Storia della Repubblica di Firenze v. 2/3 - 13

Maria signore; noi derelitti da Voi, e impotenti ad ogni difesa, lo
faremo re; Voi, quando non sia rimasto chi possa, benchè volesse,
darvi soccorso, Voi lo farete imperatore.» Da prima ottenne il Ridolfi
che la Lega venisse accettata in via di massima, continuando pure
a negoziare col Duca la pace. Allora in Venezia pervenne il conte
Francesco da Carmagnola, grande uomo di guerra, al quale doveva Filippo
Maria le sue maggiori vittorie; ma o che il debito pesasse a questo, o
che il Carmagnola fosse troppo alto per un principe di quella fatta,
si venne tra loro a tale rottura, che il Conte si partiva cercando
condurre quante più potesse armi italiane contro a Filippo. Ed era
in Venezia nel supremo magistrato Francesco Foscari, che ambizioso
d’ampliare il dominio, male s’adagiava in quelle cautele cui era
solita la Repubblica: ambedue questi diedero mano possente e valida
al Ridolfi, il quale ammesso un altro giorno in Senato, «Se (disse)
v’è cara quella libertà di cui s’onora la città vostra, unite le armi
vostre alle armi di noi, che pure siamo e vogliamo essere liberi; noi
per questa guerra abbiamo già speso più che due milioni di fiorini,
venduti per essa i gioielli delle spose e delle figlie nostre; ma pure
ancora possiamo con Voi portarne il peso, e noi vi chiediamo d’averlo
comune. Tenete a mente, che a duchi ed a re, senato e popolo sono nomi
odiosi egualmente, e che hanno animo a disfarli: oggi voi siete di noi
più possenti; ma non basterete, vinti noi, contro alle forze di questo
Duca, il quale se cerca la nostra ruina, vuole anche poi farsene scala
alla vostra, ed alla oppressione di quanti rimangono uomini liberi
in Italia.» Fu stretta la Lega, nella quale entrarono il Marchese di
Ferrara ed il Signore di Mantova, e il duca Amedeo VIII di Savoia, ed
il re Alfonso d’Aragona, e la Repubblica dei Senesi; il Carmagnola
supremo Capitano di tutta la guerra, che fu bandita a’ 27 gennaio
1426. Nella quale i Fiorentini avrebbono posto in campo sei mila
cavalli e sei mila fanti, i Veneziani da nove mila cavalli e otto mila
fanti.[192] Era tra le condizioni della Lega, che fosse in arbitrio
dei Signori Veneziani fare pace o tregua secondo che a loro paresse; ed
avevano pattuito che a loro dovessero andare tutti gli acquisti che si
facessero in Lombardia, quelli di Romagna e di Toscana venendo soli in
potestà della Repubblica di Firenze, quando non fossero della Chiesa.
Era patto disuguale, la Romagna essendo di ecclesiastica preminenza;
ed ai Fiorentini che portavano i due quinti della spesa, quello che
avanzasse da guadagnare non si vedeva; ma era minaccia contro al
Signore di Lucca, ed io non credo per nulla piacesse cotesta clausola
ai Senesi.[193]
L’entrare in campo della Repubblica di Venezia aveva sommosso i Guelfi
di Lombardia, che è dire la parte degli artigiani delle città e tutto
il popolo campagnuolo, oppresso da quelle castellane Signorie le quali
stavano per il Duca. La forza che aveva Firenze trovata quando era capo
di Parte guelfa contro a’ piccoli Signori intorno a sè nel contado,
stava ora in Lombardia per la Repubblica de’ Veneziani, che bene sapeva
usare il vantaggio; cosicchè il passare sotto al dominio di questa,
era alleviare la condizione di popoli avvezzi ad imperi soldateschi,
i quali per essere in mano di nobili, anche sapevano di straniero.
Brescia avea scosso popolarmente il giogo del Duca, e con l’aiuto dei
villani che discendevano giù dai monti, faceva aspra guerra contro
ai soldati delle fortezze, che unite tra loro da mura grossissime con
torri e bastioni, la stringevano;[194] città serbata in ogni tempo alle
grandi prove ed al patire gloriosamente. Quivi era dunque allora il
nodo di quella guerra, ed i Veneziani vi mandarono il Carmagnola con
tutte sue genti, e scrissero ai Dieci perchè avviassero prestamente
in Lombardia quelle che la Repubblica di Firenze teneva in Romagna
sotto la condotta del Marchese di Ferrara venuto a parte della gran
Lega. Filippo Maria dal canto suo richiamava dai confini di Toscana
l’esercito; al quale essendo precorsa l’oste fiorentina, contendeva il
passo del Panaro, bene alloggiata e fortemente in sulla riva di là: ma
i ducheschi, scendendo il fiume, lo passarono a poca distanza, e avuto
il soccorso di Agnolo della Pergola, si poterono condurre sicuramente
oltre Po, non senza infamia del Marchese di Ferrara, che nulla avea
fatto a impedire quella mossa. Ma quella unione delle due Repubbliche
latine, che erano i due cardini dell’italica libertà, siccome avea
dato ardire e speranza di nuova salute ai popoli di Lombardia, così
era dovere che ai Signori dispiacesse; e a quello d’Este pareva
essere, tra’ due pericoli, meno grave e innanzi tutto meno odiosa la
potenza del Visconti, di quello che fossero o la vicina grandezza della
Repubblica di Venezia, o le popolari libertà che i Fiorentini venivano
oggi a promuovere in Lombardia.[195]
A noi non ispetta narrare l’assedio memorabile di Brescia, nè la
ferocia popolare contro a’ Ghibellini che teneano le castella, nè le
crudeltà di questi, nè l’arte di guerra che dispiegò il Carmagnola,
finch’ebbe la terra in capo a otto mesi, facendone acquisto che
indi rimase alla Repubblica di Venezia. Intorno a Genova era grande
sforzo dei fuorusciti che una volta giungevano fino sotto le mura
della città, e si credevano rientrarvi: principali erano il Fregoso
e un Fieschi, ch’ebbero aiuto dai Fiorentini di buon numero di fanti
sotto la condotta del prode ed infelice Tommaso Frescobaldi, il quale
caduto in mano ai ducheschi, e messo alla corda perchè rivelasse la
intelligenza che aveva dentro, con forte animo ricusando tradire al
nemico i segreti del Comune, morì nei tormenti: la Repubblica dotava
due figlie lasciate dal fedele cittadino.[196] Il Papa frattanto
s’interponeva per la pace, ed era Legato per esso il buon Cardinale
Niccolò Albergati bolognese, il quale credette averla composta;[197]
ma era inganno, perchè Filippo che aveva promesso cedere il forte
castello di Chiari, faceva assalire i soldati di Venezia ch’erano
andati per occuparlo; cosicchè la guerra più fieramente si ripigliava
dalle due parti, che ebbero insieme prima ad Ottolengo, poi a Casa al
Secco presso Cremona, scontri inutili ma sanguinosi. Filippo istesso,
contra suo costume, era venuto della persona sua con grande seguito in
Cremona per dare fermezza a’ suoi partigiani e sopravvedere le difese.
Nel Po fu battaglia tra’ galeoni del Duca e quelli che i Veneziani
avean fatto risalire sotto la condotta di Francesco Bembo, il quale ivi
ottenne splendida vittoria. Ed altra più insigne e molto famosa ebbero
le genti della Lega presso Maclodio, dove i ducheschi spintisi innanzi
per terreni paludosi, in fondo ai quali il Carmagnola s’era cacciato a
disegno, si viddero a un tratto chiusa la via dietro per nuovo assalto
delle genti soldate dai Fiorentini sotto la condotta di Bernardino
della Carda, riuscito di fresco a fuggirsi di prigione, e di Niccolò
da Tolentino. Si gridava dinanzi San Marco, di dietro Marzocco, e nel
mezzo Duca: del quale l’esercito pareva condotto a ultima ruina, se
non avesse il Carmagnola lasciato a una parte dei vinti agio di porsi
in salvo; o fosse prudenza, temendo il valore di uomini disperati, o
dubbia fede, siccome parve più tardi al Senato di Venezia.[198] Questi,
per allora non fattane accusa al suo Capitano, si rese più agevole
alla conclusione della pace, per la quale erano andati ambasciatori
dei Fiorentini a Ferrara Palla Strozzi e Averardo dei Medici: mediatore
sempre il Cardinale di Santa Croce. Il nodo era Genova, che i collegati
volevano il Duca lasciasse o la rimettesse in mano del Papa: negò
pertinacemente;[199] ma infine l’accordo si fece, avendo il Duca
ceduto, oltre a Brescia, del suo territorio, Bergamo e tutta la parte
di Lombardia insino al fiume dell’Adda, rimasto confine ai Veneziani
finchè durava lo stato loro: e fu all’Italia beneficio quell’acquisto,
caduta Milano in mano a stranieri, e Venezia mantenendosi infino
all’estremo della sua decrepitezza pur sempre libera e latina. Maggiore
cosa fu avere innanzi Amedeo duca di Savoia aggiunto ai suoi Stati
Vercelli, stringendo d’allora in poi tra l’Adda e la Sesia il Ducato
di Milano. Aveva quel Duca sperato l’acquisto alla sua casa di tutto il
Ducato per via di nozze del figlio suo con la figlia unica di Filippo:
ma quei negoziati, che poteano pe’ tempi avvenire salvare l’Italia,
presso al conchiudersi poi svanirono.[200]


CAPITOLO VII.
CATASTO. — RIBELLIONE DI VOLTERRA. — GUERRA DI LUCCA. [AN. 1427-1433.]

Costò quella guerra contro a Filippo Maria tre milioni e mezzo di
fiorini, e aveano di spesa continua settanta mila fiorini al mese.[201]
Non poteva la Repubblica oggimai vivere disarmata e non sapeva; entrata
anch’essa nel ballo delle ambizioni, minacciata e minacciante, e avendo
levato di sè gran sospetto appresso ai popoli di Toscana. Poniamo qui
una impresa fatta contro Marradi (sebbene avvenuta alcuni mesi più
tardi), per la quale i Fiorentini acquistarono quella terra pel sito
fortissima e chiave delle Alpi, cacciandone uno dei Manfredi di Faenza.
Ma quella impresa pure ebbe biasimo dai molti che amavano lo stare
in pace e con poche spese. Al fare moneta non bastavano gli antichi
modi; cagione di scandali il nuovo reparto, nè a rimutarlo si sarebbero
chetate le accuse. Aveano cercato già da molti anni descrivere i beni
e le entrate di ciascuno, cosicchè non venissero le persone tassate
ad arbitrio, ma fatta imposizione sopra gli averi da una legge fissa e
con regolate proporzioni: questo domandava, siccome vedemmo, il popolo
di Firenze quando si levò nel settantotto; ed anco di prima un estimo
o tavola o censimento dei beni, decretato inutilmente, fu messo da
parte perchè ai potenti non piaceva cotesta forma d’egualità.[202] Ma
oggi essendo di tanto cresciuto il bisogno del danaro, gridavano tutti
che si mutassero le gravezze, cosicchè i pochi volta per volta non
le ponessero, ma una legge misurata dal parere di tali che usciti di
mezzo alla buona popolare comunanza oprassero (quanto era possibile)
senza parte. Scrive il Cavalcanti, avere Giovanni dei Medici molto
confortato questo modo, egli solo tra’ patrizi e tra i potenti della
Repubblica; dal che il Machiavelli passò a dire che Giovanni ne fosse
autore e trovatore, essendo ciò stato a lui principio di grandezza. Ma
una recente pubblicazione metteva in luce come Giovanni non fosse stato
nei Consigli promotore nè grande fautore di quella legge, che fu invece
messa innanzi e propugnata da Rinaldo degli Albizzi e da Niccolò da
Uzzano.[203] Nei Consigli si veniva, come vedemmo, a cose fatte negli
scrittoi e nelle botteghe, talchè i voti erano spesso d’apparenza:
l’istoria officiale non è mai l’istoria intera, e non è sempre
l’istoria vera. Qui bene sappiamo essere la legge voluta dal popolo,
col quale stavasi Casa Medici, e gli ottimati la proposero quando
viddero sè fatti inabili a impedirla. Giovanni forse non si teneva
certo che la formazione del Catasto in mano ai potenti, che ogni cosa
regolavano, portasse quel frutto che il popolo ne sperava; nè della
natura sua era il troppo commettersi e sbracciarsi molto; nè poteva
essere che tacesse in lui, come in uomo tutto mercante, l’avarizia,
sapendo che avrebbe, siccome avvenne, egli pagato assai più di quello
che prima soleva. I primi passi di Casa Medici, oscuri e ambigui per sè
stessi, ci sono mal noti, nè abbiamo certezza d’avere sincera e intera
l’immagine di questo Giovanni. È poi da notare che fu da Cosimo figlio
suo il Catasto messo da parte per alcun tempo.
Fu il Catasto decretato a’ 22 maggio 1427. Dichiara il Proemio,
seguire la voce e il comune desiderio del popolo di Firenze, non si
potendo per lingua nè per iscrittura numerare quali e quanti cittadini
avesse l’antica inegualità dei carichi spogliato dei beni, condotti a
disperazione o fatti incerti dell’essere loro, privati della patria,
o tenuti fuori quei che bramavano di tornarvi; e insomma, di quanti
e quanto gravi mali fosse cagione quella inegualità. Ordina che debba
ogni cittadino sottoposto alle gravezze del Comune, prima denunziare
ciascuno sotto al Gonfalone suo il nome di tutte le persone componenti
la sua famiglia, l’età, le industrie o l’arte o mestiere che ognuna
d’esse esercitava; e similmente i beni stabili ed i mobili da loro
posseduti dentro o fuori il dominio fiorentino e in qualsivoglia
parte del mondo, le somme di danaro, i crediti, i traffichi e le
mercanzie, gli schiavi e le schiave,[204] i bovi i cavalli gli
armenti e le greggie che a loro spettavano: chiunque occultasse alcuna
cosa, era soggetto alla confiscazione di quegli averi che non avesse
manifestati. Le quali portate fossero poi divise in quattro libri,
uno per Quartiere, per cura di dieci cittadini eletti sul numero di
sessanta estratti a sorte, e i quali fossero gli ufiziali destinati
alla compilazione del Catasto, e a regolare e distribuire le nuove
gravezze. Dovevano questi, di tutti gli averi descritti in quei libri,
cavare le rendite minutamente capo per capo, e quindi al saggio del
sette per cento ridurre le rendite in capitale, di modo che per ogni
sette fiorini di rendita se ne ponesse cento di stima, e questa fosse
notata in piè di ciascuna posta. Dalla quale stima si doveano detrarre
gli aggravi che vi posassero sopra, cioè canoni o livelli ed obblighi
e debiti, la pigione delle case da loro abitate e delle botteghe, la
valuta delle cavalcature necessarie all’uso loro; e inoltre dugento
fiorini di capitale per ogni bocca la quale fossero essi tenuti
d’alimentare: col variare il numero di queste persone cresceva o
scemava lo stato attivo dei cittadini sopportanti. Il quale essendo
così fermato e al netto delle detrazioni, pagasse ciascuno per ogni
cento fiorini di capitale dieci soldi, che viene ad essere il mezzo
per cento, ossia la decima parte del frutto a ragione del cinque per
cento.[205] E se avvenisse che per le detrazioni fatte nulla avanzasse,
dovevano gli ufiziali sommariamente imporre al cittadino quella rata,
della quale egli andasse d’accordo. In tutto e per tutto al giudizio
degli ufiziali doveva starsi, e le quote imposte era vietato correggere
o alterare fino alla nuova formazione del Catasto, il quale doveva ogni
tre anni essere rinnovato; nè con altra regola distribuirsi gravezze
od imposte. Con l’istesso ordine si formarono altri Catasti, cioè dei
contadini, delle università delle Arti, dei forestieri abitanti dentro
al dominio, e d’ogni persona ordinariamente non tenuta al pagamento
delle gravezze.[206]
È da notare come la scelta d’ufiziali cui tanto arbitrio era dato,
venisse commessa primariamente alla sorte: ma fuori di questa, a
Firenze non pareva giustizia essere nè egualità, e il contentarsene
dimostrava pur sempre un legame di scambievole fiducia nella gran
massa della cittadinanza. Contiene la legge ogni sorta di facilità,
e di cautele e di riserve a pro dei gravati; e come riusciva dura a
coloro ch’erano soliti da sè medesimi esentarsi, così fu allegrezza
agli impotenti ed ai poveri o a tutto il popolo universalmente. Vedeano
coloro che prima si erano dalle gravezze difesi con la scusa della
_pompa_, ossia del grado il quale erano per gli uffici costretti
tenere, essere oggi ricresciuti dall’uno a sei. Niccolò da Uzzano,
che mai di prestanza non avrebbe passato i sedici fiorini, fu per il
Catasto tassato in fiorini dugentocinquanta; tra’ ricchi, il solo
Giovanni dei Medici avrebbe avuto poco divario nella posta. Ma i
patrizi dicevano il Catasto non essere giusto: durare essi soli tutte
le fatiche a pro del Comune e a mantenere la città grassa; occultare
gli altri sovente gran parte di loro ricchezza, e non esserne tassati.
Al che dai plebei si rispondeva: «perchè cercate voi dunque gli onori,
che poi volete anco esserne rimeritati? e se delle ricchezze sono in
persone ignote e meccaniche, e che ne’ traffici non le manifestano
e per questo non sono accatastati; rispondesi, che quello avere che
frutto non mena, catasto non merita; perocchè voi avete nella legge del
Catasto, che in su la rendita si misuri il valsente: così adunque dove
non è rendita non è valsente; e però se egli hanno occultato l’avere, e
rendita non si vede, catasto non merita.» Aggiungevano: volesse Iddio
che il Catasto fosse stato trovato innanzi che la guerra così a gabbo
fosse stata presa contro a Ladislao ed alla Casa di Francia, tutrice
antica del nome guelfo; la quale guerra fu al Comune causa di spendii e
di pericoli.
Ma come accade (bene avverte il Machiavelli) che mai gli uomini non
si soddisfanno, e avuta una cosa, non vi si contentando dentro, ne
desiderano un’altra; chiedeva il popolo che si riandassero i tempi
passati, e veduto quello che i potenti secondo il Catasto aveano
dovuto pagare di più, si facessero pagare tanto che eglino andassero
a ragguaglio di coloro i quali aveano pagato quello che non dovevano,
nè potevano senza che fosse disfacimento loro e dei figliuoli e della
casa. Alla quale tanto odiosa dimanda Giovanni de’ Medici troviamo
si contrappose. «Se le gravezze (diceva) per l’addietro erano state
ingiuste, ringraziare Dio poichè si era ritrovato il modo a farle
giuste; sia questo modo pace del popolo e non motivo di divisione
alla città; non fu nè esser può che nei popoli e nei governi non siano
errori ed ingiustizie: che fate voi figliuoli miei? abbiate pazienza
a quello che avete sin qui conseguito, e non vogliate ogni cosa con
tanta sottilità vedere; perocchè di filo troppo sottile più spesso la
gugliata si rompe: vogliate piuttosto essere creditori che debitori,
io dico delle ricchezze di Dio, perchè ci è sopra capo chi ha il
giudizio delle cose e la bilancia dei pregi.[207]» Ottenne così che del
ragguaglio non fosse altro.
La somma da levare per via del Catasto montava in città a
venticinquemila e cinquecento fiorini d’oro; ma erano pôste che ogni
tratto si ripetevano: quelle levate al modo antico rendeano ciascuna
venti sole migliaia di fiorini, ma ne pigliavano due o più per volta,
e nel corso di pochi mesi aveano fatto pagare quarantacinque di tali
prestanze:[208] per una guerra di poca spesa qual si fu quella contro
Marradi, troviamo levassero un quarto di Catasto. Ma questa era
come una tassa permanente e senza la subita odiosità dell’arbitrio,
laonde cercavano ampliarla col fare che i distrettuali ed i popoli
soggetti fossero anche eglino accatastati; al che i Sangimignanesi
ed i Volterrani faceano grandissima resistenza. Diceano: «non siamo
a voi sottoposti se non in quanto per nostra volontà volemmo; per
nostro arbitrio chiamiamo il Capitano di nostra terra, ed eleggiamo
liberamente il Potestà; pochi anni addietro il Capitano per noi si
eleggeva e per voi si confermava: la Signoria ai nostri ambasciatori si
levava ritta; poi tutti seduti, questi esponevano l’ambasciata.» Fu a
loro da prima risposto, per nulla volersi occupare le loro ragioni; ma
era perchè non fosse da’ cittadini di Firenze frodato il Catasto, molti
avendo beni in quel di Volterra fintamente sotto il nome di uomini
volterrani. Infine allegando che la legge del Catasto valeva dovunque
avesse il Comune giurisdizione e guardia, e avendo chetati quelli di
San Gimignano, tuffarono dentro alle carceri delle Stinche i diciotto
ambasciatori Volterrani, e ve li tennero sei mesi; dopo i quali
uscirono con promessa di dare le scritte, cioè le portate, perchè il
Catasto si facesse. Cosimo de’ Medici, nel quale molto si confidavano
i Volterrani e gli altri oppressi o malcontenti, animò prima quelli
a resistere, poi gli consigliava dessero le scritte, che non sarebbe
altro che _pro forma_, e non avrebbe esecuzioni.[209] Ma tornati appena
gli ambasciatori in Volterra, uno di nome Giusto, col favore di molti
plebei, corsa la terra e preso il Capitano, gli tolse le chiavi; poi
senz’altro lo lasciava tornare in Firenze. A Volterra tutti stavano
con l’armi indosso, i lieti del fatto non si conoscevano dai dolenti
per la paura dei Fiorentini. Mandarono per aiuto a Paolo Guinigi
signore di Lucca ed a’ Senesi ed in più luoghi; ma perocchè folle
pareva l’impresa, da tutti furono ributtati. Ed intanto i Fiorentini
a quelle novelle si diedero tosto a raccorre gente d’arme quante ne
avessero pronte, inviandole contro a Volterra sotto la condotta di
Rinaldo degli Albizzi e di Palla Strozzi commissari: questi liberarono
dalla soggezione dei Volterrani gli uomini di Ripomarance e d’altri
castelli che se ne tenevano gravati. Già si appressavano alle mura,
quando Giusto essendo ucciso a tradimento dai suoi, la parte contraria
lasciò entrare i Commissari, chiedendo però di non avere Catasto e
di riavere le loro castella. Le quali cose a Firenze da principio non
furono assentite, e la città di Volterra fu privata del contado, e fu
descritto il Catasto; ma non ebbe effetto, e le castella vennero ad
essi restituite due anni dopo nelle strettezze della Repubblica.[210]
Domata così agevolmente la ribellione, le genti condotte dai Fiorentini
tornarono ai consueti alloggiamenti; le quali ubbidivano a Niccolò
Fortebracci da Perugia, nato da una sorella di Braccio, e primo in
quelle armi dopo al Piccinino. Costui, rapace ed irrequieto, veduta
fallire a sè un’impresa, nè sofferendo rimanersi ozioso in Fucecchio,
dov’egli soleva stare per i Fiorentini a guardia di Pisa e dei confini
inverso Lucca; pensò un bel giorno tornargli conto valicare quei
confini, predare le terre e fare bottino; al che in Firenze non mancava
chi lo incitasse, e sapeva egli ad ogni modo dovere l’impresa riuscire
gradita. Ai richiami del Guinigi la Repubblica si tirava fuori col dire
non ci essere per nulla, e che era tutta farina del Fortebracci: fu
detto ancora che lo stesso ambasciatore Lucchese con insigne tradimento
oprasse ai danni del suo Signore; del che ebbe premio dai Fiorentini.
Ma intanto in Firenze si tenevano Consigli, e a molti piaceva pigliare
l’impresa. Piovevano lettere dei Vicari e Potestà presso ai confini
di Lucca circa la mala disposizione delle castella lucchesi che
voleano darsi alla Repubblica; scriveva uno d’essi che mandassero
delle bandiere, perch’egli aveva già logore due paia di lenzuola a
farvi dipingere Gigli colla sinopia.[211] Diceano il Guinigi, oltrechè
tiranno, sempre essere stato nemico ed avere quant’era in lui cercato
ogni male ai Fiorentini, contro ad essi provocando le armi lombarde;
per ultimo avere mandato il figlio giovinetto Ladislao sotto le insegne
del duca Filippo Maria quando era in guerra questi con la Repubblica;
ora il tempo essere opportuno, l’acquisto facile dappoichè Venezia
già si era legata a non soccorrere il Guinigi,[212] nè il Duca poteva
per le condizioni della pace: debole essere il tiranno e male accorto
e sprovveduto. Indarno i più vecchi, tra’ quali l’Uzzano ed Agnolo
Pandolfini, allegavano la ingiustizia e la temerità d’un’impresa
della quale ognuno vedeva agevole il principio, e niuno vedeva
dov’ella andasse a terminare; nè avere il Guinigi voluto più male
alla Repubblica ch’essa a lui, nè mandato il figlio col Duca se non
quando lo ebbero i Fiorentini rifiutato con dileggio;[213] a guerra non
breve infine gli amici non gli mancherebbero. Ma era in Firenze una
manía di conquiste entrata persino giù dentro al popolo:[214] taluni
già s’erano divise tra loro le terre dei Lucchesi e i vicariati e le
potesterie, talchè nei Consigli chi mettesse innanzi parole di pace non
lo lasciavano dire — con tossire, picchiare e spurgare;[215] — di loro
spargendo, che avessero dal Guinigi pigliato danari. Privati disegni
e occulte pratiche eccitavano la popolare temerità; ma tutto ciò era
(scrive un ingenuo popolano) a fine d’indurre viepiù il popolo sotto
il giogo. Fu a questo modo contro al Guinigi deliberata la guerra in
grande Consiglio di quattrocentonovantotto cittadini, dov’ebbe contrari
soli novantanove;[216] e creati i Dieci, ch’era segnale a principiarla.
Era morto in quello stesso anno 1429 Giovanni de’ Medici, lasciando
due figli Cosimo e Lorenzo; e di lui vengono riferite nelle ultime
ore parole benigne e d’uomo da casa, che ai figli raccomanda sempre
di essere popolari, ma non farsi segno al popolo o capi di setta,
nè autori di turbazioni alla Repubblica.[217] Troviamo quell’altro
prudente vegliardo ch’era Niccolò da Uzzano avere compianto alla
morte di Giovanni; ma era l’Uzzano anch’egli sull’orlo della ultima
vecchiezza: moriva poi l’anno 1432, egli e Giovanni traendo seco il
fiato estremo di tempi migliori e le ultime voci che dessero fede a una
repubblica temperata.
Neri Capponi ebbe accusa d’avere spinto a quella mossa il Fortebraccio;
il che si credeva per molti in Firenze.[218] Neri stesso viene innanzi
a quella accusa nei Commentari che di sè lasciava, là dove allega le
parole dette contro alla guerra in Consiglio sul fondamento che era poi
sempre bene mostrare clemenza ed allargare le braccia.[219] Ma quelle
non erano parole da fare poi troppo gran breccia, e furono dette, per
testimonianza dello stesso Neri, innanzi che avesse Niccolò violato
i confini de’ Lucchesi. Troviamo anche scritto: quattro cittadini
avere preso per sè medesimi quella guerra: il primo di tutti Neri di
Gino, quindi Rinaldo degli Albizzi, poi quell’Averardo dei Medici
il quale, più ardente di Cosimo, sembra avere tolte a sè le parti
di più apparenza; e con loro Ser Martino di Luca Martini, quello che
noi vedemmo per fatto dei Medici tenuto in ufizio di Cancelliere, e
cassato quindi con grande angoscia di Giovanni. Apparisce egli siccome
strumento delle _ritorte_ più segrete di parte medicea; ma noi lo
troviamo nel tempo medesimo essere in grande intrinsechezza con Rinaldo
degli Albizzi, il quale tutto in lui fidava. Tutto ciò è indizio di
molti arcani avvolgimenti: e fatto è che tra i Dieci della guerra,
i quali ogni sei mesi mutavano, si trovano uomini dei principali di
tutte quelle parti dalle quali usciva poi trasformata sostanzialmente
la Repubblica di Firenze.[220] La guerra infine era promossa da tutti
variamente gli ambiziosi, poi l’uno sull’altro versando la colpa della
mala riuscita: ma in campo andavano di coloro che aveano lo Stato, come
più pratichi nelle guerre; e gli altri, temendo la loro grandezza, in
ogni cosa gli attraversavano.
Dapprincipio andarono Commissari a governare l’impresa Rinaldo
degli Albizzi e Astorre Gianni; dei quali Rinaldo si fermava sotto
Lucca, mentre che Astorre poneva un altro campo nelle marine sotto
Pietrasanta, cercando chiudere quelle vie d’onde venissero ai Lucchesi
le vettovaglie nella città ed i soccorsi di Lombardia. Attese Rinaldo
a pigliare le castella per indi accostarsi a stringere Lucca, e aveva
già fatto l’espugnazione di Collodi, quando ecco subito cominciare
dissensi tra’ capi, e quello scambiarsi d’accuse e sospetti donde ebbe
sì mala riuscita quella guerra. Accusavano Rinaldo ch’egli cercasse
i suoi privati più che i pubblici vantaggi, e che si facesse mercante
di prede per la comodità d’inviarle alla sua villa di Monte Falcone,
come aveano detto del padre suo Maso nella guerra contro Pisa. A quello
sparlare che si faceva di lui s’accese l’animo di Rinaldo, altiero
com’era non che dignitoso. Abbiamo una lettera di lui ai Dieci (18
gennaio): «Io debbo ubbidire ai vostri comandamenti, ma la V. S. dee
comandare cose oneste e che si possano sopportare. — Io sono nato nella
città e allevato come cittadino, e non come un saccomanno di bosco.
Il perchè vi prego, Signori, mi diate licenza ch’io possa tornare a
casa a posarmi.» Rispondono i Dieci parole a lui molto onorifiche; e
Rinaldo, mandato a Firenze il figlio Ormanno, rivocava la licenza; ma
era in città mormorio e bollore, e molto i Dieci erano morsi. Inviarono
in campo due di loro, Neri Capponi ed Alamanno Salviati, i quali
si trassero addosso ai monti sotto Lucca. Rinaldo, fermatosi nella
pianura, conduceva arcani maneggi co’ quali sperava entrare in Lucca.
Ma egli co’ Dieci male s’accordava, e contro a Neri aveva sospetti;
cosicchè Rinaldo separatosi da loro, per lungo giro si accostava
sotto Pisa all’altro campo, d’onde volgendo, e tornato a porsi dal
lato opposto presso alle mura di Lucca, espugnava Pontetetto. Ma qui
per fastidi e per disagi, la notte col fango a mezza gamba e sempre
combattendo, lasciato in penuria di viveri, e per vedersi assottigliato