Storia della Repubblica di Firenze v. 2/3 - 26

ciò era stato eletto, ch’egli stesse di buon animo, perciocchè a lui
conveniva di vivere e di morire con la sua Repubblica; e per fargli
conoscere ch’eglino di lui quella cura aveano che di caro e buon
cittadino si deve, gli deputarono dodici uomini per guardia della sua
persona. La Repubblica trattava nelle solenni occasioni Lorenzo come
semplice cittadino, ma intanto con dargli una guardia alla persona sua
lasciavagli fare un altro passo verso il Principato.[496]
Essendo in tal modo assicurati della città, i Reggitori si diedero
per via dei soliti balzelli a procacciarsi moneta, ed a raccogliere
in gran fretta genti quante poterono per l’Italia. I Veneziani,
richiesti secondo l’obbligo della lega, fecero avanzare alcune squadre
in Toscana, ma in poco numero e a rilente, allegando non avere essi
obbligo a questa guerra che era mossa contro a persona privata. Nè
dal Duca di Milano venne quell’aiuto che sarebbe bisognato: mandava
però alcune squadre, delle quali erano condottieri Alberto Visconti
e Giovan Giacomo Trivulzio che fu capitano poi di tanta fama: questi
aveva seco Teodoro giovanetto, suo nipote. Giugneano frattanto le
genti assoldate al campo verso Arezzo; v’era Niccola Orsini conte di
Pitigliano, e Currado anch’egli di casa Orsini, e Ridolfo Gonzaga
fratello del Marchese di Mantova con due figli. Comparivano di
mano in mano Giberto dei Signori di Coreggio e due figli di Ruberto
Malatesta, e Tommaso di Saluzzo e un Martinengo di Brescia, e altri
Capitani ch’aveano condotti; Commissario generale di tutto l’esercito
fu eletto Iacopo Guicciardini. Ritrattisi indietro, e posto guardia a
quelle vie per dove i nemici si credeva che potessero avere in animo
di passare, si fortificarono al Poggio Imperiale sopra alla terra
di Poggibonsi, luogo opportunissimo alla difesa ch’era bisogno fare
più stretta e più raccolta che fosse possibile, dovendo con meno di
quaranta squadre stare incontro a più di sessanta: in ogni squadra
erano venti uomini d’arme e quaranta balestrieri tutti a cavallo, ed
i valletti sui cavalli di riscossa. Intanto i Senesi, già entrati in
guerra, davano ai nemici comodità di passi e di vettovaglie: ed era
grandissimo disavvantaggio ai Fiorentini la mancanza d’un Capitano
generale cui tutti obbedissero. Aveano trattato con Ercole da Este
duca di Ferrara: ma i Veneziani faceano difficoltà a condurlo, negando
dare essi le forze della Repubblica in mano a un principe confinante
ed al quale erano poco amici:[497] nè i Duchi d’Urbino e di Calabria
aveano capitani allora in Italia che gli agguagliassero di riputazione;
Federigo era personalmente nemico a Lorenzo, e Sisto in lui fidava
molto.[498] Laonde i nemici entrati nel Chianti, e cavalcando forte,
posero il campo sotto alla Castellina, di là spingendosi all’intorno;
e da una parte nella Val d’Elsa, dall’altra nei poggi che sovrastano
il Valdarno facevano guasti e ruberie ed arsioni con grande ruina.
Quindi, avuta dopo alquanti giorni d’oppugnazione la Castellina e poi
Radda, tennero lungo assedio a Brolio e ad altri luoghi dei Ricasoli;
i quali per avere fatta buona prova, e infine vedutosi pigliare e
abbruciare quei loro castelli, ebbero dalla Repubblica privilegi e
ricompense, essendo anche stati fatti abili agli uffici.[499] Era il
mese di settembre, e infine giugneva Ercole da Este che avea consentito
d’essere Capitano Generale dei Fiorentini e del Duca di Milano in
questa guerra, con la speranza che i Veneziani poi l’accettassero. Il
quale di persona, e con l’aggiunta di nuovi soldati, andò a porsi con
tutto il nerbo delle sue forze nel campo munito sopra a Poggibonsi.
Allora i nemici, sgombrato il Chianti e voltisi a un tratto verso la
Valle di Chiana, poneano assedio al Monte San Savino; per il che al
Duca di Ferrara entrato nelle terre dei Senesi, ai quali avea tolte
alcune castella, fu necessità d’abbandonare quella impresa, molto
importando a lui di soccorrere Monte San Savino. Intorno al quale
raccoltosi il grosso dei due eserciti era molta guerra, quando il
Capitano dei nemici avendo chiesta tregua d’otto giorni, quello dei
Fiorentini la concedeva con mal consiglio; imperocchè non appena finita
la tregua che il Duca di Ferrara invano cercava di prorogare, quello
d’Urbino avendo stretta con maggiori opere la terra, l’ottenne a patti;
di là stendendosi pei luoghi che sovrastano alla Chiana dove, essendo
giunto il mese di novembre, potea svernare agiatamente.
Fin dai principii di quella guerra avea la Repubblica a Roma inviato
un’altra volta ambasciatore Donato Acciaioli; il quale tornando senza
alcun effetto, andava in sua vece Guid’Antonio Vespucci, peritissimo
nel diritto. Il Papa scendeva più tardi a qualche proposizione
d’accordo: chiedesse perdono la Repubblica, innalzasse una Cappella
espiatoria per le uccisioni fatte nel caso dei Pazzi, promettesse
di non fare offesa al Patrimonio della Chiesa, ma i due Stati
scambievolmente si assicurassero; pagasse le spese della guerra, o a
compensazione di questa rendesse il Borgo San Sepolcro, e, secondo
scrivono taluni, cedesse Modigliana e Castrocaro. Non erano tali
quelle proposte che a Lorenzo fosse possibile consentirle: altiero per
indole, ed ora costretto stare sul duro per mantenere a sè la parte
dell’uomo offeso, nè volea fare espiazione pel fatto dei Pazzi, nè
che la Repubblica soffrisse per lui diminuzione. Sperava egli assai
dalla Francia, dove era mandato Donato Acciaioli reduce da Roma; il
quale però giunto in Milano quivi moriva, e la Repubblica decretava
onori insigni alla memoria di quel cittadino fra tutti egregio; e
perchè di lui, astinentissimo com’egli era, sapea la famiglia essere
in povere condizioni, prendeva i figliuoli sotto la tutela sua, e con
beneficî molti e durevoli gli risollevava.[500] Andava in suo luogo,
già essendo col Papa rotte le pratiche, Guid’Antonio Vespucci: il re
Luigi XI aveasi presa molto caldamente a petto la causa dei Fiorentini
e di Lorenzo, e sin da principio mandato in Firenze a risedervi come
ambasciatore Filippo di Argenton signore di Comines, del quale abbiamo
a stampa Memorie assai celebrate.[501] Questi dimorava qui un intero
anno; e fu detto, nè senza buoni argomenti, Lorenzo averselo allora e
poi sempre conciliato per danari. Così nel concerto degli encomiatori
di Lorenzo entrò anche la voce d’un uomo straniero. Faceva più
volte Luigi XI promessa al Vespucci d’intervenire con le armi, ed in
Firenze aspettavano cinquecento lance francesi, che mai non giunsero,
perchè il Re non era largo di fatti come di parole, e tutto inteso a
fortificare la monarchia dentro, avea in abominio le guerre esterne.
Col Papa bensì, perchè era difendere la libertà della monarchia, andò
più innanzi che non facessero gli stessi confederati della Repubblica
di Firenze. L’imperatore si contentava mandare qui e in Roma a fare
dimostrazioni ed a portare parole di pace: lo stesso avean fatto Mattia
Corvino re d’Ungheria, e presso che tutti gli altri monarchi della
Cristianità, commossi da quelle esorbitanze di Sisto, e avendo, sebbene
diversamente ciascuno, pigliato a difendere la causa de’ Fiorentini. Ma
fattosi innanzi più vivo degli altri Luigi XI, mandava un’ambasciata di
sei tra ecclesiastici e secolari, i quali fermatisi prima in Firenze,
recavano al Papa forti parole, con la minaccia di levare da Roma
i prelati francesi, e di togliere al Papa ubbidienza finchè la sua
causa fosse giudicata da un generale Concilio. Si facevano a questo
fine congregazioni in Francia di teologi. Era Sisto in molto grande
perplessità, e abbiamo una lettera scritta a lui dal buono e savio
cardinale Iacopo Ammannati, dove con caldezza d’animo devoto al Papa
e alla Chiesa, e usando parole tali che Sisto non se ne offendesse,
cerca di condurlo ai consigli temperati, mostrando i pericoli
gravi che alla Chiesa poteano venire se andassero innanzi quelle
dimostrazioni dei Francesi.[502] Dalle quali scosso, proponeva Sisto
che, facendo tregua, fosse la causa dei Fiorentini compromessa nei
Re di Francia e d’Inghilterra, e per terzo nel Legato da lui mandato
a questo effetto; e se i tre non convenissero, nell’Imperatore e nel
suo figlio Massimiliano, marito alla erede degli Stati di Borgogna:
ma questi essendo come l’Inglese contrari a Francia, era naturale
non soddisfacessero ai Fiorentini, che rifiutarono di accettare il
compromesso.[503]
Muovevangli anche gli uffici prestati a loro difesa dai Veneziani
che, avendo fatta pace col Turco, erano divenuti o almeno apparivano
più vivi e più pronti nelle cose della lega.[504] Teneano in Firenze
dal principio della guerra ambasciatore Bernardo Bembo; ed a Venezia
in ricambio andava Tommaso Soderini, autorevole, e vecchio amico di
quella Repubblica. Grandi imprese erano messe innanzi tra lui e il
Senato pel nuovo anno: assalire con le galere le coste di Puglia, fare
scendere in Italia il Duca d’Angiò: per l’una e per l’altra parve che
la spesa fosse troppa, e nulla si fece. Tra’ collegati, su’ Fiorentini
soli cadrebbe a ogni modo tutto il pondo della guerra. Temevano anche
di rimanere scoperti verso Genova, perchè i Lucchesi, sebbene di
nome fossero nella lega, desideravano in fondo dell’animo sopra ogni
cosa l’abbassamento della Repubblica di Firenze. E questa mandava ad
osservarli ed a contenerli Piero di Gino di Neri Capponi, giovane
ancora; il quale rimasto quell’inverno in Lucca, sul cominciare di
primavera, perchè gli umori bollivano, gli si levò contro un grande
tumulto di popolo armato, dal quale scampava con difficoltà la vita.
Imperocchè gli animi erano ivi molto accesi da Cola Montano che, stato
consigliero ma non esecutore della uccisione di Galeazzo, in Lucca
viveva, paese tra’ pochi allora in Italia dove fosse libertà; ed in
Lorenzo perseguitava un altro tiranno.[505] Aveva quel popolo pigliato
speranza da un appressarsi di nemici inverso i confini di Pisa e di
Lucca; del che erano state queste le cagioni. Morto Galeazzo duca
di Milano, voleano i fratelli di lui avere parte nel governo dello
Stato, il quale rimase alla vedova duchessa Bona tutrice del figlio
Giovanni Galeazzo: gli zii Lodovico, Ascanio e due altri, ebbero
esilio; e Lodovico sceso in Lunigiana, s’intendeva di là con Ferrando
e co’ fuorusciti genovesi, tanto che Genova dopo molta varietà di casi
tornava libera; ma il nuovo Doge, Battista Fregoso, vivea in amicizia
con lo Stato di Milano. Roberto da San Severino, capitano di molto nome
e che teneva per gli zii, trovandosi escluso da Genova, si mosse con
quattro mila soldati e con l’intesa del re Ferrando ad assaltare la
Toscana dal lato di Pisa.
I Fiorentini, colti alla sprovvista, mandarono subito a Pisa Commissari
che nel paese facendo raccolta di uomini comandati contenessero
il primo impeto, radunando in Val di Nievole altre genti le quali
impedissero ogni moto dei Lucchesi. Aveano ordinato anche al Duca di
Ferrara venisse ad opporsi, con quella parte che fosse necessaria del
suo esercito, a Roberto da San Severino; ma questi, dopo essere corso
fino alle mura di Pisa, voltò indietro, per non avere forze bastanti,
e si ricondusse nelle sue stanze di Lunigiana. Il Duca tornava su’
confini del Senese, dove si vedeva che sarebbe la guerra grossa, molto
i nemici ivi essendosi rafforzati. I Fiorentini dal canto loro aveano
condotto, con aggradimento dei Veneziani, il Conte Carlo da Montone e
Deifebo dell’Anguillara; agli stipendi loro da quei de’ nemici erano
venuti il prode Roberto Malatesta e Costanzo Sforza signore di Pesaro:
ottennero anche, che il Duca di Ferrara fosse riconosciuto Capitano
generale di tutta la lega; ed era in Toscana venuto il Marchese di
Mantova ai soldi dei Signori di Milano. Facevano grande disegno di
avere Perugia col mezzo del Conte Carlo per le aderenze sue nella
città; ma egli infermatosi, moriva in Cortona. E pur nonostante
continuando Roberto Malatesta le incursioni nel Perugino, gli mossero
contro il Prefetto di Roma nipote del Papa e Matteo da Capua che aveva
portato un rinforzo di quindici squadre. I quali venuti a giornata con
Roberto non lungi dal lago Trasimeno, furono dalla virtù sua rotti con
perdita degli alloggiamenti ed uccisione di molti nobili cavalieri e
di gran numero di soldati. Fu allora costretto il campo nemico fare
una mossa da quella banda; al che il Capitano dei Fiorentini che era
sul Poggio Imperiale, visto il terreno sgombro all’intorno, uscì con
parte delle sue schiere, ed ebbe per forza Casole, terra grossa dei
Senesi. Ma ivi accadde che nel saccheggio nate questioni per la preda
tra’ soldati di Mantova e quei di Ferrara, e quindi contesa tra’ due
Signori, e un’altra essendone tra Roberto Malatesta e Costanzo Sforza,
che nemmeno essi poteano più stare insieme, convenne partire l’esercito
in due; il che fu ruina di tutta l’impresa. Imperocchè i nemici con
arte sapiente raccoltisi insieme nelle estremità di Val di Chiana,
ed ivi per numero e per agevolezza di movimenti potendo con grande
vantaggio combattere così gli andati nel Perugino come i rimasti in sul
Senese, impedivano ogni mossa da entrambe le parti; il che era mandare
in lungo la guerra con danno gravissimo dei Fiorentini. I quali ebbero
da Venezia soli mille uomini d’arme, che poco fecero per le usate
circospezioni di quella Repubblica; ed in Lombardia essendo turbate le
cose, non che di là venissero nuove genti, furono costretti l’Estense e
il Gonzaga partirsi dal campo. Era il fine dell’estate, quando i nemici
accortisi come sul Poggio Imperiale si faceva mala guardia, partitisi
a un tratto dal Ponte a Chiusi, a grandissime giornate vennero ad
assalire quelli del Poggio. I quali dall’impeto improvviso sbigottiti,
vilissimamente si fuggirono, abbandonando quel forte sito ch’era difesa
della città di Firenze: per il che in fretta richiamate dal Perugino
le genti, e insieme con quelle le quali erano sul Senese facendo testa
ne’ poggi di San Casciano, sebbene fossero in tempo da porre la città
in salvo, non impedirono che i nemici sparsi giù per la Val d’Elsa,
prese altre castella, andassero in forza alla espugnazione di Colle.
Fu molto gloriosa quivi la difesa per sessanta giorni, concorrendovi
misti ai soldati i cittadini e le donne istesse con grande amore per la
Repubblica. Ma infine Colle cedette anch’esso ai 14 novembre 1479. E un
altro assalto contro ai Fiorentini si cominciava in Romagna da Roberto
di San Severino per la mutazione di fresco avvenuta nello Stato di
Milano.[506]
Quivi la Duchessa, debole e povera di consiglio e stretta dalle arti e
dalle forze dei cognati, gli avea ricevuti a partecipare nel governo
e nella tutela del figlio bambino; ma in breve fu ella necessitata
partirsi, ed a Lodovico rimase lo Stato come in libera signoria.
Il quale essendo nuovo ed ambizioso e già conosciuto tra gli altri
principi artifiziosissimo, nessuno vedeva da quale parte inclinerebbe:
Lorenzo temeva sopra ogni cosa la congiunzione di lui col Re, della
quale aveva già qualche sentore. Quindi era al Medici necessità
farsi innanzi e precorrere gli eventi: la guerra sarebbegli nel terzo
anno gravissima, ignorando egli sopra quali amici potesse contare.
Ed inoltre era la città stracca, essendo percossa in quegli anni
anche dalla peste, e voci insolite s’udivano fin dentro ai Consigli,
accusando gli errori commessi, le perdute spese, le ingiuste gravezze:
cagione lui solo dei pubblici danni. Vedeva Lorenzo per tutto ciò, che
a salvare la città e sè stesso gli era necessità ricorrere a un forte
partito; rompere la Lega ad ogni costo, ed egli gettandosi in braccio
all’uno dei due nemici come incurante di sè medesimo, destare negli
uomini con un grande atto ammirazione. Con Sisto, impossibile o sempre
mal ferma vedea l’amicizia; nel Re gli pareva doversi fidare, qualora a
lui si abbandonasse: rischio pur v’era ma necessario, e qui all’ardire
si congiugnea la prudenza; dove poi l’ardire sopravanzasse, valeva la
fiducia che in sè medesimo riponeva, egli sentendosi nato a vincere col
forte ingegno le difficoltà e a trarsi dietro gli altrui voleri.
Avea mandato fino dai 24 novembre[507] al Re chiedendo salvocondotto,
e con l’offerta di darglisi in braccio, Filippo Strozzi mercante che
a Napoli era pervenuto a grande ricchezza, destro e capace a molte
cose. Era anche d’intesa co’ due Capitani dell’esercito nemico, ai
quali scriveva il giorno stesso della partenza essersi indotto a quel
partito pei loro consigli, ed ora pigliarlo di buonissima voglia per la
gran fede che in essi poneva.[508] E già il Re aveva mandato a Livorno
due galere sottili a ricevere ed a condurre Lorenzo a Napoli. Il quale
avendo prima conferito questo suo pensiero con pochissimi, fece la
sera dei sei dicembre chiamare in Palagio dai Dieci una Pratica di
circa quaranta dei più principali cittadini, ed egli levatosi disse:
«averli fatti chiamare per conferire con loro una sua deliberazione,
nella quale non ricercava lo consigliassero ma solamente che lo
sapessero: aver egli considerato quanto la città avesse bisogno di
pace, massime non volendo i Collegati fare il debito loro; e perchè i
nemici pretendevano l’odio loro non essere contro alla città ma contro
a lui solo, avere proposito di trasferirsi personalmente a Napoli:
questa andata parere a lui utilissima; perchè se i nemici volevano lui,
l’avrebbero nelle mani, ma se volevano l’amicizia pubblica, questo
essere modo a intendersi presto e a migliorare le condizioni della
pace; se altro volevano, questa andata lo dimostrerebbe, e i cittadini
si sforzerebbero con qualche modo più vivo di difendere la libertà e
lo Stato: conoscere in quanto pericolo si mettesse, ma esser disposto
preporre la salute pubblica alla sua; chè oltre al debito universale
dei cittadini verso la patria, era particolare suo per aver egli avuto
dalla città più benefici e grado maggiore che alcun altro: sperare
coloro ch’erano presenti non mancherebbero di salvargli lo Stato e
l’essere, e così raccomandare a loro sè, la sua casa, e la famiglia:
e soprattutto sperare che Dio, risguardando alla giustizia pubblica, e
alla sua buona intenzione privata, aiuterebbe questo pensiero; e quella
guerra che si era principiata col sangue del suo fratello e suo, si
poserebbe e quieterebbe per le sue mani.[509]»
Dette queste cose, uscì dal Palagio e si partì di Firenze la notte
medesima. Giunto a San Miniato al Tedesco scrisse alla Signoria,
scusandosi del non averle prima comunicato questo suo disegno perchè i
tempi volevano fatti e non parole. A Livorno ebbe dai Dieci il mandato
d’ambasciatore al re Ferrando, con facoltà libera di conchiudere quanto
il popolo Fiorentino. Quindi salito a Vada sulle galere, giunse in
Napoli ai 18 dicembre. Quivi ebbe dal Re tanto amorevoli accoglienze
che egli medesimo si credette avere in mano la pace, ed a Firenze ne
scrisse; ma tosto dipoi s’avvidde le cose andare in lungo, o che il
Re temesse d’offendere il Papa, o che veramente, come fu creduto,
aspettasse di vedere se accadesse qualche mutazione nello Stato di
Firenze. Qui erano molto gli animi sospesi: ricordavano il tradimento
da questo Re istesso fatto a Iacopo Piccinino; e se Lorenzo venisse
a capitar male, benchè non mancasse chi se ne sarebbe rallegrato,
i cittadini più non fidavano gli uni negli altri così, da mettere
in comune la Repubblica com’era stata nei tempi addietro. Forse che
aveva Lorenzo nella fantasia sperato di conseguire un effetto pronto
ed intero; ma era sempre a lui grande necessità tornare portando una
pace non tanto cattiva, bene essendosi egli apposto, dovere quell’atto
animoso rialzare la parte sua, della quale intanto i principali rimasti
in Firenze si adopravano con ogni dimostrazione di forza a mantenere
bassi e disgregati i molti contrari. Questi veramente non può dirsi
formassero parte, perchè non aveano disegni fermi nè capi che fossero
dagli altri seguiti: il solo Girolamo Morelli, stato lungamente
ambasciatore in Milano e ora dei Dieci, troviamo che fosse per autorità
e senno in tanta grazia che già molti a lui s’accostavano; e non che
gli altri capi del Reggimento, Lorenzo stesso n’ebbe paura.[510]
Desiderava questi sopra ogni cosa spacciarsi tosto, nascondeva in petto
dubbi e ansietà, ma rendeasi intanto grazioso alla Corte[511] e grato
al popolo con le liberalità; comprava co’ doni gli amici del Re, spiava
di questo l’animo chiuso, e lo vinceva con l’eloquenza delle parole,
con la scioltezza dei modi e con l’acutezza sua nel giudicare le cose
di Stato e le nature di quanti erano Signori e Principi in Italia.
Scorreano due mesi e la pace non si conchiudeva: tra ’l Papa ed il Re
correano pratiche, mal cuoprendo questi l’avere promossa quell’andata
di Lorenzo, ed ora trattare separatamente con lui d’accordarsi. Del che
il Papa offeso molto, negava l’onore suo e della Chiesa essere in salvo
se non andasse Lorenzo in Roma ad umiliarsi ai piedi di lui; questo
essere in obbligo il re Ferrando di procurare, _avendo Lorenzo nelle
sue mani_.[512] Il quale di queste pratiche insospettito, si partiva
da Napoli; nè posso io credere che ciò fosse senza consenso del Re: ed
era fermo in Gaeta il primo di marzo, quando gli giunse da questi una
lettera scritta in latino molto ampia e solenne (forse era lettera da
mostrare più che da credere), che lo richiamava in Napoli con istanza
grandissima, dicendogli avere dal Papa avuta ogni sicurezza.[513] Ma
ciò nonostante Lorenzo avendo proseguito il suo cammino, il Re gli
faceva correre dietro il trattato da lui bell’e sottoscritto; ed era
quegli appena tornato in Firenze, dove fu accolto con grande letizia
e popolare benevolenza, quando la notizia della pace, molto da ognuno
desiderata, lo fece salire in maggior gloria e reputazione.
Era una pace quale potessero i Fiorentini allora sperarla. Imperocchè
delle cose di Romagna si faceva compromesso nel Re, nulla avendo
stipulato a favore di quei Signori i quali stavano in protezione
della Repubblica; non era promessa la restituzione de’ paesi tolti,
ma rimaneva ciò pure in arbitrio di Ferrando; s’obbligava la città
a pagare per un corso di anni al Duca di Calabria una certa somma di
danari a titolo di condotta; vi era poi anche pattuita la liberazione
dei Pazzi rinchiusi nella fortezza di Volterra. Fermaronsi dopo
quell’accordo le dubbiezze, tra le quali sembravano esitare dopo
l’andata di Lorenzo le risoluzioni degli altri Principi, ammirati
anch’essi di quell’ardimento e incerti a qual fine dovesse riuscire.
Milano aveva ratificato la pace, ed era entrato nella Lega già stretta
tra il Re e la Repubblica di Firenze. Ma per contrario i Veneziani, che
aveano cercato impedire quella unione, trovato il Papa di quella essere
malcontento, fecero nel mese d’aprile con esso una lega separata,
dalla quale usciva non molto dopo un’altra guerra. In Toscana aveva
il Duca di Calabria pubblicato prima una tregua, dopo la quale sotto
colore di guardarsi per la venuta che si aspettava in Italia del Duca
d’Angiò, era egli andato a porsi in Siena; dove facendosi arbitro delle
discordie ivi accese tra’ diversi Ordini o _Monti_ nei quali era diviso
quel popolo, già stava sul punto di farsene signore; antico disegno
della Casa d’Aragona, e cominciato dall’avo Alfonso quando egli muoveva
guerra ai Fiorentini. Era anche avvenuto nei principii dell’inverno,
durante la tregua, che i Fregosi, con aggressione improvvisa,
s’impadronissero di Sarzana: del che la Repubblica essendosi richiamata
al Duca di Calabria, questi, sebbene riconoscesse violata la tregua,
vietava però ai Fiorentini muovere le armi per la recuperazione di
quella città. Per tutto ciò stavano essi in timore grandissimo, e quel
Duca dicevasi in Siena poco nascondere la speranza di farsi signore di
tutta Toscana. La pace ottenuta in Napoli da Lorenzo potea finire in un
tranello.[514]
Ma intanto un subito ed a tutta Italia molto pauroso accidente fermava
ad un tratto le imprese dei Principi, costretti ad unirsi per la
comune difesa. Viveva tuttora Maometto II, il quale respinto dalla
espugnazione di Rodi per il valore maraviglioso di quei Cavalieri,
ma sempre insaziabile di fare conquiste, mandava parte delle sue
galere lungo le coste d’Italia, dove il pascià che le comandava, messi
in terra sei mila soldati, s’impadronì della città d’Otranto; e in
quella, vuotata con strage orribile degli abitatori, fortificatosi,
ed avendo seco un qualche numero di cavalli, scorreva e predava
le terre all’intorno. I Veneziani ebbero accusa d’avere chiamati
costoro per odio contro al re Ferrando;[515] e un ambasciatore Turco
attribuiva l’impresa d’Otranto alle suggestioni loro.[516] Nè andava
immune da quel sospetto lo stesso Lorenzo, il quale per mezzo dei
mercanti fiorentini aveva grande entratura in Costantinopoli, e dopo
che egli ebbe ottenuto dal Sultano la consegna del Bandini, diceano
potere appresso a lui ogni cosa.[517] Fruttò a Lorenzo quella discesa
del Turco la pace in Toscana, e poi dal Pontefice l’assoluzione
dell’interdetto. Imperocchè Alfonso duca di Calabria accorso a
difendere l’Italia da quell’insulto barbarico, abbandonava lo Stato
di Siena del quale era egli già come in possesso, e insieme, con suo
dolore gravissimo, la conceputa speranza di cose maggiori: per quella
partita Siena rimaneva in molto lunghe perturbazioni.[518]
Innanzi la fine di quell’anno 1480 i Fiorentini, udito che il Papa si
muterebbe dalla ira sua qualunque volta si umiliassero a domandare
perdono, prima gli mandarono Antonio Ridolfi e Piero Nasi a fare
dimostrazione dell’animo loro e ad accertarsi di quello del Papa. Dai
quali essendo già preparate le cose, andava in Roma un’ambasciata di
dodici cittadini, primi dei quali erano Francesco Soderini vescovo di
Volterra e Luigi Guicciardini. Portavano le Istruzioni, che se fosse
l’assoluzione indugiata così da mostrare poca voglia di concederla,
«o se per averla si chiedessero danari, o se la città avesse a fare
qualche dimostrazione per osservanza dell’interdetto, o se fosse
esclusa dalla universale benedizione qualche persona in particolare,
o se altra condizione potesse riuscire alla città o in pubblico o
in particolare ignominiosa,» dovessero gli Ambasciatori partirsi
da Roma, «supplicando la Santità sua che si degni bene considerare
l’atto, che la nostra città ha fatto inverso quella Santa Sede e
Sua Beatitudine per debito nostro, come è debito d’ogni cristiano
venerare quella Santa Sede ed a quella umilmente inclinarsi; e quello,
da altra parte, che a quell’atto si conviene, e quale sia l’ufficio
pastorale; perchè non dubitiamo quello non ha fatto ancora, lo farà
altra volta, quando e come meglio parrà alla Santità Sua.[519]» Ma
il Papa non pose con savio consiglio alcuna sorta di condizione; e
gli Ambasciatori entrati in Roma di notte tempo, e ricevuti quindi in
concistoro segreto, vennero, nel giorno prima determinato, ad aspettare
nel Portico innanzi la chiesa di San Pietro, della quale poichè furono
aperte le porte, trovarono il Papa assiso nella sedia pontificale e
circondato da molto numero di Cardinali; al quale prostratisi, e in
nome della città chiesto perdono dei falli commessi, il Papa, osservate
le rituali cerimonie, diede ad essi e alla città piena e universale
assoluzione.[520] Dopo di che uscirono dalla chiesa accompagnati
ed onorati molto degnamente, com’era usanza con gli ambasciatori:
in seguito aggiunse il Papa condizione, che i Fiorentini armassero
quindici galee contro al Turco.


CAPITOLO VII.
GOVERNO DI LORENZO. — MOTI DIVERSI E INDI PACE UNIVERSALE D’ITALIA. —
MORTE DI LORENZO. [AN. 1480-1492.]

Quando Lorenzo fu di pochi giorni tornato da Napoli, parve a lui essere
occasione di fermare per sempre lo Stato nella dipendenza sua, ed era
in parte anche necessità. In altro luogo diremo quel che riguardasse le
sue private sostanze, le quali erano da più tempo assai danneggiate;
ma quelle ancora di molti cittadini venivano offese, oltrechè
dalle gravezze, dalla molta difficoltà che avea il Monte a pagare
gl’interessi del pubblico debito che a tante famiglie facea patrimonio:
per questo e per altri titoli importava a quei dello Stato avere
le mani libere, ed ai nuovi e più efficaci provvedimenti assicurare
continuità.
Infino a qui gli Accoppiatori facevano ogni due mesi le scelte pe’
Magistrati dalle borse ch’erano a mano; si volle adesso creare un
ordine permanente, al quale spettasse eleggere a tutti gli uffici,