Storia della Repubblica di Firenze v. 2/3 - 38

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messer A. et contra le cose sue et suoi congiunti. Nè l’altra
lettera era in secreto, che a noi pareva più utile seguitare la
via de l’acordo per non avere a entrare in difficultà di por campo
etc. Hora questo era l’effecto de le due lettere sotto brevità; et
così metterai ad executione. Parlandosi d’acordo, monsterrai fare
da te et non per nostra commissione, et monsterrai questi essere
tuoi pensieri et tuoi avisi. Veggiamo che tu aspecti risposta da’
Sanesi, et pensiamo che da messer A. tu harai con buono modo già
sentito et tastato dove gli va il pensiero. Di tutto aspectiamo
aviso da te, et tu colla tua usata prudentia seguita in quel modo
ti parrà più utile. Et di costì non partirai sanza nostra licenza.
Dat. die XIIII octobris 1434.


Nº VIII.
(Vedi pag. 362.)

ISTRUZIONE DI SISTO IV A MESSER ANTONIO CRIVELLI MANDATO SUO AL RE
FERRANDO. RISGUARDA LE COSE DI CITTÀ DI CASTELLO, TENUTA DA NICCOLÒ
VITELLI.
(Codice nº 22, manoscritto appresso di noi.)
Primo, che la Santità di Nostro Signore per il passato è stata
infamata con le calumnie. Che per la benevolenza che portava
a messer Nicolò Vitelli, gli consentiva che tenesse la Città
di Castello in tirannia, con carico et vittuperio della Sede
Apostolica; et che poteva sodisfare all’honor di Santa Chiesa,
et indur quella Città a obedienza d’essa, et non voler che, per
l’amicitia sua, stesse alienata dal Dominio Ecclesiastico; et che
se haverebbe in breve tempo che con questo esempio molte altre
terre della Chiesa verrebbono ad essere in peggior conditione di
detta Città, et lo stato della Chiesa, in tempo suo, si verrebbe
ad anichilare et perdere. Et perchè S. S., dessiderando di purgar
quest’infamia, più volte ha fatto intendere a messer Nicolò che
l’amava, et che se egli amava S. S. et l’honor di S. Chiesa,
deverebbe mostrare obedienza, et farla monstrare anco a detta
Città, et l’uno, et l’altra saltem monstrarla con il segno di
venire a far riverenza a S. Beatitudine alla quale poteva venir
sicuramente; et già sono tre anni, che mai ha voluto venire; et,
_quod peius est_, i Governatori mandati per S. S. _fuerunt potius
gubernati quam gubernatores_. Onde sa Dio che S. S. continuamente
ha hauto gran dispiacere di mente per l’honor di S. Chiesa, et per
l’amor che porta a esso messer Nicolò.
Doppo, è seguita l’esperienza dell’infamia data a S. S., cioè che
per essempio di quella città, l’altre della Chiesa venivano in
peggior conditione, come si è visto di Todi et di Spoleto, in modo
che S. B. è stata necessitata mandar le genti d’arme et esseguire
quel che è seguito. Et trovandosi dette genti in ordine, vedendo il
Legato che si erano accquetate le terre mosse già con l’essempio
di Città di Castello, et che l’esemplare rimaneva; ricordandosi
che quando il Cardinal di S. Sisto fu in Milano, il signor
Duca non solo laudò l’impresa perchè messer Nicolò si riducesse
all’obbedienza con la detta città, ma confortò che per honor di
S. S. et di S. Chiesa si dovesse fare ogni opera per ridurcelo, et
volesse veder particolarmente se messer Nicolò era nominato nella
lega per collegato; la Maestà del Re, dubitando se fosse obbligato
a difenderlo, e trovando che N. S. disse che la cosa stava bene et
che si poteva fare; ricordandosi adunque di questo il Legato, et
considerando che il Duca et i Fiorentini sono una cosa medema; gli
parve (et così ancho teneva per certo S. S.) che non solo il Duca
et i Fiorentini non fossero per opporsi, ma per agiutar S. S., per
rendere et usar gratitudine de i beneficii fatti da lei all’uno
et all’altro, et dell’amore che ha portato loro, massime essendo
giustissima la dimanda et impresa di S. S.; con voler solo la vera
obedienza, la quale per nulla ragione se li può negare.
Et certissima causa è che, quando alcuno dei sudditi dell’altre
Potenze d’Italia non prestassero la debita obedienza, non si
comportaria, et non solo si cercaria che tornassero all’obedienza,
ma s’esterminariano ad essempio degli altri; et a questo effetto
gli pareria, bisognando, che ogn’uno fusse tenuto d’aiutarli.
Et, _ne longe exempla petantur_, quando Volterrani, non sudditi
dei Fiorentini, mancorno della sola devotione loro, i Fiorentini
vi mandarono il campo et chiesero a S. S. aiuto. La quale, per
l’amicitia che teneva seco et benevolenza che portava a quella
Comunità, gli aiutò di grandissimo animo con le gente d’armi
a sue spese. Onde saria stato et saria molto più giusto che,
ricercando S. S. l’obbedienza immediate da messer Nicolò, subito
ciaschuna dell’altre Potenze non solo se gli fosse opposta, ma
havesse prestato et prestasse aiuto et favore al giusto et honesto
dessiderio di S. S. Et certamente che se li è opposto et oppone,
tocca il cuor di S. S., così come haveria toccato a ciascun di
loro se gli fusse stato fatto il simile; nè possono negare che non
si siano portati più ingratamente che habbiano potuto verso S. B.
Et tanto più hanno monstrato il poco rispetto che hanno hauto a
quella, quanto che è bastato loro l’animo d’affermare messer Nicolò
esser tra li raccomandati della Lega particolare; et per questo
volerlo mantenere a non prestar la debita obedienza a S. S.: il che
con nulla ragione si potrà mai monstrare che lo possan fare.
Et tanto meno, quanto mai messer Niccolò non fu dato per
raccomandato, nè per la Maestà del Re, nè per il signor Duca di
Milano nè per li Fiorentini nè per la Lega particolare. Et se
dai Fiorentini fu nominata Città di Castello, ella però in quel
tempo era suddita del Papa, nè per detta nominatione se li poteva
levare la vera obedienza; _imo_, denegandosi S. S. veniva ad esser
grandemente offesa et lacessita, _adeo_ che tutte l’altre Potenze
per vigor della lega generale son tenuti et obligati difendere
et aiutar S. S.; et molto più i Fiorentini che gli altri, per
haver veduto l’essempio et provato l’esperienza in S. B., nel
caso di Volterra, la quale era stata nominata da Papa Pavolo
per raccomandata, et non era suddita dei Fiorentini nè tenuta
all’obedienza de quelli, come è tenuto messer Niccolò, non nominato
in nessuna Lega, a S. S.: et conseguentemente non procedevano
contra Volterrani con quella giustificatione che procede S. B. Et
nondimeno, quella prestò loro aiuto et favore, senza allegar tal
denominatione; mostrando fare stima dei Fiorentini et amarli. Et
per molti altri benefitii che ha fatto S. S. a quella Città, et
massime a Lorenzo, il quale fra gli altri beneficii che ha recenti
da S. B., ha guadagnato con quella un Tesoro.
Et in quanto si supplica S. S. che voglia haver per raccomandato
messer Nicolò, si risponde che la Maestà del Re sa che, havendo
prima fatto supplicare S. B. che riceva in gratia decto messer
Nicolò, fu risposto che sempre l’ha amato et ama, et è contenta
S. B. riceverlo in gratia, con questo che gli presti la debita
obedienza, nel modo che S. S. rispose all’ambasciatore, mandato
da messer Nicolò, et secondo il tenor dei Brevi mandati. Et a
questo fine S. B. ha scritto a Fiorenza all’ambasciatore che debbia
eseguire. Et se il signor Duca et i Fiorentini non sono in tutto
alieni da ogni honestà et giustitia, non solo non consentiranno
a quello et non si opponeranno ma favoriranno, acciò sia (come è
ragionevole) sodisfatto all’honesto dessiderio di N. S., il quale
certamente merita di esser commendato, aiutato et favorito, quando
non si vogliano portar seco malignamente et non haver rispetto nè a
Dio nè alla giustizia.
Et in quanto a quel che per parte loro si domanda, cioè che S. S.
desista dall’impresa, S. S. resta pessimamente sodisfatta di tal
rechiesta, la quale tocca l’honor di quella et di S. Chiesa; il
quale honore S. B. è solita di preporre a tutte le cose di questo
Mondo, et alla vita propria. Et veramente se da essi Signori gli
fusse domandato quanto ha et di quanto può lecitamente disporre, lo
concederia volontieri et più presto che desistere da così giusta
impresa, per lo grandissimo vittuperio et infamia che ne segueria
a S. S., l’honore et reputation di cui sarriano ad un tratto
seppeliti; oltre il grandissimo et incomparabil danno et pericol di
perdere con sì fatto essempio tutto lo Stato della Sede Apostolica
etc.
Per le quali ragioni et molte altre, che giustissimamente muoveno
la mente di S. S., havendo già incominciato l’impresa et proceduto
tanto inanzi, sarrebbe troppo grave errore il lassarlo, ad ingiusta
requisitione di qual si voglia. Et perciò sta in fermo et constante
proposito di voler la vera obedienza di messer Nicolò et da quella
città, come è pur giusto nè si può negare con ragione.


Nº IX.
(Vedi pag. 370, 384.)

La _Confessione_ che segue fu scritta da Giovan Battista da Montesecco,
mentre era in carcere dopo la Congiura e il giorno innanzi ch’egli
morisse. Ma convien dire che avessero a lui promesso la vita salva, e
che il pover uomo se lo tenesse per certo, perchè in altro modo non
s’intenderebbe come avesse egli potuto distendere quella scrittura,
dove appare tranquillo animo, il linguaggio essendo piano, scorrevole
e ordinato bastantemente. Ebbe essa le firme del Potestà di Firenze,
di due Priori e quattro Monaci di Badia, di San Marco e di Cestello, i
quali attestarono avere veduto cogli occhi loro il Montesecco scrivere
la dichiarazione, dove egli afferma essere sua quella scrittura che ad
essi stava allora innanzi. Si è detto come Bartolommeo Scala Segretario
la inviasse ai maggiori potentati in un con altre giustificazioni
della Repubblica e in risposta al Breve di Sisto IV. Confessa lo Scala
avere tolti via per _buone ragioni_ alcuni passi della Confessione,
e il manoscritto ha veramente alcuni spazi lasciati in bianco e da
noi segnati con puntolini; potevano essere parole che irritassero,
contro all’intenzione di Lorenzo, il re Ferrando, il che riesce assai
probabile in quel luogo dove il Montesecco, a fine di _pungere_ e
_riscaldare_ Jacopo dei Pazzi, accenna ai favori che avrebbe l’impresa;
nè il crederlo disdice per le altre lacune. Le sottoscrizioni aggiunte
alla Copia nel giorno della pubblicazione sono è vero della Curia di
un Arcivescovo ch’era tutto devoto a Lorenzo; ma il fatto appunto
delle lacune è buono argomento a dimostrarne l’autenticità. Fu
divulgata quattro mesi dopo: ma che di pianta fosse inventata, oltre
che ne sembra essere impossibile, reputiamo che un falsario il quale
avesse voluto da cima a fondo servire a Lorenzo, l’avrebbe scritta in
altro modo. Quella scena che ivi si narra come avvenuta in Camera del
Papa, pare a noi che abbia di que’ caratteri che non si mentiscono,
e con pace dell’Alfieri io credo essere quello il vero Sisto. Noi
pubblichiamo l’Originale archetipo di quella Scrittura che andò alle
Corti tale qual’è in questo Archivio di Stato: fu stampata la prima
volta sopra una copia e con qualche menda dall’Adimari tra’ Documenti
aggiunti alla _Coniuratio Pactiana_ di Angelo Poliziano, Napoli 1769,
ma senza le ultime sottoscrizioni; in questo modo fu riprodotta poi dal
Fabroni e da più altri.
Questa serà la confessione, la quale farà Giovan Baptista da
Monte Secco de sua mano propria, in la quale farà chiaro a omne
uno l’ordene et el modo dato per mutar lo stato de la ciptà de
Fiorenza, comentiando dal principio infine alla fine, nè lasciando
cosa alchuna inderietro, _imo_ i’ narrando tucte le persone con
chi lui n’aveva hauto colloquio, e particularmente narrando le
punctali parole hauto con tucti quelli chon chi n’à parlato. E
prima con l’Arcivescovo e Francescho de’ Pazzi ne parlai in Roma,
in la camera del detto Arcivescovo, dicendome volerme revellare
uno suo secreto e pensiero, che havevano più tempo hauto in core;
e qui con sacramento volse che io gli promettessi tenerli secreti,
nè de questa cosa parlarne nè non parlarne si non quanto saria el
bisogno, e quanto pareria e vorria a loro; et io così gli promisi.
L’Arcevescovo comenciò a parlare, facciendome intendere como lui
e Francesco avevano el modo a mutar lo Stato di Firenza, e che
determinavano ad omne modo farlo, e che ci voleva l’aiuto mio. Io
glie respuosi che per loro faria ogni cosa, ma essendo soldato del
Papa e del Conte, io non ci podeva intervenire. Lor mi rispuoson:
Como credi tu che noi facemo questa cosa sanza consentimento
del Conte? _imo_ ciò che si cercha e che se fa, per exaltarlo e
magnificarlo, chosi lui chome noi, e per mantenerlo i’ nello Stato
suo; avisandoti che se questa cosa non se fa, non glie daria del
suo Stato una fava; perchè Lorenzo de’ Medici glie vol mal di
morte, nè credo che sia huomo al mondo, a chi lui voglia peggio;
e dopo la morte del Papa non cercherà mai altro che torgli quello
poco Stato, e farlo mal capitar de la persona, perchè da lui se
sente grandemente ingiuriato. E volendo io ’ntender el perchè e
la cagione Lorenzo era così inimico del Conte, mi disse cose assai
sopra a questa parte, e della Depositeria e dell’Arcievescovato di
Pisa, e più cose che seriano longhe a scrivere; e in fine fu facta
questa conclusione, che dove concorreva l’onore e utole del Conte
et el lor, io mi sforzaria a fare _iuxta posse_ tucto quello che
pel Conte me sarà comandato. E tucte queste cose furono commune
frallo Arcievescovo e Francesco, e che un altro dì se devesse
essere insieme et con il Conte proprio, e pigliar determinatione
de quello s’aveva da far; et così se remase etc. La cosa rimase
così per parechie giorni, nè me fo dicto altro; ma bene so che fra
l’Arcievescovo e Francesco et el Signor Conte ne fo in questo tempo
parlato più volte.
Dapoi, un giorno fui chiamato dal signor Conte in chamera sua, dove
era l’Arcievescovo, et comentiò a parlarsi de novo de questa chosa,
dicendome el Conte: L’Arcievescovo me dice che t’anno parlato d’una
faccienda, che havemo alle mane: que te ne pare? Io gli respuosi:
Signor, non so que me ne dire di questa cosa, perchè non la intendo
ancora; quando l’averò intesa, dirò el mio parere. L’Arcivescovo:
Como non t’ò io dicto, che volemo mutar lo Stato in Fiorenza?
Madiasì che me l’avete decto, ma non m’avete dicto el modo; che
non havendo inteso el modo, non so que ne parlare. Allora e l’uno
e l’altro ussino fuora, e comenciorono a dire della malivolenza
e malanimo, che el Magnifico Lorenzo haveva contra de loro, e ’n
quanto pericolo era lo Stato del Conte dopo la morte del Papa; et
che mutandosi dicto Stato, saria uno stabilire el signor Conte da
non posser haver mai più male; e che per questo si voleva fare ogni
cosa. E demandandogle io del modo e del favore, me dissero: noi
haveremo questo modo, che in Fiorenza è la Casa de’ Pazzi e de’
Salviati che se tirano dietro mezzo la cictà de fora _etc._...[578]
Bene; havete voi pensato el modo? El modo lass’io pensare a
costoro, che dicono non possersi fare per altra via che taglare a
pezzi Lorenzo e Giuliano, et haver poi preparate le gienti d’arme,
et andarsene a Fiorenza; e che bisogna accumulare queste giente
d’arme in modo che non se dia suspecto, chè non dandose suspecto,
ogni cosa verria bene facta. Io gli respuosi: Signore, vedete
quel che voi fate: lo vi certifico, che questa è una gran cosa;
nè so como costor se lo possano fare, perchè Fiorenza è una gran
cosa, e la Magnificenzia di Lorenzo ci à una grande benevolenzia,
secondo io intendo. El Conte disse: Costoro dicono el contrario,
che ci à poca gratia et è malissimo voluto; e che, morti loro,
ognuno giungerà le mani al Cielo. L’Arcievescovo usse fuora e
disse: Giovan Batipsta, tu non se’ stato mai a Firenza; le cose de
là e la cognitione di Lorenzo noi le ’ntendiamo meglio de voi, e
sappiamo la benevolentia e malavolentia ch’egli à in nel popolo;
e de questo non dubitar, ch’ella reussirà como noi siamo qui.
Tucto el facto è che cie resolviamo del modo. Bene; que modo ci è?
El modo si [è] riscaldar messer Iacomo, che è più freddo che una
iaccia; e como haviamo lui, la cosa è spaciata nè n’è da dubitar
puncto. Bene; a Nostro Signore como piacerà questa cosa? E’ me
respuosoro: Nostro Signore li farimo sempre fare quello vorremo
noi; et anchora la Sua Sanctità vol male a Lorenzo; desidera
questo più che altro che sia. Avetenegle voi parlato? Madiasì,
e faremo che te ne dirà anchora a te, e te farà intender la sua
intentione. Pensamo pure in que modo possiamo metter le giente
d’arme insieme sanza suspecto, che l’altre chose passeranno tucte
bene. Fo preso el modo de far far la mostra, e de mutar le genti
d’arme da stantia a stantia, e mandar quegli del Signor Napolione
in quello de Todi e de Perusia, e così el signor Giovanfrancesco
da Gonzagha; e così fo dato ordine. Da poi comenciò andar per el
tavoliero el facto del Conte Carlo, e per dicta casione bisognò
mettere insieme ognuno, chè l’ebero molto caro. Et essendo il campo
del Conte Carlo in quello de Siena, et comprendendose chiaramente
la cosa non haver durata, fu facta deliberation d’andare a campo a
Montone, e tenere in tempo l’assedio più che se posseva, a chagion
che costoro havesser tempo a dare ordene alla expedizione della
faccienda; et per decta casione venne Francesco de’ Pazzi in quel
tempo qui in Fiorentia con demostration de fugir l’aiere, e fo
a questo effecto. Et essendo stato decto Francesco per alchuni
giorni, scrisse a Roma all’Arcievescovo como passavano le cose,
e che bisognava riscaldare et pungier messer Iacomo, e farglie
intendere tucti e favori se arà in questa cosa _etc._,...[579]
et il modo delle gienti d’arme; e tucto quello favore se podeva
havere, farglielo intender chiaramente; et intesolo se lassasse poi
el pensiero a lui, che a tucto daria buono ordene. Et accadendo
in quello medesimo tempo la malattia del signor Carlo di Faenza,
et essendo stato longo tempo amalato, venne in pericolo de morte.
Et dubitandose assai della morte sua, parse al Conte et allo
Arcievescovo havere scusa licita di mandarme qui, con intention che
io vedesse i modi de questa cictà et anchora del Magnifico Lorenzo,
et che io parlasse con seco, e intendesse da lui, volendo el Conte
cerchar de aravere[580] el suo stato, cioè Valdeseno, que favore
se podeva haver da Sua Magnificentia e da questa Republica per
suo mezzo; e che glie fesse intendere, che il signor Conte sperava
più in sua Magnificentia che persona del mondo, e che in questo io
intendesse el consiglio et el parere suo. E che gle fesse ancora
intendere che, non obstante alchune chose fossero state fra loro,
el Conte le voleva buttar tucte da parte, e in omne cosa desponerse
a compiacerlo, et haverlo in loco de patre; e con molte altre buone
parole apresso, quale erano la maggior parte simulate. Et arrivando
io qui tardi la sera, non poti’ parlare con Sua Magnificentia.
La mattina andai a trovarlo, e se ne venne di socto, vestito a
nero per la morte dell’Orsino, et fomo insieme; nè altramente me
respuose che si fosse stato patre del Conte, nè con altro amore;
in modo che a me fe’ maravigliare, havendo inteso da altri et poi
ritrovandolo così ben disposto in le cose del Conte, che veramente
non s’averia possuto parlar per niuno fratello più amorevolmente,
che me parlò, dicendome: Tu te ne girai a Imola, et vederrai chome
trovi le chose, e daraimene aviso de quello te parerà s’abbia a
fare dal canto nostro, chè tucto si farà sensa manchar de niente
per satisfar alla Signoria del Conte, al quale e in questo et in
omne altra cosa me sforserò sempre a satisfarlo.... con li più
amorevoli ricordi, che possesse mai patre a figliuolo; li quali
ricordi li tacerò per bene. La sua Magnificentia gli deve bene
havere a memoria: pur quando gli parrà che io li chiarisca, pensece
bene e diamene aviso, che io li chiarirò.
Da poi me n’andai all’ostaria de la Campana a disinare; e havendo a
parlar con Francesco de’ Pazzi e con misser Iacomo pur de’ Pazzi,
a’ quali haveva lettere di credenza del signor Conte e dello
Arcievescovo, infin che si desinò, mandai a intendere que n’era
de loro. Me fo decto, che Francesco era andato a Lucca; e non
c’essendo, mandai a dire a misser Iacomo predecto, che io haveva
bisogno de parlarli, e de cose de importanza, et che se voleva
che io andasse a casa sua, che io anderia, e se lui volea venire
all’ostaria, che io l’aspectaria. Misser Iacomo predecto venne
all’ostaria da la Campana, dove lui e mi cie ritirassimo in una
chamera in secreto, e per parte del Nostro Signore el confortai
e salutai, e così da parte del signor Conte Hieronimo e dello
Arcievescovo, dei quali Conte et Arcievescovo io havia una lettera
credential per uno. Le appresentai; le lesse, e lecte disse: Che
havemo noi a dire, Giovanbaptista? havemo noi a parlar de Stato?
Dissi, madiasì. Me respuose: Io non te voglio intender per niente,
perchè costoro se vanno rompendo el ciervello, et voglion deventar
Signori de Fiorenza; et io intendo meglio queste cose nostre de
loro; non me ne parlate per niente, che non ve voglio ascoltar. E
persuadendolo pure io all’ascoltarme, se contentò d’intendermi.
Que voi tu dire? Io vi conforto da parte de Nostro Signore, con
el quale, prima che io partissi, gle parlai; e presente el Conte
e l’Arcivescovo, me disse Sua Sanctità, che io vi confortasse a
spedir questa causa de Fiorenza, perchè lui non sa in que tempo
possa accadere un altro assedio de Montone da tenere sospese e
insieme tante giente d’arme e così appresso al vostro terreno; et
essendo pericoloso lo indutiare, ve conforta a far questo. Madiasì,
che Sua Sanctità dice che vorria sequisse la mutatione dello Stato,
ma senza morte de persona. E dicendoli io, presente el Conte et
l’Arcievescovo: Padre Sancto, queste chose se potranno forsi mal
fare senza morte de Lorenzo et de Giuliano, e forsi degli altri;
Sua Sanctità me disse: Io non voglio la morte de niun per niente,
perchè non è offitio nostro aconsentire alla morte de persona; e
bene che Lorenzo sia un villano e con noi se porte male, pure io
non vorria la morte sua per niente, ma la mutatione dello Stato
sì. Et el Conte respuose: se farà quanto se poderà, acciò non
intervengha; pur quando intervenisse, la Vostra Sanctità perdonarà
bene a chi el fesse. El Papa respuose al Conte e disse: Tu si’ una
bestia; io te dico: non voglio la morte de niuno, ma la mutatione
de lo Stato sì. E così te dico, Giovanbaptista, che io dessidero
assai che lo Stato de Fiorenza se mute, e che se leve delle man de
Lorenzo, che ell’è un villano et uno cattivo homo, et non fa stima
de noe: e tuctavolta ch’e’ fosse for de Fiorenza lui, farissimo de
quella Republica quello vorissimo, et seria ad un gran preposito
nostro. El Conte e l’Arcievescovo, che erano presente, dissero:
La Sanctità Vostra dice el vero, chè quando aviate Fiorenza in
vostro arbitrio e posserne desponere como porrete, si serà in man
de costoro, la Sanctità Vostra metterà lege a mezza Italia, et omne
uno haverà caro esserve amico: sì che, siate contento se faccia
ogne cosa per venire a questo effecto. La Sua Santità disse: Io te
dico che non voglio: andate e fate chome pare a voi, purchè non
cie intervengha morte. E con questo ci levassemo denanzi da Sua
Sanctità, facciendo poi conclusione esser contento dare omne favore
et aiuto de giente d’arme od altro che acciò fosse necessario.
L’Arcievescovo rispuse e disse: Padre Sancto, siate contento
che guidiamo noi questa barcha, che la guidaremo bene. E Nostro
Signore disse: Io sono contento. E con questo cie levassimo da i
soi piedi, e reduciessemociene in chamera del Conte, dove fo poi
discussa la cosa particularmente, e concluso che questa cosa non
si posseva fare per niuno modo sanza la morte de costoro, cioè del
Magnifico Lorenzo e del fratello. E dicendo io, esser mal facto, me
respusero, che le cose grandi non se possevano fare altrimente; e
sopra de ciò fo dati molti exempli, che seria longo a scriverle; et
_finaliter_ fo concluso, che per intendere el modo, bisognava esser
qui, e parlar con Francesco e misser Iacomo, e intendere a puncto
quello era da fare, e intesolo mandare a effecto. Io fui qui. E
non trovando Francesco, non volse[581] fare altra conclusione;
se non che me disse: Vattene a Imola, e alla tornata tua sarà
qui Francesco, et deliberarasse tucto quello sarà da fare. I’ me
n’andai a Imola, dove stecti pochi giorni; perchè chosì haveva in
commessione per la expeditione di decta causa. E i’ nel tornare a
drieto foi a Cafagiuolo, dove trovai la Magnificentia de Lorenzo
e de Giuliano, e havendo referte al Magnifico Lorenzo como haveva
trovate le cose del Conte, me consegliò con le più cordiali et
amorevole parole del mondo, dicendome che per el signor Conte
haveva deliberato fare ogni cosa per farli intendere, che glie
voleva esser buono amico. Et havendo Sua Magnificentia deliberato
tornare a Fiorenza, cie ne venissimo di compagnia; dove per la
via me fe intendere anchora più chiaramente quanto era el suo
buono animo inverso del Conte, che lo tacerò, perchè seria longo
lo scrivere. Arrivai in Fiorenza, e fui con Francesco, con el
quale presi ordene de non partire quel dì, acciò che la nocte cie
retrovassemo con misser Iacomo; e così fo facto. La nocte, dicto
Francesco venne per me, e condusseme in camera de misser Iacomo,
dove fo parlato assai de questa cosa, e la conclusione fo questa,
che per la expedition bisognava più chose. Una che l’Arcivescovo
fosse de qua, e che vedesse venir lì con qualche scusa licita,
in modo non desse suspecto, e a questo lassava pensarlo al Conte
e a lui; e che alla sua venuta se piglierà poi forma de quello
s’avesse a fare. E che si fesse cifre, per le quali si possessi
scriver bene, e che non dubitava (havendo el favor delle gente del
Papa _etc._).... che la cosa non venissi facta; ma che per farla
netta, bisognava che uno dei doi fratelli fussero fora; et che
immediate che la cosa havesse questo di certo, la spacciariamo. Et
che tra el Magnifico Lorenzo e ’l Signor di Piombino si tractava
parentado per Giuliano, e sequendo, seria necessario un de’ loro
andassi là, el quale andava, la cosa era spacciata. Ma essendo
tucti due in la cictà, per niente non voleva fare, perchè non gli
pareva posser reuscirle. E Francesco diceva altremente, che ad omne
modo si faria; e sempre gl’andò per la mente, in chiesa o a giuoco
di carte o a nozze, pur che fussino tucti dua in uno loco, gle
bastaria l’animo di farlo; et che non ci voleva se non pochi con
seco; et recercomene a me, che io volessi quello che mai el volsi
fare. Lui disse, trovaria el modo bene a questo, e che si desse pur
più tempo che se poteva, e mandassesi l’Arcievescovo in qua, che
a tucto si daria bene expeditione; e che di tucto quello s’avessi
a fare, s’aviseria. Intesa la conclusion, me n’andai a Roma e
referi’ tucto al Conte e allo Arcievescovo; e subito fu presa per
el Conte deliberation de mandare l’Arcievescovo sotto color de le
cose de Favenza _etc._; e a me me ordinò me n’andassi a Imola con
cento provisionati e con quello poche giente d’arme, che gl’erano,
stesse preparate ad omne requisitione de costoro, et _etiam_ con
i soi popoli etc.... Io me parti’ et andamene a Imola e da poi a
Montugi; e fui una nocte con misser Iacomo e con Francesco, e figli
intendere l’ordine dato da ogni banda, e che questa chosa bisognava
expeditione, et da parte _etc._... del Conte gle solicitai assai
a dicta expeditione, prima che el campo se devidesse. Loro me
respusero, che non li bisognava sproni ma morso, e che ad omne
modo vederla expedirlo in questo tempo, e che io stessi preparato,
che sperava avisarme presto quello havessi a fare, e che al suo
adviso non preterisse niente; et io dissi di farlo, e con questo
me n’andai. E non trovando costoro commodità de farlo in quel
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