Storia della Repubblica di Firenze v. 2/3 - 10

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difendere avendo egli la maggior parte dei capitani d’Italia a soldo,
rispose: con le vostre medesime; bastava pagare più grossa moneta, che
alla Repubblica non mancava.
A questo modo si separarono; ed il Re moveva da Perugia, recandosi
prima nelle terre dei Senesi, facendo gran pressa con belle parole
per avergli seco. Ma i Senesi quella volta tennero il fermo, e furono
anzi più franchi assai e più efficaci nel resistere dei Fiorentini.
Al Re andarono altri ambasciatori, e ne mandava egli in Firenze; ma
poichè vidde nulla ottenere, voltando il passo, fece impeto nelle
terre della Repubblica. Prima ebbe tentato Arezzo; ma ritrovatolo ben
difeso, andava per tutta la Valdichiana dando il guasto alle ricolte
senz’altro fare, talchè per dileggio dai contadini era appellato
il Re Guastagrano. Aveva Cortona mutato signore, l’antico essendo
stato ucciso da un altro dei Casali, che i Fiorentini pure cercavano
di mantenere incontro al Re;[131] ma il popolo di Cortona, facendo
giustizia del nuovo Signore, lasciò entrare nella città i soldati
di Ladislao: il Commissario fiorentino, andato al soccorso, rimase
prigione con le sue genti; ed il Casali finiva in Puglia sotto dura
guardia. Vennero allora ambasciatori dei Veneziani a interporsi per la
pace, cui le due parti si rifiutarono: la guerra però non ebbe seguito
per allora, il Re essendo tornato in Napoli ed i Fiorentini stando
contenti alle difese. Aveano fatta sul mare perdita d’una grossa nave,
la quale portava le lane d’Inghilterra ed altre merci per grandissimo
valsente, predata all’entrare del Porto Pisano. Il che essendo riuscito
danno gravissimo ai commerci, la Repubblica più attendeva con ogni
industria a provvedersi di navi sue, delle quali era dato il comando
a un Andrea Gargiolli nato in Firenze da un ser Nardo notaio da
Settignano. Cercavano anche di voltare al mare le braccia del basso
popolo dei Pisani, ai quali era imposto tenere ciascuno in casa un
remo, da essere chiamati a ogni bisogno sulle galere.[132]
Al giorno dato si radunava in Pisa il Concilio, nel quale sederono
ventidue Cardinali, quattro Patriarchi, novantadue Arcivescovi o
Vescovi presenti, e più che altrettanti avean mandato Procuratori;
ottantasette Abati, i Generali e Priori di molti Ordini religiosi,
i Deputati di tredici Università, e grande numero di Maestri in
teologia. Gli ambasciatori del Re di Francia, d’Inghilterra, di
Sicilia, di Polonia, d’Ungheria, di molti Principi e Repubbliche e
del Popolo Romano: vi andarono quelli di Roberto imperatore, e gli
inviati di Ladislao che prima stavano per Gregorio, da lui essendosi
anche i Veneziani separati, tranne i diocesani d’Aquileia dov’egli
fu Patriarca. Solo in Italia che fino all’ultimo gli aderisse fu
il Signore di Rimini Carlo Malatesta, per la prodezza nelle armi e
per l’ingegno chiaro fra tutti allora i Principi dell’Italia: gli
ambasciatori del Re d’Aragona, venuti a protestare per Benedetto, se ne
andarono dileggiati dal popolo dei Pisani, allora un poco risollevati
per l’affluenza di tante genti e di tanta signoria. Dopo avere nei
mesi d’aprile e maggio dichiarato quello essere universale Concilio e
ordinatone il procedimento, citati avendo a comparire innanzi ad esso
i due contendenti; a’ 5 di giugno nel Duomo di Pisa, ed in presenza di
molto popolo, pronunziarono ambedue essere decaduti d’ogni potestà, e
per l’ostinata resistenza chiariti scismatici e fuori della Chiesa:
dissero il Concilio stare in permanenza fino a che non fosse eletto
un nuovo Papa, il quale dovesse continuarlo per la forma della Chiesa.
Indi a’ 15 dello stesso mese si formarono i Cardinali in conclave, ed
ai 26 elessero papa Pietro Filargo da Candia arcivescovo di Milano, che
pigliò nome di Alessandro V: si tennero altre poche sessioni sotto la
presidenza del nuovo Papa; ma poichè molti dei Padri s’erano dipartiti,
pronunziava quegli la dissoluzione del Concilio, il quale dovesse in
tre anni radunarsi per altra nuova intimazione.[133]
Di quella ardita e affatto insolita risoluzione che il Collegio dei
Cardinali avea pigliata, motore primo fu il cardinale Baldassarre
Cossa napoletano, che molti anni era stato uomo di guerra e di mare,
fiero nemico a Ladislao. Il nuovo Papa era pur egli avverso a quel
Re: sappiamo, quand’era arcivescovo di Milano, avere negato, solo
egli tra’ Cardinali, sottoscrivere la carta per la quale promettevano
di mantenere Ladislao nel Regno.[134] Con esso avevano fatto lega i
Fiorentini, ed a lui molto aderiva quella parte per cui reggevasi la
città: chiamarono insieme di Provenza Luigi d’Angiò; il quale disceso
con piccole forze in Pisa mentre ivi sedeva il Concilio, ebbe dal
papa Alessandro l’investitura del Regno di Napoli e il Gonfalone di
Santa Chiesa; ma sebbene avesse poche navi, la Repubblica non permise
entrasse nel Porto che con una sola.[135] Muovevano insieme l’Angiovino
ed il Cossa, Legato in Bologna, e il Capitano dei fiorentini, per Val
di Chiana in verso Roma; e il Papa intanto, per timore della peste
che in Pisa era entrata, venne a Prato, indi a Pistoia, soggiornato
ivi alcuni mesi. Era in Toscana per Ladislao il Conte di Troia; il
quale veduto appressarsi tante genti, si ritrasse infino a Roma, qui
afforzandosi col favore di molti dei Principi romani i quali stavano
per il Re. Castel Sant’Angelo riteneva sempre la bandiera della
Chiesa e da quel lato Paolo Orsini, ch’era pagato dai Fiorentini,
apriva l’entrata alle genti della Lega. Tentarono vincere il Ponte
Sant’Angelo e farsi padroni del grosso della città ch’era chiamato la
grande Roma; d’onde ributtati con molta perdita e non si credendo avere
forze bastanti, il re Luigi ed il Legato si partirono; questi recatosi
presso al Papa, e quegli in Francia a levare genti, per indi tornare a
primavera con maggiore oste e con migliore fortuna.
Intorno a Roma stavano sempre Paolo Orsino e il Capitano dei Fiorentini
Malatesta dei Malatesti signore di Pesaro. Questi, passato il Tevere,
si cercava un adito nella città dall’opposto lato, ma senza utile,
perchè i paesani gli stavano contro e la città era ben guardata;
infinchè l’Orsino con l’intelligenza d’un popolano di nome Lello,
che levò il popolo a rumore, vi potè entrare nei giorni ultimi di
quell’anno 1409: e tosto dopo da un’altra porta vi fece ingresso il
Malatesta con le insegne spiegate del Giglio; di che a Firenze molto
si tennero onorati, perchè i Romani da principio volevano entrasse
con le insegne della Chiesa. Avuta Roma, credeva ciascuno che il Papa
v’andasse; del che i Fiorentini a lui facevano grande istanza: ma tale
non era il volere del Legato, che in tutto guidava l’animo del Papa,
e lo condusse in Bologna; dove rimasero a malgrado le supplicazioni di
tutto il popolo dei Romani, finchè nel maggio del 1410 venuto a morte
Alessandro V, a lui si fece eleggere successore lo stesso Legato col
nome di Giovanni XXIII; uomo capace del sommo grado, se quello di Papa
fosse da tenere con le arti profane ch’erano pessime a quel tempo.
Aveva già di prima il Cossa in Bologna come un principato suo, ampliato
in Romagna con la oppressione di quei piccoli Signori che dominavano
le città. Di là dirigeva le mosse nella Marca e negli Abruzzi: e già
navigando verso Italia il re Luigi con grandi forze, parea la guerra
molto più valida riaccendersi. Ma le galere di questo, divise con poco
accorgimento ed incontratesi presso allo scoglio della Meloria con
tutta l’armata di Ladislao, furono disperse e molte prese, mentre Luigi
s’era già venuto a porre in sicuro dentro al porto di Piombino: l’Isola
d’Elba era caduta in mano anch’essa di Ladislao. Ciononostante potè
Luigi con molti indugi condursi a Roma nell’ottobre di quell’anno.
Aveva un esercito fiorentissimo di capitani i più famosi di quella età:
nel principio della guerra lo seguitava il grande maestro ed istitutore
delle italiane milizie Alberico da Barbiano, il quale essendo venuto a
morte presso Perugia, rimanevano i due più famosi tra’ suoi discepoli,
Sforza Attendolo da Cotignola e Braccio da Montone perugino, che
lungamente poi divisero le armi italiane. Allora stavano ambedue
nell’esercito del Provenzale: Braccio era ai soldi dei Fiorentini,
prestata avendo l’anno innanzi opera egregia in Valdichiana. Sforza
viveasi male soddisfatto e malfermo nella fede verso il re Luigi, le
paghe facendo spesso mancamento a lui come agli altri capitani della
Lega, cosicchè il pondo di tutta la spesa per lo più cadeva sulla
Repubblica di Firenze.[136] La quale trovandosi pel malcontento dei
cittadini in molto grave difficoltà, l’astuto Re coglieva il punto e
la tirò all’esca d’avere Cortona: vedeva il suo maggiore nemico, come
straniero, nulla potere senza i danari dei Fiorentini e senza avere
un suo proprio stato, donde a lui fossero aperte le vie nel cuore
d’Italia. Avea pertanto più mesi innanzi mandato a Firenze privatamente
Gabriele de’ Brunelleschi che stava in Napoli a’ suoi servigi, uno
di que’ tanti nobili fiorentini che andavano fuori cercando fortuna.
Avute da esso le prime aperture, la Signoria inviava al Re ambasciatore
Giovanni Serristori; e il Brunelleschi frattanto andava e veniva
portando parole: de’ quali discorsi il più strano era, che i Fiorentini
mentre facevano pace col re Ladislao, ponevano condizione di mantenere
ai servigi dell’Angiovino le seicento lance promesse a lui per la Lega.
Ma già i termini di questa erano prossimi a scadere: ed oltre Cortona,
che pure sarebbe difesa valida dello Stato, i maggiorenti della città
vi guadagnavano di fare cessare le accuse e i lamenti del popolo di
Firenze pei danni e le spese di quella guerra. Ai primi dell’anno
1411 fu quindi conchiusa in Napoli per mezzo di Agnolo Pandolfini
la pace, comune anche ai Senesi; ed i patti furono, che il Re non
s’impaccerebbe nè di Roma nè di alcun’altra terra inverso Toscana,
tranne Perugia, ch’egli terrebbe ma senza offesa dei Fiorentini; ai
quali doveva restituire le lane e robe predate in sulla nave, ed oltre
ciò vendere per il prezzo di sessanta mila fiorini Cortona; in che
era la somma di tutto il negozio. A Firenze parve bella cosa avere
Cortona, quattro anni soli o poco più dopo l’avere acquistato Pisa,
per danaro entrambe; poichè era costume allora in Italia di vendere le
città: si fecero feste, e i potenti dello Stato crebbero in fama per
quell’acquisto.[137]
Non era però quel trattato senza un qualche mancamento di fede
promessa; ma il Papa ed il re Luigi d’Angiò accettarono le scuse che la
Repubblica fece loro, o comprendessero la necessità in che era posta,
o giovasse loro ad ogni evento non alienarsela: oltreciò la violazione
di una Lega per acquistare una città non era cosa di cui potessero
allora i Principi adontarsi. Avea Luigi lasciata Roma, e nel traversare
la Toscana, accolti in Prato gli ambasciatori che la Repubblica gli
inviava, si fece da questi accompagnare in Bologna dov’era il Papa.
Il quale ai preghi di lui cedendo, e bramoso di sopravvedere da sè
medesimo quella guerra, consentì recarsi in Roma seco; dove entrambi
giunsero nel mese d’aprile. Quel che importava, era condurre a un
tratto insieme i Capitani ad una grande giornata, sperando la vittoria
desse modo a guadagnare sul nemico le paghe mancate insino allora ai
Capitani. Fu la vittoria conseguíta presso Ceprano a Roccasecca, e
fu al di sopra d’ogni speranza; ma perchè la preda era il fine d’ogni
cosa, mentre attendevano a rapirla, ciascuno volendo essere primo, e
la confusione quindi facendosi molto grande; il re Ladislao ebbe agio
di ritirarsi in luogo sicuro, dove rifatto di gente e sopra ogni cosa
di danari, per via di questi ricomperava le robe e gli stessi soldati
che erano prigionieri: tal che ebbe a dire, che il primo giorno dopo
la rotta correa pericolo della corona e della vita, il secondo giorno
solamente della corona, e nel terzo era ridivenuto sicuro d’entrambe.
Ben potea dirlo, chè il re Luigi senz’altro fare si tornò a Roma,
quindi in Provenza; nè più altra mossa fece egli contro a Ladislao:
questi ed il Papa si accordarono per intromessa della Repubblica; la
quale fece allora pace co’ Genovesi, che avendo scosso il giogo di
Francia, e collegatisi a Ladislao, vedeano di malavoglia i Fiorentini
armare navigli e farsi padroni di tanta parte del mar Tirreno.
L’insufficienza della vittoria di Roccasecca era imputata dai
collegati a Paolo Orsino loro capitano, spesso traditore, e che avendo
possessione di città e di feudi nel reame di Puglia, godeva se i due
contendenti si consumassero l’uno l’altro, bisognosi entrambi di lui,
entrambi invalidi ad opprimerlo. Quindi nei mesi che seguitarono alla
pace, essendosi Ladislao dato a raccogliere nuove genti, le spingeva
d’intesa col Papa verso la Marca di Ancona, dove l’Orsino tenea
castelli e in quelli erasi afforzato. Continuava l’espugnazione e
l’esercito del Re ingrossava, quando all’improvvista mutando cammino
lo condusse sotto alle mura di Roma, intanto che le sue galere
appresentatesi innanzi le bocche del Tevere, salivano il fiume. In
quella sorpresa Giovanni XXIII non ebbe che fare; ed i Romani che
avean promesso gagliarda difesa, rompendo le mura pochi giorni dopo
presso alla porta San Sebastiano, lasciarono entrare il Re vincitore.
Fuggivasi il Papa a mala pena, ed aveva chiesto posarsi in Firenze; ma
la Repubblica, pur volendo usare inverso di Ladislao tale un mezzano
temperamento, fece che il Papa alloggiasse fuori della porta a San
Gallo al monastero di Sant’Antonio detto del Vescovo; donde più tardi
faceva ritorno in Bologna; la quale città, che nell’assenza di lui avea
fatta ribellione, tornava adesso all’ubbidienza sua.
Ma il Re covava grandi disegni sulle cose di Toscana, della quale
prometteva ai suoi soldati l’acquisto; e fece sacco nella città di
Roma di tutte le robe e delle merci dei Fiorentini, sebbene avesse per
bando pubblico i mercanti sicurati. Cercò tirare ai danni loro anche
il marchese Niccolò d’Este; ed il giovine Francesco Sforza, che in
Ferrara dimorava (il padre avendo poco innanzi mutato bandiera), fu
a quella pratica mediatore, la quale poi non ebbe effetto. Frattanto
però abbisognandogli guadagnare tempo, teneva a bada i Fiorentini ed
il Papa co’ negoziati dei quali era solenne maestro: chiedeva cose
impossibili; una lega nella quale i Veneziani fossero compresi, e la
concessione in vicariato di Roma e delle altre città della Chiesa di
già occupate dalle armi sue. In quello stesso anno 1413 era disceso in
Italia Sigismondo imperatore, come tra poco vedremo; e la Repubblica di
Firenze, bisognosa pure di provvedersi contro a Ladislao, mandava in
Trento a Sigismondo ambasciatori; ma questi, che aveva altre faccende
in Italia, metteva innanzi certe proposte cui la Repubblica era
impossibile consentisse. Dicea Sigismondo: se io la rompo con Ladislao,
cui sono amico, e’ mi bisogna affatto distruggerlo, e Voi datemi
a ciò mano. Quest’era un fare di nuovo l’Italia mancipio ai Cesari
d’Alemagna.[138]
Il Re aspettava la primavera dell’anno seguente 1414, quando per molte
confiscazioni fatte nel Reame, per estorsioni, per vendite dei beni
della Corona, e per altri violenti modi avendo raccolta grande somma di
danaro, da Napoli, dove si era tornato con un esercito fiorentissimo
di quindici mila cavalli, moveva a Roma primamente, e quindi innanzi
per le terre della Chiesa; dirittamente accennando contro a Firenze, ma
pure sempre con le arti solite contentandosi addormentare i Fiorentini
per via d’un accordo. Conchiuse difatti con essi una lega, firmata in
Assisi a’ 22 giugno da Agnolo Pandolfini, che v’andò un’altra volta
ambasciatore: ma fu di questa vario il giudizio nella città, bene
sapendosi da ciascuno non essere quello altro che un breve respiro;
e quanto valesse una lega conoscevano.[139] Era in Firenze grande
il terrore; ma il Re infermato in Perugia e di là fattosi portare in
Roma e giù pel Tevere e per il mare fino a Napoli, qui moriva nell’età
di trentasette anni a’ 6 d’agosto, in mezzo a dolori atrocissimi di
morbo, che alle genti parve nuovo, e conseguenza dei vizi suoi. Per
essere senza figli, andò la Corona alla sorella di lui, che fu la
seconda Giovanna. Firenze, condotta a gravissimo pericolo, scampò ad
un tratto per quella morte, come le avvenne quando morirono Arrigo
VII e Castruccio e Giovanni Galeazzo; ma più di quest’ultimo era da
temere Ladislao, che prode della persona conduceva da sè la guerra,
solo tra’ Principi i quali avessero da gran tempo turbato Italia con le
armi.[140]
Dopo la morte di Ladislao pareva l’Italia tacersi dinanzi alla prossima
riunione del Concilio che preoccupava tutte le menti; facevano forza le
nazioni oltramontane, e la Germania massimamente in tutto quel fatto
dispiegava passioni più vive e più duro animo ed ostile. Sigismondo
imperatore, infaticabile nel promuovere quell’assemblea, cercava
farsene in mezzo a tutti moderatore; che fu la gloria del suo regno.
Continuando le tradizioni della famiglia di Lucemburgo e ponendosi ad
esempio Arrigo VII suo bisavolo, tentava rialzare l’Impero in Italia,
conciliando alla sua l’opera dei Pontefici. Già fino da quando era
semplice re d’Ungheria, avea fatto egli i primi passi per accostarsi
al nuovo papa Giovanni XXIII, con intromessa dei reggitori della
Repubblica di Firenze, ai quali inviava l’anno 1416 Filippo Scolari
detto Pippo Spano, suo tesoriero e capitano in Ungheria, e fino a che
visse principale uomo in quello Stato. La stessa famiglia erano gli
Scolari e i Buondelmonti,[141] dei quali il ramo donde uscì Filippo
avendo seguíto col nome mutato parte ghibellina, era caduto in povertà.
Quindi lo Scolari da giovane andava pei commerci in Ungheria, dov’erano
molti cambiatori e mercanti fiorentini;[142] e fattosi largo appresso
quel Re per la perizia nel fare d’abbaco, ebbe dipoi con la contea di
Temesvar titolo di Spano e comando d’armi e governo di provincie. Fatto
ricchissimo, innalzava a dignità in quel regno Matteo suo fratello
e Andrea Scolari che fu vescovo di Varadino; e per lui non pochi
Fiorentini, tra’ quali uno della famiglia antichissima dei Lamberti
o Lamberteschi, tennero grado in Ungheria, perduto da essi dopo la
morte dello Spano. Mandato Filippo, la Repubblica faceva difficoltà a
riceverlo come divenuto straniero e potente, e come di sangue e d’animo
ghibellino. Ma egli tenendo corte bandita, col largo spendere e con la
magnificenza de’ costumi acquistò grazia tra’ cittadini della patria
sua. Era già stato nell’Ungheria edificatore munificente di chiese e
luoghi donati al culto; commise in Firenze a Filippo Brunelleschi la
costruzione d’un Oratorio presso la chiesa di Santa Maria degli Angeli,
del quale si veggono tuttora le mura di forma ottagona elegantissima
per le proporzioni: ma o fosse colpa del fratello, siccome fu detto,
o che la Repubblica rivolgesse i danari al mantenimento delle guerre,
non fu quell’opera mai compiuta. Matteo Scolari, eletto despòto di
Rascia,[143] teneva in Firenze un palagio sontuoso.
Nell’anno 1411 era stato lo Scolari capitano d’una forza di dodici
mila cavalli ungheresi, che Sigismondo fatto imperatore mandava a
combattere contro alla Repubblica di Venezia. Bramava aprirsi per
tale modo la via in Italia, e ripigliare su i Veneziani l’Istria e
la Dalmazia, ad essi venduta dal re Ladislao per poca moneta; solo
frutto ch’egli ritraesse di quella corona della quale si era fatto in
Zara nei suoi primi anni incoronare. Occupava lo Scolari agevolmente
le terre del Patriarcato d’Aquileia, ch’erano allora tutto il Friuli;
ma sui confini dei Veneziani trovata dura la resistenza, continuava
presso a due anni la guerra inutile, che fu cessata per via d’una
tregua, rimanendo la Dalmazia in possessione dei Veneziani: e questi
infine acquistarono anche il Friuli. Ebbe accusa lo Scolari d’avere
servito meglio l’Italia patria sua che l’Imperatore suo padrone, il
quale però avendogli serbata infino all’ultimo amicizia, dimostrò vana
tale accusa. La Repubblica di Firenze avea mandato agli 8 novembre 1413
Gino Capponi a Venezia, perchè inducesse con ogni sforzo i Veneziani a
trattare di pace con Sigismondo, il quale era in Lodi e seco il Papa
desideroso di quella pace.[144] Scese in Italia Sigismondo, e tutto
rivolto alle cose del Concilio, fu in Lodi raggiunto dai tre Legati di
Giovanni XXIII, mandati a fine di ordinare la convocazione. Premeva al
Papa sopra ogni cosa la scelta del luogo che non fosse in Alemagna,
e quando ai Legati diede l’ultima licenza teneva in mano sopra una
carta descritti i nomi delle città in cui potessero consentire; poi
(come al pigliare le grandi risoluzioni pare che la volontà sparisca,
e l’uomo sia vinto da una forza superiore) stracciò la carta, e diede
loro mandato libero. Fu scelta Costanza, città dell’Imperatore, e
Giovanni da quel punto si vidde innanzi la sua condanna. Troviamo
dicesse a Bartolommeo Valori: «che debbo fare, se haggio uno fato che
mi ci tira?[145]» Egli e Sigismondo s’abboccarono in Lodi stesso, e
tra quella ed altre città di Lombardia rimasti insieme per oltre un
mese, mandarono fuori gli editti e le bolle per la intimazione del
Concilio al primo di novembre 1414. A me non ispetta narrare l’istoria
di quella fra tutte memorabile assemblea, dalla quale essendo annullate
nuovamente le ragioni di Gregorio e Benedetto, venne Giovanni costretto
a rinunziare il pontificato; ma poi fuggitosi, e volendo insorgere
contro ai decreti dell’assemblea, fu da quella condannato e messo in
carcere. Indi procedendo alla nominazione d’un altro Papa, lo stesso
Concilio costituitosi in conclave elesse agli 11 di novembre 1417 il
cardinale Oddo Colonna, che pigliò nome di Martino V: dopo di che il
Concilio alcuni mesi continuato, senz’altro effetto si scioglieva; ed
il Papa mosse in verso l’Italia, con intenzione di venire a porre sua
stanza in Firenze. A lui mandava la Repubblica in Milano una molto
solenne ambasciata di primari cittadini, a capo dei quali Fra Leonardo
Dati Generale dei Predicatori, uomo assai chiaro in quella età.[146]
La grande assemblea del mondo cristiano si era divisa per cinque
nazioni, principio solenne alla formazione degli Stati, condanna
all’Italia non mai più guasta e più disfatta. In Lombardia tale una
misera condizione, tale uno strazio che il peggiore mai non si vidde;
ai Signori antichi aggiunta la peste di quei fortunati Condottieri
che ivi e in Romagna e nel Reame e dappertutto vagando per fare a sè
acquisto di città e così a’ Principi agguagliarsi, veniano a confondere
e a turbare più che mai lo stato d’Italia, già in sè medesimo sì
intricato. Il reame di Puglia ubbidiva ad una donna molle ed inetta,
e che andava in cerca essa medesima a chi ubbidire, drudi o mariti o
altri che fosse. Si era sposata ad un francese, dal quale tenuta come
prigioniera, tentò rinalzarsi per la virtù militare di Sforza da lei
fatto contestabile del Regno: questi conduceva in Roma di nuovo le armi
napoletane, cacciandone l’altro grande condottiero di milizie che fosse
in Italia a quella età, Braccio dei Fortebracci da Montone perugino.
Aveva costui prima espugnata con dura guerra la città sua, divenuta
quindi sede a uno Stato che egli andava distendendo con armi felici per
le terre della Chiesa. Era Martino giunto in Firenze a’ 25 di febbraio
1419,[147] non avendo terra che fosse sua, ma in quel tumulto di cose
cercando rifarsi lo Stato con la sola forza del nome pontificale, e
usando a pro suo le divisioni tra’ contendenti: al che gli giovava lo
stare in Firenze, città posta in mezzo alle terre della Chiesa e a
Braccio allora molto amica. Questi sarebbesi contentato ritenere in
feudo le città dell’Umbria, al quale effetto venne in Firenze, dove
prestò al Papa omaggio superbo; conduceva seco tutta la possa delle
armi sue che avevano vinto lo Sforza a Viterbo, gloriose e splendenti
di ogni ricchezza, egli facendo l’entrata in mezzo ai due Signori di
Camerino e di Fuligno, seguìto da molti deputati di città che a lui
erano fatte suddite. Il popolo di Firenze ammirò Braccio, e in quella
grandezza i modi affabili di lui valevano a conciliargli favore;
laddove Martino, che già da oltre un anno in Firenze dimorava senza
gran seguito nè possanza e senza splendore di cose fatte, perdè al
confronto, venuto essendo come in uggia alle mobili fantasie di questo
popolo. I ragazzi scriveano su’ muri e per le strade canterellavano:
«_Papa Martino non vale un quattrino — o un lupino; Braccio valente
vince ogni gente_.[148]» Il Papa sdegnato contro la città, ne partì
a’ 9 settembre 1420; prima avendo consacrato l’altare maggiore
ed altre parti allora compiute del tempio di Santa Maria Novella,
dov’era alloggiato, ed innalzato la Sede fiorentina a grado e a titolo
Arcivescovile.
Innanzi era a lui venuto a fare atto di sommissione il deposto Papa
Giovanni XXIII: sedeva Martino in mezzo ai Cardinali in Concistoro
allorchè l’altro inginocchiato davanti a lui confessò essere lui solo
vero ed unico pontefice; pel quale atto veramente cessava del tutto
lo scisma durato ben quarant’anni, poichè Gregorio aveva accettato i
decreti di Costanza, e Benedetto vivea con pochi ostinatamente chiuso
nel suo refugio d’Aragona, sottratta anch’essa alla ubbidienza sua.
Ma il Cossa da molti era creduto che non avesse ceduto in Costanza
se non per forza; veniva quindi tolto ogni dubbio dalla spontanea
sommissione che egli faceva in un luogo libero, e con espressioni
le quali apparvero tanto più sincere quanto più erano decorose. Il
Rinuccini, che v’era presente, le riferisce a questo modo. «Radunava
io solo il Concilio; ma faticai sempre a pro della Santa Romana
Chiesa; quel che sia il vero tu ben conosci: io vengo alla Santità
tua, e quanto posso mi rallegro della tua assunzione e d’essere io in
libertà.[149]» Qui senti parole che uscivano rotte da grande passione:
altero e violento e nei primi anni fortunato, gli era mancata ogni
vigoria dal punto in cui si trovò in faccia, nella più augusta delle
assemblee, alla coscenza della cristianità. I suoi nemici gli aveano
dato bestiali accuse ed inverosimili; rimase in Firenze oggetto a
molti di compassione, e in capo a sei mesi quella vita tanto logora
si consumava: ebbe in San Giovanni la sepoltura ed un monumento, opera
elegante di Donatello, dove anche si legge essere egli stato Papa. Avea
qui grandi e possenti amici, ai quali dovette la libertà sua, perchè
Martino avea cercato farlo in Mantova imprigionare. Giovanni de’ Medici
più volte avea a lui Pontefice prestato danari; e da ultimo per la
liberazione sua pagò trentacinquemila fiorini; del che ci rimangono i
documenti e le scritture. È falso la Casa dei Medici essersi impinguata
con le ricchezze lasciate dal Cossa che facea modesto nè molto ampio
testamento, e pure ai lasciti l’eredità non bastava; e tra’ creditori
era anche la Casa degli Spini, banchieri antichi dei Pontefici.
Esecutori del testamento furono, oltre a Giovanni de’ Medici,
Bartolommeo Valori, Niccolò da Uzzano e Vieri Guadagni, nel cui banco
erano depositati i denari i quali al Cossa appartenevano.[150]
Correvano sempre alla città di Firenze prosperi anni, che i migliori
forse non ebbe ella mai, ed il bel vivere italiano qui solo e a
Venezia pareva raccogliersi. Non mai la Repubblica fu retta dentro
così ordinatamente, nè più in Italia rispettata, essendo venuta a
capo di molte imprese felici; possente d’industrie opulentissime e
di traffici, fiorente per le arti le quali salivano allora al sommo
d’ogni bellezza: fu cominciata la fondazione della Cupola del Duomo,
e messa al posto la porta maggiore del Battistero di San Giovanni. Le
manifatture s’innalzavano a dignità di Arti belle, massime per i lavori
d’oro filato e battuto, e per gli smalti dai quali ebbe celebrità
l’Orificeria, fattasi scuola ai sommi artisti. Ma in quanto risguarda
solamente la ricchezza, è da notare che il commercio della Seta aveva
avuto col principiare del secolo XV tale incremento ch’era in Firenze
fra tutti gli altri il più lucroso. I velluti, i broccati, i drappi a
oro toccaron l’apice della perfezione; veniano richiesti dai Principi
e nelle Corti, intanto che drappi di minore pregio andavano in grande
quantità per molte parti d’Europa e dell’Asia, sorgente amplissima
di profitti. Nè però cessava l’arte della Lana da quella ampiezza in
cui la vedemmo durante il secolo precedente. «I Fiorentini mandavano
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