Storia della Repubblica di Firenze v. 2/3 - 24

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Firenze si può mal vivere ricco senza lo Stato.[454]» Facea ben egli a
sè munimento della provetta esperienza di Tommaso Soderini e del gran
nome che aveva questi in città e fuori; molto estimava i consigli di
Giovanni Canigiani, usava l’antica destrezza d’Antonio Pucci ed il
pieghevole ingegno di lui pronto ai servigi di Casa Medici. A questi
però aveva cura d’opporre altri di minor conto e di poco seguito,
notando suo padre di scarsa prudenza per avere lasciato alzare attorno
a sè troppo quei tre o quattro cittadini dai quali gli vennero quindi
i travagli del 66. Diceva altresì, che ascoltare molti pareri e farne
capitale, era avere oltre al cervello suo quello degli altri;[455] ma
fin d’allora per sè ogni cosa deliberava, in Giuliano essendo natura
più quieta e animo dedito ai piaceri.
Col duca Galeazzo Maria di Milano grande era e scambiata d’uffici
frequenti l’amicizia di Lorenzo. Questi avea tenuto al fonte
battesimale il figlio primogenito di esso Duca; al quale effetto
recavasi a Milano, dimorando ivi più giorni con grande solennità:
di quel viaggio principesco abbiamo ragguagli in certe lettere molto
familiari, che Lorenzo faceva scrivere a madonna Clarice sua moglie da
messer Gentile da Urbino, stato suo maestro e che poi divenne vescovo
d’Arezzo.[456] Fu egli compare anche a più altri figliuoli del Duca;
il quale nell’anno 1471 del mese di marzo veniva a Firenze insieme
alla moglie Bona di Savoia, la cui sorella avea per marito Luigi XI re
di Francia. Di quella età non si avrebbe compiuto il carattere, se in
mezzo ai fatti di guerra e di Stato non si narrassero le magnificenze.
Recava con sè il duca Galeazzo cento uomini d’arme e cinquecento fanti
per la sua guardia, cinquanta staffieri vestiti di panno d’argento e
di seta, cinquanta chinee menate a mano per la persona della moglie, e
cinquanta corsieri per lui con ricchissimi guarnimenti: coppie di cani
e falconi e sparvieri in grande numero per la caccia. Avea per servizio
della duchessa e delle sue dame fatto condurre per l’Alpe a schiena
di mulo dodici carrette con le coperte di panno d’oro e d’argento
ricamato: allora si dava questo nome alle carrozze, delle quali era
grande uso in Milano e molto celebre la fabbricazione: in tutto, la
Corte del Duca menava due mila cavalli. Lorenzo alloggiava i principi
in casa ed a spese sue, i cortigiani per la città serviti dal Comune.
Grande la pompa di feste pubbliche; nelle chiese rappresentazioni
sacre: per una di queste arse il bel tempio, non per anche finito, di
Santo Spirito, che tosto venne riedificato. Il Duca ammirando in Casa
Medici la magnificenza congiugnersi a somma squisitezza d’arti belle, e
i dipinti e le sculture de’ maestri eccellenti che aveano allora sede
in Firenze, e le tante opere d’antichità che a grande studio quella
veramente sontuosa famiglia radunava da tutta Italia e dalla Grecia,
si chiamò vinto, secondo che scrivono; dicendo, nulla essere a petto
a quelle di Casa Medici le splendidezze a cui bastava la sola copia
del danaro. Tempi erano pieni d’eccitamenti all’ingegno, le fantasie
deste alle arti del bello, vagante il pensiero, il costume sciolto;
del popolo di Firenze briosa la vita, spensierata, motteggiante. «Dove
si vidde cosa in quel tempo nella nostra città ancora non veduta,
che sendo il tempo quadragesimale, nel quale la Chiesa comanda che
senza mangiar carne si digiuni, quella sua Corte, senza rispetto della
Chiesa o di Dio, tutta di carne si cibava. Se dunque quel Duca trovò la
città di Firenze piena di cortigiane delicatezze e costumi a ogni bene
ordinata civiltà contrari, la lasciò molto più.» Abbiamo trascritto qui
parole del Machiavelli.
In mezzo e a cagione di tali costumi, la libertà se ne andava. I
Signori per luglio e agosto 1470 nel principio del loro ufficio aveano
fermato tra loro e vinto nei Collegi che degli accoppiatori stati dal
34 in poi con alcuni arroti, si dovesse trarre ogni anno cinque, i
quali facessero le imborsazioni dei Gonfalonieri e dei Priori anno per
anno, per quanto duravano le borse a mano; e che a far valida detta
provvigione bastasse ottenerla solamente nel Consiglio dei Cento; nel
quale essendo proposta due dì, non si vinse; ed i Signori medesimi
veduto che a tutti riusciva odiosa, l’abbandonarono. Ma pure a ogni
modo per assicurare quello Stato era mestieri di chiudere in pochi la
scelta dei magistrati; al che si prestava la mala usanza delle tratte,
formando le borse ad arbitrio volta per volta di chi dominava. L’anno
dipoi a quaranta cittadini fu data balía di eleggerne dugento, che
si chiamò Consiglio maggiore, cui spettasse regolare gli squittinii
di dentro e di fuori. Annullarono il Consiglio del Comune e quello
del Popolo, nei quali fin dalla istituzione della Repubblica avea
fondamento la libertà cittadina; ogni cosa riducendo nel Consiglio dei
Cento fidati, che nuovamente riordinarono. Quella Balía fu prolungata
per altri quattro mesi a fare lo squittinio di dentro e di fuori;
al quale elessero dieci Accoppiatori con autorità grandissima: era
di quel numero lo stesso Lorenzo de’ Medici con Giovanni Canigiani
e Antonio Pucci; gli altri, tutti dei più aderenti, perchè negli
squittinii sempre era la somma di tutto il negozio, vagliandosi allora
per un corso d’anni successivi i nomi di quei cittadini sui quali
dovessero cadere gli uffici. Ma nelle Balíe, che pure dovevano in
sè mostrare qualche poco di libertà, mettevano uomini che tutti non
fossero d’un solo colore: non v’erano lotte palesi e a viso alto, ma
vi erano inciampi; ed in quegli anni, quando voleasi mutare la forma
popolare in principesca, non tutti i partiti riusciva vincere alla
prima, o vinti, non avevano esecuzione. Accadde ciò quando si volle
ridurre le quattordici Arti minori a sole cinque, vendendo i beni
delle vacanti per fare un altro Monte da pagare i provvigionati e
castellani. Ma, come è notato da Alamanno Rinuccini, «parve cosa che
pretendesse a altro fine più importante, a chi la considerava bene;»
perch’era disfare sin anche i nomi delle cose più antiche e più care
all’universale: così parve bene lasciarla da parte. Intanto l’aggravio
dei Catasti raffittiva; nè tutti pur questi si vincevano, ed un Notaio
delle Riformagioni fu condannato perchè si disse avere egli falsato un
partito. Volevano tutte mandare a fondo le istituzioni più capitali,
e decretarono vendere i beni non che dell’uffizio della Mercanzia,
ma quelli disfare della Parte guelfa, la quale invero avea perduto
l’antico valore; i Papi non erano allora più guelfi degl’Imperatori, e
i re di Puglia Aragonesi preparavano le vie d’Italia a Carlo V. Coteste
vendite, benchè a rilento, pure si facevano, e il magistrato di Parte
guelfa sotto altro nome passò a curare le opere pubbliche. Oltre ai
castellani, ch’erano dei loro, i Medici vollero avere anche un’altra
forza nel contado, pel quale crearono un Bargello con cinquanta armati;
dapprima a breve tempo, che poi si prolungava, rendendo agevole per
tali industrie l’assuefazione.[457]
Forza dello Stato dei Medici era, come già notammo, la ricchezza;
la quale Lorenzo anch’egli cercava d’ampliare in più modi, nè gli
mancavano le occasioni. Aveano dal Papa infino dal 1466 avuto la
depositeria dell’allume negli Stati della Chiesa:[458] avvenne poi che
due Volterrani, un Riccobaldi del Bava ed un Inghirami, trovassero in
Maremma una cava d’allume di rôcca, sulla quale pretendendo ragioni
il Comune di Volterra come signore del luogo, e i due non potendosi
bene accordare, Lorenzo de’ Medici entrato a parte di quella impresa
per farsi egli solo padrone dei prezzi di tutto l’allume, troncò la
questione. Del che i Volterrani tenendosi forte gravati, uccisero
l’Inghirami; e tolta l’ubbidienza al Commissario che vi era per la
Repubblica e al tutto ribellatisi, era sentenza di molti in Firenze
che si procedesse per le buone, usando il perdono: se non che Lorenzo,
offeso nel proprio, volle il contrario, e che si riavesse con le armi
Volterra, e con le armi si tenesse; troppo era costata al Comune di
Firenze, ed il giovane Lorenzo andava spedito in ogni sua risoluzione.
Forse i Volterrani poneano speranza nel Signore di Piombino e per suo
mezzo nel re Ferrando, sapendosi avere le armi Fiorentine fatta una
mossa l’anno innanzi per accordi passati in segreto tra Lorenzo e il
Duca di Milano, a fine di togliere Piombino agli Appiani e darlo in
possesso al Comune di Firenze; del che Ferrando per gli Oratori suoi
aveva fatto querela grandissima.[459] Inoltre è certo che i Veneziani
favorivano segretamente la ribellione di Volterra.[460] Per le quali
cose non parendo senza pericoli quella guerra, fecero provvisione di
trarre dal Monte delle Doti centomila fiorini,[461] e invece dei soliti
Dieci, crearono Venti tra i quali era Lorenzo e con esso i primi della
città. Diedero il bastone del comando a Federigo conte di Urbino; il
ch’era togliere ai Volterrani ogni speranza del re Ferrando, del quale
il Conte era soldato; e questi in pochi giorni raccogliendo nel Pisano
cinquemila fanti con qualche numero di cavalli, tra’ quali ve n’era
mandati dal Papa e dal Duca di Milano, entrato in campagna, occupò il
contado prestamente; poi fattosi sotto alle mura di Volterra, poteva la
guerra per la fortezza del sito andare in lungo; se non che nella città
i molti increduli alla riuscita, ed i mali trattamenti dei soldati
dentro, persuasero in pochi giorni la resa, che fu accordata, salvo
gli averi e le persone. Entrò in Volterra l’esercito Fiorentino; ma,
come se i patti nulla tenessero, la città infelice fu posta a sacco, i
cittadini presi, le chiese rubate e le donne svergognate. Lorenzo ebbe
carico di quell’orribile tradimento, altri affermando che avvenisse
contro suo volere, e lui encomiano di clemenza. Spianato il palazzo dei
Vescovi, antichi signori in Volterra, fu sopra quel luogo piantata la
Rôcca che ivi rimane; la città ridotta a condizione di terra suddita,
perdeva il contado suo proprio ed ogni ultimo resto d’indipendenza: il
Conte d’Urbino dalla Repubblica ebbe onori e doni larghissimi. Dipoi
Lorenzo visitava l’afflitta città.[462]
Essendo morto Paolo II l’anno 1471, a lui succedeva col nome di Sisto
IV frate Francesco della Rovere da Savona dei Minori Osservanti;
era egli in Santa Croce di Firenze stato eletto Generale di tutto
l’ordine Francescano nel grande Capitolo che ivi si tenne l’anno
1467.[463] Lorenzo de’ Medici, che fu de’ sei ambasciatori mandati in
Roma, com’era usanza, al nuovo Pontefice, ebbe da lui su quelle prime
grande accoglienza ed insigni doni d’antiche sculture, e l’ufficio di
depositario della Camera Apostolica; egli e Giovanni Tornabuoni suo zio
ed altri, che stavano in Roma a curare le ragioni della Casa Medici, vi
guadagnarono somme grandissime, comprato avendo dal Papa a vil prezzo
le gioie che Paolo fastosamente in grande copia aveva raccolte.[464]
Intanto Lorenzo faceva sul Papa altro disegno: bramava assai che
Giuliano fosse cardinale, perch’era ampliare e fortificare molto i
fondamenti alla grandezza della famiglia, e perchè avrebbe lasciato
le mani a lui più libere nel governo dello Stato di Firenze. A questo
effetto erano le pratiche già molto avviate,[465] quando nascevano tra
’l Papa e Lorenzo i primi semi di quel mortale odio che tanto afflisse
la vita d’entrambi.
Il nuovo Papa, dalle strettezze d’una cella balzato alla cima di tanta
grandezza, si trovò attorno per sua sventura due famiglie di nipoti,
capaci taluni e tutti ambiziosi della condizione principesca a cui
gl’inalzava con malo esempio Sisto IV. Da lui cominciava quella serie
di Pontefici mondani i quali vedremo, quasi che ad altro non fossero
eletti, turbare l’Italia per farvi uno stato ai loro congiunti;
e quel che la Chiesa ne patisse, dovremo narrare prima che abbia
termine questa oramai fatta peggiore e a noi più ingrata Istoria
nostra. Leonardo della Rovere, nipote del Papa, ebbe a gran prezzo di
concessioni al re Ferrando, una sua figlia bastarda in isposa; e tosto
dipoi Giovanni della Rovere, altro nipote, pigliava in moglie la figlia
di Federigo conte d’Urbino, da cui passava in quella Casa un principato
fiorente ed illustre più che non portassero i suoi piccoli confini:
Giovanni dal Papa ebbe in vicariato Sinigaglia, e il Conte d’Urbino
titolo di Duca. Fratello a quei due Giuliano divenne fiero Cardinale,
e poi fu papa Giulio II: un altro nipote ma di sorella, Pietro Riario,
fatto anch’egli Cardinale, finiva in due anni una vita scandalosa per
fasto incredibile: fece un banchetto in Campidoglio ai cittadini di
Roma.[466] Un altro poi v’era di quei Riarii, Girolamo, al quale in
dote recava titolo di Conte la bellissima Caterina figlia bastarda di
Galeazzo duca di Milano: a questo Girolamo il Papa comprava da Taddeo
Manfredi di Faenza la signoria d’Imola per il prezzo di quarantamila
ducati. Avea Lorenzo dei Medici avuto grande intenzione di acquistare
per la Repubblica di Firenze quella città; e poichè gli fu dal Papa
tolta la mano, forte adontato, se ne volle proibire a Francesco Pazzi,
che stava in Roma gran mercatante, farsi del prezzo mallevadore:[467]
si ebbe Lorenzo tirato addosso così ad un tratto due fieri nemici. Nel
tempo stesso ambiva Sisto di ricondurre all’ubbidienza le terre più
o meno ribellanti della Chiesa; e il cardinale Giuliano avendo con le
armi sottomessa Todi e indi Spoleto, metteva il campo sotto alle mura
della città di Castello. Di questa i Vitelli erano signori con titolo
di vicari; antico il possesso, e il Papa si avrebbe accontentato che
Niccolò Vitelli prestasse alla Chiesa omaggio, recandosi in Roma egli
della persona sua:[468] ma dispiacevano a Lorenzo quelle armi vicine
allo Stato dei Fiorentini, e mandò soldati alla difesa di Niccolò, col
quale dovette il Papa discendere a una sorta di composizione. Di qui
nuove ire; chè tra due quali erano Lorenzo e Sisto, la vicinanza dava
occasioni vive e continue di nimistà.
Durava la lega tra il Re, il Duca ed i Fiorentini, la quale era stata
in quegli anni rinnovata; poi l’avere i Turchi espugnata Negroponte
e spinto le armi sulle coste d’Albanìa facendo temere per quelle
d’Italia, si collegarono insieme tutti gli Stati della Penisola; ma
senza effetto, gli altri confidandosi nella virtù dei Veneziani, ai
quali riusciva fare meglio soli: intanto che Genova, spogliata di Caffa
e dell’imperio del Mar Nero, perdeva in Levante gli antichi possessi.
Il re Ferrando più degli altri minacciato dalle armi dei Turchi, ma
forte in casa e governandosi con molto fino accorgimento, si acquistava
grande fra tutti riputazione. Avevano i Medici sino dai tempi di Cosimo
grande entratura co’ Re di Francia; e Luigi XI concedeva a Piero dei
Medici fregiare dei Gigli l’arme della casa. Ora quel Re che cercava
d’annullare i duchi d’Angiò siccome gli altri grandi vassalli che
mantenevano divisa la Francia, avendo disegno di maritare al Delfino,
che fu Carlo VIII, la figlia primogenita di Ferrando, ne scrisse a
Lorenzo perchè egli facesse in suo nome la proposta. Certo è che poteva
al re Aragonese di Napoli molto piacere, levarsi a un tratto d’addosso
le antiche pretensioni di Casa d’Angiò, e conciliarsi i Re francesi che
le sostenevano; forse che avrebbe quel maritaggio tolto via la prima
occasione per la quale scesero in Italia le armi straniere. Ma Ferrando
non volle tradire gl’impegni che aveva con lo zio d’Aragona e col duca
Carlo di Borgogna, nè dare mano all’ingrandimento della Francia, dal
quale temeva maggiore pericolo; riscrisse pertanto a Lorenzo rifiutando
quel partito:[469] ma quindi essendosi il Re molto stretto col Papa,
si venne bentosto l’Italia a dividere diversamente; ed una lega fu
stipulata dai Fiorentini e dal Duca di Milano con la Repubblica di
Venezia, alla quale andava ambasciatore Tommaso Soderini.[470] Queste
cose non erano a grado di tutti in Firenze, dove i Duchi di Milano
pareva che stessero co’ Medici come sempre erano stati contro alla
Repubblica. Donato Acciaioli, dignitoso uomo quanto era insigne per
dottrina, contrariava, essendo a Milano ambasciatore, le improvvise
e molto smaccate parzialità di quel Duca verso gli Oratori della
Repubblica di Venezia:[471] e poco prima un Gonfaloniere, Bardo Corsi,
che avea voluto per via d’un imprestito legarsi Ferrando più che a
Lorenzo non piacesse, e fare altre cose tendenti a libero reggimento,
non solamente ne fu impedito, ma d’allora in poi tenuto fuori come
sospetto da ogni grado nella Repubblica.[472]
In questo tempo Giuliano dei Medici, che poco aveva parte nelle cose
dello Stato e poichè gli era la via chiusa alle ecclesiastiche dignità,
seguendo usanze a lui più geniali, combatteva sulla piazza di Santa
Croce quella Giostra che fu cantata dal Poliziano.[473] Ma intanto
Lorenzo, traendosi fuori dalle circospette cautele di Cosimo e fatto
più ardito col procedere dei tempi, volgeva lo Stato a questo effetto,
che i Magistrati eletti a sua posta divenissero Consulte; le quali,
com’erano mutabili spesso, così a lui fossero ubbidienti sempre,
disciolti già i nervi degli ordini antichi, ed egli abile a disfarli.
La Signoria ed i Collegi, secondo un disegno già prima formato,
s’empìano di nomi a ogni bimestre tirati su dagli Accoppiatori, e
questi allora noi troviamo che anno per anno si rinnovassero. Forti le
gravezze, ma spesso alternate di grazie fatte alle persone, e sgravi
e rilasci di debiti vecchi; abbassato il frutto de’ crediti scritti
su’ libri del Monte, e accresciute le gabelle del vino, e messe altre
nuove, a fine di sopperire al pagamento di quelli interessi. Tolto via
l’ufficio del Capitano del Popolo, istituzione antica e solenne che
avea principiato le libertà cittadine quando i Comuni s’emanciparono;
ma ora il popolo spossessato, e senza più voce nè rappresentanza d’un
Consiglio che derivasse da lui, non era mestieri che avesse neppur
di nome un Capitano. Invece di questo posero un Giudice ordinario; e
levarono anche gran parte di quella giurisdizione che si apparteneva al
magistrato della Mercanzia, volgendo quanto più potevano la cognizione
delle faccende private (come dicevano) al Palagio.[474] Quivi gli Otto,
ai quali nel 1434 aveano data balía di sangue, processavano e a loro
arbitrio condannavano per cose di Stato coloro che aveano essi stessi
prima tradotti in giudizio, commettendo con assoluto mandato al Potestà
solamente di ratificare e di promulgare le sentenze così come gli Otto
le aveano dettate.[475] Il Potestà, che era prima ogni cosa nelle città
Italiche, si trovava in oggi ridotto a un mero giudice forestiero,
chiamato a sancire le sentenze date non da giudici o dottori, ma da
un magistrato di cittadini ai quali prima null’altro spettava che la
inquisizione: tuttora vigeva nella forma dei giudizi quella finzione
legale per cui si credevano, a render valide le sentenze, abbisognare
d’un Potestà; ma i nomi di quelli che ogni sei mesi e ora ultimamente
ogni anno venivano, nemmeno si trovano in oggi ricordati nelle istorie,
che prima soleano scrupolosamente registrarli. Svanivano tutte le forme
antiche della Repubblica: l’Esecutore degli Ordini di giustizia era
mutato in un Bargello. Soffriva il popolo queste cose perchè gli animi
affraliti non più chiedevano l’esercizio di viva e torbida libertà, ma
invece di questa gli ornamenti dell’ingegno e lo splendore delle Arti
gentili che si alimentano della pace. La quale in Toscana era dieci
anni continuata: solo Carlo da Montone, figlio di Braccio che lo aveva
lasciato bambino, stando al servigio dei Veneziani, un giorno ebbe
voglia di racquistare Perugia, e visto non essere cosa da fare, si
voltò contro alla Repubblica dei Senesi. Credettero questi fosse con
saputa de’ Fiorentini; ma essi alle prime lagnanze ordinarono a Carlo
ritrarsi: quel fatto però lasciava ruggine tra le due Repubbliche.[476]
Negli ultimi giorni del 1476 moriva Galeazzo duca di Milano, ucciso
nella chiesa di Sant’Ambrogio a Messa solenne da tre gentiluomini di
quella città. Muovevangli più che odii privati, una immagine di gloria
e un desiderio di libertà; ma non appena venuti a termine del disegno
loro, anch’essi perivano, e la Casa degli Sforza mantenne lo Stato: a
questo fine avea condotto quei miseri giovani un Cola Montano maestro
di lettere, tutto invasato la mente ed il cuore di greci esempi e di
romani. Qualche anno prima un altro erudito, Stefano Porcari, voleva
ricondurre la libertà in Roma per via d’un classico assassinio. Si
ripeterono questi fatti più volte in Italia per un centinaio d’anni:
nessuno ottenne il fine bramato, ma tutti servirono viepiù ad aggravare
ed a ribadire le catene.[477] Vedemmo in addietro passioni feroci ma
vere almanco, sapeva ciascuno quel che si volesse; nei tempi a cui
siamo, il sempre avere dinanzi agli occhi gli antichi uomini e le
antiche cose pervertiva gli intelletti, la virtù pigliava le forme
pagane, e il secolo artista e letterato andava in traccia d’effetti
drammatici, l’Italia cercando fuori di sè stessa. Le altre nazioni più
incolte seguivano più direttamente la via loro; qui le anime vive e i
forti pensieri più spesso andavano fuor del segno. Troviamo in Firenze
da uomini gravi encomiata l’uccisione dello Sforza;[478] la quale io
credo aggiugnesse stimoli a quella congiura che ora c’incombe il tristo
ufficio di narrare.
Vedemmo già gli odii accesi nel Papa contro a Lorenzo de’ Medici:
era Sisto IV capace d’ingegno, forte di passioni, ma debole d’animo,
inquieto e agitato dentro sè medesimo; col mutar vita quando egli era
già vecchio ed infermo, aveva sentito espandersi nella tenerezza pe’
nipoti l’affetto indurito; e mentre la stessa riverenza per il sommo
grado che ora teneva lo avea formato al sentimento di tutto potere,
gli stimoli ardenti d’una giovane famiglia tiravano alle ambizioni
principesche quasi la stessa coscienza di lui confusa e vacillante.
Girolamo Riario, ch’era l’anima del Papa, vedeva in Lorenzo fatto amico
ai Veneziani avere ostacolo la potenza ch’egli tanto ambiva formarsi
in Romagna; se il Papa morisse, credeva impossibile tenere lo Stato
in mezzo a quei due possenti vicini. Quindi anelava con tutto l’animo
alla mutazione di quel di Firenze; al che gli era ai fianchi dentro
Roma stessa Francesco de’ Pazzi, natura se mai ve n’ebbe capace d’un
solo pensiero, d’un solo volere; a quello tirato dalla prepotenza di
passioni intorno a sè cieche, in sè indomabili e incessanti: egli di
faccia sparuta e di corpo macilente, come sono spesso quegli uomini cui
riesce commettere i fatti più insoliti e quindi ammirati, quand’anche
non sieno altro che matte scelleratezze. Inoltre Francesco e tutti
quelli della sua Casa odiavano molto quei governi popolari, dei quali
vedevano ora i Medici essersi fatti Principi.
La Famiglia dei Pazzi antichissima in Firenze, era tra le più grandi;
messa in disparte dal popolo vittorioso, fioriva però di aderenze
e di ricchezze, datasi ai traffici che ultimamente faceva in molte
città d’Europa. Andrea dei Pazzi aveva alloggiato nelle sue case
Renato d’Angiò re di Napoli, e gli era stato grande amico. Dei tre
suoi figli, Piero non ignobile d’ingegno s’era tutto dato al vivere
lauto ed alle magnificenze per le quali aveva destato in mezzo a tanti
ammirazione.[479] Di questo nacquero oltre a Francesco più figli, che
tutti vivevano, come altri d’Antonio fratello a Piero. D’Andrea restava
un terzo figlio Iacopo, tenuto ora come capo della famiglia dei Pazzi,
già vecchio e ricchissimo anch’egli; e per essere asceso infino ai
sommi gradi, fatto dal popolo cavaliere; ma diffamato come furiosamente
dedito al giuoco ed alla bestemmia. Cosimo de’ Medici, per amicarsi
quella possente famiglia, avea maritato Bianca sorella di Lorenzo a
Guglielmo dei Pazzi fratello minore di Francesco: da quelle nozze, come
vedemmo, ebbe la Casa dei Pazzi sollievo dai carichi delle gravezze.
Ma quanto al dare gli uffici, andavano a rilente i Medici dove fossero
congiunte nobiltà e ricchezze; e il popolo istesso per antica usanza
vedea sempre di mal occhio nei Magistrati le famiglie grandi, tra le
quali erano i Pazzi tenuti, sebbene profusi allo spendere, altieri e
lontani dall’uguaglianza popolare. «Questo fece che a messer Iacopo e
ai nipoti non erano conceduti quei gradi d’onore che a loro, secondo
gli altri cittadini, pareva meritare. E il magistrato degli Otto,
sendo Francesco de’ Pazzi a Roma, senza avere a lui quel rispetto che
ai grandi cittadini si suole avere, a venire a Firenze lo costrinse.»
Imperocchè in Roma aveva Francesco guadagni e favori e l’ufficio del
Tesorierato, ai Medici essendo tolto quello della Depositeria nei
primi sdegni del Papa contr’essi. Per ultimo avvenne che Giovanni
de’ Pazzi avendo in moglie la figliuola unica di Giovanni Borromei,
uomo ricchissimo, le sostanze di lui dovevano andare alla figlia:
ma fatta una legge che i cugini maschi privassero della successione
le sorelle, il pingue retaggio andò invece a Carlo Borromei molto
aderente a casa Medici.[480] «La quale ingiuria i Pazzi al tutto dai
Medici riconobbero: della qual cosa Giuliano de’ Medici molte volte con
Lorenzo suo fratello si dolse, dicendo com’ei dubitava che per voler
delle cose troppo, ch’elle non si perdessero tutte. Nondimeno Lorenzo,
caldo di gioventù e di potenza, voleva a ogni cosa pensare, e che
ciascuno da lui ogni cosa riconoscesse. Non potendo adunque i Pazzi con
tanta nobiltà e tante ricchezze sopportare tante ingiurie, cominciarono
a pensare come se n’avessero a vendicare.» Saranno qui facili a
riconoscere le parole del grande scrittore.[481]
Aveva trovato Francesco dei Pazzi in Roma un altr’uomo tale da farsi
al suo disegno strumento e complice opportuno. Essendo morto Filippo
de’ Medici arcivescovo di Pisa, avea Sisto IV, contro la volontà di
Lorenzo, data a Francesco Salviati quella ricca mensa: prima voleagli
conferire l’arcivescovado di Firenze, ma invece Lorenzo ottenne
questo per il cognato suo Rinaldo Orsini, ed ora indugiava tre anni
l’investitura di quello di Pisa. Ebbela infine Francesco Salviati, ma
dimorava in Roma, essendo tra quei Prelati ai quali piaceva più stare
in corte che alla diocesi, e che non voleano del vescovado che il
benefizio; ambiziosissimo com’egli era, il grado ecclesiastico pareagli
essere mantello e usbergo a più arrischiare. Ebbe egli pertanto col
conte Girolamo e con Francesco de’ Pazzi frequenti discorsi tutto
l’anno 1477, cercando insieme di mutare lo Stato in Firenze. Al che
gli pareva necessario innanzi tutto di tirare Iacopo de’ Pazzi, siccome
capo della famiglia e senza cui nulla si farebbe. Al qual fine essendo
Francesco de’ Pazzi venuto in Firenze, trovò il vecchio messer Iacopo
freddo e renitente più che non avrebbe egli voluto: pareagli mattìa
volersi fare i suoi nipoti signori in Firenze, e considerava quanto
bello stato e quanta ricchezza egli ora mettesse in sul tavoliere.
Laonde credendo essere a smuoverlo necessario mostrargli presente e
certo l’aiuto del Papa e del Re, Francesco, tornato in Roma, faceva con
gli altri deliberazione di comunicare il tutto con Giovan Battista da
Montesecco, soldato bene affetto al conte Girolamo, facendo che andasse
poi quegli in Firenze a vincere l’animo di Iacopo con la presenza sua
e con le promesse recate da Roma. Aveano al Papa tenuto discorso di
questi fatti; ascoltava Sisto e dichiarava tutto essere bene, solo che
sangue non si spargesse: allora il nipote avea cura di acchetarlo su
questo punto, ed affermava al Montesecco che il Papa bramava sopra ogni
cosa la mutazione dello Stato di Firenze, e che a Lorenzo voleva male,
e ch’erano certi di fargli poi fare quel che volessero. Rimane di tutto
ciò la narrazione di mano stessa del Montesecco, la quale non abbiamo
noi temuto seguire nei punti almeno più sostanziali, secondo hanno
fatto altri scrittori; a noi parendo essere in quella molti caratteri
d’ingenuità e molti assai di verosimiglianza.[482] Venuto pertanto il
Montesecco a Firenze e conferito con messer Iacopo, lo riscaldò tanto,
che il vecchio divenne a quella opera molto acceso; e così tutta la
Casa de’ Pazzi fu nella congiura. Se non che Renato, ch’era tenuto
il più savio uomo della famiglia, biasimò sempre quell’impresa della
quale non antivedeva altro che male; e il misero si credette bastasse
tenersi, quando il fatto avvenne, in villa rinchiuso. Nulla sappiamo
di Guglielmo,[483] nè della Bianca in mezzo a quelle scene di sangue;
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