Storia della Repubblica di Firenze v. 2/3 - 30

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protrasse poi nei moderni, ha dato spesso ai nostri libri certa aridità
solenne, la quale ebbe nome di stile accademico. Da questo vizio salvò
i Francesi la conversazione, la quale fu ad essi come una sorta di vita
pubblica e informò lo scrivere in ogni qualsiasi più grave argomento;
talchè gli scrittori nel tempo medesimo che ne acquistavano maggior
vita, divennero anche più facilmente e più generalmente popolari, così
da esercitare nella lingua quel maestrato il quale ha bisogno la lingua
medesima che venga dai libri. Questa sorta di maestrato quale si sia
disse tanto bene Vito Fornari in un recente suo libretto, ch’io farei
torto al mio concetto se non lo esprimessi con le medesime sue parole:
«Se egli è giusto il dire che il linguaggio non istà tutto negli
scrittori, non si vorrà per questo affermare che si trovi intero fuori
degli scrittori. Certi fatti mentali, e certe più fine relazioni e
determinazioni del pensiero, non si vedono distintamente e non vengono
significate se non quando si scrive, cosicchè alcuna piccola parte
de’ vocaboli e molta parte de’ modi di dire e de’ costrutti non si può
imparare altrove che nelle scritture.[566]»
Per essere in questo modo imperfetta la lingua nostra, potè nel secolo
di cui scriviamo essere accusata «di _viltà_ e non capace nè degna
di alcuna eccellente materia e subietto;» come attesta Lorenzo de’
Medici in quel Commento del quale abbiamo poc’anzi discorso. Bene egli
l’assolve da tale accusa con argomenti di ragione e con gli esempi
di Dante e del Petrarca e del Boccaccio. Ma quasi non fossero per sè
valevoli quegli esempi, afferma al suo tempo essere la lingua «tuttora
nella _adolescenza_, perchè ognora più si fa elegante e gentile. E
potrebbe facilmente nella gioventù e adulta età sua venire ancora
in maggiore perfezione, tanto più se il Fiorentino impero venisse
ad ampliarsi e a distendersi maggiormente:[567]» pensiero nel quale
stavano adombrati il male e il rimedio, ma insieme i concetti dell’uomo
di Stato. Tali erano dunque le condizioni di questa lingua negli ultimi
anni del quattrocento; l’abbiamo veduta per l’andamento suo naturale
progredire nelle sue più familiari ed umili forme, e nella opinione
dei letterati intanto scadere. Ma ricorrendo ora col pensiero per tutto
quello che si è finquì scritto, abbiamo noi ed avrà chi legge, dovuto
accorgersi che il discorso nostro non v’era mai stato caso che uscisse
fuori dei confini della Toscana. Di ciò cagione fu la mancanza di libri
o scritture in lingua italiana usciti dalle altre provincie d’Italia. È
fatto che importa, e ora vuol essere meglio dichiarato.
Volere discernere se dalla cultura dei primi Toscani uscisse la lingua
o dalla lingua la coltura, somiglierebbe troppo l’antica lite di
precedenza che fu tra l’ovo e la gallina; poichè la lingua essendo una
materiale determinazione dei pensieri e degli affetti che si produssero
dentro a quel popolo che la forma, diviene strumento che rende capace
quel popolo a nuove produzioni del pensiero e a viepiù estendere la
sua coltura. Oltredichè una lingua è monca e dappoco finch’ella non
abbia la sua finitezza negli usi letterari, cioè finchè non sia capace
ad esprimere le cose pensate fuori del comune uso e prima ordinate
dalla lenta opera degli intelletti, finchè non abbia insomma prodotto
dei libri. Ciò avvenne in Toscana subito dopo al 1250, prima di quel
tempo dovendosi credere non bene compita questa _moderna favella_, come
Dante la chiamava. Ma ebbe ad un tratto scrittori in buon numero, e
si cominciò a tradurre in lingua volgare gli autori latini; il che era
indizio di nuovo idioma in tutto distaccatosi dall’antico. E furono gli
anni nei quali Firenze divenuta possente ad un tratto, si rivendicava
in libertà, fondava una repubblica popolare, pigliava in Italia
l’egemonia delle città guelfe, diveniva maestra delle Arti e produceva
il libro di Dante.
La lingua latina, o a meglio dire la lingua classica dei libri latini,
che fu esemplare ai nostri autori fino dal nascere del volgare, era
il portato di una solenne elaborazione del pensiero, la quale si fece
dentro a Roma stessa, sovrapponendosi alla forma latina che aveva quivi
il parlare degli Italici. Nata nel fôro e nel Senato e poi sovrana
sul Campidoglio, si distendeva per tutta Italia come lingua insieme
politica e letteraria; discesa quindi nelle Basiliche dei cristiani,
divenne propria della religione. Così può dirsi che il latino venisse
a scendere nella lingua nostra seguendo due strade in parte diverse.
Discese ne’ vari popoli d’Italia seguendo la naturale trasformazione
dei dialetti che fin dalla prima conquista romana si erano formati
nelle varie provincie d’Italia. Discese poi per l’autorità somma che
diedero al latino classico, qui ed altrove, la religione, la politica,
la giurisprudenza e la cultura letteraria dai primi e più elementari
dirozzamenti al punto ultimo in fin dove potè condursi in quella età.
Fu questo modo comune a tutte le parti d’Italia, salvo in ciascuna
d’esse le differenze dei dialetti e della cultura. Ora a me sembra che
la Toscana avesse in entrambi questi modi un qualche vantaggio sulle
altre provincie; e che le due strade per le quali passò il latino a
farsi italiano fossero in Toscana o meno distanti tra loro o quasi
congiunte. Si è detto già come il volgare nella sua stessa antica
rozzezza dovesse qui essere più latino di quel che fosse colà dov’era
mistura di celtico; e la stessa lingua letteraria dovette qui avere per
le cagioni medesime assai più facile entratura. Tale vantaggio ebbero
i Toscani; ma recò ad essi questo inconveniente, che il latino e il
volgare più facilmente si confondessero, e che il latino stesse innanzi
agli scrittori non solamente come esemplare, ma come termine verso cui
dovesse intendere il volgare scritto, quasichè a culmine di sè stesso.
Di tutto ciò pare a me rinvenirsi una qualche traccia da Dante infino
al Machiavelli; che è quanto dire per tutto il corso della formazione
compiuta e stabile della lingua nostra.
In tutto diverse dalle condizioni che aveva il latino avuto in Roma,
furono quelle che il volgare si era fatte in un popolo d’artisti, ed
ebbe tosto una letteratura che per due secoli manteneva l’impronta in
sè stessa della città che l’avea formata. Quale si fosse abbiamo noi
cercato mostrare sin qui: ma perchè s’intenda come le altre provincie
nulla a quel moto partecipassero, vorremmo che studi maggiori si
facessero sopra i vari dialetti d’Italia, mostrando per quali più
lenti passi si conducessero anch’essi ad avere scrittori che fossero da
contare oggi tra gli italiani. Allora si vedrebbe fino a qual punto ciò
conseguissero per via d’imprestiti sopra i libri d’autori toscani; ma
nè potevano questo fare, nè il farlo sarebbe stato sufficiente, finchè
i dialetti più inferiori avessero tutta serbata l’antica loro povertà
e rozzezza. Era il toscano, in fine dei conti (come si è veduto), un
italiano più compiuto e più determinato, più omogeneo in sè stesso e
più latino, perchè il parlare dell’antica plebe a questo più affine,
aveva in sè stesso trovato la forma della lingua nuova a cui si era più
presto condotto. Nelle altre provincie più era da fare; e quello che
si fece, rimase dialetto perchè le misture avevano in sè troppo forti
discordanze; i suoni, gli accenti sempre non erano italiani.
A mezzo il dugento uno scrittore pugliese, Matteo Spinelli da
Giovenazzo, avrebbe prima del Malespini in una sua Cronaca mostrato
un esempio di lingua italiana, che poi rimaneva lungamente solitario.
Il che invero non sapeva io troppo bene come spiegarmi: se non
che in oggi, dopo alle cose scritte da un dotto tedesco pare a me
essere dimostrato, che nella Cronaca del Pugliese avesse un uomo del
cinquecento levigato l’antico idioma e forse in qualche parte corretto
lo stile, perchè io non so bene indurmi a credere che fosse tutta
falsificata e che l’editore l’avesse a disegno spruzzata di antiche
voci e desinenze napoletane.[568] Gran tempo corse prima che uscissero
da quelle provincie, e meno ancora dalle settentrionali, libri di
prosa scritti in una lingua la quale non fosse come rinchiusa nel
natìo dialetto. Ne abbiamo esempio in quella Vita di Cola di Rienzo
la quale fu o si crede scritta dal romano Fortifiocca dopo alla metà
del trecento. Qui perchè siamo nella Italia media, la penna corre
facile e sciolta; ma tanto è ivi del romanesco, tante le alterazioni
dei suoni e quelle che a tutto il resto d’Italia infino d’allora
comparivano brutture, da porre quel libro fuori del registro dei libri
italiani. Quanto alle lettere familiari, un maggiore studio sarebbe
da farne secondo i tempi e le provincie; ma, per via d’esempio,
quelle che abbiamo degli Sforza irte e stentate, fanno contrasto
alle bellissime che allora e prima scrivevano l’Albizzi[569] e altri
Commissari fiorentini. Le Cronache in lingua italiana, ma di autori
non toscani, che si hanno dalla metà del XIV fino verso la fine del XV
secolo, nulla c’insegnano di quello che importi al nostro proposito,
perchè il Muratori che le pubblicava badando ai fatti, e non volendo
nè oscurarli con le rozzezze dei dialetti, nè tener dietro alle
ignoranze dei copisti, tradusse (com’egli accennava nelle prefazioni)
coteste Cronache nella lingua comune al suo tempo. Generalmente però
è da notare che appartengono all’Italia media o alla Venezia, poche
estendendosi verso il mezzogiorno: in quelle provincie la lingua
italiana si era formata più d’accordo con sè stessa per la maggiore
affinità che era tra’ popoli primitivi; e potè quindi salire al
grado di lingua scritta più presto che non potessero quelle dov’erano
popoli usciti di razza celtica od iberica. Le versioni dei Romanzi di
cavalleria generalmente scritti in lingua francese, dovrebbe cercarsi
se alle volte non appartenessero ai luoghi dov’ebbe maggiore entrata
questo idioma. Tutto ciò vorrei che gli eruditi ci dichiarassero,
pigliando esempio dalla non mai infingarda curiosità degli uomini
tedeschi. Ma si tenga a mente come tra l’uso della poesia e quello
della prosa le cose andassero in modo diverso. La poesia lirica fu
italiana dai suoi primordii e si mantenne: da Ciullo d’Alcamo siciliano
al Guinicelli bolognese ed al Petrarca un andamento sempre uniforme
la conduceva fino al sommo della perfezione per una via che rimase
sempre l’istessa nel corso dei secoli. Emancipatasi dal latino prima
della prosa, fu in essa più certo l’uso della lingua ed ebbe consenso
che l’altra non ebbe: quindi noi troviamo che in sulla fine del
quattrocento v’era una lingua nazionale della poesia, che nulla ha per
noi nè d’antiquato nè di provinciale; il che non può dirsi dei libri di
prosa.
Ma quello era il tempo nel quale in Europa non che in Italia pareano
le cose pigliare un essere tutto nuovo; ciascuna nazione d’allora
in poi ebbe la propria sua lingua più o meno perfetta, ma in tutte
recata a foggia moderna. Era un procedere naturale, ma che in Italia
più vivo che altrove, doveva estendersi dappertutto: le minori città,
meno chiuse in sè medesime poichè avevano perduto ciascuna la fiera
indipendenza municipale, si aggregavano alle grandi, e l’una con
l’altra più si mescolavano; la vita più agiata voleva relazioni più
frequenti, gli Stati col farsi più vasti creavano nuovi centri di
cultura, le Corti ambivano essere accademie. Intanto lo studio classico
diffuso per tutta l’Italia valeva molto a correggere quei volgari
ch’erano rimasti infino allora meno latini; dal fondo di ciascun
dialetto cavava lo studio dei libri classici una forma, la quale
applicata all’uso cólto di quei dialetti, faceva quest’uso naturalmente
essere più italiano e più capace di trarre a sè quella finitezza che
prima avevano acquistata i soli libri dei Toscani: venivano i suoni
a farsi più molli, più agevole certa speditezza di costrutti; molte
proprietà di lingua che i Toscani avevano appreso dall’uso antico
tra loro, gli altri imparavano dal latino. Notava sapientemente il
Tommasèo, come le etimologie sieno più assai che non si crederebbe
mantenute dall’uso del popolo non che da quello dei grandi scrittori:
ciò era in Toscana più spesso che altrove; negli altri dialetti gli
uomini cólti le ritrovavano qualche volta per lo studio dell’antico
latino e quindi le riconducevano nei libri. A questo modo il latino,
ch’era stato impedimento allo scrivere dei Toscani, condusse nelle
altre provincie i dialetti a meglio rendersi italiani.
In questo tempo era trovata la stampa, dal che la parola aveva
acquistato come un nuovo organo a diffondersi. Presso i Greci ed i
Latini e in tutte le antiche letterature pagane, chi si metteva a
scrivere un libro sapeva bene che sarebbe andato in mano di pochi;
cercavano quindi il loro teatro, a così dire, nella posterità: di
qui è che i libri ne uscivano più pensati e meno curanti di essere
popolari; questo vantaggio hanno i libri classici, e quindi più servono
alla disciplina del pensiero. Ma lasciando stare queste cose, gli
autori toscani, eccetto i poeti, scrivevano sì per l’uso del popolo ma
solamente per quello della provincia loro, non credendo essere intesi
nelle altre: quindi è che i libri che apparissero meritevoli, venivano
tradotti in lingua latina per dare ad essi, così dicevano, maggiore
divulgazione. Quando poi si cominciò a stampare (com’è naturale) quei
libri ch’erano più cercati, ebbe il Petrarca la prima edizione l’anno
1470, e la ebbe il Boccaccio nel tempo medesimo; nel 1472 tre non delle
maggiori città d’Italia si onoravano pubblicando ciascuna il Poema di
Dante, che usciva a Napoli poi nel 1473, ed aveva bentosto l’aggiunta
di nuovi commenti, ma in lingua latina. D’altri toscani antichi non
mi pare che avesse edizioni in quei primi anni altri che il Cavalca
sparsamente per l’Italia, ma per tutte quasi le varie sue opere; e
oltre lui, pochi degli ascetici: stamparono questi perchè erano i
soli che avessero fama allora in Italia e che dovessero andare tra ’l
popolo.
Nel mentre che autori delle altre provincie pubblicavano commentato in
lingua latina il libro di Dante, un toscano che da principio soleva
scrivere latina ogni cosa, Cristoforo Landino, poneva le mani a
stenderne un molto ampio commento in lingua italiana. Di già i vecchi
commentatori del trecento parevano a lui essere un poco antiquati,
ed io per me credo che senza la stampa non avrebbe egli pensato un
lavoro il quale intendeva riuscisse, come ora si direbbe, popolare. Lo
stesso Landino avea pubblicato l’anno 1476 una versione dell’_Istoria
naturale_ di Plinio in _lingua fiorentina_, che altrove chiama
_toscana_ e dice essere lingua comune a tutta Italia. Questa versione,
dov’entra un numero stragrande di voci, ed il Commento dantesco
stampato nel 1481, io credo non poco servissero agli scrittori tuttora
inesperti, che ebbero in quei libri un esemplare di lingua vivente
allora in Firenze ma non di lingua delle piazze, perchè il Landino per
antico abito disdegnava quei modi di scrivere che a lui sapessero di
plebeo. Nello stesso anno 1481 usciva il _Morgante_ di Luigi Pulci; e
insieme i tre libri non poco servirono a render meglio familiare l’uso
dello scrivere in lingua comune. Lorenzo de’ Medici e Angiolo Poliziano
ebbero fama, e non del tutto immeritata, come restauratori del buono
scrivere italiano. Lorenzo promosse l’uso di questa lingua e lo difese,
dandone egli stesso in verso e in prosa pregiati esempi. Seguendo il
genio suo nativo, che lo conduceva bene all’acquisto della grandezza,
cercò egli essere popolare; la conversazione lo aveva formato più che
lo studio; si atteneva quindi assai di buon grado all’uso fiorentino
in quelle minori poesie, le quali, o sacre o sollazzevoli, bramava che
fossero cantate dal popolo; facea versi anche pe’ contadini. Per tutto
questo meritò bene della lingua, più ancora che non facesse il classico
Poliziano, il quale insegnava a trarre la forma della poesia italiana
dai greci autori e dai latini.
Finiva il secolo, e la lingua toscana s’avviava a farsi italiana. Alle
altre provincie, secondo che divenivano più cólte, non bastava l’uso
di quei volgari plebei a cui rimase nome di dialetti; perchè a cotesto
uso mancavano spesso non che le voci per cui si esprimono idee non
pensate dagli uomini rozzi, ma più ancora le frasi o locuzioni e il
giro e la forma di quel discorso più condensato che si chiama scelto,
più breve e rapido perchè cerca comprendere un maggior numero d’idee;
forma che serve generalmente a chi si mette a scrivere un libro. Non
so che i dialetti fossero insegnati nelle scuole, nè che si pensasse
a coltivarli come lingua letteraria. Ciò tanto è vero, che il fare
libri nel dialetto proprio agli autori non toscani, cominciò tardi,
e fu per gioco e come una sorta di prova non tanto facile, perchè lo
scrittore deve in quel suo dialetto cacciare e costringere le frasi
e i costrutti ch’egli era solito pigliare da un uso più cólto e più
universale. Ma per contrario, quando nel primo tempo l’autore avvezzo
al suo dialetto voleva innalzarlo fino a quella lingua ch’era intesa da
tutti, ne aveva in sè il germe che la coltura vi avea già posto; e il
nuovo processo veniva più facile, essendo per molta parte il compimento
di quell’antico suo parlare. È stato già detto che a scrivere bene
in lingua italiana, la meglio è cercarla ciascuno nel fondo del suo
dialetto, perchè a correggere o a dirozzare questo si vede uscirne
fuori quella lingua comune di cui la lingua toscana già diede agli
altri dialetti la forma e che n’è il fiore e la perfezione. Ma questi
dialetti poichè non bastavano a quell’uso più ampio e più scelto,
chiunque volesse parlare o scrivere in tal modo non poteva pigliarne
le forme da un altro dialetto, perchè non s’intendono questi fra loro;
poteva bene pigliarle da quel linguaggio e da quell’uso più accettabile
universalmente, che vivo in Toscana corregge dappertutto i plebei
parlari perchè più italiano di ciascuno d’essi. Ciò veramente poteva in
qualche parte dirsi opera di traduzione; e questo fu il caso di quei
primi non toscani, i quali sul finire del secolo XV cominciarono a
scrivere libri in lingua toscana.
Vorremmo allegare qui alcuno di quelli sparsi documenti che a noi
fu lecito di raccogliere, se fosse qui luogo a minute ricerche o se
quelle che abbiamo fatte ci apparissero sufficienti. Crediamo però che
i pochi esempi sieno conferma di quello che abbiamo sopra accennato
quanto alla difficoltà che avevano maggiore o minore le altre provincie
a farsi nello scrivere italiane, secondo le varie qualità delle
misture ch’erano entrate in ciascun dialetto. Abbiamo un Testamento
politico di Lodovico il Moro[570] scritto sulla fine del quattrocento
in lingua milanese che vorrebb’essere italiana; e nella città stessa
abbiamo l’Istoria di Bernardino Corio, che finisce al primo entrare
del secolo susseguente: qui sembra il dialetto nascondersi affatto,
ma lo stile duro e faticato ha proprio l’aspetto d’un nuovo e non
sempre felice sforzo che l’autore fece usando una lingua che tutti
leggessero. Questa, e l’Istoria napoletana di Pandolfo Collenuccio
da Pesaro, credo sieno i primi libri dove il toscano fosse cercato
da scrittori non toscani: il Corio di molto sopravanzò l’altro per
la materia, ma il Pesarese più franco e sicuro in quanto alla lingua,
scrive anche in modo assai più scorrevole. Generalmente gli uomini più
meridionali e, su su venendo, quelli della sponda dell’Adriatico, si
erano prima fidati più degli altri al natìo dialetto così da usarlo
anche nello scrivere. I Veneziani, etruschi d’origine, come hanno
dialetto meno degli altri discordante, così lo usarono, sebbene con
qualche temperamento, sino al finire della Repubblica nelle arringhe
che si facevano in Senato o nella sala del Gran Consiglio; tanto che
v’era un’eloquenza in veneziano, quale non credo che fosse nemmeno in
Firenze, dove il Gran Consiglio durò poco, e prima era scarso l’uso
del parlare in modo solenne. La vita e la lingua qui erano nel popolo,
da cui venivano come a scuola gli scrittori quando al principio del
cinquecento l’urto straniero ci ebbe insegnato a rendere cose quanto si
poteva nazionali, la vita almeno civile e la lingua.
Pochi anni prima di quel tempo Fra Girolamo Savonarola venuto giovane
da Ferrara dove il parlare aveva qualcosa del veneto, cominciò in
Firenze a predicare. «Da principio diceva _ti_ e _mi_; di che gli altri
Frati si ridevano.[571]» Divenne poi grande oratore avendo appreso qui
la correttezza e la proprietà della favella, senza mai troppo cercare
addentro nell’uso più familiare di questo popolo Fiorentino. Dal quale
poi trasse non poco un altro Ferrarese, l’Ariosto, ma con quel fino e
squisito gusto ch’era a lui proprio; e se io dovessi dire quali autori
allora o poi meglio adoprassero nelle scritture quell’idioma che solo
era degno di essere nazionale, porrei senza fallo il nome dell’Ariosto
accanto a quelli di due Toscani, che sono il Berni ed il Machiavelli.
Lo scrivere andante si poteva bene imparare anche da due poeti come
quelli, perchè infine la lingua della poesia viene dalla lingua della
prosa, di cui non è altro che un uso più libero.
Così alla fine questo volgare che aveva data nei suoi primordii
una promessa poco attenuta, che fu negletto per oltre un secolo o
rinnegato anche in Toscana da chi teneva il latino essere tuttavia
l’idioma illustre della nazione, questo volgare divenne allora quel
che non era mai prima stato, lingua italiana. A questo effetto
andavano tutte insieme le cose allora in Italia: già la coltura
diffondendosi agguagliava presso a poco l’intera nazione ad un
comune livello, intantochè le armi forestiere distruggevano in un
con le forze provinciali e cittadine quanto nei piccoli Stati soleva
in antico essere di splendore e di bellezza; l’idea nazionale, che
allora spuntava, cominciò a farsi strada nella lingua. Ma era troppo
tardi: gli ingegni fiorivano, le lettere e le arti toccavano il
colmo, l’Italia insegnava alle altre nazioni fino alle eleganze e alle
corruttele della vita; possedeva una esperienza accumulata d’uomini e
di cose tale, che una piccola città italiana aveva in corso più idee
che non fossero allora in tutto il resto d’Europa; di scienza politica
ve n’era anche troppa. Ma quando poi sopravvennero i tempi duri, questo
tanto sfoggiare d’ingegni non approdò a nulla, perchè le volontà in
Italia erano o guaste consumate dall’abuso, o vólte a male. Quegli anni
che diedero i grandi scrittori passarono in mezzo a guerre straniere,
dove gli Italiani da sè nulla fecero, nulla impedirono; e come ne
uscisse acconcia l’Italia non occorre dire.
Dopo le guerre e dopo i primi trent’anni del cinquecento, erano i tempi
ed il pensare ed il sentire di questa nazione tanto mutati da mostrare
il vuoto che era sotto a quella civiltà splendida ma incompiuta: da
quelli anni in poi calava il nostro valore specifico (se dirlo sia
lecito), e il nostro livello a petto alle altre nazioni d’Europa venne
a discendere ogni giorno. Mancò nel pensiero, perchè era mancato prima
nella vita, l’incitamento ad ogni cosa che non fosse chiusa dentro
ad un cerchio molto angusto; mancò la fiducia che all’uomo deriva
dall’aperto consentire insieme di molti: v’era in Italia poco da
fare. Nè ai tanti padroni che aveva essa dentro andava a genio che si
facesse; e già la stanchezza o una mala sorta d’incuranza disperata
menavano all’ozio, interrotto solamente da quelle passioni che non
hanno scusa nemmen dal motivo; la conversazione tra gente svogliata
o avvilita o malcontenta non pigliava vigore nè ampiezza dai gravi
argomenti; i libri meno che per l’innanzi andavano al fondo nelle cose
della vita: dice il Fornari molto bene, che «tra letterati e lettori
non v’era in Italia quella comunicazione intima e piena» per cui la
vita, la lingua, le lettere tra loro s’aiutano.
Noi crediamo che nei libri qualcosa debba essere che sia imparata
fuori dei libri, perchè altrimenti lo scrivere viene quasi a pigliare
la forma d’un gergo necessariamente arido e meno efficace, da cui
s’aliena il comune dei lettori. Ciò avvenne bentosto in Italia, e
fu in quel tempo quando la lingua più si voleva rendere universale e
n’era essa stessa divenuta più capace avendo perdute allora le asprezze
d’un uso ristretto, e nel diffondersi della coltura avendo acquistato
migliore esercizio nelle arti della composizione. Ma giusto in quel
tempo questa lingua per certi rispetti più accuratamente scritta,
fu meno parlata; e la parola meno di prima fu espressione di forti
pensieri ed autorevoli e accetti a molti: vennero fuori i letterati,
sparve il cittadino; scrivea per il pubblico chi nella vita non era
avvezzo parlare ad altri che alla sua combriccola: quindi l’eloquenza
si foggiò all’uso delle accademie le quali erano una sorta di sparse
chiesuole. Mancò alla lingua un centro comune perchè mancava alla
nazione: ne avevano entrambe lo stesso bisogno, che appunto allora
cominciò ad essere più sentito, sebbene in modo confuso ed incerto;
nulla si poteva quanto alla nazione, rimedii alla lingua si cercavano
in più modi, vari, discordanti e quasi a tentone. Un modo semplice
vi sarebbe stato, ed era l’attingere copiosamente da quel dialetto
ch’era il più finito; ma questo invece di tenere sugli altri l’impero,
vedeva in quel tempo scadere non poco o farsi dubbia l’autorità sua.
Al solo pregio della lingua molti sdegnavano ubbidire: condizioni tutte
differenti sarebbonsi allora volute in Italia perchè tante voci, tante
locuzioni, tante figure con l’acquistare sanzione solenne potessero
farsi moneta corrente pel comune uso degli scrittori. Avrebbe la sede
naturale della lingua dovuto almeno stare in alto, cosicchè tutte le
parti d’Italia a quella guardassero, e che al toscano fossero toccate
le condizioni dell’idioma parigino; «perchè il toscano (dice il Manzoni
da pari suo) faceva dei discepoli fuori dei suoi confini, il francese
si creava dei sudditi; quello era offerto, questo veniva imposto.» Nè
in altro modo poteva l’ossequio delle altre provincie essere necessario
e inavvertito, sicchè non venissero tra’ letterati a sorgere le contese
che, nate una volta, non hanno mai fine. Se (come fu detto) lo stile
è l’uomo, la lingua può dirsi che sia la nazione: quindi all’esservi
una lingua bisognava ci fosse una Italia, nè altrimenti poteva cessare
l’eterna lagnanza che il linguaggio scritto si allontanasse troppo dai
modi che si adoprano favellando, e male potesse fare sue le grazie e
gli ardimenti del volgar nostro, il quale da molti ignorato, ebbe anche
taccia di abbietto e triviale.
Cotesta accusa molto antica tutti parevano confermare contro alla
povera nostra lingua, che ci avea colpa meno di tutti. Poco badando
all’uso vivo, nelle scuole di lettere insegnavano per tutta Italia
dopo ai latini quei pochi autori toscani che allora fossero conosciuti,
cercando alla meglio di mettere insieme su questi esemplari una sorta
di linguaggio comune che fosse atto alle scritture. Un letterato
molto solenne, Gian Giorgio Trissino da Vicenza, poneva in credito il
linguaggio illustre con la versione da lui fatta del libro _De Vulgari
Eloquio_, e molto poi lo difendeva: Baldassarre Castiglione mantovano,
uomo e scrittore di bella fama, sebbene dichiari la lingua essere una
_consuetudine_, biasima l’andare sulle pedate dei toscani sia vecchi
sia nuovi: sentenziò il Bembo che l’antica lingua stava nel Boccaccio,
di cui gli piacevano le grandi cadenze; tutti i chiarissimi dell’Italia
per ben tre secoli dopo lui accettarono la sentenza. Ma della comune
lingua popolare come in Firenze si parlava e si scriveva, niuno voleva
sapere: negli anni stessi del Bembo, cioè verso il 1530, Marino Sanudo
veneziano scriveva in una lettera stampata:[572] «che Leonardo Aretino
trasse (l’Istoria di Firenze) da un Giovanni Villani, il quale scrisse
in lingua rozza toscana.»
Il Bembo era il solo autore vivente di cui s’innalzasse non contestata
l’autorità: basta ciò solo a dimostrare come si vivesse in fatto di
lettere, quando gli Spagnuoli furono rimasti padroni d’Italia. Al
Machiavelli nella sua patria istessa nuoceva la vita; gli nocque più
tardi, quanto al numero dei lettori, l’essere all’_Indice_: l’Istoria
del Guicciardini fu lasciata stampare, ed anche mutilata, solamente nel
1561, due anni dopo a che l’Italia per grande accordo tra’ potentati
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