che inalzi la coscienza della vita. Nella scultura s’illustrò
molto in patria e fuori Andrea del Verrocchio: spesso i tagliatori di
pietre, da lavoranti nelle cave intorno a Firenze riuscivano scultori
fra tutti carissimi, perchè a vedere quei volti di marmo tu gli credi
vivi e che ne debba uscire una voce; com’è nelle opere di Mino da
Fiesole, di Desiderio da Settignano e di due da Rovezzano. Spesso
gli scultori insieme erano architetti, come i due da Maiano, i due da
San Gallo, Andrea da Montesansavino e il Cronaca, autore del Palazzo
degli Strozzi, dove è vergogna che tuttavia rimanga non compiuto il
cornicione del quale il mondo non ha il più perfetto. Ma intanto le
Arti erano salite a maggior grado anche fuori di Toscana, e già d’altre
scuole erano usciti pittori che inaugurando con altre maniere l’età
susseguente, preparavano da tutta Italia il tempo nel quale si viddero
esse toccare il colmo. Tra questi è debito annoverare Giovanni Bellino
che diede principio alla grande scuola Veneta, e Andrea Mantegna che
illustrò la Lombarda; Pietro Perugino diede all’arte del dipingere una
maggiore dolcezza, Francesco Francia bolognese la usò con più ardita
e più originale maniera. Un poco più tardi Fra Bartolommeo da San
Marco [n. 1469, m. 1517] s’accostò ai sommi, o sta con essi, tanto in
lui tutte le parti del dipingere toccarono alla eccellenza; che sono
disegno compito, nobiltà di forme, scienza nel comporre e un grande
intendere della prospettiva: ed in tutte queste doti certa proporzione,
per cui niuno forse de’ grandi artefici è di lui più dotto. Ma qui,
per dare compimento a quella scuola la quale fu tutta peculiare
Fiorentina, vogliamo per ultimo anche registrare il nome d’Andrea del
Sarto [n. 1488, m. 1534], il quale sebbene per gli anni appartenga
all’età seguente, continua l’antica scuola cittadina, condotta da lui
a perfetta finitezza pel movimento delle figure, pel rilievo, per la
vita in esse più varia, per evidenza insomma più intera, curando egli
familiarmente il vero più che l’ideale. In queste cose Andrea del Sarto
vince il Frate istesso, di cui le forme pare alcune volte ti stieno
innanzi come a mostra, o hanno movimento ed atto forzato, com’è nel San
Marco, dove non so se egli pure cedesse all’esempio formidabile del
Buonarroti, ovvero se come frate di San Marco volesse a quell’iroso
colosso prestare l’anima del Savonarola. Ma di Arti parlando, è da
dire anche dell’incisione in rame cui diede forse un qualche principio
Maso Finiguerra fiorentino, derivandone le pratiche dall’arte dei
Nielli nei quali fu egli eccellente: o se l’incidere dal rame in carta
fu inventato prima in Allemagna, è certo almeno che il Botticelli
ed Antonio Pollaiolo, insigni pittori, figurarono tra’ primi che
l’esercitassero in Italia. Ne stringe lo spazio, talchè non possiamo
qui molto estenderci nè sulla orificeria che fu nutrice a grandi
artisti, nè sopra l’arte qui molto estesa dell’ornare con miniature le
cartapecore, nè su quella d’incidere in gemme.
Continuava la Poesia volgare ad essere come soffocata dall’erudizione
che fa sua scienza il sapere altrui; volendo invece la poesia pensiero
libero, che si possa tradurre in immagini intere e viventi: al che si
aggiungeva che gli esemplari latini e greci, allora tra mano, davano
ai poeti come una sorta di scoramento, non credendo essi l’idioma loro
capace per anche di tanta coltura. Stava l’Alighieri come segregato
quanto alla lingua ed allo stile, e prove infelici riuscirono quelle
per cui fu cercato più volte di seguitarlo nei concetti scrivendo
poemi di argomento filosofico e morale. La sola canzone, perchè era
venuta su con la lingua, aveva cultori e stile suo proprio; ma dopo
avere nel Petrarca toccato la cima, lui seguitava ora da lungi e
nulla inventava. Queste erano traccie oramai segnate, ma quante volte
i letterati volessero uscirne scriveano latino, avendo il Petrarca
mostrato la forma di certe che appellò Egloghe, dove si avvolgevano
pensieri talvolta da non propalarsi. Nasceva però incontro ai più
dotti una scuola nuova d’autori più schietti, che solo intendevano a
trarre dal fondo della lingua viva quel tanto che avessero ciascuno
di loro in sè di poesia. Tra’ più umili Feo Belcari scrittore di
Laudi e di Rappresentazioni sacre e profane, avea sufficiente copia
di vena limpida come l’acqua pura, ma fu più felice in prosa che in
verso. È pure qui obbligo di registrare anche il Burchiello, barbiere
di nome rimasto famoso, perchè fece d’un certo suo gergo poesia forse
arguta, ma triviale; oscura oggi, ma popolare nei tempi suoi e che ebbe
inclusive imitatori. È tempo qui dire come la stampa recata da qualche
anno in Firenze producesse in lingua greca la prima edizione dei poemi
d’Omero, curata dal greco Demetrio Calcondila, e da Bernardo Nerli, che
ne fece la spesa, offerta con una sua lettera al giovinetto Piero de’
Medici, l’anno 1488: seguitarono a questa alcune altre nobili edizioni
di classici Greci in carattere maiuscolo.
Noi siamo ai tempi del Magnifico e al declinare del secolo. Un libro
a tutti noto e da pochi letto, è il _Morgante Maggiore_, poema
cavalleresco di Luigi Pulci. Costui fece prova di buon giudizio
trattando quella sorta di argomenti come cosa da ridere; ma è poi
vero che non avrebb’egli potuto per l’animo, o saputo per la tempra
di quella sua vena, salire a più alta sfera e tenervisi: ebbe egli
potente l’ingegno, ma incurante d’ogni cosa e di sè stesso, beffardo,
scettico, atto a dissolvere più che a comprendere e all’innalzare,
nel che sta l’ufficio della poesia vera. Gli accade alle volte di
raccogliere per via concetti pensati fortemente, o più di rado affetti
soavi e semplici, ma non vi si ferma; scrive a rallegrare prima sè
stesso e poi Lorenzo e i suoi convitati: alla fine del Poema, quando
egli descrive la morte d’Orlando, lo diresti epico, se alla invenzione
avesse egli data coltura e splendore d’espressione che bastasse.
Compose il Poema nei primi anni di Lorenzo e sotto al patrocinio della
madre di lui, severa e pia matrona, la quale invero male sappiamo
capire qual viso facesse ad un libro dove le cose più sacre son
poste in dileggio e, quello ch’è peggio, sotto al velame di un’ironia
fina. Ma egli era cantore pei conviti spensierati, nei quali dovette
riuscire mirabile per quella facile abbondanza di cui fa sfoggio come
improvvisatore, mettendo a prove difficili e strane, ma non però
affatto disaggradevoli, una copia di modi e di forme ch’era in lui
grandissima e che egli profonde con sempre continua scorrevolezza.
In lui non si cerchi le squisitezze dell’arte, ma sollevando l’ottava
rima dalla pesantezza del Boccaccio e dalle bassezze degli altri, ne
diede esempio utile a que’ sommi maestri ch’essa ebbe dipoi: quanto
alla lingua è facile rinvenire in essa qualcosa di meglio compito nella
struttura del discorso, di più andante nei periodi, qualcosa insomma di
più avanzato e più universale di quello che fosse (tranne il Petrarca)
negli scrittori del trecento, e che in sè annunzia ingegni più adulti.
Luca e Bernardo, fratelli di Luigi Pulci, e un Matteo Franco prete
famigliare di Lorenzo, scrissero anch’essi con lode poesie di vario
genere.
Negli stessi anni scendeva in Firenze da Montepulciano un giovane,
povero, ma già mirabile nei precoci studi, bentosto salito in fama
col nome di Angelo Poliziano [n. 1454, m. 1494]. Veduto l’ingegno
di lui singolare, Lorenzo de’ Medici lo fece subito cosa sua: i
letterati pareano a quel tempo nascere latini, ma il Poliziano ebbe
familiare anche la greca lingua così da nutrire coll’uso di entrambe
quella classica eleganza che era tutta sua: imberbe ancora traduceva
l’_Iliade_ in esametri questo omerico fanciullo, come il Ficino lo
appellava; tradusse poi nella breve sua vita, dal greco in latino,
altri scrittori di verso e di prosa. Ebbe anche potenza di critica
filologica, e col raffrontare autori antichi, o ne correggeva la
lezione, o ne illustrava col vasto sapere, non che le lingue, anche
le dottrine. Ma sopra ogni cosa era egli latino veramente nel poetare
in tutti i metri e in tutti gli stili, sempre con eguale felicità,
tanto erano a lui connaturali non che le forme anco il sentire delle
età classiche, delle quali coglieva il fiore, nessuno imitando, ma
com’egli fosse uno dei loro. Il che non può dirsi, ed è cosa da notare,
di lui nelle scarse ma pure eccellenti poesie ch’egli scrisse in
lingua italiana. Appare in queste non che l’imitazione generalmente
dei Latini, ma specialmente di questo o di quello scrittore, e (come
sogliono gli imitatori) non già dei sommi, perocchè questi non sai dove
cogliere, ma gli altri puoi credere più facilmente di agguagliare. Del
Poliziano abbiamo in lingua italiana il Dramma l’_Orfeo_ e le Stanze
sulla _Giostra_ e poche altre minori poesie; le Stanze, in quanto alla
leggiadria di lingua e gusto finissimo ed agli artifizi dello stile,
non ebbero prima chi le agguagliasse nè di poi forse chi per tali pregi
le abbia superate. Giace in San Marco il Poliziano accanto a Pico
della Mirandola: sotto a loro volle avere sepoltura, con iscrizione
commovente, l’amico d’entrambi Girolamo Benivieni; anima candida di
poeta e cólto scrittore di versi platonici, che in età vecchia osava
raccomandare a Clemente Settimo il nome del Savonarola e il Governo
popolare di Firenze.
Tra gli scrittori dell’età sua Lorenzo de’ Medici avrebbe un luogo
tuttavia eminente, quando anche a lui non l’avessero dato i servigi
per altro modo resi alle lettere. È tempo qui dire che Lorenzo non
era poeta nel più alto valore di questa parola, ma ebbe a sufficienza
facilità e copia, e ingegno educato a eleggere il bello: poco studioso
del greco e del latino, amò come uomo e come principe quella lingua
ch’egli udiva allora in sul fiore, e vivacissima sulle labbra dei sommi
uomini come dei volgari, da quei che salivano le scale del Palazzo di
Via Larga, fino ai contadini del Poggio a Caiano e di Careggi che molto
si piaceva di praticare. Abbiamo di lui Canzoni e Sonetti in molto
numero, dove con elevatezza di stile trattava l’amore platonico, e
versi ch’erano espressione d’amori volgari, e Scherzi satirici e Stanze
in lingua contadinesca; abbiamo Prose gravi e studiate ad illustrare,
com’era costume, Sonetti che aveva egli lavorati per indi porvi quella
illustrazione: nessuno di questi scritti basterebbe a fare di lui un
grande autore, nessuno è tale che un valent’uomo se ne vergognasse. Ma
quando Pico della Mirandola poneva Lorenzo come scrittore più in su di
Dante e del Petrarca, noi dobbiamo in tale giudizio ravvisare una di
quelle storture di cui si rendono capaci alle volte i sommi ingegni:
e altresì l’effetto di quelle incertezze, di quel disordine in cui
s’aggirava tra’ letterati allora il concetto della lingua nostra da
essi creduta o poco degna, o non sufficiente a chi volesse usarla nei
libri.
Da noi si chiama buon secolo della lingua nostra quello di Dante e del
Petrarca e del Boccaccio: ma gli scrittori in quella età non ebbero
tanta fiducia di sè stessi nè tanta superbia. Il che si dimostra in
primo luogo dal disputare che si fece subito intorno alla lingua,
la quale avendo taccia di bassezza, non era autorevole bastantemente
sulla nazione; era un dialetto venuto su quando una spinta maravigliosa
fu data agl’ingegni, ma senza corredo di scienza bastante. Sentiamo
mancare nella prosa all’efficacia della lingua l’arte del dire; in
quella età noi cerchiamo la potenza della parola e della frase, ma non
vi troviamo bastante evidenza nei costrutti, e l’orditura dei periodi
si dimostra per lo più timida o intralciata. Questo sentivano gli
scrittori, massimamente poi quando ebbero assaggiato gli autori latini:
Filippo Villani tace di Giovanni; e di Matteo suo padre dice avere egli
usato «lo stile che a lui fu possibile, apparecchiando materia a più
dilicati ingegni d’usare più felice e più alto stile.[561]» Nè avrebbe
il Boccaccio al nostro idioma fatto la violenza ch’egli fece, se non
avesse nella prosa creduto trovarlo come giacente e da cercare altrove
i modi e le forme a dargli grandezza. Le varie parti della coltura non
avendo le une con le altre avuto in Italia rispondenza sufficiente,
quei primi sommi parve si alzassero come giganti per virtù propria,
dopo sè lasciando un intervallo per cui le lettere cominciassero un
altro corso dove i primi gradi già fossero stati con inverso ordine
preoccupati. Il che nelle arti belle non avvenne, e quindi poterono
esse regolatamente salire alla loro perfezione: ma le lettere invece
di Giotto ebbero subito Michelangiolo, terrore agli altri piuttosto
che guida; ed il Boccaccio avendo trovato la lingua già bene adulta
ma inesperta, la fece andare per mala via; il solo Petrarca, più degli
altri fortunato, lasciò dietro sè lunga e prospera discendenza.
Avvenne per questa mala sorte che la lingua, innanzi di farsi e di
tenersi donna e madonna come si conveniva a tali uomini ed a tale
popolo, non bene osasse distaccarsi dal latino che stava siccome suo
legittimo signore, talchè all’italiano si diede per grazia l’umile
titolo di volgare. Nè questa ignobile appellazione cessava col volger
dei tempi, e le traduzioni dal latino s’intitolavano volgarizzamenti;
ed anche oggi quel che si scrive da noi letterati diciamo scrivere in
volgare, Dio ce lo perdoni. Ma quando pei cercatori dei libri classici
il latino fu ogni cosa, e chi non facesse di quello il suo unico studio
ebbe nome d’uomo senza lettere; allora alla lingua stata compagna
dei loro affetti mandarono i dotti il libello del ripudio, anzi fu
cacciata via come la serva quando torna la matrona. Sarebbe al Poggio
ed ai suoi pari sembrato vergogna scrivere italiano, onde egli scriveva
latine le Istorie dei tempi suoi e le Lettere e perfino le Facezie.
I poveri scritti di chi aveva narrato le cose come le aveva fatte, si
traducevano in latino perchè si acquistassero un poco di stima. Nè Pico
della Mirandola fu il primo che dicesse mancare al Petrarca le cose, e
a Dante le parole; questi era stato già tempo innanzi vituperato come
sciupatore del bello classico da Niccolò Niccoli erudito raccoglitore
di vecchi libri, che lui chiamava (così almeno lo fanno parlare) «poeta
da fornai e da calzolai,» perchè non seppe nè bene intendere Virgilio
nè avviarsegli dietro pei campi floridi della poesia.[562]
Più tardi Cristoforo Landino, che fra tutti difese la lingua toscana e
la usava felicemente, sentenziò pure «ch’era mestieri essere latino,
chi vuol essere buono toscano.[563]» Encomia l’industria che Leon
Battista Alberti pose a trasferire in noi l’eloquenza dei Latini; nè
certo si vuole togliere merito a siffatto uomo, nè a Matteo Palmieri nè
ad altri lodati con lui: ma fatto è poi che il seguitare nell’italiano
le norme latine, come essi fecero, tolse loro di essere letti mai
popolarmente, così che si giacquero per lungo tempo come dimenticati,
ed oggi guardandoli a fine di studio, ne pare di leggere una lingua
morta. Cotesti almeno erano uomini educati ai buoni studi: ve n’erano
altri d’ingegno più rozzo, i quali per volere essere eloquenti in verso
ed in prosa, cercando norme all’italiano fuori di sè stesso, facevano
certi pasticci di lingua nè latina nè volgare, la quale usciva come per
singhiozzi che fanno spavento; di che, strani esempi potrei allegare se
fosse qui luogo. Ma vale fra tutti quello di Giovanni Cavalcanti, del
quale abbiamo lungamente più sopra discorso: costui, che avrebbe potuto
essere buon cronista, fu dall’abuso dei precetti che allora correvano
condotto ad essere malo istorico.
Così andarono le cose nella repubblica delle lettere fino a Lorenzo de’
Medici e al Poliziano; questi certamente mostrò nelle Stanze scritte da
lui a venticinque anni, e poi non finite, una squisita forma di poesia
che annunziava già i tempi nuovi, di cui può dirsi prima e gentile
apparizione. Cionondimeno quell’uomo stesso faceva latini poi finchè
visse i versi e le prose fino al racconto della Congiura de’ Pazzi,
fatto domestico e tremendo, al quale era stato in mezzo e che tante
passioni doveva destargli nell’animo; ed abbiamo poc’anzi notato che il
Poliziano nella poesia pareva trovarsi più in casa sua quando scriveva
latino; più imitatore in quel componimento che s’era arrischiato egli
a scrivere italiano. Lorenzo de’ Medici si scusa d’avere in lingua
volgare commentato i suoi sonetti, tale quale come Dante se n’era
scusato dugent’anni prima.
Ma nulla dunque si era fatto in quei dugent’anni quanto all’uso della
nostra lingua? S’era fatto molto, ed ogni giorno si faceva; ma il male
stava in ciò, che tale uso procedeva bipartito, essendo pel naturale
andamento suo più cólto nei popoli, ma insieme più guasto nei libri.
Un assai grande numero di lettere scritte nel quattrocento furono in
questi anni pubblicate, e ne abbiamo noi vedute molte manoscritte;
e molte, tratte dagli Archivi di Firenze, sono allegate nel grande
Vocabolario. Ora le lettere familiari danno sempre l’espressione
più naturale e più immediata del vivo parlare, e chi le raffronti ad
altre più antiche, le troverà scritte in modo che annunzia lingua più
adulta e più conforme a quella che poi fu la moderna italiana lingua.
Ma nei libri stessi usciti in quel secolo, sebbene pallido ne sia lo
stile, pure il discorso procedeva meglio ordinato e più finito e più
somigliante ad uomo già fatto; ma non però bello quanto promettevano
le grazie e il fuoco delle età prime. Io pure grido, Studiamo il
trecento, secolo che aveva in sè certamente quella potenza che più
non ebbe la lingua nostra: ma vero è poi, che di tutte le nazioni gli
antichi scrittori si riveriscono come vecchi intanto che si amano come
fanciulli; si ammirano per la ingenuità loro e per la forza, ma non si
saprebbe nè si vorrebbe per l’appunto scrivere a quel modo. Tuttociò
avviene sempre e dappertutto; ma fu a noi tristo privilegio che la
lingua dipoi si dovesse o si credesse dovere attingere dal trecento,
quasichè in essa il corso del tempo facesse il vuoto o altro non avesse
fatto che guastarla.
Negli ultimi anni del quattrocento aveva la lingua dunque per sè
medesima progredito quanto a una struttura più regolare, ma dall’essere
usata poco e trascuratamente nei libri, pareva e anche oggi a noi pare,
in fatto essere decaduta da ciò che ella era nel secolo precedente.
Lorenzo de’ Medici, il Landino ed altri dicono spesso alla lingua
nostra essere mancati gli uomini e il buon uso che appellano stile.
Il che fu vero quanto allo scriverla come abbiamo qui sopra notato;
ma fu anche vero quanto al parlare questa lingua in modo che fosse
norma ed esempio agli scrittori: su questo punto ne conviene un poco
fermarsi. Mi sovviene avere una volta udito il Foscolo dire nell’impeto
del discorso, che «la lingua nostra non era stata mai parlata:» nella
quale enfasi di parola pare a me stesso il germe di un vero che ora
si svolge sotto agli occhi nostri. Ma il campo non era libero a quel
tempo, e si disputava chi avesse ragione, se il Cesari purista, o
il Cesarotti licenzioso, o il Perticari con quella sua lingua che
stava per aria. Oggi il Manzoni, sgombrando quel campo, ha dato a noi
terreno fermo col fare consistere nell’uso ogni cosa: nè chi voglia
uscire da quella dottrina può stare sul vero. Ma se a dire lingua si
dice qualcosa fuori d’una semplice nomenclatura, e se invece si tenga
essere l’espressione di tutto il pensare d’un popolo cólto, certo è
che gli usi di questa lingua sono diversi quanto diverse le relazioni
cui deve servire; e che in ciascuna, oltre all’essere disuguale il
numero delle parole che si adoperano, è varia la scelta di queste
parole. Al che si aggiunga (e ciò è capitale) che oltre alle parole,
le frasi e il giro e i collocamenti di esse e la contestura del
periodo, ed in certi suoi elementi la forma di tutto il discorso che
sempre ha del proprio e del distinto in ogni nazione, tutte queste
cose fanno insieme la lingua di quella nazione. So che la lingua in
tal modo intesa dovrebbe piuttosto chiamarsi linguaggio, ma so che
a distinguere con secco rigore l’una dall’altra queste due parole,
starebbe la lingua tutta intera nei vocabolari, dov’ella si giace come
cosa morta. Sotto questo aspetto bisogna pur dire che la lingua che si
parla differisce in molte sue forme dalla lingua che si scrive, secondo
che variano parlando o scrivendo gli intendimenti, le volontà ed in
qualche modo lo stato degli animi in chi mette fuori il suo pensiero
e in chi lo ascolta presente o deve poi da sè leggerlo sulla carta.
Per esempio, nella rapidità del discorso familiare non sempre avviene
fare periodi che stieno in gambe, come suol dirsi, perchè in tal caso
alla intelligenza molti aiuti provvedono, e la parola come alterata
da una concitazione d’affetti, ne diventa spesso più efficace. Chiaro
esprimeva questo pensiero Giovan Battista Gelli nella prefazione d’una
sua commedia:[564] «Altra lingua è quella che si scrive ne le cose alte
e leggiadre e altra è quella che si parla familiarmente; sì che non sia
alcuno che creda che quella nella quale scrisse Tullio, sia quella che
egli parlava giornalmente.» Questo dice il Gelli; nè intendevano del
comune parlare coloro che innanzi di lui scrivevano essere _mancati gli
uomini alla lingua_.[565]
Ma se poi si guardi non più al discorso familiare, sibbene a quello
di chi parla solo ed a bell’agio e non interrotto, in faccia ad un
pubblico o ad una qualsiasi radunanza; allora il linguaggio s’avvicina
molto allo scrivere, di cui ben fu detto non essere altro che un
pensato parlare: nondimeno chi ponga mente, per non dire altro, al
tempo che mette generalmente più lungo in questo pensare l’uomo che
scrive di colui che parla, non che al discorso che n’esce fuori; noterà
essere delle differenze per cui la parola scritta è meno viva sempre di
quella ch’esce parlando quanto mai si possa pensatamente. Si vede nei
libri, quando l’autore poco avvezzo a dire le cose, va cercando ad esse
una forma che si adatti ai libri: nei Greci antichi e nei Latini ci si
fa innanzi sempre l’oratore. Imperocchè allo scrivere con efficacia è
grande aiuto l’uso del parlare, dove uno s’addestra a certo artifizio
cui più di rado pervengono le scritture; dico quella distribuzione
sagace di concisione e di abbondanza e di facilità e di sostenutezza,
e quei colori appropriati a’ luoghi secondo richiedono i vari argomenti
e le diverse parti dell’orazione: s’imparano queste cose dagli effetti
che in altrui produce la nostra parola. Laonde a chi scrive manca una
scuola molto essenziale, quando egli non abbia la mente già instrutta
di quelle forme per cui si esprimono parlando le cose che egli vuole
scrivere. La quale mancanza, che fu in Italia dai tempi antichi e si
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