Storia della Repubblica di Firenze v. 2/3 - 02

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indi pace. — Sarzana riacquistata: Lorenzo de’ Medici in
campo. — Uccisione di Girolamo Riario; moti nella Romagna.
— Grande favore di cui godeva in Roma Lorenzo: maritaggio
d’una sua figlia con Franceschetto Cibo. Giovanni de’
Medici fatto Cardinale. — Pace universale in Italia. —
Grandezza e fama di Lorenzo. — Sua famiglia. — Sue arti di
Governo. — Come si giovasse del denaro pubblico; cerca di
rinnalzare Pisa. — Di quante cose fosse centro la Casa
Medici, e quali uomini vi convenissero. — Malattia e morte
di Lorenzo. Parvero con lui avere termine le felicità
d’Italia.
_Capitolo_ VIII. — SCIENZE, LETTERE ED ARTI SOTTO IL GOVERNO
REPUBBLICANO DI CASA MEDICI. [AN. 1434-1494.] — LA LINGUA
TOSCANA DIVIENE ITALIANA. 430
Ampliazione degli studi. I Greci in Firenze: Accademia
Platonica iniziata nei tempi di Cosimo. — Marsilio Ficino.
— Francesco da Diacceto continuatore della sua scuola. —
Cristoforo Landino: suoi libri latini. — Leone Battista
Alberti scrittore ed artista. — Sant’Antonino. — Giannozzo
Manetti dotto in ebraico. — Segretari della Repubblica,
Matteo Palmieri, due Marsuppini, Bartolomeo Scala, due
Accolti. — Filippo Bonaccorsi, Paolo Cortese. — San
Bernardino da Siena predicatore popolare. — Enea Silvio
Piccolomini, papa col nome di Pio II; suo vario ingegno e
sue opere. — Paolo Toscanelli consultato dal Colombo; suo
gnomone. — Cenni sopra Leonardo da Vinci, Fra Luca Pacioli.
— La pittura dopo Giotto. — I Ghirlandai, i due Lippi,
Benozzo Gozzoli, Sandro Botticelli. — Andrea del
Verrocchio: Mino da Fiesole e altri scarpellini che
divennero scultori. I due da San Gallo, il Sansovino e il
Cronaca, architetti. — Un poco più tardi. Fra Bartolommeo
da San Marco e Andrea Del Sarto segnano il colmo
nell’antica scuola della pittura fiorentina. — Maso
Finiguerra, il Botticelli e Antonio Pollaiolo incisori in
rame. Oreficeria, miniature in cartapecora. — Poesia sul
finire del quattrocento. Feo Belcari, il Burchiello. Il
_Morgante_ di Luigi Pulci. — Angelo Poliziano. Girolamo
Benivieni. — Lorenzo de’ Medici.
I letterati del quattrocento poco stimavano il volgare e poco
l’usavano. Nemmeno ai sommi del secolo precedente facevano
grazia: scrivevano latino o latineggiavano l’italiano. — La
lingua nell’uso familiare progrediva, nell’uso dei dotti si
era impoverita. — Non era il toscano mai stato parlato in
modo solenne così da rendersi autorevole a tutta l’Italia:
quindi nei libri mancò il magistero che viene ad essi dalla
parola viva; e mancò a questa l’autorità e quella maggiore
cultura che viene dai libri. — La sola Toscana ebbe cultura
che bastasse fin dal principio della lingua a svolgerla in
tutta l’ampiezza sua: nelle altre provincie più era da
fare, e quello che si fece rimase dialetto. I dialetti
grecizzanti delle provincie meridionali si discostavano dal
toscano meno di quelli nei quali era mistura celtica. —
Alla fine del quattrocento era già nata la stampa, che fu
nuovo organo alla diffusione della parola: si fecero in
varie città d’Italia edizioni dei sommi toscani. — Da
questa provincia uscivano intanto libri atti a farsi
popolari, come il Morgante e i libri italiani del Landino.
Allora si cominciò a scrivere per tutta Italia in lingua
toscana: questa deve tra i non Toscani all’Ariosto l’essere
divenuta universale alla nazione. — Niccolò Machiavelli e
Francesco Berni scrittori sommi. — Ma subito dopo l’Italia
decadde; il nostro livello tra le altre nazioni discese ad
un tratto: il popolo di Toscana meno operando, inventava
meno; mancò la fiducia, mancò lo stimolo alle volontà;
v’era in Italia poco da fare. — Mancò nei libri quello che
si impara fuori dei libri; vennero i letterati, sparve il
cittadino. — La lingua toscana non tenne mai signoria vera.
Quello era il tempo dei grammatici che sono i fisiologi
della lingua, come i fisiologi sono i grammatici della
vita: viveano le lettere di basse facezie e nobiltà false.
— Più tardi la scuola di Galileo rialzò la Toscana per
oltre un secolo. — Ma quando in Italia si cercò l’unione
anche nel fatto della lingua, apparve in questa la
mancanza d’un’autorità sovrana ed egualmente da tutti
ubbidita. — La lingua in Italia sarà quello che sapranno
essere gli Italiani.
APPENDICE DI DOCUMENTI.
I. Provvisione del 21 luglio 1378, approvata nei consueti
Consigli a’ 21 e 22 471
Altra Provvisione dell’11 settembre 1378, approvata
c. s. a’ dì 11 e 12 476
Altra del 28 settembre 1378, approvata il 28 e 29 480
II. Provvisione del 21 gennaio 1381 dall’Incarnazione 487
Altra Provvisione dello stesso giorno 488
Altra Provvisione come sopra 490
Altra Provvisione come sopra ivi
Provvisione del 22 gennaio 1381 dall’Incarnazione 492
Altra Provvisione de’ 23 gennaio 1381 come sopra 496
Altra del 24 gennaio ivi
Provvisione del 27 febbraio 1381 come sopra 499
Provvisione del 15 marzo 1381 dall’Incarnazione
approvata negli opportuni Consigli a’ dì detto
e a’ dì 16 502
III. Parlamento generale del 19 ottobre 1393 504
Provvisioni della Balìa, creata nel suddetto Parlamento,
de’ 20 ottobre 1393 507
Altre Provvisioni della Balìa, come sopra, de’ 21 ottobre 514
IV. Lettere della Signoria concernenti all’acquisto e
alla conservazione di Pisa. 1402-1407 518
V. Ordine degli Uffici della Repubblica di Firenze 524
Descrizione delle feste di San Giovanni 531
VI. Elenco delle Commissioni di Rinaldo degli Albizzi
per il Comune di Firenze 535
VII. Tre lettere della Signoria di Firenze a Neri Capponi,
oratore a Siena, per il caso di Brolio. Ottobre 1434 542
VIII. Istruzione di Sisto IV a messer Antonio Crivelli
mandato suo al re Ferrando. Risguarda le cose di Città di
Castello, tenuta da Niccolò Vitelli 544
IX. _Confessione_ di Giovan Batista da Montesecco relativa
alla Congiura de’ Pazzi 547
X. Istruzione di Sisto IV a messer Antonio Crivelli
mandato suo al re Ferrando; scritta mentre Lorenzo era
tuttora a Napoli e il Re si vedeva già inclinato ad
accordarsi con lui. Febbraio 1480 559
XI. Lettera contenente le istruzioni e consigli di Lorenzo
de’ Medici al figlio Giovanni, quando fatto Cardinale,
andava a Roma nel marzo 1492 564


STORIA DELLA REPUBBLICA DI FIRENZE.


LIBRO QUARTO.


CAPITOLO I.
TUMULTO DE’ CIOMPI. — MICHELE DI LANDO. [AN. 1378.]

Abbiamo sul fine del precedente Libro, dov’è rimasta la narrazione
dei fatti civili, mostrato come le due contrarie parti andassero
innanzi ciascuna per sè, fatte all’ultimo più temerarie, e dividessero
la Repubblica. Mentre era delitto parlare d’accordi e osservare
l’Interdetto, dal canto loro i Capitani della Parte guelfa nei due
mesi di settembre e ottobre 1377 più infierivano nelle ammonizioni, le
quali ruppero ogni freno quando la parte che voleva la guerra col Papa
non valse a reggere nel proposito: da quel tempo fino a luglio 1378
leggo essere state ottantasette le ammonizioni, che spesso colpivano
intere famiglie.[1] Aveano trovato i Capitani un cotal modo pel quale
venivano a rimanere in ufficio durante un anno, essi o i più stretti
aderenti loro; quel fare le borse donde traevansi gli uffici, e poi
sovente nemmeno starsene alla sorte, facilitava gli arbitrii: uno era
tratto dei Ventiquattro, dai quali secondo la Riforma del 66 dovevano
essere approvate le sentenze, e se non piaceva, levarsi una voce tra i
preposti allo squittinio: «Io l’ho veduto andare in villa:» la polizza
era rimessa dentro; e così via via, finchè non uscisse tale che fosse a
grado loro. Guidava la Parte una consorteria di pochi, dei quali i nomi
si trovano registrati: Lapo da Castiglionchio, anima e capo di tutta la
setta. Avevano anche fatto un Gonfalone con l’antica arme del re Carlo,
ed a portarlo un Gonfaloniere che fu Benghi Bondelmonti; ripigliavano
le antiche forme che inaugurarono la Repubblica, quasichè volessero
tutta ora metterla nella Parte. Le sentenze pronunziavano di notte,
o fosse per ischifare tumulti, o ad accrescere il terrore pigliando
sembianza di segreto tribunale. Nessuno poteva tenersi sicuro, e non
bastava essere guelfo (come dicevano) più di Carlomagno; ai caporali
quando passavano, ed ai cagnotti o _aguzzetti_ loro, un trar di
berretta più che alla Signoria: gli impauriti cercavano riscattarsi o
per moneta o per favore, e facendo parentadi o disfacendoli, per avere
scampo a sè stessi o protezione.
A chi legga queste cose ed i cronisti generalmente abominare la _furia
dell’ammonire_ come una proscrizione che desse nel sangue, potrebbe
sembrare che un divieto di quella sorta non fosse cosa pari al terrore
ch’ella ispirava, ed agli effetti che ne seguirono. Ma era entrata la
vita pubblica in questo popolo così addentro, che a non avere parte
allo Stato pareva essere come nulla.[2] Inoltre le leggi non avevano
imparato per anche a difendere l’universale dei cittadini e fare a
tutti le parti eguali: tenere lo Stato importava pagar meno; ed era
mestieri procacciarsi l’amicizia d’un qualche possente a fine di avere
sorte più equa nella distribuzione di quelle gravezze, le quali erano
personali.[3] Invano più volte si aveva cercato formare una Tavola o
Catasto delle possessioni per via di portate che ognuno facesse dei
propri suoi beni, ma fu attraversato dai più ricchi perch’erano sempre
i più favoriti; e ad ogni passo nacquero tali difficoltà, che il
provvedimento buono fu abbandonato come impossibile. Infino dal secolo
XIII era stato tentato l’Estimo degli immobili, o almeno comandato;
ed una prova ne venne fatta l’anno 1355, la quale al solito riuscì
male.[4] Aveva anche il Duca di Calabria nel 1326 ordinato stimare
l’entrata che avesse ciascuno così degli stabili come dei mobili e
guadagni; ma pur questa diede luogo a grandi lagnanze, nè in tale modo
fu ritentata.[5] Vedremo or ora intorno a ciò una petizione, la quale
però aspettò ancora una cinquantina d’anni prima di avere adempimento.
Era l’entrata della Repubblica, siccome vedemmo, trecento migliaia
di fiorini d’oro all’anno: le spese ordinarie, quaranta migliaia di
fiorini, senza contare la spesa dei soldati e le opere pubbliche: ma
non bastava l’avanzo alle imprese del Comune, dove andavano quelle
ingenti somme, le quali ci è occorso in più luoghi di notare: a queste
era molto frequente necessità sopperire per via di prestanze e imposte
sopra alle ricchezze dei mercanti o di altri singoli cittadini. Aveano
cercato modi, a dir vero, non male acconci per l’assegnazione della
somma che ognuno dovesse pagare secondo le facoltà sue. Partivano
in quattro ciascun Quartiere della città, come era per le Compagnie,
nominando per ciascuna divisione sette _settine_ di probi uomini, le
quali dovessero ognuna da sè determinare la somma che fosse da imporre,
a loro giudizio, per ogni capo di cittadino. Le liste venivano dipoi
trasmesse ai frati Romitani di Santa Maria degli Angeli o ad altri
frati, i quali dovevano da ogni _settina_ togliere via le due maggiori
e le due minori tassazioni, pigliando il medio che resultasse dalle
tre altre, e il medio poi di tutte le _settine_ a questo modo insieme
sommate; questa era la quota di che ciascuno venìa gravato.[6] Si trova
che il primo debito della Repubblica fosse creato inverso gli anni
1222-26 a tempo dei Consoli, e quando era tuttavia sotto l’Imperiale
soggezione; ma questo debito, che avea d’interesse venticinque per
cento all’anno, pare che fosse mano a mano diminuito ed in quarant’anni
estinto. Ma era contuttociò impossibile che non v’entrasse l’arbitrio,
e ai renitenti veniva fatta intimazione a pagare, andando per ultimo
fino a guastare le case: al che non si venne per avere fatte condizioni
da tirare co’ larghi profitti la cupidigia dei prestatori. Chi dava
cento aveane merito un danaio al mese, che è il frutto del cinque;
ma per ogni cento scrivevano altre due centinaia in assegnazioni
sulle gabelle, talchè la rendita annuale veniva nel fatto a essere
del quindici. Fecero insino dal 1345 un libro dov’erano descritti per
alfabeto i nomi de’ cittadini ch’aveano prestato; gli chiamarono i
Libri del Monte, nel quale vennero a purgarsi i debiti vecchi ch’avea
la Repubblica: montava la somma a fiorini 503,864.[7] Provvidero
anche alla diminuzione successiva dei debiti del Monte, formando
con certe assegnazioni di gabelle sulla farina e sul pane quella che
ora si chiama Cassa d’ammortizzazione, la quale si vede ch’esisteva
già nell’anno 1369; nel quale tempo furono tratti da quella i danari
che si doveano pagare all’imperatore Carlo IV, con che però fossero
immediatamente rimborsati. E nell’anno 1371, elessero Quattro ufficiali
deputati alla sopraindicata _diminuzione dei debiti del Monte_, i
quali avessero facoltà di comprare cartelle o titoli di credito da chi
volesse farne la vendita, prescrivendo le condizioni ed il modo.[8]
Ordinarono che i danari del Monte fossero esenti da ogni condannagione
nè potessero per alcun titolo essere staggiti, nemmeno per dote, nè far
si potesse contro a quelli esecuzione: ma le vendite o le trasmutazioni
dei crediti iscritti sul Monte fossero libere a ciascuno per semplice
carta di notaio, e gli scrivani del Monte ponendo sul libro il nome
del nuovo creditore sottentrato alle medesime condizioni. Frequenti
erano tali vendite, variando il prezzo come variavano i mercati;
e l’interesse del danaro pe’ grossi guadagni che si avevano dal
trafficare tenendosi alto infino al venti per cento e più:[9] sembra le
vendite dei capitali iscritti sul Monte ordinariamente si facessero in
tal modo, che il cento di capitale si avesse per trenta, scendendo il
prezzo fino al venticinque; e nei peggiori momenti, fino al quindici
e al disotto. Ma qui è da notare che il primo sovventore avea dalla
Repubblica triplicato il capitale e l’interesse; il che avvenne a
questo modo. Sul Monte erano danari dal tempo del Duca di Calabria
(1327) a ragione di cinque per cento l’anno; ed era pena la testa chi
desse o pigliasse più di cinque per cento l’anno, ed era pena la testa
chiunque parlasse, proponesse o mettesse partito di muovere o mutare
l’interesse o il capitale del Monte. Poi alla guerra de’ Pisani l’anno
1362 non si trovava chi volesse prestare a cinque per cento, e chi era
sforzato se ne teneva gravato forte; ma danari bisognavano: laonde ser
Piero di ser Grifo notaio delle Riformagioni, che era uomo molto saputo
in tali cose, trovò questo modo; che a chi prestasse cento fiorini ne
fosse scritti trecento, cosicchè di cento avesse quindici di frutto: fu
chiamato il Monte dell’uno tre.[10] In tanto variarsi del privato e del
pubblico capitale non vuolsi tacere come avessero inventato gli ingegni
sottili dei Fiorentini quello che oggi suole appellarsi Gioco di Borsa:
compravano il titolo com’era sul libro a un dato prezzo da pagarsi in
capo ad un anno; poi voltatolo il compratore in testa sua, più volte
vendeva o ricomperava nel corso dell’anno, secondo che il prezzo dei
crediti sul Monte o rincarasse o rinvilisse: talchè la Repubblica,
cercando frenare (com’io credo) il tristo gioco, pose gabella due per
cento ad ogni permutazione.[11] A Firenze era usuale vizio l’usura
vorace, ch’è fomite alle civili guerre, e a quella andavano molti
capitali tolti alle arti e alla mercatura.
Così erano cause potentissime di turbazioni a questo popolo di Firenze,
oltre all’arbitrio esercitato dai pochi su’ molti nel distribuire le
gravezze, il troppo grasso e la smodata cupidità di ricchezze, e per
gli ingordi guadagni e il largo vivere, agitato incessantemente questo
popolo sin giù nel fondo dai molti e rapidi rivolgimenti della fortuna.
Pei quali in breve non si trovavano più famiglie di anticata ricchezza,
e il terzo erede non possedeva i beni lasciati dall’avolo suo;[12] gli
antichi grandi ridotti a vivere della cultura del suolo e il maggior
numero poveramente in contado, ruinati essi ed i contadini dalle guerre
e dalle gravezze.[13] Ma in Firenze le calamità pareano crescere
questo popolo, tirando in su la più bassa plebe ai godimenti e alle
ambizioni di città libera e opulente. Quindi negli antichi e maggiori
cittadini era un continuo temere la plebe, e in questa un levarsi su
su da cento anni, bramosa d’invadere ed agguagliare ogni cosa e di
occupare i primi luoghi. Abbiamo già scritto come la peste del 1348
avendo fatto che i superstiti si ritrovassero ad un tratto ricchi, i
lavoranti cessassero dagli usati mestieri o rincarassero le mercedi,
volendo per l’abbondanza dei guadagni per sè ogni più cara e delicata
cosa, con generale irrequietezza e disordine nel comun vivere. Il quale
durava, per testimonianza di Matteo Villani, tuttora nel 1362; nulla
potendo le leggi che ad ogni tratto si rinnovavano, sempre inutili a
contenere le spese dei mortori e delle nozze e gli abbigliamenti delle
donne; continuando quel grasso vivere, sebbene in quegli anni fosse una
grande carestia, in mezzo alla quale «festeggiava e vestiva e convitava
il minuto popolo come se fossero in somma dovizia e abbondanza d’ogni
bene.[14]» E nonostante che i rettori con le gabelle ed i cari prezzi
ai quali avean fatto salire ogni cosa s’ingegnassero di porre un
freno in bocca al popolo, questi non se ne curava, portando le spese
allegramente e andando innanzi in quel suo vivere scioperato. Lo stesso
Matteo, comunque fosse buon popolano, si lascia andare a molto dure
parole quando scrive, che a frenare l’ingrato e sconoscente popolo più
utile era la carestia che la dovizia. Tanto era in quelli anni accesa
la guerra tra ’l grasso popolo e il minuto.
Ma gravissimo dissidio sotto altri nomi divideva le Arti minori dalle
maggiori, mentre che insieme queste e quelle partecipavano al governo.
Avevano queste per sè la potenza del capitale e del sapere, quelle
il numero ed il lavoro de’ vari mestieri nelle piccole botteghe.
Delle sette Arti maggiori la prima era dei giudici e notai, alunni
di scuole dove regnava l’autorità; con l’Arte dei medici andavano gli
speziali, mercanti grossi di droghe e di spezierie venute dall’Asia;
e un’altra ve n’era pel commercio delle pelli: nell’Arte del cambio
gli uomini danarosi, possenti all’estero e di grande accesso nelle
cose degli Stati non che nella corte del Papa ed in quelle di Francia
e d’Inghilterra e di Polonia, e d’Ungheria, e nell’Oriente in molti
luoghi. A quei tempi l’Arte della seta non era per anche salita
al colmo; e decadeva quella appellata di Calimala, che riduceva
a perfezione i panni francesi. Teneva fra tutte le altre il sommo
luogo l’Arte della lana, che noi troviamo esercitare nella città un
primato d’autorità e di fiducia; e basti dire che fu commesso a lei
soprintendere alla edificazione del Duomo. Firenze è piena tuttavia
delle insegne di quell’Arte, poste sopra a case dove erano i suoi
lavorii o godeva essa dei privilegi. Sola tra le Arti aveva un giudice
forestiero, di cui non andava la giurisdizione infino al sangue nè
alla corda, ma con facoltà di porre in carcere ed in ceppi.[15] Grande
potenza veniva poi a cotesta Arte dall’avere essa a lei soggetto un
grande numero d’arti minori e di mestieri, da quei che servivano alle
prime conciature della lana infino alle ultime finiture. Cotesti non
erano in proprio nome rappresentati, o i loro collegi dipendevano
da quello della principale Arte, che adoprava quei mestieri avendo
in mano tutto lo spaccio della mercanzia, e regolando i salari e le
condizioni del lavoro con grande arbitrio su’ lavoranti. Le ventuna
Arti generalmente esercitavano la tutela di altre più minute, le quali
aveano loro collegi ma soggetti a quello della principale Arte che
alle inferiori dava il nome: nel 1300 però vedemmo che settantadue
mestieri aveano consoli chiamati a dar voto in caso grave, le Arti
essendosi divise a quel modo perchè più espresso fosse il parere della
città. Di quei mestieri il maggior numero andava con l’Arte della lana,
che n’ebbe infino a venticinque; e questi, per la moltitudine degli
artefici e per avere occasioni continue di lagni da’ grossi mercanti,
troviamo essere del minuto popolo la parte più viva e alla Repubblica
minacciosa. A tutti costoro il Duca d’Atene avea dato consoli e
rettori; i quali diritti subito perderono alla cacciata del Duca: e noi
vedemmo nel 1345 i pettinatori e scardassieri mettersi a capo d’una
congiura per l’accrescimento dei salari;[16] questi medesimi vedremo
ora destare un tumulto e farsi autori d’un rivolgimento pel quale
rimane fino a’ dì nostri celebre il nome degli scardassieri fiorentini.
Odiosi com’erano i Capitani di Parte guelfa, gradiva però a molto
numero dei popolani avergli seco a terminare la guerra col Papa:
cessata questa, parve il campo farsi più sgombro ai dissidii antichi ed
ai pensieri di libertà. Contro al palagio della Parte stava il palagio
della Signoria, dove erano però sempre molti devoti alla setta la quale
stringeva con mano valida e impediva l’intera macchina dello Stato: ma
era setta, e fuori stava a dir così tutta la Repubblica; una tratta di
Signori ed una legge che si vincesse contraria agli ordini della Parte
guelfa, bastavano a rompere tutta quell’opera faticosa, congegno di
pochi ma senza solido fondamento. Il primo di maggio 1378 si prevedeva
che uscirebbe Gonfaloniere di giustizia Salvestro dei Medici: quale si
fosse cotesto uomo, io non lo so; con l’iniziare il sovvertimento dello
Stato fu primo autore alla grandezza di sua famiglia, ma bene io credo
che in lui non fosse valore pari a quelli effetti che da lui nacquero:
grande non era, nè affermerei che fosse egli buono e schietto; quello
che appare in lui d’incerto serve (cred’io) a definirlo. I Capitani,
a premunirsi da un cosiffatto Gonfaloniere, nè arrischiandosi
d’ammonirlo, da prima cercarono, perch’egli avesse divieto, che uno
de’ suoi congiunti sortisse ufficio minore, usando a tal fine il gioco
facile delle borse. Dipoi sventata cotesta trama, ed egli essendo
entrato Gonfaloniere, vennero seco alle agevolezze, promettendo che
nessuno sarebbe ammonito il quale non fosse veramente ghibellino; e per
la conferma delle ammonizioni, più di tre volte non si potesse girare
il partito: di tali promesse nè il popolo si appagava, nè i governatori
della Parte aveano in animo mantenerle. Quindi nei segreti consigli
loro altro macchinavano, e in ciò convenivano, che fosse con le armi da
occupare il Palagio, e col mezzo solito delle balíe fermare lo Stato in
mano agli uomini della Parte guelfa. Ma sul tempo discordavano, essendo
consiglio di Lapo da Castiglionchio troncare gli indugi: prevalse la
sentenza di Piero degli Albizzi, il quale voleva si aspettasse il San
Giovanni, quando gli uomini del contado venivano a folla nella città;
ed essendo costumanza della Signoria andare a vedere il palio nelle
case degli Alessandri, ch’erano parte di quelle degli Albizzi,[17]
il Palagio rimaneva quasi vuoto, sicch’era facile occuparlo: in
Firenze, chi aveva il Palagio aveva lo Stato. Già era vicino il dì
dell’esecuzione: le parti si fanno sicure le cose, e i Capitani più
inalberati aspettandosi che un Giraldi e un altro a loro male accetto
sarebbero tratti a sedere nel collegio, deliberarono ammonirli. Tra
loro passò, ma poi recato ai Ventiquattro non si vinceva, sebbene
fosse girato più volte: e già era mezza notte e alcuno faceva cenno
di partirsi, quando Bettino da Ricasoli, che presiedeva ai Capitani,
s’alzò, andò all’uscio e quello serrato tolse le chiavi e vi si pose a
sedere sopra, con un gran giuro affermando che si vincerebbe: così alla
fine per istanchezza passò il partito, dopo essere girato più di venti
volte. Furono gli ultimi ammoniti.
Già si appressava il termine della Signoria nella quale era
Gonfaloniere di giustizia Salvestro de’ Medici. A lui dicevano: Tu
volesti medicare il male, e hai dato il lustro alla Parte; ed egli:
Noi l’acconceremo il giorno in cui sarò proposto. S’intese con molti
ragguardevoli cittadini, e ragunatisi in segreto deliberarono una
Petizione perchè fossero riposti gli Ordini della giustizia contro a’
grandi: da questa vollero cominciare per assaggiare, e per vedere se
quei della Parte facessero movimento, e perchè quasi tutti i grandi
abbracciando l’occasione si erano dati all’ammonire. Saputo in città
che nuove cose si preparavano, quando fu dato nella campana, subito i
Capitani furono alla Parte; dove, richiesti, andarono molti grandi e
popolani dei loro, con panziere e stocchi celati sotto alle vesti: ma
poi che udirono che la petizione non toccava altro, parve la meglio
lasciar fare per allora, sebbene taluni proponessero di trarre fuori
il gonfalone della Parte e così armati farsi innanzi. In questo però,
la petizione messa a partito non si vinceva nei Collegi pei molti amici
che avea la setta, e cinque n’erano de’ Priori: il perchè Salvestro per
venire alla intenzione sua, fingendo che fosse per una sua comodità,
uscì dall’udienza, e andato nella sala dove il Consiglio del popolo era
già tutto radunato ed aspettava, cominciò a dire: «Savi del Consiglio,
io voleva questo dì sanicare questa città dalle malvage tirannie de’
grandi e possenti uomini, e non sono lasciato fare, chè i miei compagni
e Collegi non lo consentono; poichè veggo che al ben fare non sono
creduto nè ubbidito come Gonfaloniere di giustizia, io me ne voglio
andare a casa mia: fate un altro Gonfaloniere in mio luogo, e fatevi
con Dio.[18]» A queste parole tutti quelli del Consiglio si levarono
ritti romoreggiando; ed egli uscito dalla sala andava giù per la scala,
ma lo ritennero, e non fu lasciato andare. Grande era il rumore;
ed un calzolaio pigliò per il petto Carlo degli Strozzi, che dopo
l’Albizzi ed il Castiglionchio primeggiava nella Parte, dicendogli:
«Carlo, Carlo, le cose anderanno altrimenti che tu non ti pensi, e le
vostre maggioranze al tutto conviene che si spengano.» In questo punto
Benedetto degli Alberti fece il mal passo e dalla finestra cominciò
a gridare: «Viva il Popolo!» ed a quelli ch’erano in piazza: «Gridate
tutti, Viva il Popolo!» Il perchè di subito il romore si levò per la
città, serraronsi le botteghe e stettero chiuse tutto il dì vegnente;
la gente s’armava, e stavano guardie tutta la notte per la città.
Il giorno di poi tutte le Arti si ragunarono, ciascuna nelle botteghe
sue, e tra loro elessero certi sindachi, i quali andarono in Palagio
a praticare co’ Priori e co’ Collegi; ma nulla si fece, chè non
erano d’accordo. Il martedì, ch’era l’antivigilia di San Giovanni,
le insegne delle Arti a gonfaloni spiegati cominciarono a venire in
piazza com’era ordinato, gridando _Viva il Popolo e Libertà_. Quei
del Palagio diedero allora balìa generale ai Priori ed ai Collegi, e
a’ Capitani di parte, a’ Dieci di libertà e agli Otto di guardia e ai
predetti sindachi, di riformare la terra, levando via gli ordini di cui
munivasi Parte guelfa. Ma intanto che ciò si faceva, e che nella piazza
già erano molti gonfaloni delle Arti; muoverne uno e dietro altri,
e andare alle case di messer Lapo da Castiglionchio presso al ponte
Rubaconte: vi misero fuoco, ma rubarle non poterono perch’egli aveva
la notte sgombrato ogni cosa,[19] e fuggitosi in Santa Croce, vestito
da frate, riuscì a scampare in Casentino: di lì andò a Padova, indi a
Roma, dove fu uomo di grande affare presso al Papa ed al Re di Puglia.
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