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Storia della Repubblica di Firenze v. 2/3 - 27

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  e che insieme avesse il governo in sè medesimo dello Stato. A questo
  fine i Signori che allora sedevano, avuta la non difficile approvazione
  dei Consigli del Cento e del Popolo e del Comune, procedendo come se
  fossero Parlamento, ma senza nè suono di campana, nè convocazione
  di popolo in Piazza, elessero trenta cittadini, i quali dovessero
  aggiungersi altri duecentodieci; che tutti insieme e co’ Signori
  e Collegi avessero piena autorità e balìa quanta ne aveano i tre
  Consigli, con facoltà di delegarne altrui quella parte che a loro
  piacesse. E questi medesimi al venturo mese di novembre, che soleva
  essere il tempo degli squittinii, dovessero farli per tutti gli
  uffici, coll’aggiunta però di altri dodici per Quartiere a nominazione
  dei Signori che allora sarebbero. Vollero poi che i detti trenta e
  dugentodieci insieme co’ Signori e Collegi che volta per volta saranno
  in ufficio, compongano un nuovo Consiglio maggiore da continuare
  perpetuamente, e che abbia potestà sovrana per ogni titolo di diritto.
  Vietarono entrare nel detto Consiglio per ogni casa e consorteria oltre
  ad un certo ristretto numero; ma eccettuarono da ogni divieto anche
  di età, due Case da nominarsi: io mi figuro che l’una fosse quella dei
  Medici, e l’altra di poca significazione. A niuno privato fosse lecito
  di fare petizione, ovvero proposta a quel Consiglio, dovendosi ogni
  deliberazione ordinatamente partire dai Signori con osservanza delle
  forme stabilite, cosicchè al Consiglio null’altro spettasse fuorichè il
  diritto di concedere a quelle sanzione.
  Subito dopo un’altra Provvigione portava a _Settanta_ il numero
  dei _Trenta_; ai quali _Settanta_ si apparteneva la scelta ogni due
  mesi della Signoria e dei Magistrati, così però che la detta scelta
  ogni anno spettasse a metà numero, cioè a _Trentacinque_; gli altri
  _Trentacinque_ sottentrando nell’anno veniente, e così alternandosi
  cotesto supremo e capitalissimo diritto. Nel resto i _Settanta_ insieme
  avessero la prerogativa e la direzione di ogni cosa, riempiendo
  da sè medesimi le vacanze, così da formare essi un Senato, ovvero
  Collegio che mai non morisse; a questo ordine era data speranza di
  essere assunti al termine dell’ufficio i Gonfalonieri, qualora però
  avessero in quello un partito favorevole, cioè quando non fossero a
  chi governava dispiaciuti. Non valesse, per avere luogo nell’Ordine dei
  _Settanta_, il divieto di coloro ch’erano allo specchio, se non perchè
  avessero la facoltà sola di consigliare, ma non quella di votare; al
  che racquistassero il diritto, appena fossero in pari con le gravezze.
  Dai _Settanta_ si traggano ogni sei mesi _Otto_ chiamati di Pratica,
  dai quali dipendano le faccende di fuori, le ambascerie, e le condotte,
  e così le relazioni con gli altri stati in pace ed in guerra, salvo
  però l’essere approvati gli stanziamenti nelle loro forme consuete;
  ma i Dieci di guerra potevano al caso eleggersi sempre. Dallo stesso
  Ordine ogni sei mesi si traggano pure Dodici, appellati Procuratori
  per il Governo delle cose dentro, ai quali appartenga regolare le
  prestanze, governare il Monte, avere ingerenza nelle cose delle
  Mercanzie, e in quelle spettanti ai Consoli del mare. Si traggano pure
  gli Otto di Balìa, dei quali era stata già prima ristretta l’autorità
  che avevano grandissima nelle cose criminali e affatto arbitraria in
  quelle di Stato; ma col tempo aveano voluto conoscere ancora nei casi
  civili, il ch’era stato ad essi tolto.[521] L’antico e fondamentale
  Ordine della Repubblica era mantenuto in ciò, che la parte riservata
  alle Quattordici Arti Minute, nel Priorato e in tutti generalmente
  gli uffici inferiori, rimaneva ad esse anche nel nuovo Ordine
  conservata.[522]
  Per questo Ordine dei _Settanta_ lo Stato ebbe forma tutta la vita di
  Lorenzo, e fu ripigliato dai Medici quando tornarono dopo l’esiglio
  al governo della città. Ora di quel nuovo e forte Ordine, prima cura
  doveva essere provvedere alle necessità dell’erario: mantennero sempre
  nel distribuire le gravezze l’antica regola del Catasto, ma come
  indice, o come traccia che non obbligava i Governanti a seguitarla;
  che anzi temendo quella egualità rigorosa che s’era cercata per via del
  Catasto, la condussero sotto Lorenzo da una forma più ancora di prima
  sottile e moltiplice d’imposizione progressiva, che allora chiamavano
  _Decima Scalata_, e che ai Medici piacque sempre perchè favoriva se
  altro non fosse, nelle apparenze, quel minuto popolo nel quale sapevano
  avere un amico più certo e stabile d’ogni altro.[523] Si trova in
  certi casi, che dove i compresi nel grado inferiore pagavano delle loro
  rendite il _ventesimo_, i più elevati pagavano il _sesto_. Molta era la
  scienza e l’esperienza di queste cose che aveano gli uomini Fiorentini;
  e come Cosimo avea fatto, così anche Lorenzo col gioco ingegnoso degli
  sgravi e degli aggravi otteneva di porre l’arbitrio là dove appariva
  che la sola legge governasse. A questo modo blandiva gli amici, batteva
  i contrari, teneva in sospeso la fortuna degl’incerti; e mentre
  impediva il troppo innalzarsi d’alcune famiglie, faceva intendere
  alla moltitudine degli uomini quieti, non d’altro curanti che delle
  mercanzie loro, come dallo starsi a lui aderenti, dipendesse l’andare
  innanzi e prosperare.
  In mezzo alle tante spese della guerra,[524] il Monte era stato
  costretto mancare alle scadenze delle paghe degl’interessi ai
  creditori: provviddero a questo con varie industrie, e col terminare
  la vendita dei beni spettanti alla parte Guelfa e all’ufficio della
  Torre; da quella vendita non s’eccettuava che il Palagio della Parte
  e un’altra casa. Più tardi, allo stesso fine ricercarono e fecero a
  molti cittadini pagare i debiti arretrati col Comune; «benchè la più
  parte si fossino composti con li ufficiali del Monte, e pagate le loro
  composizioni;» che parve essere legge iniqua.[525] Dai tempi di Cosimo
  vedemmo la Cassa della Repubblica mescolarsi con la privata di lui;
  ma egli avendo prospera sempre la mercanzia, sebbene talvolta usasse
  ad ampliarla i danari del Comune, sovveniva spesso anche del suo alle
  pubbliche necessità. Era il contrario di Lorenzo, il quale Magnifico di
  sua natura, e tanto più largo spenditore quanto proseguiva più vaste
  ambizioni, e dei traffici negligente,[526] reggeva la sua privata
  sostanza usando la pubblica: le angustie del Monte aveva in gran parte
  causate egli stesso, e con l’artifizio di certi uomini sottilissimi
  lo faceva servire a pro suo; di che gli venivano accuse grandissime.
  Coloro stessi che amministravano i banchi dei Medici in tante piazze
  d’Europa, o per avere mal fatto, o perchè erano divenuti per sè
  troppo ricchi, talvolta accadeva gli si voltassero contro. Un Battista
  Frescobaldi, il quale essendo stato Console in Pera, ebbe ivi parte
  alla consegna del Bandini, ora con due compagni aveva fatto disegno
  d’uccidere Lorenzo nel Carmine; ma fu scoperto prima ed impiccato.
  Questa ed un’altra simile trama che un Baldinotti da Pistoia aveva
  ordita per ammazzarlo al Poggio a Caiano, fu detto muovessero dal conte
  Girolamo Riario.[527]
  Intorno ad Otranto continuava un anno la guerra con molta lode
  d’Alfonso duca di Calabria, nel mare essendosi alle galere del Re
  aggiunte quelle che il Pontefice aveva messo sotto al comando di Paolo
  Fregoso arcivescovo di Genova, prelato che molto s’intendeva delle
  armi e dei tumulti nella patria sua. Era la primavera dell’anno 1481:
  un grande conflitto, e forse una tremenda sciagura, a tutta Italia
  sovrastava, imperocchè sulle coste di Dalmazia opposte alle nostre si
  radunava un esercito d’altri venticinque mila Turchi, i quali doveano
  dalla Vallona passare in Otranto, e quivi aprire più vasta guerra:
  quando, per la morte di Maometto II due suoi figli contendendosi la
  successione con le armi, il Pascià d’Otranto andò al soccorso del
  maggior figlio Baiazet, in cui rimase l’impero; ed i lasciati nella
  città capitolarono con Alfonso, il quale pigliava a soldo alcune
  centinaia di quei Turchi a lui rimasti poi fedelissimi. Cessato così
  tanto pericolo all’Italia ed al Pontefice, ripigliava questi, seguendo
  suo genio, le armi congiunte allora a quelle dei Veneziani, e la
  tempesta cadea questa volta addosso al Duca di Ferrara. Quivi il Senato
  esercitava per un suo Visdomino una sorte di giurisdizione gravosa al
  Duca ed ai Ferraresi, obbligati anche a non valersi del molto sale
  ch’aveano in casa, ma provvedersene a Venezia; donde erano grandi
  e spessi disgusti, che la Repubblica fomentava siccome occasioni a
  farsi più innanzi. Aveva in Romagna Girolamo Riario, dopo la signoria
  d’Imola, ottenuta quella di Forlì, vacata per morte di Pino degli
  Ordelaffi, la cui successione essendo dubbiosa tra due fanciulli, il
  Papa, fatto arbitro, finì la contesa col dare lo Stato in feudo al
  nipote. Il quale aspirando a cose maggiori, e a queste più acceso dai
  Veneziani che aveano allora bisogno del Papa, recossi a Venezia con
  istraordinaria pompa a ristringere la lega e a disegnare la guerra;
  accolto con tali onorificenze dal Senato, che le maggiori non si
  sarebbono fatte allo stesso Imperatore, scrive un infedele ministro del
  Conte Girolamo, che era salariato da Lorenzo.[528]
  Così era l’Italia venuta a dividersi in due grandi Leghe, e dai confini
  dei Veneziani a quelli di Napoli era guerra dappertutto. Conduceva
  un forte esercito di quella Repubblica Roberto da San Severino, e
  Roberto Malatesti le genti del Papa: avevano a fronte, Alfonso duca
  di Calabria ed il vecchio Federigo duca d’Urbino. Contrapponeva questi
  guerra faticosa sul Po all’esercito dei Veneziani entrato nel Polesine
  di Rovigo; guerra crudelissima pe’ luoghi infetti d’aria pestilenziale
  nel calore della state: perivano dicesi oltre a ventimila tra paesani
  e soldati; perdè la Repubblica tre suoi Commissari andati al campo; e
  lo stesso prode e buon Federigo, fattosi condurre infermo a Bologna,
  terminava con molto pianto de’ suoi la vita gloriosamente esercitata. I
  Veneziani, avuto il Polesine, stringeano per molte battaglie Ferrara;
  e intanto era un’altra guerra nel Parmigiano dei Rossi di Parma Conti
  di San Secondo contro al Duca di Milano, un’altra in Romagna tra il
  Bentivogli di Bologna ed il Riario. In quel della Chiesa i Fiorentini,
  condotti da Costanzo Sforza, aveano riposto nella Città di Castello
  Niccolò Vitelli: e il Duca di Calabria, coll’aiuto dei Colonnesi e
  dei Savelli nemici al Papa (d’onde erano nate le prime vertenze tra
  questi e Ferrando),[529] devastava tutto il paese attorno a Roma,
  essendo ruina e sangue fin dentro alla città stessa. Nè fine vedevasi
  a quella inutile distruzione, quando Roberto Malatesta ebbe un nobile
  pensiero: disposte con ordine intorno a sè tutte le sue genti, studiate
  le mosse, prefisso il luogo alla battaglia, veniva a giornata con
  tutto l’esercito d’Alfonso a Campomorto presso Velletri; dove molte ore
  essendosi combattuto con tanto insolita pertinacia che oltre a mille
  morti giaceano sul campo, ottenne Roberto insigne vittoria; e il Duca
  di Calabria, che aveva gran parte de’ suoi cavalieri lasciata prigione,
  dovette la propria sua salvezza ai Turchi pigliati in Otranto de’
  quali si aveva formato una guardia. Roberto, infermato per le fatiche
  della battaglia, non potette goderne la gloria, essendo egli morto
  pochi giorni dopo in Roma, dov’ebbe onorata sepoltura. Eragli suocero
  Federigo duca d’Urbino, al quale aveva raccomandato la cura della
  famiglia e dello Stato: questi infermo in Bologna, e non sapendo l’uno
  dell’altro, a Roberto aveva raccomandato la sua: morivano entrambi nel
  giorno medesimo.[530]
  Non lasciò Roberto figli legittimi, talchè i Fiorentini avuto sentore
  di qualche disegno del Conte Girolamo contro allo Stato dei Malatesti,
  mossero genti ad impedire ogni invasione da quella banda. Cercavano
  intanto di recare al Papa offesa più viva col promuovere quanto era in
  essi, o almeno col fare che a lui suonasse all’intorno quella proposta
  di Concilio, che Luigi XI avea messa innanzi, come si è detto, che
  ora l’imperatore Federigo III per le vertenze germaniche accennava di
  ripigliare, ed alla quale i Re di Spagna e d’Ungheria si confidava che
  inclinerebbero, a tutti essendo venuta in odio la turbolenza di Sisto
  IV, e quel continuo guerreggiare per fini privati. Il re Ferrando avea
  già eletto gli Ambasciatori suoi al Concilio; e proponeva che oltre a
  quelli di ciascun Principe collegato, un altro dovesse rappresentare in
  comune tutta la Lega.[531]
  Doveva il Concilio adunarsi in Basilea, volendo che fosse continuazione
  dell’antico da più anni interrotto; e se ivi non potesse, faceano
  pensiero di tenerlo in Pisa. Un vescovo _Crainense_[532] aveva la
  residenza in Lubiana; uomo tedesco, e favorito dall’Imperatore, si dava
  gran moto per quella convocazione. Ma in siffatte opere gli esperti
  e savi uomini sempre temono che il fine oltrepassi il segno cercato:
  così del Concilio alcun poco si discorse, ma nulla si fece; e un Baccio
  Ugolini mandato oratore in quella città, scriveva private lettere
  a Lorenzo, nelle quali mostra fino dal principio di non averne fede
  alcuna, trattando la cosa giocosamente con motti arguti, i quali sapeva
  andare a genio di Lorenzo.[533]
  Ignoro se fosse il timore del Concilio che muovesse il Papa e il
  Nipote, o l’essersi accorti che dare mano ai Veneziani di qua dal Po
  era un fargli padroni di tutta Romagna; ma certo è che Sisto, per
  mezzo di Giuliano della Rovere cardinale di San Pietro in Vincula
  tornato di fresco da una Legazione in Francia, mandò in Napoli a
  trattare la pace e l’unione con gli altri della Lega per la salvazione
  di Ferrara. Non ci credevano da principio, e quando si seppe che era
  stata sottoscritta dagli Oratori a’ 12 dicembre in Camera del Papa,
  i Fiorentini poco ne furono soddisfatti,[534] perchè rimanevano a
  discrezione di lui quei Signori di Romagna, dei quali con grande studio
  la Repubblica soleva farsi come una cintura contro alle offese che
  scendessero in Lombardia e contro agli stessi Stati della Chiesa che
  la fasciavano da ogni parte. Ma ciò nonostante fu allora un gran bene
  quella accessione del Papa; il quale dipoi, impetuoso come al solito,
  scomunicava i Veneziani perchè non cessavano con lui dalla guerra
  che insieme avevano cominciata. Ferrara ne usciva a grande stento;
  e perchè il verno era già grande, si fece in Cremona una dieta nella
  quale intervennero Lodovico Sforza e il Duca di Calabria ed il Legato
  del Papa ed il Marchese di Mantova e Giovanni Bentivogli, fra tutti
  destando ammirazione grandissima Lorenzo de’ Medici per forza di mente
  e splendore d’eloquenza. Deliberarono entrare oltre Po nei confini
  dei Veneziani, i quali aveano fatto passare l’Adda a Roberto da San
  Severino loro capitano, con la speranza di fare nascere in Milano
  qualche mutazione contro a Lodovico. Fu dato il comando di quella
  guerra al Duca di Calabria; e questi, sebbene non facesse impresa
  notevole, tenea tutta la campagna sin presso al Mincio, intantochè
  lo Sforza aveva schiacciato i Rossi di Parma; e i Veneziani, di forze
  inferiori, attendevano a guardarsi, col solo vantaggio d’avere occupato
  per la via del mare Gallipoli in Puglia. La guerra però andava lenta
  dalle due parti tutto quell’anno e la primavera del susseguente, per la
  mala intelligenza tra’ confederati, e massimamente perchè a Lodovico
  il quale teneva sotto nome di Governatore lo Stato in Milano, dava
  gran sospetto quel campeggiare in Lombardia d’Alfonso duca di Calabria,
  naturale protettore di quell’infelice Giovanni Galeazzo cui aveva data
  la figlia in isposa, e che Lodovico già intendeva dispogliare con arti
  pessime dello Stato. I Veneziani per tentativo fatto essendosi accorti
  come egli avesse buone radici in Milano, non furono schivi di trattare
  seco lui: e quello stesso Roberto da San Severino, che aveva prima
  servito e poi tradito lo Sforza, fermava seco ora la pace in Bagnuolo
  ai 7 d’agosto 1484. Per questa ritenne il Senato di Venezia tutto il
  Polesine di Rovigo, con molto grave scontentezza d’Ercole da Este, al
  quale rimasero in casa i Visdomini, e i Veneziani sul Po. Dispiacque
  la pace anche al Pontefice perchè fatta senza lui; bene egli l’aveva
  cercata prima:[535] e perchè uditane la novella moriva, fu detto al
  nome solo di pace essere mancata la vita di lui che aveva tredici anni
  tenuto l’Italia in guerra e in tumulti.[536]
  In Siena il governo dalle mani degli Ottimati era venuto in quelle del
  Popolo, ed avendo fatta lega con la Repubblica di Firenze, restituiva
  finalmente la Castellina e le altre terre ad essa occupate nella guerra
  di Toscana. Troviamo Lorenzo essere stato grande amico a quello Stato
  di popolani, debole com’era e molto agitato, sperando forse egli avere
  occasione di porvi le mani, e soddisfare l’ambizione ch’era in lui
  grandissima di fare un qualche notabile acquisto e averne merito nella
  patria sua.[537] Dolevagli intanto assai la perdita di Sarzana, che
  dalla gelosia dei vicini più volte gli era stato impedito recuperare;
  ed ora il racquisto si rendeva più difficile, avendo Agostino Fregoso
  donata la terra al Banco di San Giorgio, Compagnia possente, la quale
  reggeva tutto il commercio dei Genovesi, mantenendosi libera e forte e
  senza alterazioni in mezzo ai tanto spessi mutamenti ed alle percosse
  di signorie forestiere cui la Repubblica sottostava. Andarono genti
  dei Fiorentini a quella volta, ma nel passare che facevano sotto
  Pietrasanta molti carri di munizioni e vettovaglie con debole scorta,
  furono assaliti da quelli di dentro, e presi non senza sospetto che
  da quella preda si fosse in Firenze cercato un motivo d’assalire
  Pietrasanta: l’avevano essi altre volte posseduta, ed era una briglia
  da tenere in freno i Lucchesi, e buon fondamento ad ogni impresa da
  quelle parti. Ma l’espugnazione si rendeva difficile, essendo l’autunno
  avanzato e il terreno paludoso; abbandonarla ed aspettare la primavera,
  Lorenzo non volle; e in aggiunta d’Iacopo Guicciardini avendo mandato
  due altri Commissari, Antonio Pucci e Bongianni Gianfigliazzi, e dietro
  a quelli Bernardo del Nero, si recò egli stesso sotto Pietrasanta
  a dare animo alle genti ed a sopravvegliare la piccola guerra, ma
  tale però che avrebbe potuto estendersi molto per essere i Genovesi
  dal mare discesi in Vada e battendo con le artiglierie la Torre che
  i Fiorentini avevano nuovamente armata in Livorno. Assai fu lodata
  la virtù dei Commissari, e massimamente di Antonio Pucci che prestò
  opera di Capitano, egli volendo a ogni modo si desse l’assalto, e in
  quello mischiandosi agli uomini d’arme e pigliando cura dei feriti e
  provvedendo da sè ogni cosa sinchè non ebbe avuto infine Pietrasanta.
  Egli medesimo infermatosi per quelle fatiche e per la stagione, si
  faceva portare a Pisa, dove in pochi giorni moriva: era figlio di quel
  Puccio che tanto avea fatto co’ suoi per dare lo Stato a Cosimo de’
  Medici. Gravi erano le sofferenze e i morbi frequenti e il mancare dei
  soldati: morivano l’altro Commissario Gianfigliazzi che difese Livorno,
  ed il Capitano della guerra ch’era il conte Antonio da Marciano.[538]
  Questa però non cessava, sebbene per terra nulla si facesse da Niccola
  Orsini conte di Pitigliano, nè da Rinuccio Farnese, nuovi condottieri
  dei Fiorentini: ma i Genovesi dal mare di nuovo attendeano a battere
  Livorno; donde ributtati, non però all’armata Fiorentina riusciva
  tentare contro a Genova cosa alcuna. Lodovico Sforza interponea
  pratiche dubbiose, intantochè senza frutto si adopravano per la pace il
  nuovo Papa e il re Ferrando.[539]
  A Sisto IV era succeduto Gian Battista Cibo genovese Cardinale di
  Molfetta, col nome d’Innocenzo VIII. Mansueto di natura, lo aveano
  eletto per avere un pontificato quieto; ma tali erano le condizioni
  allora d’Italia e tanti gli appicchi di politiche ingerenze fuori,
  e di passioni private e di domestiche cupidigie dalle quali era
  tirato sempre l’animo dei Papi, che asceso al regno di pochi mesi,
  fu tratto Innocenzio ad una pericolosa guerra, odiosa a lui quando
  v’entrava, odiosa del pari quando egli ne usciva. Contro al re Ferrando
  si congiuravano insieme i Baroni del Reame, potentissimi nei loro
  castelli: tenevano molti la parte angiovina; ma coloro stessi che
  innalzati dal padre o da lui, godevano allora di grandi ricchezze,
  praticavano contro a lui segretamente, ma non inconscio Ferrando, che
  tutti temeva, e come espertissimo odorando i tradimenti da lontano,
  correva innanzi a prevenirli. Era Innocenzio male disposto verso la
  casa degli Aragonesi; e peggio ancora il Cardinale di San Pietro in
  Vincula, che assai dominava l’animo del Papa;[540] nel quale speravano
  i congiurati: ed Innocenzio avendo anche avuti Ambasciatori della
  potentissima città dell’Aquila che s’era posta in ribellione, deliberò
  di muovere guerra contro al re Ferrando, avendo ottenuto dai Veneziani
  Roberto da San Severino che andasse capo a quella impresa. Dispiacque
  a Milano la mossa del Papa, e molto se ne turbava Lorenzo de’ Medici
  al quale parve che fosse incendio da spegnere tosto; il che avverrebbe
  se il Papa fosse costretto a ritrarsene col muovergli addosso tutto
  il peso della guerra. Intorno a Roma i Colonnesi amici del Papa si
  battagliavano con gli Orsini; dei quali Niccola conte di Pitigliano,
  venuto ai soldi della Repubblica di Firenze, entrò dalla parte di
  Maremma nello Stato della Chiesa, intantochè il Duca di Calabria,
  facendosi innanzi, cercava congiungersi ad esso ed agli altri Orsini
  che aveano sparse le castella nel Patrimonio. Ma perchè l’impresa
  pareva tale che si dovesse compiere alla prima, Alfonso recatosi a
  Montepulciano, richiedeva che Lorenzo si abboccasse quivi con lui;
  e sebbene questi per malattia non potesse, rimase tra loro convenuto
  di portare le offese là dove più avrebbero ferito sul vivo: Lorenzo
  mandava a questo effetto rinforzo di gente, ed altre otteneva che sotto
  al Trivulzio venissero da Milano. Ma ciò nonostante riusciva la guerra
  lenta per le difficoltà dei movimenti, e per la stessa militare scienza
  la quale nei Capi era grandissima, con eserciti male composti e non
  atti a fare imprese gagliarde. Aveva Roberto da San Severino scontrato
  i nemici inutilmente al ponte Nomentano; poi andò gran tempo prima che
  le forze dei Collegati e degli Orsini si congiungessero a Bracciano, e
  che in una grossa battaglia non avessero la peggio le genti del Papa.
  Questi frattanto avea trattato di fare scendere in Italia il Duca di
  Lorena siccome erede delle ragioni di casa d’Angiò; al quale annunzio
  il Senato di Venezia, che non voleva in Italia oltramontani, già dava
  segno di accostarsi alla Lega; mentre i Fiorentini se ne rallentavano,
  a Francia legati per gran numero dei mercatanti ch’aveano in quel
  regno. Il Papa intanto, stretto dalla guerra che aveva all’intorno e
  dalle fazioni sanguinose dentro Roma stessa, udiva con lieto animo le
  proposte d’accordo che aveangli recate il Trivulzi e un letterato che
  allora in Napoli era in grande stima, Giovanni Pontano. Recossi indi
  a Napoli lo stesso Cardinale di San Pietro in Vincula, e fu conchiusa
  la pace; Roberto da San Severino costretto ritirarsi con l’esercito, e
  non avendo chi stesse per lui, fu necessitato rinviare la maggior parte
  delle sue genti, ed egli tornare a Venezia quasi solo. Quella pace
  diede a Ferrando causa vinta contro ai Baroni,[541] dei quali furono
  taluni subito messi a morte; altri, difesi dall’accordo e perdonati,
  erano spenti anch’essi con paziente indugio dal Re, che gli avvolse
  presso che tutti dentro alla rete dei tradimenti. Ferrando d’Aragona
  credettesi allora d’avere per sempre assicurato alla discendenza sua la
  possessione del Regno di Napoli.[542]
  Per quella pace i Genovesi bene avvisati che da Firenze tutte le
  forze si volgerebbero all’impresa di Sarzana, passando la Magra
  senza aspettare la primavera che fu del 1487, investirono il Borgo di
  Sarzanello; e questo occupato ed arso, battevano con le artiglierie la
  Rôcca, avendo usato per la espugnazione l’artifizio nuovo e tuttora
  non bene regolato delle mine. A quell’annunzio i Fiorentini molto si
  commossero, e mandato in campo il Conte di Pitigliano, scrissero a
  quanti condottieri e conestabili tiravano soldo dalla Repubblica, si
  affrettassero intorno Sarzana. Giungeano i Signori di Piombino e di
  Faenza, vennero altri Orsini di nuovo ricondotti dalla Repubblica e
  dal Duca di Milano, e Galeotto Pico signore della Mirandola. Tardi
  inviava Lodovico Sforza quattrocento lance, e il Re di Napoli a
  Livorno sei galere con cento provvigionati e con l’intenzione di fare
  in Corsica qualche effetto contro ai Genovesi. Raunate le forze, si
  venne a battaglia con vittoria dei Fiorentini, i quali ebbero prigione
  lo stesso Capitano genovese Gian Luigi del Fiesco: dipoi fabbricate
  sulla Magra, e in altri punti bene acconci, bastìe che impedissero ogni
  soccorso alla città, si venne all’assalto; il quale riuscito la prima
  volta infruttuoso, ma le mura essendo da più parti rotte, i cittadini
  senz’aspettare l’assalto secondo, liberamente si diedero a Lorenzo
  dei Medici; il quale venuto in campo, colse l’onore della vittoria e
  della molta benignità usata verso i Sarzanesi. Avrieno in quel caldo
  bramato a Firenze di spingere innanzi la guerra, ma furono impediti
  dallo Sforza, il quale avendo trattati in Genova, non voleva che fosse
  menomato quello Stato, del quale divenne bentosto signore: invidiava
  egli anche la riputazione di Lorenzo, e tra essi due sempre gli animi
  furono mal disposti.[543]
  Nella Romagna, solito campo alle stragi familiari tra quei signorotti,
  due morti avvennero nell’anno 1488, per le quali fu ivi attirata la
  sollecitudine dei Fiorentini. Girolamo Riario teneva Forlì, odiato per
  crudeltà ed avarizie; tantochè un giorno, essendosi messi d’accordo
  taluni di quei principali cittadini, l’uccisero; e poi gittato il corpo
  dalla finestra, chiamavano il popolo gridando Chiesa e Libertà. La
  Rôcca teneasi nel nome dei figli, i quali insieme con la madre essendo
  alle mani dei congiurati, ottenne la Contessa d’entrare in quella sotto
  colore di persuadere il Castellano a cederla; poi facendo il contrario,
  insultava dalle mura con animo ed atti poco femminili ai rivoltosi che
  minacciavano d’uccidergli i figli. Ma la città si mostrava fredda; e
  intanto veniano genti da Milano e da Firenze, pel cui soccorso Caterina
  Sforza riebbe lo Stato che fieramente poi manteneva ai figli ed a
  sè. Nè un mese appena era passato, che un peggiore caso avvenne in
  Faenza: Galeotto Manfredi fu ivi ucciso dalla sua propria moglie, nata
  di Giovanni Bentivoglio; e questi cercando occupare in quel tumulto
  Faenza, i contadini di Val di Lamone, che più altre volte avean fatto
  prova della virtù loro, accorsi in arme, recuperarono la città facendo
  prigione lo stesso Bentivoglio. Allora i cittadini a mezzo con gli
  uomini di Val di Lamone presero lo Stato in nome del piccolo fanciullo
  Astorre e sotto la consueta protezione di Lorenzo de’ Medici e della
  Repubblica di Firenze; la quale ritenne Piancaldoli, buona rôcca sul
  confine, e prima stata di suo dominio. In Osimo un Boccolino si era
  fatto tiranno e minacciava chiamare i Turchi; ma costretto rendere al
  Papa quella città, e per qualche tempo in Firenze ritenuto, fu indi a
  Milano fatto uccidere. Dipoi una guerra tra l’Imperatore e i Veneziani
  essendo bentosto finita, e per interposizione di Lorenzo placate le
  ire del Papa contro al re Ferrando per l’uccisione dei Baroni e pel
  negato tributo,[544] godette senz’altro accidente l’intera Italia pace
  tranquilla.[545]
  Grande era in quegli anni appresso al Pontefice l’autorità di Lorenzo
  dei Medici, il quale in Roma diceano essere arbitro d’ogni consiglio;
  ed in quello andare insieme i due Stati i quali tenevano il mezzo
  d’Italia, avea fondamento la pace, essendo la via interchiusa alle
  inimicizie di quei Principi che si apprestassero a turbarla. Motivi
  privati s’aggiugneano ai pubblici a rendere stretta quell’amicizia:
  papa Innocenzio avea, con nuovo e tristo esempio, riconosciuto
  pubblicamente un suo figliuolo naturale, Franceschetto Cibo. A questi
  Lorenzo sposava la figlia giovinetta Maddalena, che fu dalla madre
  condotta a marito. Sperò Franceschetto dal padre o dal suocero uno
  stato principesco; faceva disegni su quei di Piombino e di Città di
  Castello, sognava perfino d’avere Siena; ma nè il Papa a queste cose
  gli dava mano, ed a Lorenzo poco aggradivano.[546] Bene aveva questi
  
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