Storia della Repubblica di Firenze v. 2/3 - 17
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hanno bastato ad alterare quelle opere, le quali tuttora ci appariscono
come fatte ieri: fu anche eccellente negli ornati con frutta e fiori,
dei quali faceva cornici ai bassirilievi. Per questo modo condusse a
fine grandissimo numero di opere, continuate nella sua famiglia per
oltre un secolo: Andrea ed un altro Luca furono tali artisti che si
confondono facilmente col primo inventore; ma il secondo Luca essendo
morto in Parigi dopo il 1551, lasciò perir seco il bel segreto della
vernice che fu impossibile imitare. Di queste opere, cui rimane il nome
della Famiglia che le faceva, molte ve ne ha sparse per l’Italia, e
ne è piena la Toscana, dove più volte m’è occorso trovarne in luoghi
affatto deserti: fra tutti bellissimi e grandiosi, quelli della chiesa
dell’Alvernia.
Questo fu il tempo nella città di Firenze dei più splendidi edifizi.
Prima d’allora i palagi pubblici e più assai le chiese avevano aggiunto
al fiero stile dei rozzi secoli qual cosa di più italiano, dove le
classiche reminiscenze s’intravedevano, poi fatte palesi nel Campanile
di Giotto: aveva l’Orcagna disegnata ad arco tondo la grande sua
Loggia. Ma nell’aprirsi del quattrocento erano entrati nella giovinezza
tre grandi ingegni, dei quali ci siamo riservati a dire per ultimo:
le forme del bello già educavano anche per mezzo della scrittura
la mente agli artisti, ai quali nel tempo stesso divenivano grande
studio i monumenti dell’antichità, dimenticati per lunghi secoli nella
stessa Roma. Ed era Firenze allora in grande fortuna e splendore,
cresciuta di stato e meglio ordinata che in altri tempi mai, fiorente
di molto diffusa ricchezza per le manifatture di seta e pei lavori
d’oro e d’argento; i maggiori artisti uscivano spesso dalle botteghe
d’orificeria.
Era della fabbrica di Santa Maria del Fiore condotta a termine la
navata, e alzati i quattro grandi pilastri su’ quali doveva posare la
Cupola: questa intendevano fare a somiglianza del Pantheon d’Agrippa;
ma farla girare su base ottagona aveva grandissime difficoltà, e molto
se ne disputava, quando si fece innanzi tale uomo che pensò altro
modo, e compiè un’opera di cui non aveva lasciato esempio l’antichità.
Filippo di Ser Brunellesco [n. 1379], d’illustre casato ma di piccola
fortuna, prima nella bottega d’un orafo imparò il disegno, e lavorando
di quell’arte, presto divenne eccellente in legare pietre fini, e nei
lavori di niello, e figurette d’argento e bassirilievi. Ma il grande
suo ingegno molto inclinato alla speculazione si diede bentosto alle
combinazioni della meccanica, tantochè fece di mano sua buoni orologi,
avanzò la scienza della prospettiva, e la insegnò ad altri, piacendosi
molto dell’immaginare cose ingegnose e difficili; esercitò l’arte
della scultura, facendo in quella opere che sono anche ai dì nostri
molto ammirate. Ma più che ad altro sentiasi nato all’architettura,
e credo pensasse fin dai primi anni alla Cupola del Duomo, perchè nel
1401, venduto un poderetto che aveva, si condusse a Roma, e dimoratovi
lungamente, altro non faceva che esercitarsi dietro agli antichi
edifizi, e cercarne sotterra le rovine, studiando i modi a girare le
vôlte, ed i congegni delle pietre ed ogni parte delle costruzioni.
Alternò fino al 1417 la dimora tra Roma e Firenze, dove interrogato
circa la Cupola, fece prevalere il suo consiglio di cavarla fuori del
tetto, sottoponendole un fregio o tamburo di quindici braccia che
avesse per ognuna delle otto faccie un occhio grande. Già fino dal
1407 si erano cominciate a costruire le tre grandi tribune intorno
al coro, ciascuna con le cinque sue cappelle, e si chiuse l’anno
1420 la terza tribuna. Filippo intanto, che tutti quelli anni avea
studiato segretamente e preparato il suo modello, cominciò a dirne
ed a mostrarne qualcosa agli uficiali preposti all’Opera; i quali per
mezzo de’ mercanti fiorentini che dimoravano in Francia, in Lamagna,
in Inghilterra ed in Ispagna, aveano chiamato a concorrervi i più
sperimentati e valenti ingegni che fossero in quelle regioni: questo
almeno si legge. Nel marzo del 1420 si tenne un Consiglio generale,
dove ciascuno dei maestri, presentato il suo modello, e fattesi le più
strane proposte sul modo di volger la Cupola, il Brunelleschi mostrò
e difese il suo concetto che parve cosa impossibile ad eseguire;
ond’egli irritato e per le bestiali cose che furono dette, s’infervorò
tanto da essere creduto pazzo e dai donzelli sarebbe stato fatto
portare di peso fuori della sala. Documenti certi mostrano poi come
un mese dopo venendosi più seriamente a trattar seco, il Brunelleschi
mettesse in iscritto l’istruzione per eseguire il suo modello, su di
che l’opera gli fu allogata. Voltare la Cupola con nuovo ardimento,
senza armature che la reggessero durante la costruzione; farla salire
a sesto acuto, il che era darle una maggiore e più terribile elevatezza
di sentimento; sovrapporre alla Cupola interna un’altra fuori, in modo
che fra l’una e l’altra si cammini; collegare insieme le due cupole
con morse di pietra, e assicurare tutta la fabbrica facendo girare
le faccie di quella sopra il tamburo con una forte incatenatura di
ventiquattro travi di quercia fasciate di ferro: questo fu il disegno
che il grande architetto potè condurre ad esecuzione, facile a lui
che nella mente aveva da prima ogni cosa preveduto. A’ dì 7 agosto
del 1420 si cominciò a murare, e nell’anno 1434, che fu di sì grande
mutazione nelle cose di Firenze, fu chiusa la Cupola: mirabile opera
sopra ogni altra non solamente dei tempi antichi ma dei moderni, perchè
quella che il Buonarroti fece in Roma, piantata più in alto, non ha
in sè stessa maggiore ampiezza, e meno intende verso il cielo. Anche
il disegno della Lanterna è del Brunelleschi; se non che l’opera andò
in lungo, ed egli intanto dirigeva altri edifizi, tra’ quali le chiese
di Santo Spirito e di San Lorenzo; ed a Luca Pitti fece il disegno del
Palazzo che poi finito ed ampliato assai, divenne reggia ai principi di
Toscana. Moriva Filippo l’anno 1446.
Donato, più spesso appellato Donatello, trovò la scultura rimasta
indietro alle Arti sorelle, e la condusse tanto innanzi da potere
essa prestare ogni cosa che a lei chiedessero il genio e l’anima
dell’artista. Quasi coetaneo al Brunellesco, era egli andato seco in
Roma a fare pratica sulle antiche statue; non però divenne imitatore
degli antichi, seguendo piuttosto la propria sua indole, che nulla
aveva del romano e non abbastanza del greco sentire. Non ebbe chi lo
agguagliasse quanto alla intelligenza del vero, ed alla scienza dei
movimenti, ed al possesso di tutti i mezzi dell’arte e alla maestria
dell’esecuzione; ottimamente riuscì ad esprimere gli affetti comuni,
ma giunse di rado alle profondità del sentimento, e nelle forme non
parve intendere a ideale bellezza: fu tale insomma, che portò l’arte
della scultura fino alla eccellenza, ma egli medesimo non ne toccò il
colmo. Vero è però che il grande artista superò sè stesso nella statua
di San Giorgio, una di quelle che adornano l’imbasamento dell’edifizio
d’Or San Michele; qui pare la bella persona muoversi dentro al marmo,
ed un’espressione dignitosa è nelle fattezze di quel nobile soldato.
In quella faccia del Campanile che sta di contro a San Giovanni, è in
alto una nicchia con entro la statua di un uomo calvo; questa Donatello
solea chiamare il suo Zuccone, mostrando amarla più d’ogni altra cosa
sua, e nel guardarla diceva ad essa motteggiando: parla, che ti venga
la malora. Fu eccellente nei bassorilievi, e osò primo nei moderni
tempi fare una statua equestre in bronzo, che i Veneziani decretarono
al Gattamelata, e sta in Padova sulla Piazza di Santo Antonio. Vissuto
a lungo, è grande il numero dei suoi lavori; ma egli semplice e
modesto, e trascurato del molto danaro che avea guadagnato, non soffrì
mai di abbandonare la sua bottega nè il grembiule di artigiano.
Di rado avviene che ad un artista sia dato raccogliere in una sua
opera quanto egli abbia in sè d’eccellenza ed egli medesimo passarne
il segno. Ma ciò si vidde in Lorenzo Ghiberti, che figlio di un orafo
valente, avendo bentosto superato il padre, si diede a gettare figure
in bronzo e a lavori di tal sorta con molta sua lode: si esercitò
ancora nella pittura che gli fu di grande aiuto (come vedremo), alle
altre sue opere. Era Lorenzo di età giovanissima quando i Consoli dei
Mercanti deliberarono fare al tempio di San Giovanni una Porta in
bronzo a somiglianza di quella che Andrea Pisano aveva fatta cento
anni prima; e, come era buona usanza in Firenze, chiamarono artisti
che facessero a concorrenza ciascuno una storia sul disegno di quelle
d’Andrea. Fra molti anche il Brunelleschi e Donatello presentarono per
saggio la storia loro; ma, essi medesimi consenzienti, fu data l’opera
al Ghiberti, che riescì bellissima; e fu grande progresso nell’arte:
se non che essendosi nello spartimento delle storie voluto seguire il
disegno del vecchio artista, parve nell’insieme essere qualcosa che non
aggiungesse l’eleganza cui gli occhi già s’erano esercitati in Firenze.
Ma nelle figure tutti ravvisarono quanto Lorenzo valesse: talchè non
appena finita la prima, gli diedero a fare la Porta maggiore che sta in
faccia al Duomo. Di questa null’altro è a dire, se non che ogni cosa
è bello di quanta bellezza è capace l’arte; nè mai gli antichi avean
fatta opera somigliante. In essa le dieci grandi storie sono quanto
alle figure ed alle composizioni quadri veri da stare accanto ai più
eccellenti; pare a guardarli, vedervi dentro il colore. La grazia,
la verità e la varietà delle mosse, le invenzioni e la maravigliosa
esecuzione delle cornici di foglie e frutta che girano attorno alla
porta, la perfetta proporzione e l’armonia di tutta l’opera, tali si
mostrano, che il Buonarroti la chiamò Porta degna del Paradiso. Io
non ricordo avervi mai posati su gli occhi, che io non dicessi in me
medesimo: qui è perfezione. Mentre il Ghiberti attendeva quasi per
tutta la vita a queste due opere, altre ne fece pure lodatissime;
l’arca storiata di San Zanobi in Santa Maria del Fiore, e tre delle
grandi statue in bronzo che stanno attorno ad Or San Michele. Era egli
anche stato dato compagno al Brunelleschi nell’opera della Cupola,
ma parve non essere altro che d’impaccio, e dovè ritrarsene. Lasciò
alcuni Commentarii intorno ai suoi studi: mai non aveva abbandonato
l’arte sua prima, e di oreficeria lavorò sempre; il che gli dava grossi
guadagni. Fece a Martino V un bottone da piviale con gioie e figure
d’oro in rilievo; ad Eugenio IV una mitra di trasmodante ricchezza e di
bellissimo artificio. Dovemmo tacere di lui e del grande e vario numero
degli artefici, tante opere insigni di cui si abbellivano i forzieri
dei privati, le case, le ville e le cappelle ornate a quel tempo nel
quale in Firenze parve risedere il fiore del bello. Queste cose erano
state prima che le arti e le lettere sentissero la protezione di Casa
Medici.
LIBRO QUINTO.
CAPITOLO I.
LA REPUBBLICA SOTTO A COSIMO DE’ MEDICI. — ALTRA GUERRA CONTRO LUCCA.
— CONCILIO DI FIRENZE. — NICCOLÒ PICCININO IN TOSCANA. — ACQUISTO DI
BORGO SAN SEPOLCRO E DEL CASENTINO. [AN. 1434-1441.]
La Balìa dalla quale fu richiamato Cosimo de’ Medici continuava
sino alla fine del mese d’ottobre, che fu anche il termine della
Signoria; alla quale succedette per gli ultimi due mesi dell’anno,
e co’ Priori tutti fatti a mano, Giovanni Minerbetti Gonfaloniere. I
confinati dalla Balìa troviamo che giunsero al numero di trentuno: e
quanto importasse a fortificare quello Stato, fu in quei primi giorni
ordinato con le asprezze consuete, ma insieme con manco rispetti a
quelle forme di libertà che prima soleano tenersi solenni: la plebe e
Cosimo s’intendevano, e a questo ed ai suoi premeva che niuno s’alzasse
all’intorno, che la Repubblica non avesse nè capi autorevoli nè forti
e sinceri e veramente liberi magistrati. Agli Otto di guardia avevano
dato balìa di sangue, la quale valeva contro a chi tentasse novità o
che solamente sparlasse; e taluni per discorsi fatti, o vennero uccisi
o andarono in bando.[286] Il quale fu esteso infino a dieci anni per
quei confinati che prima erano a più breve tempo; vietato lo scrivere
ad essi lettere o riceverne; fatte leggi molto strette, con grandissime
difficoltà a che potesse mai vincersi nei Consigli e nei Collegi la
restituzione dei fuorusciti o ribelli, tantochè di trentasei fave ce
ne volevano trentaquattro. Pigliando motivo o pretesto dall’avere gli
sbanditi rotto il confine, molti di loro fatti ribelli erano condannati
nelle persone e nella roba, le terre e le case vendute a vil prezzo
agli amici dello Stato nuovo; e intanto gli avversi che rimanevano in
città, o quelli dei quali non fossero chiari, venivano aggravati co’
balzelli più che non potessero portare; così erano astretti a finire
nella miseria o farsi clienti a quella famiglia che tanti sapeva co’
doni acquistarne, e che piacevasi di cercare ne’ luoghi più bassi
i fondamenti della grandezza sua: Cosimo de’ Medici tirava su molti
delle arti minori a farsi abili a’ maggiori ufizi; e soleva dire, che
due canne di panno rosato bastano a fare un uomo dabbene, gli antichi
avendo egli messi fuori. Le famiglie quasi intere dei Peruzzi, dei
Rondinelli, dei Guasconi, dei Castellani, dei Corsi, e molti dei da
Ricasoli, dei Frescobaldi, dei Bardi, furono rimossi da ogni ufficio,
e messi nel numero dei Grandi o a quello restituiti. Da un’altra
parte, togliere via gli antichi ordini contro ai nobili o si temette
potesse spiacere al popolo degli artefici, o parve migliore consiglio
procedere in questo pure alla spicciolata, e così rompere gli antichi
consorzi e tutti gli ordini di persone. Di quel consiglio si disse
autore Puccio, cui sempre si attribuivano i pensieri più sottili: e a
questo modo i grandi non tutti, ma gradatamente il maggior numero fatti
popolani, divennero abili ad esercitare i magistrati, però con divieto
per dieci anni dalla Signoria. Perdeano il diritto che prima avevano
di sedere un certo numero, comunque piccolo, del loro ordine in molti
uffici e magistrati; ai quali veniano eletti di rado, confusi com’erano
ora nel numero e sgraditi ai popolani: così era aperta ad essi pure
una sola via, servire alla parte che tutto poteva. Dalle arti minori
e dalle congreghe degli artefici minuti infino alle stirpi tenute
maggiori d’autorità o di sangue, i Medici ebbero ogni cosa tramutato,
rimescolato, diviso: poterono bene serbare le forme della Repubblica,
della quale erano i nervi disciolti e le resistenze triturate e fatto
polvere ogni cosa.[287]
Intanto gli esigli continuavano; ogni giorno quasi che rimanea di
quell’anno aveva il suo numero di nuovi sbanditi: i nomi ci restano
di ottanta o circa, la maggior parte dei più chiari e con essi non
pochi oscuri; v’è infino certa Madonna Apollonia pazza: sbanditi
di molte famiglie sinanche i bambini nelle fasce e i nascituri. Ben
altre volte andarono in bando per grandi frazioni, o tutti insieme
come nel settantotto, i primi uomini dello Stato; ma erano balzi
prodotti dall’urto di forze contrarie: qui un freddo proposito
deliberato, costante; e Cosimo a quelli che lo accusavano di guastare
così la città, soleva rispondere: Meglio città guasta che perduta;
malvagia parola, e indice d’animo tirannesco. Non poche famiglie
rimasero trapiantate nelle città del Reame e di Lombardia; molte ne
andarono a fondare case di commercio in sulle rive del Rodano ed a
Lione massimamente, dove ci avverrà di ritrovare per tutto il corso
dell’Istoria nostra una colonia di fuorusciti, nemici costanti della
Casa Medici: non poche di queste famiglie durarono ivi ed in Provenza
fino ai giorni nostri, o vi rimangono tuttavia. Di tante male opere
nessuna però fu iniqua al pari del bando dato a Palla Strozzi, la
cui modestia e civile temperanza parve essere stata cagione che fosse
Cosimo restituito: contro a quel buono e preclaro cittadino uscì la
sentenza ai 10 novembre; e da quel giorno gli onesti scôrsero alla
parte regnatrice mancato il freno anche della vergogna. Il savio Agnolo
Pandolfini che, poco avendo amato gli Albizzi, vagheggiava sempre e
aveva forse anche sperato da Cosimo un qualche ritorno alla civile
egualità, si chiuse in villa dopo all’esiglio dell’amico suo, veduto
non essere altro da fare che il buon massaio. Andò Palla Strozzi a
Padova in bando per dieci anni, quando ne aveva egli sessantadue: gli
fu rinnovato due volte il bando per altri dieci anni; udiva la morte
dei figli suoi, esuli anch’essi in altri luoghi, ed egli sanissimo di
mente e di corpo, cristianamente tranquillo e consolato dall’amicizia
dei dotti uomini e dalla cultura delle greche lettere, moriva compiti
gli anni novantadue, e quando moriva Cosimo dei Medici; del quale
non credo sia questa contata tra le opere fatte a incremento degli
studi e a maggior gloria della città sua.[288] Quel grande artefice di
questi fatti, Averardo dei Medici, era morto in Firenze a’ 5 dicembre,
avendosi poco goduto il ritorno e le sperate grandezze e le vendette
spesso da lui (come tenevasi) consigliate.
In fine a’ _Ricordi_ lasciati da lui si vanta Cosimo dell’avere quanto
a sè posto freno alle vendette, e che nei due mesi del gonfalonierato
ch’egli assunse il primo gennaio 1435 non fosse alcuno tolto di vita.
Bene crediamo noi le passioni dei suoi partigiani più delle sue fossero
astiose e cupide; ma è poi vero che tirarsi addosso le parti più
odiose è sorta d’ossequio dai clienti solita usare al padrone, ad essi
giovando mantenergli quella forza la quale proviene dalla opinione
della bontà. Contuttociò noi troviamo in quel tempo altri essere
sbanditi o fatti ribelli, e v’ebbero pure condanne a morte, sebbene
alcuni per intercessione di Cosimo avessero la vita salva.[289] Ma
sei ribelli, i quali avendo rotto il confine si ritrovarono insieme
a Venezia, richiesti secondo i patti della Lega per mezzo di un
Lodovico da Verrazzano mandato a tal fine a quella Signoria, furono
resi, e in Firenze ebbero tagliata la testa.[290] Dipoi un Guadagni,
figlio a quel Bernardo che fu Gonfaloniere nel 33, da Luigi di Piero
Guicciardini consegnato a Orlando dei Medici tesoriere della Marca,
fu privato anch’egli di vita: Bernardo medesimo, dalla Capitaneria
di Pisa chiamato in Firenze per esservi giudicato, era morto sulla
via per caso oscuro e subitaneo.[291] Ai cittadini era imposto sotto
gravi pene consegnare le armi che avevano in casa; il quale ordine da
un Niccolò Bordoni essendo pigliato in beffa,[292] e di lui sapendosi
avere con altri tenuto discorsi contro allo Stato, vennero tutti presi;
ed avrebbero perduto la vita, se non che ad istanza di Papa Eugenio il
Potestà contro ad essi pronunziava minore condanna; ma questa poi venne
per un secondo giudizio iniquamente aggravata, e lo stesso Potestà fu
per Consiglio di popolo casso d’ufficio: dal che si vidde in Firenze
cominciare la tirannide, poichè desideravano fare sangue e forzare i
rettori.[293] Vennero scoperte pure altre congiure, delle quali una era
condotta da certo Frate, cui era stato promesso e tolto il vescovado
d’Arezzo: tenevano in questa la mano il duca Filippo Maria Visconti e
Niccolò Piccinino, che per motivo di salute dimorava allora ai Bagni
di Petriolo nel Senese. Dal quale fu detto pure altra congiura essere
ordita contro al Papa, che essi voleano pigliare e quindi trafugare in
quel di Lucca, di dove andasse nelle mani del Visconti. Un Vescovo di
Novara, che stava in Firenze per conto del Duca, dopo avere intinto
in quella congiura, pentito, ne fece la confessione ad Eugenio; e
un Riccio, principale autore, fu appeso alle forche, ed un Bastiano
Capponi, che n’era partecipe, decapitato sulla porta del Bargello.
Aveva la Repubblica brighe frequenti dai Ricasoli che, stando in mezzo
co’ loro castelli tra essa e i Senesi, si difendevano volteggiando in
qua e in là con le accomandigie. Due anni prima un Egidio da Ricasoli
avea voluto dare ai Senesi il castello della Leccia o Monteluco nel
Chianti.[294] Ora Galeotto, signore di Brolio, lasciava occupare
quella sede principale di loro famiglia da messer Antonio Petrucci
senese, nemico perpetuo dei Fiorentini; i quali, mandatovi gente
con artiglierie, ebbero a patti Brolio e lo tennero in nome della
Repubblica.[295]
Continuava col Papa e i Veneziani la lega, sebbene le forze di questa
fossero abbattute, siccome vedemmo, dall’armi del Duca presso Imola,
avanti la ritornata in Firenze di Cosimo de’ Medici. Dopo la quale fu
confermata per altri dieci anni la lega in Venezia, essendo ivi andato
a questo effetto ambasciatore Neri di Gino e il Papa tuttora in Firenze
dimorando, Francesco Sforza, che fu eletto Capitano di tutta la Lega,
si mosse a purgare le vicinanze di Roma dalle armi del Fortebraccio,
le quali dicemmo averle occupate. Fu questi pertanto necessitato
ritrarsi; al che i Romani cercarono accordo col Papa, e consentirono
di ricevere un suo Commissario; mentre il Fortebraccio, rinchiuso in
Assisi con tutte le forze sue, era ivi oppugnato da Francesco Sforza,
facendosi guerra dalle due parti molto grossa e lunga e dubbiosa:
tantochè il Duca di Milano, temendo per sè la vittoria dei collegati,
mandava ordine a Niccolò Piccinino entrasse in Toscana a divertirne
le forze. Contro del quale mosse pertanto il Conte Francesco, avendo
lasciato alla cura d’un fratello suo l’assedio: incontro al quale
usciva impetuoso il Fortebraccio; e vintolo e preso, andava sicuro
all’acquisto delle terre della Marca. Ma il Conte Francesco minacciato
in quel possesso, e non sofferendo rimanere senza signoria che fosse
sua propria, tornò contro al Fortebraccio; il quale fu vinto e preso
e ferito, e della ferita si morì. Dopo di che il Papa riavute le
terre del Patrimonio e di Romagna, e il Conte Francesco la signoria
della Marca, si fece la pace tra il Papa e il Duca e i Veneziani e i
Fiorentini, e lega con patto dovesse ciascuno andare eziandio contro
a chi dei quattro avesse rotta la confederazione.[296] Col ritrarsi di
Romagna le armi del Duca, essendo fuggito Batista da Canneto, tornava
in Bologna la parte dei Bentivogli.
Era morta la reina Giovanna di Napoli, avendo lasciato erede nel regno
Renato d’Angiò della famiglia di Provenza, e privato della successione
il re Alfonso Aragonese; il quale essendo allora in Sicilia, e chiamato
da taluni baroni del Regno, nonostante che il maggior numero tenesse
le parti angiovine, venne accompagnato da molti principi; e fermata
la sede in Capua, mandò l’armata ad assaltare Gaeta che si teneva per
i Napoletani. Chiederono questi aiuto a Filippo; ed egli persuase
facilmente ai Genovesi, ch’avea in ubbidienza, armare il possente
naviglio loro incontro a quello del re Alfonso; il quale raccolto molto
numero di navi, ed egli medesimo salito sopra una di queste, cercava
animosamente la battaglia. La quale avvenne nelle acque di Ponza con
isconfitta del re Alfonso, che vi rimase prigione col Re di Navarra e
grande numero di principi e signori,[297] egli avendo ceduto la spada
a Giacomo Giustiniani capitano genovese. Per questa vittoria pareva
Filippo fatto signore di tutta Italia; ma tosto gli effetti nacquero
diversi dalla opinione; imperocchè il Duca avendo fatto venire,
con dispiacere dei Genovesi, Alfonso a Milano, questi troppo grande
prigioniero per un tale uomo qual era Filippo, fattosi ad un tratto
suo consigliero, gli mostrò avere egli male combattuta Casa d’Aragona
per condurre Napoli in potestà d’uno di quei principi francesi i quali
ambivano già fino d’allora il ducato di Milano. Poterono tanto siffatti
argomenti sull’animo di Filippo, ch’egli rinviava a Genova Alfonso con
grande onore e tutto suo amico, comandando ai Genovesi restituirgli
le navi perchè sopra quelle tornasse nel Regno. Voleva Filippo così
anche abbassare la città suddita, che parevagli essersi fatta troppo
grande per quella vittoria. Coteste sono arti lodate di regno; ed a lui
fruttarono che i Genovesi per subita ribellione, ucciso il Governatore
che stava pel Duca e cacciate in pochi giorni le armi di questo e
presi i castelli, scuotessero il giogo che odiavano, essendosi dipoi
stabilmente rivendicati in libertà.[298]
Per questi fatti mutate essendo le condizioni d’Italia, rimase di
subito scompaginata la lega, la quale di nome era conchiusa tra il
Papa e il Duca e i Veneziani e i Fiorentini. Questi mandarono soccorso
a Genova di vettovaglie e di fanti armati sotto Baldaccio d’Anghiari
alla difesa d’Albenga, sebbene ciò fosse copertamente,[299] perchè
la lega non volea dirsi per anche rotta, ciascuno essendo tenuto in
rispetto dalla incertezza degli eventi, e il Papa adoprandosi con
grande studio perchè alle armi non si venisse. Aveva egli nel mese
d’aprile 1436 lasciato Firenze, dopo esservi dimorato quasi due anni,
ed alla Repubblica usato ogni sorta di benevole dimostrazioni. Poco
innanzi della partenza sua Eugenio, il giorno venticinquesimo di marzo,
ch’è la festa dell’Annunziazione ed era in Firenze principio dell’anno,
consacrò il tempio di Santa Maria del Fiore, essendo già l’occhio
della grande Cupola stato chiuso da Filippo di ser Brunellesco due anni
prima, quando era al termine lo Stato degli Albizzi.[300] Fu celebrata
quella consacrazione con molto grandissima solennità, essendosi dalle
scalee di Santa Maria Novella, dove il Papa dimorava, infino a quelle
del Duomo alzato un palco ricco di tappeti e d’ogni magnificenza,
sul quale andassero fuori della calca egli e tutto l’accompagnamento
suo, ch’erano molti Cardinali e Vescovi e Principi ed Ambasciatori e
tutta la Signoria, tenendo la coda del papale ammanto il Gonfaloniere
Davanzati, che fu da Eugenio per mano di Gismondo Malatesta fatto
insignire della cavalleria. Il Papa dipoi recossi a Bologna,
venuta di fresco in potestà sua, dopo esservi stato ucciso Antonio
Bentivoglio.[301]
Filippo Maria, tentata invano la recuperazione di Genova, fece che
tutte le forze sue con Niccolò Piccinino venissero innanzi per la
riviera di Levante verso allo Stato dei Fiorentini. Aveva mandato prima
sotto Pietrasanta due suoi minori capitani, Cristoforo da Lavello e
Luigi dal Verme, che si ritrassero per comandamento dello stesso Duca.
Ma il Piccinino occupò Sarzana de’ Genovesi ed alcune terre che la
Repubblica di Firenze avea sulla Magra; donde poi venne a fermarsi in
Lucca, mostrando intenzione d’andare nel Regno. Nè per essergli negato
il passo, rompeva di subito il Piccinino la guerra; nè i Fiorentini,
che inviarono a Pisa Neri Capponi con quante forze aveano in pronto,
vollero altro che porsi in guardia contro ogni assalto da quella
parte. Era il conte Francesco Sforza allora ai servigi del Papa, ed a
Cosimo già molto amico: lo aveva questi con grande onore accolto in
Firenze, dove ebbero giostre nella piazza di Santa Croce, balli di
donne in quella dei Signori. Dipoi, non senza difficoltà e patti di
non andare in Lombardia nè muovere guerra contro al Duca di Milano,
concesse Eugenio venisse il Conte ai servigi dei Fiorentini. Poneva
il campo questi a Santa Gonda con cinque mila cavalli e due mila
cinquecento fanti: il Piccinino all’incontro aveva sei mila cavalli
con minore numero di fanti. Non fecero mossa i due famosi Capitani,
l’un l’altro osservando; e anche tenuti in aspettazione dai negoziati
che non cessavano tra il Papa e il Duca: infinchè a mezzo il verno,
ad un tratto, il Piccinino, avuta speranza di occupare Vico Pisano,
muoveva per là; di dove respinto, correa la campagna già come nemico.
Dipoi assaliti altri minori castelli, andò poderoso in Garfagnana,
ponendo il campo sotto alle mura di Barga. Per il che essendo ogni
rispetto cessato, la Repubblica ordinava al Conte ed a Neri soccorrere
Barga. Andarono, e diedero grave percossa al Piccinino, costretto
ritrarsi quasi che rotto in Lunigiana; d’onde egli dovette quindi
passare in Lombardia, perchè i Veneziani, veduto la guerra dal Duca
essere cominciata, mandato aveano in Ghiaradadda Giovanni Francesco
da Gonzaga loro capitano, che molto stringeva le terre del Duca. I
Fiorentini poichè viddero questo impegnato in Lombardia, e Lucca, che
s’era per lui dichiarata, sprovvista essere d’altro aiuto, tornarono
al solito prurito d’avere quella città: del che Cosimo de’ Medici
ardeva di voglia, perchè se il governo degli Ottimati acquistò Pisa,
come fatte ieri: fu anche eccellente negli ornati con frutta e fiori,
dei quali faceva cornici ai bassirilievi. Per questo modo condusse a
fine grandissimo numero di opere, continuate nella sua famiglia per
oltre un secolo: Andrea ed un altro Luca furono tali artisti che si
confondono facilmente col primo inventore; ma il secondo Luca essendo
morto in Parigi dopo il 1551, lasciò perir seco il bel segreto della
vernice che fu impossibile imitare. Di queste opere, cui rimane il nome
della Famiglia che le faceva, molte ve ne ha sparse per l’Italia, e
ne è piena la Toscana, dove più volte m’è occorso trovarne in luoghi
affatto deserti: fra tutti bellissimi e grandiosi, quelli della chiesa
dell’Alvernia.
Questo fu il tempo nella città di Firenze dei più splendidi edifizi.
Prima d’allora i palagi pubblici e più assai le chiese avevano aggiunto
al fiero stile dei rozzi secoli qual cosa di più italiano, dove le
classiche reminiscenze s’intravedevano, poi fatte palesi nel Campanile
di Giotto: aveva l’Orcagna disegnata ad arco tondo la grande sua
Loggia. Ma nell’aprirsi del quattrocento erano entrati nella giovinezza
tre grandi ingegni, dei quali ci siamo riservati a dire per ultimo:
le forme del bello già educavano anche per mezzo della scrittura
la mente agli artisti, ai quali nel tempo stesso divenivano grande
studio i monumenti dell’antichità, dimenticati per lunghi secoli nella
stessa Roma. Ed era Firenze allora in grande fortuna e splendore,
cresciuta di stato e meglio ordinata che in altri tempi mai, fiorente
di molto diffusa ricchezza per le manifatture di seta e pei lavori
d’oro e d’argento; i maggiori artisti uscivano spesso dalle botteghe
d’orificeria.
Era della fabbrica di Santa Maria del Fiore condotta a termine la
navata, e alzati i quattro grandi pilastri su’ quali doveva posare la
Cupola: questa intendevano fare a somiglianza del Pantheon d’Agrippa;
ma farla girare su base ottagona aveva grandissime difficoltà, e molto
se ne disputava, quando si fece innanzi tale uomo che pensò altro
modo, e compiè un’opera di cui non aveva lasciato esempio l’antichità.
Filippo di Ser Brunellesco [n. 1379], d’illustre casato ma di piccola
fortuna, prima nella bottega d’un orafo imparò il disegno, e lavorando
di quell’arte, presto divenne eccellente in legare pietre fini, e nei
lavori di niello, e figurette d’argento e bassirilievi. Ma il grande
suo ingegno molto inclinato alla speculazione si diede bentosto alle
combinazioni della meccanica, tantochè fece di mano sua buoni orologi,
avanzò la scienza della prospettiva, e la insegnò ad altri, piacendosi
molto dell’immaginare cose ingegnose e difficili; esercitò l’arte
della scultura, facendo in quella opere che sono anche ai dì nostri
molto ammirate. Ma più che ad altro sentiasi nato all’architettura,
e credo pensasse fin dai primi anni alla Cupola del Duomo, perchè nel
1401, venduto un poderetto che aveva, si condusse a Roma, e dimoratovi
lungamente, altro non faceva che esercitarsi dietro agli antichi
edifizi, e cercarne sotterra le rovine, studiando i modi a girare le
vôlte, ed i congegni delle pietre ed ogni parte delle costruzioni.
Alternò fino al 1417 la dimora tra Roma e Firenze, dove interrogato
circa la Cupola, fece prevalere il suo consiglio di cavarla fuori del
tetto, sottoponendole un fregio o tamburo di quindici braccia che
avesse per ognuna delle otto faccie un occhio grande. Già fino dal
1407 si erano cominciate a costruire le tre grandi tribune intorno
al coro, ciascuna con le cinque sue cappelle, e si chiuse l’anno
1420 la terza tribuna. Filippo intanto, che tutti quelli anni avea
studiato segretamente e preparato il suo modello, cominciò a dirne
ed a mostrarne qualcosa agli uficiali preposti all’Opera; i quali per
mezzo de’ mercanti fiorentini che dimoravano in Francia, in Lamagna,
in Inghilterra ed in Ispagna, aveano chiamato a concorrervi i più
sperimentati e valenti ingegni che fossero in quelle regioni: questo
almeno si legge. Nel marzo del 1420 si tenne un Consiglio generale,
dove ciascuno dei maestri, presentato il suo modello, e fattesi le più
strane proposte sul modo di volger la Cupola, il Brunelleschi mostrò
e difese il suo concetto che parve cosa impossibile ad eseguire;
ond’egli irritato e per le bestiali cose che furono dette, s’infervorò
tanto da essere creduto pazzo e dai donzelli sarebbe stato fatto
portare di peso fuori della sala. Documenti certi mostrano poi come
un mese dopo venendosi più seriamente a trattar seco, il Brunelleschi
mettesse in iscritto l’istruzione per eseguire il suo modello, su di
che l’opera gli fu allogata. Voltare la Cupola con nuovo ardimento,
senza armature che la reggessero durante la costruzione; farla salire
a sesto acuto, il che era darle una maggiore e più terribile elevatezza
di sentimento; sovrapporre alla Cupola interna un’altra fuori, in modo
che fra l’una e l’altra si cammini; collegare insieme le due cupole
con morse di pietra, e assicurare tutta la fabbrica facendo girare
le faccie di quella sopra il tamburo con una forte incatenatura di
ventiquattro travi di quercia fasciate di ferro: questo fu il disegno
che il grande architetto potè condurre ad esecuzione, facile a lui
che nella mente aveva da prima ogni cosa preveduto. A’ dì 7 agosto
del 1420 si cominciò a murare, e nell’anno 1434, che fu di sì grande
mutazione nelle cose di Firenze, fu chiusa la Cupola: mirabile opera
sopra ogni altra non solamente dei tempi antichi ma dei moderni, perchè
quella che il Buonarroti fece in Roma, piantata più in alto, non ha
in sè stessa maggiore ampiezza, e meno intende verso il cielo. Anche
il disegno della Lanterna è del Brunelleschi; se non che l’opera andò
in lungo, ed egli intanto dirigeva altri edifizi, tra’ quali le chiese
di Santo Spirito e di San Lorenzo; ed a Luca Pitti fece il disegno del
Palazzo che poi finito ed ampliato assai, divenne reggia ai principi di
Toscana. Moriva Filippo l’anno 1446.
Donato, più spesso appellato Donatello, trovò la scultura rimasta
indietro alle Arti sorelle, e la condusse tanto innanzi da potere
essa prestare ogni cosa che a lei chiedessero il genio e l’anima
dell’artista. Quasi coetaneo al Brunellesco, era egli andato seco in
Roma a fare pratica sulle antiche statue; non però divenne imitatore
degli antichi, seguendo piuttosto la propria sua indole, che nulla
aveva del romano e non abbastanza del greco sentire. Non ebbe chi lo
agguagliasse quanto alla intelligenza del vero, ed alla scienza dei
movimenti, ed al possesso di tutti i mezzi dell’arte e alla maestria
dell’esecuzione; ottimamente riuscì ad esprimere gli affetti comuni,
ma giunse di rado alle profondità del sentimento, e nelle forme non
parve intendere a ideale bellezza: fu tale insomma, che portò l’arte
della scultura fino alla eccellenza, ma egli medesimo non ne toccò il
colmo. Vero è però che il grande artista superò sè stesso nella statua
di San Giorgio, una di quelle che adornano l’imbasamento dell’edifizio
d’Or San Michele; qui pare la bella persona muoversi dentro al marmo,
ed un’espressione dignitosa è nelle fattezze di quel nobile soldato.
In quella faccia del Campanile che sta di contro a San Giovanni, è in
alto una nicchia con entro la statua di un uomo calvo; questa Donatello
solea chiamare il suo Zuccone, mostrando amarla più d’ogni altra cosa
sua, e nel guardarla diceva ad essa motteggiando: parla, che ti venga
la malora. Fu eccellente nei bassorilievi, e osò primo nei moderni
tempi fare una statua equestre in bronzo, che i Veneziani decretarono
al Gattamelata, e sta in Padova sulla Piazza di Santo Antonio. Vissuto
a lungo, è grande il numero dei suoi lavori; ma egli semplice e
modesto, e trascurato del molto danaro che avea guadagnato, non soffrì
mai di abbandonare la sua bottega nè il grembiule di artigiano.
Di rado avviene che ad un artista sia dato raccogliere in una sua
opera quanto egli abbia in sè d’eccellenza ed egli medesimo passarne
il segno. Ma ciò si vidde in Lorenzo Ghiberti, che figlio di un orafo
valente, avendo bentosto superato il padre, si diede a gettare figure
in bronzo e a lavori di tal sorta con molta sua lode: si esercitò
ancora nella pittura che gli fu di grande aiuto (come vedremo), alle
altre sue opere. Era Lorenzo di età giovanissima quando i Consoli dei
Mercanti deliberarono fare al tempio di San Giovanni una Porta in
bronzo a somiglianza di quella che Andrea Pisano aveva fatta cento
anni prima; e, come era buona usanza in Firenze, chiamarono artisti
che facessero a concorrenza ciascuno una storia sul disegno di quelle
d’Andrea. Fra molti anche il Brunelleschi e Donatello presentarono per
saggio la storia loro; ma, essi medesimi consenzienti, fu data l’opera
al Ghiberti, che riescì bellissima; e fu grande progresso nell’arte:
se non che essendosi nello spartimento delle storie voluto seguire il
disegno del vecchio artista, parve nell’insieme essere qualcosa che non
aggiungesse l’eleganza cui gli occhi già s’erano esercitati in Firenze.
Ma nelle figure tutti ravvisarono quanto Lorenzo valesse: talchè non
appena finita la prima, gli diedero a fare la Porta maggiore che sta in
faccia al Duomo. Di questa null’altro è a dire, se non che ogni cosa
è bello di quanta bellezza è capace l’arte; nè mai gli antichi avean
fatta opera somigliante. In essa le dieci grandi storie sono quanto
alle figure ed alle composizioni quadri veri da stare accanto ai più
eccellenti; pare a guardarli, vedervi dentro il colore. La grazia,
la verità e la varietà delle mosse, le invenzioni e la maravigliosa
esecuzione delle cornici di foglie e frutta che girano attorno alla
porta, la perfetta proporzione e l’armonia di tutta l’opera, tali si
mostrano, che il Buonarroti la chiamò Porta degna del Paradiso. Io
non ricordo avervi mai posati su gli occhi, che io non dicessi in me
medesimo: qui è perfezione. Mentre il Ghiberti attendeva quasi per
tutta la vita a queste due opere, altre ne fece pure lodatissime;
l’arca storiata di San Zanobi in Santa Maria del Fiore, e tre delle
grandi statue in bronzo che stanno attorno ad Or San Michele. Era egli
anche stato dato compagno al Brunelleschi nell’opera della Cupola,
ma parve non essere altro che d’impaccio, e dovè ritrarsene. Lasciò
alcuni Commentarii intorno ai suoi studi: mai non aveva abbandonato
l’arte sua prima, e di oreficeria lavorò sempre; il che gli dava grossi
guadagni. Fece a Martino V un bottone da piviale con gioie e figure
d’oro in rilievo; ad Eugenio IV una mitra di trasmodante ricchezza e di
bellissimo artificio. Dovemmo tacere di lui e del grande e vario numero
degli artefici, tante opere insigni di cui si abbellivano i forzieri
dei privati, le case, le ville e le cappelle ornate a quel tempo nel
quale in Firenze parve risedere il fiore del bello. Queste cose erano
state prima che le arti e le lettere sentissero la protezione di Casa
Medici.
LIBRO QUINTO.
CAPITOLO I.
LA REPUBBLICA SOTTO A COSIMO DE’ MEDICI. — ALTRA GUERRA CONTRO LUCCA.
— CONCILIO DI FIRENZE. — NICCOLÒ PICCININO IN TOSCANA. — ACQUISTO DI
BORGO SAN SEPOLCRO E DEL CASENTINO. [AN. 1434-1441.]
La Balìa dalla quale fu richiamato Cosimo de’ Medici continuava
sino alla fine del mese d’ottobre, che fu anche il termine della
Signoria; alla quale succedette per gli ultimi due mesi dell’anno,
e co’ Priori tutti fatti a mano, Giovanni Minerbetti Gonfaloniere. I
confinati dalla Balìa troviamo che giunsero al numero di trentuno: e
quanto importasse a fortificare quello Stato, fu in quei primi giorni
ordinato con le asprezze consuete, ma insieme con manco rispetti a
quelle forme di libertà che prima soleano tenersi solenni: la plebe e
Cosimo s’intendevano, e a questo ed ai suoi premeva che niuno s’alzasse
all’intorno, che la Repubblica non avesse nè capi autorevoli nè forti
e sinceri e veramente liberi magistrati. Agli Otto di guardia avevano
dato balìa di sangue, la quale valeva contro a chi tentasse novità o
che solamente sparlasse; e taluni per discorsi fatti, o vennero uccisi
o andarono in bando.[286] Il quale fu esteso infino a dieci anni per
quei confinati che prima erano a più breve tempo; vietato lo scrivere
ad essi lettere o riceverne; fatte leggi molto strette, con grandissime
difficoltà a che potesse mai vincersi nei Consigli e nei Collegi la
restituzione dei fuorusciti o ribelli, tantochè di trentasei fave ce
ne volevano trentaquattro. Pigliando motivo o pretesto dall’avere gli
sbanditi rotto il confine, molti di loro fatti ribelli erano condannati
nelle persone e nella roba, le terre e le case vendute a vil prezzo
agli amici dello Stato nuovo; e intanto gli avversi che rimanevano in
città, o quelli dei quali non fossero chiari, venivano aggravati co’
balzelli più che non potessero portare; così erano astretti a finire
nella miseria o farsi clienti a quella famiglia che tanti sapeva co’
doni acquistarne, e che piacevasi di cercare ne’ luoghi più bassi
i fondamenti della grandezza sua: Cosimo de’ Medici tirava su molti
delle arti minori a farsi abili a’ maggiori ufizi; e soleva dire, che
due canne di panno rosato bastano a fare un uomo dabbene, gli antichi
avendo egli messi fuori. Le famiglie quasi intere dei Peruzzi, dei
Rondinelli, dei Guasconi, dei Castellani, dei Corsi, e molti dei da
Ricasoli, dei Frescobaldi, dei Bardi, furono rimossi da ogni ufficio,
e messi nel numero dei Grandi o a quello restituiti. Da un’altra
parte, togliere via gli antichi ordini contro ai nobili o si temette
potesse spiacere al popolo degli artefici, o parve migliore consiglio
procedere in questo pure alla spicciolata, e così rompere gli antichi
consorzi e tutti gli ordini di persone. Di quel consiglio si disse
autore Puccio, cui sempre si attribuivano i pensieri più sottili: e a
questo modo i grandi non tutti, ma gradatamente il maggior numero fatti
popolani, divennero abili ad esercitare i magistrati, però con divieto
per dieci anni dalla Signoria. Perdeano il diritto che prima avevano
di sedere un certo numero, comunque piccolo, del loro ordine in molti
uffici e magistrati; ai quali veniano eletti di rado, confusi com’erano
ora nel numero e sgraditi ai popolani: così era aperta ad essi pure
una sola via, servire alla parte che tutto poteva. Dalle arti minori
e dalle congreghe degli artefici minuti infino alle stirpi tenute
maggiori d’autorità o di sangue, i Medici ebbero ogni cosa tramutato,
rimescolato, diviso: poterono bene serbare le forme della Repubblica,
della quale erano i nervi disciolti e le resistenze triturate e fatto
polvere ogni cosa.[287]
Intanto gli esigli continuavano; ogni giorno quasi che rimanea di
quell’anno aveva il suo numero di nuovi sbanditi: i nomi ci restano
di ottanta o circa, la maggior parte dei più chiari e con essi non
pochi oscuri; v’è infino certa Madonna Apollonia pazza: sbanditi
di molte famiglie sinanche i bambini nelle fasce e i nascituri. Ben
altre volte andarono in bando per grandi frazioni, o tutti insieme
come nel settantotto, i primi uomini dello Stato; ma erano balzi
prodotti dall’urto di forze contrarie: qui un freddo proposito
deliberato, costante; e Cosimo a quelli che lo accusavano di guastare
così la città, soleva rispondere: Meglio città guasta che perduta;
malvagia parola, e indice d’animo tirannesco. Non poche famiglie
rimasero trapiantate nelle città del Reame e di Lombardia; molte ne
andarono a fondare case di commercio in sulle rive del Rodano ed a
Lione massimamente, dove ci avverrà di ritrovare per tutto il corso
dell’Istoria nostra una colonia di fuorusciti, nemici costanti della
Casa Medici: non poche di queste famiglie durarono ivi ed in Provenza
fino ai giorni nostri, o vi rimangono tuttavia. Di tante male opere
nessuna però fu iniqua al pari del bando dato a Palla Strozzi, la
cui modestia e civile temperanza parve essere stata cagione che fosse
Cosimo restituito: contro a quel buono e preclaro cittadino uscì la
sentenza ai 10 novembre; e da quel giorno gli onesti scôrsero alla
parte regnatrice mancato il freno anche della vergogna. Il savio Agnolo
Pandolfini che, poco avendo amato gli Albizzi, vagheggiava sempre e
aveva forse anche sperato da Cosimo un qualche ritorno alla civile
egualità, si chiuse in villa dopo all’esiglio dell’amico suo, veduto
non essere altro da fare che il buon massaio. Andò Palla Strozzi a
Padova in bando per dieci anni, quando ne aveva egli sessantadue: gli
fu rinnovato due volte il bando per altri dieci anni; udiva la morte
dei figli suoi, esuli anch’essi in altri luoghi, ed egli sanissimo di
mente e di corpo, cristianamente tranquillo e consolato dall’amicizia
dei dotti uomini e dalla cultura delle greche lettere, moriva compiti
gli anni novantadue, e quando moriva Cosimo dei Medici; del quale
non credo sia questa contata tra le opere fatte a incremento degli
studi e a maggior gloria della città sua.[288] Quel grande artefice di
questi fatti, Averardo dei Medici, era morto in Firenze a’ 5 dicembre,
avendosi poco goduto il ritorno e le sperate grandezze e le vendette
spesso da lui (come tenevasi) consigliate.
In fine a’ _Ricordi_ lasciati da lui si vanta Cosimo dell’avere quanto
a sè posto freno alle vendette, e che nei due mesi del gonfalonierato
ch’egli assunse il primo gennaio 1435 non fosse alcuno tolto di vita.
Bene crediamo noi le passioni dei suoi partigiani più delle sue fossero
astiose e cupide; ma è poi vero che tirarsi addosso le parti più
odiose è sorta d’ossequio dai clienti solita usare al padrone, ad essi
giovando mantenergli quella forza la quale proviene dalla opinione
della bontà. Contuttociò noi troviamo in quel tempo altri essere
sbanditi o fatti ribelli, e v’ebbero pure condanne a morte, sebbene
alcuni per intercessione di Cosimo avessero la vita salva.[289] Ma
sei ribelli, i quali avendo rotto il confine si ritrovarono insieme
a Venezia, richiesti secondo i patti della Lega per mezzo di un
Lodovico da Verrazzano mandato a tal fine a quella Signoria, furono
resi, e in Firenze ebbero tagliata la testa.[290] Dipoi un Guadagni,
figlio a quel Bernardo che fu Gonfaloniere nel 33, da Luigi di Piero
Guicciardini consegnato a Orlando dei Medici tesoriere della Marca,
fu privato anch’egli di vita: Bernardo medesimo, dalla Capitaneria
di Pisa chiamato in Firenze per esservi giudicato, era morto sulla
via per caso oscuro e subitaneo.[291] Ai cittadini era imposto sotto
gravi pene consegnare le armi che avevano in casa; il quale ordine da
un Niccolò Bordoni essendo pigliato in beffa,[292] e di lui sapendosi
avere con altri tenuto discorsi contro allo Stato, vennero tutti presi;
ed avrebbero perduto la vita, se non che ad istanza di Papa Eugenio il
Potestà contro ad essi pronunziava minore condanna; ma questa poi venne
per un secondo giudizio iniquamente aggravata, e lo stesso Potestà fu
per Consiglio di popolo casso d’ufficio: dal che si vidde in Firenze
cominciare la tirannide, poichè desideravano fare sangue e forzare i
rettori.[293] Vennero scoperte pure altre congiure, delle quali una era
condotta da certo Frate, cui era stato promesso e tolto il vescovado
d’Arezzo: tenevano in questa la mano il duca Filippo Maria Visconti e
Niccolò Piccinino, che per motivo di salute dimorava allora ai Bagni
di Petriolo nel Senese. Dal quale fu detto pure altra congiura essere
ordita contro al Papa, che essi voleano pigliare e quindi trafugare in
quel di Lucca, di dove andasse nelle mani del Visconti. Un Vescovo di
Novara, che stava in Firenze per conto del Duca, dopo avere intinto
in quella congiura, pentito, ne fece la confessione ad Eugenio; e
un Riccio, principale autore, fu appeso alle forche, ed un Bastiano
Capponi, che n’era partecipe, decapitato sulla porta del Bargello.
Aveva la Repubblica brighe frequenti dai Ricasoli che, stando in mezzo
co’ loro castelli tra essa e i Senesi, si difendevano volteggiando in
qua e in là con le accomandigie. Due anni prima un Egidio da Ricasoli
avea voluto dare ai Senesi il castello della Leccia o Monteluco nel
Chianti.[294] Ora Galeotto, signore di Brolio, lasciava occupare
quella sede principale di loro famiglia da messer Antonio Petrucci
senese, nemico perpetuo dei Fiorentini; i quali, mandatovi gente
con artiglierie, ebbero a patti Brolio e lo tennero in nome della
Repubblica.[295]
Continuava col Papa e i Veneziani la lega, sebbene le forze di questa
fossero abbattute, siccome vedemmo, dall’armi del Duca presso Imola,
avanti la ritornata in Firenze di Cosimo de’ Medici. Dopo la quale fu
confermata per altri dieci anni la lega in Venezia, essendo ivi andato
a questo effetto ambasciatore Neri di Gino e il Papa tuttora in Firenze
dimorando, Francesco Sforza, che fu eletto Capitano di tutta la Lega,
si mosse a purgare le vicinanze di Roma dalle armi del Fortebraccio,
le quali dicemmo averle occupate. Fu questi pertanto necessitato
ritrarsi; al che i Romani cercarono accordo col Papa, e consentirono
di ricevere un suo Commissario; mentre il Fortebraccio, rinchiuso in
Assisi con tutte le forze sue, era ivi oppugnato da Francesco Sforza,
facendosi guerra dalle due parti molto grossa e lunga e dubbiosa:
tantochè il Duca di Milano, temendo per sè la vittoria dei collegati,
mandava ordine a Niccolò Piccinino entrasse in Toscana a divertirne
le forze. Contro del quale mosse pertanto il Conte Francesco, avendo
lasciato alla cura d’un fratello suo l’assedio: incontro al quale
usciva impetuoso il Fortebraccio; e vintolo e preso, andava sicuro
all’acquisto delle terre della Marca. Ma il Conte Francesco minacciato
in quel possesso, e non sofferendo rimanere senza signoria che fosse
sua propria, tornò contro al Fortebraccio; il quale fu vinto e preso
e ferito, e della ferita si morì. Dopo di che il Papa riavute le
terre del Patrimonio e di Romagna, e il Conte Francesco la signoria
della Marca, si fece la pace tra il Papa e il Duca e i Veneziani e i
Fiorentini, e lega con patto dovesse ciascuno andare eziandio contro
a chi dei quattro avesse rotta la confederazione.[296] Col ritrarsi di
Romagna le armi del Duca, essendo fuggito Batista da Canneto, tornava
in Bologna la parte dei Bentivogli.
Era morta la reina Giovanna di Napoli, avendo lasciato erede nel regno
Renato d’Angiò della famiglia di Provenza, e privato della successione
il re Alfonso Aragonese; il quale essendo allora in Sicilia, e chiamato
da taluni baroni del Regno, nonostante che il maggior numero tenesse
le parti angiovine, venne accompagnato da molti principi; e fermata
la sede in Capua, mandò l’armata ad assaltare Gaeta che si teneva per
i Napoletani. Chiederono questi aiuto a Filippo; ed egli persuase
facilmente ai Genovesi, ch’avea in ubbidienza, armare il possente
naviglio loro incontro a quello del re Alfonso; il quale raccolto molto
numero di navi, ed egli medesimo salito sopra una di queste, cercava
animosamente la battaglia. La quale avvenne nelle acque di Ponza con
isconfitta del re Alfonso, che vi rimase prigione col Re di Navarra e
grande numero di principi e signori,[297] egli avendo ceduto la spada
a Giacomo Giustiniani capitano genovese. Per questa vittoria pareva
Filippo fatto signore di tutta Italia; ma tosto gli effetti nacquero
diversi dalla opinione; imperocchè il Duca avendo fatto venire,
con dispiacere dei Genovesi, Alfonso a Milano, questi troppo grande
prigioniero per un tale uomo qual era Filippo, fattosi ad un tratto
suo consigliero, gli mostrò avere egli male combattuta Casa d’Aragona
per condurre Napoli in potestà d’uno di quei principi francesi i quali
ambivano già fino d’allora il ducato di Milano. Poterono tanto siffatti
argomenti sull’animo di Filippo, ch’egli rinviava a Genova Alfonso con
grande onore e tutto suo amico, comandando ai Genovesi restituirgli
le navi perchè sopra quelle tornasse nel Regno. Voleva Filippo così
anche abbassare la città suddita, che parevagli essersi fatta troppo
grande per quella vittoria. Coteste sono arti lodate di regno; ed a lui
fruttarono che i Genovesi per subita ribellione, ucciso il Governatore
che stava pel Duca e cacciate in pochi giorni le armi di questo e
presi i castelli, scuotessero il giogo che odiavano, essendosi dipoi
stabilmente rivendicati in libertà.[298]
Per questi fatti mutate essendo le condizioni d’Italia, rimase di
subito scompaginata la lega, la quale di nome era conchiusa tra il
Papa e il Duca e i Veneziani e i Fiorentini. Questi mandarono soccorso
a Genova di vettovaglie e di fanti armati sotto Baldaccio d’Anghiari
alla difesa d’Albenga, sebbene ciò fosse copertamente,[299] perchè
la lega non volea dirsi per anche rotta, ciascuno essendo tenuto in
rispetto dalla incertezza degli eventi, e il Papa adoprandosi con
grande studio perchè alle armi non si venisse. Aveva egli nel mese
d’aprile 1436 lasciato Firenze, dopo esservi dimorato quasi due anni,
ed alla Repubblica usato ogni sorta di benevole dimostrazioni. Poco
innanzi della partenza sua Eugenio, il giorno venticinquesimo di marzo,
ch’è la festa dell’Annunziazione ed era in Firenze principio dell’anno,
consacrò il tempio di Santa Maria del Fiore, essendo già l’occhio
della grande Cupola stato chiuso da Filippo di ser Brunellesco due anni
prima, quando era al termine lo Stato degli Albizzi.[300] Fu celebrata
quella consacrazione con molto grandissima solennità, essendosi dalle
scalee di Santa Maria Novella, dove il Papa dimorava, infino a quelle
del Duomo alzato un palco ricco di tappeti e d’ogni magnificenza,
sul quale andassero fuori della calca egli e tutto l’accompagnamento
suo, ch’erano molti Cardinali e Vescovi e Principi ed Ambasciatori e
tutta la Signoria, tenendo la coda del papale ammanto il Gonfaloniere
Davanzati, che fu da Eugenio per mano di Gismondo Malatesta fatto
insignire della cavalleria. Il Papa dipoi recossi a Bologna,
venuta di fresco in potestà sua, dopo esservi stato ucciso Antonio
Bentivoglio.[301]
Filippo Maria, tentata invano la recuperazione di Genova, fece che
tutte le forze sue con Niccolò Piccinino venissero innanzi per la
riviera di Levante verso allo Stato dei Fiorentini. Aveva mandato prima
sotto Pietrasanta due suoi minori capitani, Cristoforo da Lavello e
Luigi dal Verme, che si ritrassero per comandamento dello stesso Duca.
Ma il Piccinino occupò Sarzana de’ Genovesi ed alcune terre che la
Repubblica di Firenze avea sulla Magra; donde poi venne a fermarsi in
Lucca, mostrando intenzione d’andare nel Regno. Nè per essergli negato
il passo, rompeva di subito il Piccinino la guerra; nè i Fiorentini,
che inviarono a Pisa Neri Capponi con quante forze aveano in pronto,
vollero altro che porsi in guardia contro ogni assalto da quella
parte. Era il conte Francesco Sforza allora ai servigi del Papa, ed a
Cosimo già molto amico: lo aveva questi con grande onore accolto in
Firenze, dove ebbero giostre nella piazza di Santa Croce, balli di
donne in quella dei Signori. Dipoi, non senza difficoltà e patti di
non andare in Lombardia nè muovere guerra contro al Duca di Milano,
concesse Eugenio venisse il Conte ai servigi dei Fiorentini. Poneva
il campo questi a Santa Gonda con cinque mila cavalli e due mila
cinquecento fanti: il Piccinino all’incontro aveva sei mila cavalli
con minore numero di fanti. Non fecero mossa i due famosi Capitani,
l’un l’altro osservando; e anche tenuti in aspettazione dai negoziati
che non cessavano tra il Papa e il Duca: infinchè a mezzo il verno,
ad un tratto, il Piccinino, avuta speranza di occupare Vico Pisano,
muoveva per là; di dove respinto, correa la campagna già come nemico.
Dipoi assaliti altri minori castelli, andò poderoso in Garfagnana,
ponendo il campo sotto alle mura di Barga. Per il che essendo ogni
rispetto cessato, la Repubblica ordinava al Conte ed a Neri soccorrere
Barga. Andarono, e diedero grave percossa al Piccinino, costretto
ritrarsi quasi che rotto in Lunigiana; d’onde egli dovette quindi
passare in Lombardia, perchè i Veneziani, veduto la guerra dal Duca
essere cominciata, mandato aveano in Ghiaradadda Giovanni Francesco
da Gonzaga loro capitano, che molto stringeva le terre del Duca. I
Fiorentini poichè viddero questo impegnato in Lombardia, e Lucca, che
s’era per lui dichiarata, sprovvista essere d’altro aiuto, tornarono
al solito prurito d’avere quella città: del che Cosimo de’ Medici
ardeva di voglia, perchè se il governo degli Ottimati acquistò Pisa,
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