Storia della Repubblica di Firenze v. 2/3 - 21

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ricevuti con la scusa del non potere i Veneziani alcuna cosa trattare
senza il re Alfonso; e questi due avendo però mandati insieme legati
loro alla Repubblica fiorentina a fare doglianze, alle quali Cosimo
dei Medici ebbe incarico di fare risposta, parve da principio che niuna
volesse delle due parti venire alle rotte. Ma tosto dipoi la Signoria
Veneta ed il Re avendo arrestate negli Stati loro le mercanzie dei
Fiorentini, e ciò nonostante mandato altri ambasciatori a Firenze,
quelli di Venezia non furono ricevuti, e quelli d’Alfonso non vollero
soli trattare; cessando così ogni pratica tra le due parti, le quali
ordinate ciascuna in sè stessa, già si apprestavano alla guerra. E i
Veneziani veniano a questa con tanta passione, ch’aveano richiesto il
greco Imperatore d’arrestare anch’egli le mercanzie de’ Fiorentini;
ma questo Principe ricusò macchiare gli estremi suoi giorni e quei
dell’Impero col farsi ministro delle altrui passioni contro ad un
popolo di Cristiani.[384]
Veniva in Firenze a’ 30 gennaio 1452 l’imperatore Federigo III di Casa
d’Austria, che andava in Roma per essere ivi incoronato: avea prima
chiesto alla Repubblica il passo;[385] così erano i tempi mutati! I
due primi Federighi recavano seco cento anni all’Italia di stragi e
ruine, il terzo null’altro che le spese degli alloggi e dei solenni
ricevimenti. Seco era Enea Silvio Piccolomini senese, e rispondeva
alle arringhe come Cancelliere: grande e vario personaggio in quella
età, ingegno del pari atto allo scrivere, al parlare, ed esercitato
nel trattare le cose maggiori della Chiesa e degli Stati in Alemagna,
dov’era egli lungamente dimorato; ora seguiva l’Imperatore, e in
Siena congiunse lui con la sposa Eleonora di Portogallo arrivata in
Livorno a’ 2 di febbraio, ed accompagnata con grande onore nel passare
ch’ella faceva per la Toscana. Furono insieme a’ 15 marzo coronati
in Roma dal pontefice Niccolò V; e indi nel maggio essendo tornato
l’Imperatore in Firenze, ne partì subitamente per certo sospetto in
lui venuto della Repubblica. Imperocchè egli traendo seco il giovine
Ladislao, erede legittimo del regno d’Ungheria, lo custodiva col nome
di tutela, negandosi darlo agli Ungheresi che ne facevano istanze
grandissime. In Firenze erano ambasciatori di questa nazione, i quali
chiedevano segretamente alla Signoria prestasse loro mano ad involare
il giovanetto, la cui presenza tolto avrebbe di mano quel regno alla
austriaca usurpazione: e sebbene per timore la Signoria ciò negasse,
non ne fu chiaro l’Imperatore se non quando ebbe con sè in Alemagna
il pupillo spossessato.[386] L’Imperatore questa volta nemmeno
aveva chiesto danari alla città ed ai signori, com’era usanza dei
predecessori suoi quando scendevano in Italia; ma vendeva per moneta
titoli e gradi, tra’ quali a Borso Marchese d’Este quello di Duca di
Modena e Reggio che dipendevano dall’Impero.
Il giorno stesso che l’Imperatore da Ferrara entrava sul territorio
dei Veneziani intimavano questi la guerra al duca Francesco Sforza;
ed Alfonso pochi giorni dopo ai Fiorentini, contro i quali veniva
alle offese. Ferdinando suo figliolo naturale, e da lui fatto Duca di
Calabria, poneva l’assedio al castello di Foiano in Val di Chiana:
dugento soldati che vi stavano per la Repubblica bastarono quivi a
ritenere l’esercito regio prima che il castello s’arrendesse. Di là
Ferdinando accostandosi al confine dei Senesi nel Chianti espugnava
Rencine, e tentato Brolio fortezza dei Ricasoli e da quella ributtato,
s’accampò intorno la Castellina, dove stette più tempo, ma per difetto
di artiglierie gli fu impossibile ottenerla. Scorreva le campagne fin
presso a Firenze, facendovi danni grandissimi; e intanto all’esercito
dei Fiorentini, condotto dal signore di Faenza Astorre Manfredi,
bastava tenersi sulle difese; e passava il verno, dopo il quale avendo
il duca Francesco mandato in Toscana con due mila cavalli Alessandro
Sforza suo fratello, con le armi congiunte i due Capitani recuperarono
le terre perdute e costrinsero l’armata regia ad abbandonare il forte
di Vada che aveano in quel mezzo dal mare assalito, e per l’invalida
resistenza preso: tale ebbe successo l’impresa d’Alfonso contro alla
Repubblica di Firenze. Quivi era discorso, in quella caldezza di
successi fortunati, di muovere guerra contro ai Senesi, parendo essi
non aver fatto in quei pericoli buon vicinato alla Repubblica; ma
Cosimo e Neri, apposta chiamato da Pistoia dove risedeva Capitano,
mostrarono come ad Alfonso non potrebbe farsi maggior piacere che
dargli in mano a questo modo necessariamente lo Stato di Siena. Così fu
sventato il mal consiglio; e la Repubblica frattanto faceva un acquisto
dov’era a’ suoi danni macchinato un tradimento. La Contea di Bagno
tenevasi allora da Gherardo Gambacorti, data in compenso (come vedemmo)
al padre suo della cessione di Pisa; ed a Gherardo piacendo meglio
possederla come feudo dell’Aragonese, aveva egli trattato con lui;
ma scoperto, mandava il figlio ostaggio in Firenze: e pur nonostante
avrebbe fatto entrare nella terra le armi del Re, se un Antonio
Gualandi pisano che vi stava dentro, con pari fede e risolutezza
chiudendo la porta in faccia a’ soldati ch’entravano, non avesse
conservato alla Repubblica tutto quel territorio, ch’essa poi tenne in
vicariato, privati avendone per sempre allora i Gambacorti.
E in Lombardia la guerra tra quei due possenti nemici non venne
a produrre che piccoli effetti, perchè lo Sforza la conduceva con
intendimenti di principe e non più oramai di condottiero; cosicchè
avendo per grave rotta costretto il Marchese di Monferrato a chieder
pace, ed egli passata l’Adda minacciando Bergamo e Brescia dov’erano
in grande forza i Veneziani, trascorse il tempo del combattere senza
che alcuna delle due parti cercasse venire a giornata per tutto
quell’anno. Ma perchè gli apparecchi fatti contro a’ Veneziani non
pareano essere sufficenti, essi tenendo ai soldi loro la miglior parte
dei condottieri; la Repubblica di Firenze, a cui toccavano le prime
parti dov’era spesa, avea mandato già l’anno innanzi in Francia Agnolo
Acciaioli chiedendo a quel Re passasse in Italia, egli erede di Carlo
Magno che aveva riedificato Firenze, e naturale principe e capo della
parte guelfa, recando con sè quindici mila cavalli almeno: le parole
erano umilissime, grandi gli ossequi e le supplicazioni.[387] Aveva
la Repubblica Fiorentina chiamato in Italia gli stranieri più altre
volte, e questa pure inutilmente: l’ora s’appressava, ma giunta non
era, che i monarchi rispondessero condegnamente a quegli inviti; già
si allestivano, ma per anche non credeano essere bene in punto. Carlo
VII, impegnato contro gli Inglesi a Bordeaux, non venne in Italia;
concesse però che vi scendesse un’altra volta con due mila quattrocento
cavalli Renato d’Angiò, perch’era guerra contro all’Aragonese, e
quegli cercava sempre se vi fosse modo a farsi una via nel Regno di
Napoli. Ma il passo gli era conteso per le Alpi dal Duca di Savoia;
laonde Renato con pochi eletti per la via del mare scese a Ventimiglia,
e quindi il Delfino di Francia, che poi fu il re Luigi XI, ottenne
che il Duca lasciasse calare in Lombardia le altre genti. Qui la
guerra da principio fu impetuosa, ma non fruttava che il racquisto di
pochi castelli del Cremonese e di Pontevico di là dall’Adda: giunse
l’inverno, e tutti si ritrassero nei quartieri. A primavera sperava il
Duca e disegnava maggiori imprese, quando gli giunse avviso che Renato
voleva ad ogni modo tornare in Francia, nè istanze bastarono: rimase
in Italia la sua bandiera con poche genti e col figlio di lui Giovanni,
che si faceva anch’egli appellare Duca di Calabria; questi ponea lunga
dimora in Firenze.
Ma ecco venire d’Oriente novella per la quale gli animi di tutti
restarono come incantati dal terrore: Maometto II Sultano dei Turchi
aveva per assalto ferocissimo espugnata Costantinopoli: morto era nella
difesa l’ultimo degl’Imperatori bizantini, venuto a fine l’Impero
greco ultimo avanzo dell’antico mondo e nell’Asia conservatore del
nome cristiano e d’ogni intesa con l’occidente. Pareano all’annunzio
per tutta Italia cadere ai soldati di mano le armi; si rimproveravano
tra loro le stolte guerre, si vergognavano d’avere per basse e
scellerate cupidigie aperta al barbaro invasore la porta d’Europa:
chi era più abile a fermarlo? Il pontefice Niccolò V, che mai non
aveva cessato d’intromettersi per la pace d’Italia, fece venissero in
Roma commissari di tutti gli Stati che aveano parte in quella guerra:
molto fu discusso e nulla conchiuso, perchè ciascuno metteva innanzi
per suo proprio conto esorbitanti ed impossibili pretensioni. Alle
quali si contrapponeva freddamente il Papa stesso: voleva pace negli
Stati della Chiesa per alleviare i carichi e attendere agli edifici,
i quali erano sua prima cura; ma ricordando i tempi passati, temeva la
quiete d’Italia non fosse a lui turbazione, tirandogli addosso qualche
affamato condottiero, o qualche Principe ambizioso.[388] A questo
modo mentre che in Roma si perdeva il tempo, il Duca e il Senato per
mezzo d’un Frate trattavano insieme, ed un accordo fu stipulato in
Lodi a’ 5 dell’aprile 1454 tra’ due principali contendenti, al quale
tutti gli altri erano invitati di consentire. Lasciava al solito le
cose com’erano al principio della guerra; ma Castiglione della Pescaia
dovendo restare in possessione del re Alfonso, i Fiorentini non vi
aderirono se non dopo molte consultazioni,[389] e perchè il Duca a ciò
gli costrinse; Cosimo tenendosi malcontento dell’amicizia di questo,
che nulla gli aveva fruttato che odio e carichi, dove sperato si aveva
l’acquisto di Lucca a lui promesso, come dicevano, dallo Sforza in
pagamento di quei danari, che gli erano stati tante volte necessari
a conseguire il principato. Il re Alfonso indugiò più mesi prima
che ratificasse la pace;[390] nè a quella si tenne poi fermo, sempre
ambizioso com’egli era di cose maggiori: al quale fine aveva escluso
dal comune accordo i Genovesi ed il Signore di Rimini e quel di Faenza,
serbandosi appiglio, quando che fosse, a nuove imprese.[391]
Avvenne che essendo per la pace licenziato dai Veneziani Iacopo
Piccinino, si udisse costui insieme con altri capitani senza soldo,
essere entrato nella Romagna, dubbiosa minaccia agli Stati confinanti.
Il tempo era scorso che i grandi condottieri per proprio loro conto
muovessero guerra, tenuti essendo in maggiore suggezione da quei
potentati d’Italia che s’erano in sè medesimi rinforzati. Iacopo,
com’era solo condottiero che rimanesse di quei lignaggi vissuti di
preda, così fu l’ultimo che tentasse di quelle fortune; ed anche non lo
fece di proprio suo moto, ma sibbene per istigazione, secondo appare,
del re Alfonso. Imperocchè essendo Iacopo entrato in quel di Siena e
fattovi danni, all’avviarsi di soldati dei Fiorentini e del Papa e
del Duca di Milano, ritiratosi in Castiglione della Pescaia, passò
nel Reame, e fu ivi bene ricevuto. Innanzi era morto il pontefice
Niccolò V: di lui non abbiamo avuto fatti da registrare sia politici
sia guerreschi, ma quel silenzio dell’istoria gli è lode grandissima,
e le arti e le lettere lui ricordano munificentissimo tra gli altri
Principi: lo squallore di Roma e quasi la solitudine per la dimora dei
Papi in Avignone e per lo scisma e pei governi travagliosi ch’avevano
avuto Martino ed Eugenio, veniano a mutare in giorni più floridi,
e molti edifizi allora intrapresi e la Biblioteca Vaticana da lui
cominciata, renderono splendido e benemerito il nome di Niccolò V.[392]
A lui successe Callisto III spagnuolo, donde ebbero l’Italia e la
Chiesa dono funesto la Casa Borgia. Veniano a scuoprirsi in questo
frattempo le intenzioni d’Alfonso, il quale muoveva con grandi forze
contro ai Genovesi, e allora il doge Pietro Fregoso cedeva l’impero
di quella città al Re di Francia, che a pigliarne la possessione
mandava Giovanni d’Angiò partitosi non molto prima da Firenze; a cui
la Repubblica aveva donato, oltre ai danari della condotta, venti mila
fiorini d’oro e novanta libbre d’argento lavorato in vasellamenti
di bell’artificio. Le quali mosse all’Italia furono principio di
altre perturbazioni, sebbene a mezzo di quell’anno 1458 il re Alfonso
venisse a morte: a lui fu dato soprannome di Magnanimo; e generoso era,
esercitato nelle armi di terra e di mare, magnifico in ogni suo fatto,
e grande promotore delle lettere e degli uomini letterati.[393]
Ora è da dire quale fosse in questi tempi l’interno stato della
Repubblica. In mezzo alla guerra, l’anno 1453 una Balìa nuova era stata
presa fuor di tempo e rinnuovata poi l’anno dopo, quando scadeva il
quinquennio: avea facoltà oltre all’usato amplissime, e queste adoprava
più che altro nel porre gravezze soprammodo esorbitanti, essendo le
spese allora grandissime: la guerra di fuori costava settantamila
ducati al mese.[394] Trovo di seguito due gravezze poste, che una di
cinquecento ottanta migliaia di fiorini e l’altra di trecento sessanta;
cinquanta mila erano imposti ai non sopportanti, a quelli cioè che di
regola doveano andarne esenti, e gli ecclesiastici ne furono anch’essi
gravati: pei tanti carichi dello Stato erano i danari del Monte caduti
al venti per cento.[395] Norma all’imporre, l’arbitrio solo: e questa
era un’arme in mano di Cosimo che percuoteva con le gravezze chi
avverso gli fosse, e con le supplicazioni per gli sgravi faceva a sè
molti dipendenti; tanto che andare con lui (che appellavano avere lo
Stato) importava essere leggermente tocchi; e gli altri invece erano
disfatti. La Casa dei Pazzi, ricchissima d’averi ma per le gravezze
malconcia, si rilevò quando pel parentado co’ Medici entrava nel numero
anch’essa delle Case favorite.[396]
Troviamo che nei primi venti anni della dominazione repubblicana di
Casa Medici, settantasette case di Firenze pagarono, di straordinarii,
imposti ad arbitrio, quattro milioni ottocento settantacinque mila
fiorini. Un solo cittadino de’ più reputati ma non dei più ricchi,
Giannozzo Manetti, venuto in sospetto o in uggia a Cosimo, pagò in
più tempi sino a centotrentacinque mila fiorini d’oro, avendo dovuto
per una paga vendere a dieci e un quarto una parte de’ suoi crediti
sul Monte, che a lui costavano cento. Imperocchè avevano a lui posta
una gravezza di centosessantasei volte la rata che a lui per l’estimo
veniva assegnata, e che formava l’unità d’imposta; doveva pagarne
tre per ogni mese. E qui noi vogliamo narrare le sorti di un tale
cittadino.[397] Aveva egli fatto rimprovero al Medici dell’essere stato
autore primo della rottura con la Repubblica di Venezia, e tra essi
due era mal’animo. Due anni dopo, Giannozzo essendo legato in Roma,
dove il papa Niccolò cercava pace fra tutti, e Pasquale Malipiero
ambasciatore veneziano studiavasi indurre a questa i Fiorentini, si
lasciò il Manetti andare a vistose intelligenze col veneziano, per
le quali si rendeva egli sospetto o inviso del tutto ai Reggitori;
onde questi con le prestanze cercarono di fare che ruinasse la sua
fortuna, stata assai prospera fino allora. Talchè Giannozzo deliberava
ricoverarsi appresso al Papa, che lui tenendo in grande stima, gli
diede ufficio e provvigione. Poteansi in Firenze acconciare le faccende
sue quando egli volesse farsi a Cosimo tutto dipendente; e questi,
a proposito della gravezza, gli aveva fatto dire, non essere quella
infermità mortale; così volendo Giannozzo intendesse il modo d’uscirne.
Ma nè questi volle così abbassarsi; e Luca Pitti, che fu autore della
gravezza, in quelle cose tirava innanzi senza misericordia. Tanto
che in Roma gli fu mandato ordine d’appresentarsi a un termine dato,
senza che sarebbe chiarito ribelle: Giannozzo si stava dubbioso, ma il
Papa lo sovvenne pure questa volta con dargli lettere credenziali di
suo oratore, da presentare al bisogno. Cosimo aveagli data promessa
di un salvacondotto, che poi gli mancò; ed era Giannozzo in Firenze
timoroso,[398] quando per la discesa in Toscana del Duca di Calabria
dovendosi fare i Dieci di guerra, Giannozzo fu eletto tra gli altri
con grande numero di voti. Null’altro dipinge come questo fatto sì al
vivo lo stato di vacillamento tra libera e serva, nel quale vivevasi
allora la Repubblica di Firenze. Ed egli condusse quell’ufficio a
termine felicemente; ma indi parendogli di stare in patria troppo male,
tornò in Roma, dove ebbe buono ed onorato collocamento. Poi quando il
papa Niccolò fu morto, cercato dal re Alfonso, andò a Napoli; quivi
dimorando infino al termine della vita.[399]
Durante la guerra, la Signoria ed i Collegi si facevano sempre a mano;
ma quella finita, ricominciarono ad essere tratti a sorte, con grande
allegrezza dei cittadini: bene un cronista però scriveva, durerà
poco.[400] Intanto molti animi si erano sollevati come a un ritorno di
libertà; e non mancava tra gli stessi amici di Cosimo chi disegnasse
valersi di quella larghezza per abbassarlo, e poichè vecchio egli era e
infermiccio, fondare sotto all’ombra sua, ed usando il nome di lui, una
sorta di governo d’ottimati, che fu continuo e sempre vano desiderio
dei principali nella città. Ma questo allora essi potevano meno che in
altro tempo mai, perchè erano pochi, e alcuni di essi uomini nuovi, gli
antichi essendo in gran parte fuorusciti, ed i rimasti, pregiudicati
col farsi ligi ad un uomo solo, senza del quale sentivano essere come
allo scoperto, esposti all’odio di quei tanti ch’aveano offesi. Tutta
la forza di quello Stato era dunque nella persona sola di Cosimo, sì
pel grande seguito ch’egli aveva già nel popolo, e sì per l’essersi
obbligati gli uomini più ragguardevoli col sovvenirgli profusamente,
ed anche non chiesto, in ogni loro bisogno; tanto che può dirsi, pochi
essere allora nella città di Firenze che a lui non fossero debitori; ed
egli, pazientissimo creditore, nè sorte ripeteva nè interessi: altri
poi erano fatti partecipi dei guadagni che dava a lui la mercatura,
create avendo per questo modo Case ricchissime i Sassetti, i Portinari,
i Benci, i Tornabuoni. Così lasciava egli correre innanzi quei disegni
senza pigliarne paura; ed aspettava, tenendosi in disparte, che a lui
ritornassero coloro che avevano bisogno di lui più ch’egli di loro, e i
quali a quel solo barlume di libertà vedevano a sè scemare il credito,
e negli uffici entrare uomini che impedivano a loro i soprusi della
padronanza e in molte cose gli soverchiavano.
Quindi era pensiero di taluni dei più confidenti, che fosse allora
venuto il tempo di ripigliare lo Stato e con la forza assicurarselo.
Piaceva a Cosimo l’indugiare, siccome colui che non temendo per sè,
godeva nell’abbassare quei presontuosi, lasciandogli, come suol dirsi,
frollare sino a che non fossero costretti gettarsegli in grembo. Già
fino da quando ritornato dall’esilio dava egli principio e fondamento
alla potenza sua, vedeva essere in Firenze molti grandi cittadini a
lui amici e stati cagione che fosse egli rivocato; i quali tenendosi
a lui come eguali, gli era necessità temporeggiare con loro, a fine
di potersegli mantenere, mostrando volere che essi potessero quanto
lui. Cotesta fu opera di grande fatica, ed usò fina arte a cuoprire
l’autorità sua; il che gli serviva anche a fuggire l’invidia col dare
apparenza che le cose che egli voleva procedessero da altri e non da
lui proprio, che infino all’ultimo gli fu grande mezzo a conservarsi. E
ad uno di coloro i quali vedeva andare in cerca di grandezze pericolose
quanto più erano appariscenti, disse una volta: «Voi andate drieto
a cose infinite, e io alle finite; voi ponete le scale vostre in
cielo, e io le pongo rasente la terra per non volare tant’alto che
io caggia.[401]» Parole che danno ragione di tutta la vita e dei modi
tenuti da Cosimo per farsi capo della Repubblica.
Intanto che visse il re Alfonso, anche il sospetto di lui sconsigliava
dal rimescolare la città con dei partiti sempre dubbiosi. Ai quali era
avverso Neri Capponi, e faceva argine ai più arrischiati; Cosimo stesso
vivente, Neri stava in rispetto. Sapeva essere in lui congiunta con
la potenza la grazia, avendo egli amici più che partigiani[402] (qui
uso parole bene appropriate del Machiavelli); ma pure badando non si
alzasse troppo, a lui opponeva nei Consigli Luca Pitti, ch’era uomo
da fargli fare ogni cosa; fervente partigiano fra tutti in Firenze, ma
non di tale cervello che molto dovesse Cosimo di lui temere.[403] Così
tutto l’anno 1457 duravano quelle medesime condizioni; sul fine del
quale Neri Capponi venne a morte, e allora la parte Medicea non ebbe
più amici che alle peggiori opere si contrapponessero: Neri avea goduto
l’antica Repubblica, e verso quella inclinava sempre.
Poco prima era stata denunziata una congiura ordita da un Ricci, di
quella famiglia che avendo spianata la strada ai Medici, ne fu messa
fuori: v’era un Adimari ed un Valori, altri erano stati nella tortura
nominati falsamente dal Ricci, ch’ebbe il capo mozzo e il denunziatore
fu premiato. Un medico, Giovanni da Montecatini, il quale insegnava
con ostinata pubblicità che l’anima dovesse morire col corpo, nè mai
volle cedere ad ammonizioni, fu impiccato e poscia arso.[404] La peste
in quegli anni si era più volte raffacciata, e vi ebbero calamità di
terremoti e piene d’Arno. Più spaventoso e strano accidente devastò non
piccola parte di Toscana la mattina de’ 24 agosto 1456. Dalle parti
di Valdelsa di là da Lucardo cominciò sull’alba ad apparire un folto
ammasso di nuvoli che si stendevano per la larghezza d’un terzo di
miglio; procedendo per San Casciano, vennero giù nel Piano di Ripoli, e
passato Arno verso Settignano e Vincigliata, poco più in là mancarono,
andatisi tra quelle alture a consumare: avevano percorso circa venti
miglia. Quei nuvoli erano nerissimi e bassi a poche braccia da terra;
s’urtavano tra loro a modo di zuffa con grande rumore, e spaventevole
era la forza del vento che da quelli usciva; baleni spessi, pochi
tuoni e piccoli, rada gragnuola ma grossa; vapori e nuova specie di
saette, che nella tempesta varia, incessante, male si discernevano. Si
trovarono alberi grossissimi portati lungi dalle radici loro, muraglie
rotte e pel cozzare de’ venti cadute a pezzi ed in più versi, tetti
portati via di netto d’insopra i muri e andatisi a sfasciare a terra
discosto; uomini levati in aria e gettati lontano più braccia. Fu gran
ventura quello sterminio non traversasse che luoghi dov’erano rade le
case e le popolazioni; ciononostante fu il danno grandissimo, il suolo
era ingombro di sparse ruine.[405]
Venuto l’anno 1458 fu rinnuovato il Catasto; e ciò fu per opera di
quei cittadini i quali intendevano ad allargare lo Stato, imperocchè
gli altri temevano sopra ogni altra cosa quella rinnovazione, la quale
avrebbe ad essi tolto l’ingiusto favore ed i vantaggi di cui godevano
e i modi più usati ad opprimere i contrari.[406] Nuove ricchezze erano
sorte dopo il 34, che ora il Catasto veniva a percuotere; gli acquisti
di terre non potevano nascondere, ma i capitali messi in su’ traffici,
sempre a conoscere malagevoli, faceano sparire con l’alterazione
dei libri palesi tenendo poi altre segrete scritture. Talchè le
denunzie menzognere non si potendo correggere, e oltre ciò parendo che
l’obbligazione di mostrare i libri nuocesse al credito dei commercianti
ed offendesse la libertà loro, si tornò al modo delle tassazioni; dove
perchè necessariamente regnava l’arbitrio, si facevano composizioni ma
disuguali, e guardando sempre alla qualità delle persone ed al favore
di cui godevano. Però è da dire che il proemio della legge del nuovo
Catasto e le minute avvertenze quanto ai defalchi ed agli sgravi, oltre
al mostrare grande perizia nella materia delle tasse, mantenevano a
favore dei poveri e degli innocui ed umili cittadini quella benignità,
dalla quale meno ancora d’ogni altro governo voleano i Medici
dipartirsi.[407]
Da tutto ciò appare fuor d’ogni dubbio, che nei primi mesi di
quell’anno la parte dei molti impedisse quella che sempre cercava
di ristringere in pochi lo Stato. A tal segno che un Matteo Bartoli
Gonfaloniere, volendo co’ voti fare decretare una Balìa, non che
essergli ciò acconsentito dai suoi compagni nella Signoria, fu anzi
schernito da loro; e costretto essendo tornarsene a casa, uscì partito
per cui volevasi al tutto rendere impossibili nell’avvenire tali
disegni. Imperocchè fu vietato il fare Balìa se tra’ Signori e nei
Collegi non fosse il partito vinto con tutte le fave nere, e poi non
passasse di mano in mano nei Consigli del Popolo e del Comune e per
ultimo in quello del Dugento, sottomettendo a gravi pene il Proposto
ed i Signori che a questa legge contravvenissero.[408] Ciò accadde
nei mesi di marzo e d’aprile: il primo di luglio entrava per la terza
volta Gonfaloniere Luca Pitti, uomo del quale non è da dire se a lui
più che agli altri spiacesse il Catasto, e s’egli inclinasse ai modi
violenti. Pare la legge posta due mesi innanzi non gli desse grande
ombra, perchè senza venire a Parlamento, cercò d’ottenere per via dei
Consigli che s’ardessero le borse e che si tornasse al fare a mano
la Signoria, ch’era la somma d’ogni cosa: ma fu impossibile a lui di
vincere quella pratica, massimamente perchè da pochi anni essendosi
messa usanza di dare i partiti a voti coperti, si davano questi con
meno paura. Ed un Girolamo Machiavelli con parole franche denunziò
quella ch’egli usò chiamare tirannia dei pochi; per il che fu preso, e
richiesto nei tormenti chi avesse partecipi di tale ardimento: denunziò
due altri cittadini, i quali ebbero anch’essi la corda. Il Machiavelli
dipoi confinato e per l’Italia cercando muovere nemici contro alla
Repubblica, fu per inganno dei Marchesi di Lunigiana condotto in
Firenze, dove tormentato un’altra volta, e stato cagione di altre
condanne, moriva nel carcere.
Ma intanto a Luca Pitti era sembrato che senza rispetti si dovesse
fare Parlamento, e Cosimo stesso giudicò che fosse allora il tempo
venuto da non lasciare più innanzi le cose trascorrere. Inoltre era
Luca tanto volonteroso di pigliare sopra di sè tutta l’odiosità del
fatto, quanto era Cosimo di scansarla; bastava lasciarlo fare, ed era
Cosimo vecchio maestro nel procurare che altri muovesse le cose da
lui volute, o spartirne con molti l’invidia. Fu suonato a Parlamento,
e avendo empiuta la piazza d’armati,[409] ed ai Signori ed a circa
trecentocinquanta altri cittadini data amplissima balìa di riformare
lo Stato, senza che alcun rumore ne seguisse, venne ciascuno alle sue
case rimandato. Quella Balìa rifece gli accoppiatori da durare sette
anni, dai quali venisse la Signoria scelta; rendè permanente l’ufficio
degli Otto di balìa; non pochi cittadini confinava, molti privò degli
uffici, essi e i discendenti loro; ai confinati dopo il 34 prolungò i
confini d’altri venticinque anni più in là del termine allora posto,
o gli dichiarò ribelli, cosicchè per undici case durasse il bando fino
all’anno 1499: un Barbadori ed un Guadagni con alcuni altri furono indi
per sentenza del Capitano decapitati.[410]
Già insino dall’altra Balìa, ch’era stata nell’anno 1453, fu nelle
esterne apparenze rialzata la dignità della Signoria, essendosi
ordinato che il Gonfaloniere avesse la mano sul Potestà, che era
in antico depositario della potestà sovrana, come abbiamo più volte
mostrato, e che oggi non era più altro che un giudice fatto venire
a breve tempo di fuori; come non era il Capitano più altro che il
capo dei soldati di Palazzo, e l’Esecutore degli ordini di Giustizia
ridotto alla bassa condizione di Bargello. Mutarono in seguito la
forma dei giudizi, eleggendo al Palagio del Potestà per le cause
civili quattro dottori con salario di trecento fiorini, e altri due
al Palagio del Capitano per le appellazioni; ed un Notaio forestiero
con quaranta fanti per l’esecuzione delle condanne proferite dagli
Otto di balìa.[411] Misero innanzi nelle cerimonie anche il Proposto,
quello cioè che di tre in tre giorni presiedeva la Signoria avendo
la prerogativa delle cose da deliberare: e ordinarono che il Pennone
dello Stato, il quale prima dal Potestà si consegnava al nuovo eletto
Gonfaloniere, gli fosse dato da quello che usciva. Inoltre fecero
che alla Signoria precedessero dodici mazzieri con mazze d’argento;
rifornirono più riccamente il Palagio di vasellami e d’arazzi,
vollero sgombrato d’ogni impedimento il cortile e anche la Piazza dei
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