Storia della Repubblica di Firenze v. 2/3 - 22

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Signori. Ai quali mutarono titolo, e dove prima si appellavano Priori
delle Arti, perchè a tempo della istituzione della Signoria le Arti
contavano ogni cosa; ora decretarono che si chiamassero Priori di
Libertà, perchè avendo di questa la realtà distrutta, almanco il nome
ne rimanesse. Comandarono che fossero murate case dove il popolo avesse
da abitare comodamente, poichè per la grande moltitudine e per l’assai
murare di belle e grandi case dagli uomini nobili e potenti, pativa
il popolo disagio di abitazioni.[412] Aveano mandato, in quei giorni
che vigeva la Balìa, dieci galere tra in Inghilterra e in Barberia
ed a Costantinopoli con mercanzie; le quali tornate prosperamente,
vantaggiarono il Comune di sopra a cento mila fiorini, con letizia
della città.
L’autore di queste cose, Luca Pitti, fu dalla Signoria e da Cosimo e
da grande numero di cittadini riccamente presentato;[413] tanto che
è fama che i presenti aggiugnessero alla somma di ventimila ducati.
Cuoprivano, egli l’ingordigia, e i donatori la viltà, col nome di
pubblica gratitudine pei beneficii da lui recati alla città, della
quale parea Luca essere divenuto principe in luogo di Cosimo; questi
ritenuto per la infermità in casa, e quegli riverito, accompagnato,
cedutogli nelle radunanze il primo luogo: fu poi con insolita solennità
fatto dal popolo cavaliere.[414] Onde egli venuto in molta superbia
inalzava due molto grandiosi edifizi, che l’uno a Rusciano vicino un
miglio, e l’altro dentro alla città stessa; palagio che soverchiava
quello stesso eretto da Cosimo, avendo il Pitti dato il nome a quella
che poi fu abitazione principesca. Per condurre a fine il quale
edifizio, Luca non perdonando a modo alcuno straordinario, venia
sovvenuto delle cose necessarie non che dai privati ma dai popoli e
dai comuni; ed ogni persona sbandita o che temesse giustizia, purchè
fusse utile a quella edificazione, dentro sicuro si rifuggiva.[415] Gli
altri dello Stato non erano meno violenti e rapaci: la quiete pubblica
nascondeva offese private ed ingiustizie d’ogni sorta.
Morto il re Alfonso, come si è detto, Ferrando suo figlio aveva
dubbiosa la possessione del Reame, in Genova essendo il suo rivale
Giovanni d’Angiò con le armi francesi, e il papa Callisto, sebbene in
addietro fosse stato ministro d’Alfonso, mostrando intenzioni a lui
ostili fino a privarlo, come dicevasi, del Reame. Ma Callisto venne
a morte dopo soli tre anni di regno, e vecchio già era, e stando in
letto la maggior parte del tempo agitava di questi disegni; intantochè
per lettere e per legati dava gran voce di guerra contro al Turco per
salvazione della Cristianità. Gli succedeva, col nome di Pio II, Enea
Silvio Piccolomini, il quale alla sola Crociata intendendo con tutto
l’animo e le forze sue, dava a Ferdinando l’investitura del reame di
Puglia. Al quale però muoveva guerra Giovanni d’Angiò, che dopo avere
con l’aiuto dei principali Baroni quasi occupato tutto il Reame, ne fu
cacciato: ed anche Genova in quel tempo gli era caduta di mano, tolta
a lui da quei medesimi che ve lo avevano messo; e il Duca di Milano
avendo mandato le genti sue a quella impresa, ne ottenne quindi la
signoria. I Fiorentini, ricercati dall’Aragonese per la nuova lega, e
dall’Angiovino per la secolare inclinazione che essi ebbero a Casa di
Francia, rimasero in quella guerra neutrali. Ma queste cose vennero
dopo.
Era nell’aprile del 1459 venuto a Firenze il pontefice Pio II recandosi
a Mantova, dove egli aveva convocato grande assemblea dei Principi
cristiani per la comune difesa contro alla invasione dei Turchi.
Si trovarono insieme a Firenze, oltre a Giovanni Galeazzo figlio
primogenito del duca Francesco, i Signori di Rimini e di Carpi e di
Forlì: portavano questi la sedia del Papa nell’entrata solennissima
ch’egli faceva in Firenze. A onore dei quali, e per aggradire al
giovinetto Sforza che non arrivava ai diciassette anni, si fecero balli
e giostre molto ricche ed una caccia sulla piazza di Santa Croce, dove
furono condotti, oltre ai leoni che la Repubblica soleva nutrire, lupi
e cinghiali e fiere da mandria: e si portò a mostra una giraffa, nuovo
animale in quella età. Cosimo de’ Medici ospitava regalmente il figlio
dell’amico suo, dandogli feste e mascherate, nelle quali apparve il
nipote di lui Lorenzo, che appena toccava l’undecimo anno, vestito a
foggia di non so quale divinità.[416]
Mentre il Papa era in Firenze e la città in festa, moriva qui il santo
e dotto Arcivescovo Antonio Pierozzi, al quale perchè era di statura
piccola rimase il nome di Antonino. Modesto, rigido a sè stesso,[417]
largo nelle opere di carità cittadina e negli esempi virtuosi, assiduo
in comporre libri di morale disciplina massimamente per la istruzione
degli ecclesiastici, lasciava anche una Cronaca de’ suoi tempi messa
insieme la maggior parte da libri che oggi corrono a stampa. Severo
ai potenti, non fu ai Medici troppo amico:[418] fondava una pia
Congregazione per sovvenire ai poveri vergognosi, detta di San Martino;
dei quali era il numero grandissimo allora per le confische e per le
spogliazioni ch’avevano ridotto alla ultima miseria famiglie usate
all’opulenza.[419] Con alto pensiero volendo che pura si mantenesse
quella istituzione, vietava ad essa il possedere o terre o altro
fondo qualsiasi, ordinando fosse in tempo brevissimo venduto e speso
in elemosine tutto il capitale, comunque grosso, di ogni lascito
che fosse fatto alla Congregazione: la quale mantiene quella saggia
regola, e vive tuttora dopo quattrocento anni, senza che i mezzi mai
le mancassero alle buone opere, libera e monda per tale modo da ogni
carico d’amministrazione.
Intanto Maometto, vittorioso per terra e per mare, avea conquistato
sul Danubio tutte le provincie del caduto Impero, e contro ai Veneziani
la Grecia e le Isole, quivi spegnendo i principati che rimanevano dei
Latini: tra’ quali Francesco Acciaioli ultimo Duca d’Atene periva
strozzato per la crudeltà di Maometto. La virtù maravigliosa di
Giorgio Castrioto, soprannominato Scanderbeg, sola teneva lontani i
Turchi dalle spiaggie dell’Adriatico: in Europa niuno si mosse alle
sollecitazioni del Papa, ma questi di nuovo nell’anno 1464 chiamava
in Ancona non più i Principi a congresso, ma le forze tutte della
cristianità; egli stesso deliberato salire sulle navi e porsi a capo,
vecchio ed infermo com’egli era, di tanto gloriosa e santa impresa.
Cosimo dei Medici quando diceva motteggiando che il Papa era vecchio e
volea fare impresa da giovane, mi pare aderisse troppo alla dottrina
mercantile dell’utilità. I Veneziani, nemmeno essi molto credevano
a quella impresa; ma pure il vecchio loro doge Cristoforo Moro, fu
anch’egli costretto dal pubblico grido recarsi in Ancona.[420] Quivi il
Papa spossato moriva, ogni apparecchio di guerra essendosi per quella
morte disciolto; ma egli chiudendo con isplendore quella sua vita
affaccendata, e in tanta bassezza di cose cercando rialzare quanto era
in lui l’Italia e la sedia pontificale.[421]
Il 1 d’agosto 1464 Cosimo de’ Medici, consunto da lunghe infermità e
vecchio di settantacinque anni, moriva in Careggi. Pochi mesi prima
aveva sepolto il minore suo figlio Giovanni, ed innanzi un bambinello
che avea questi avuto dalla Ginevra degli Alessandri. Rimaneva Piero
con due figli, Lorenzo e Giuliano, entrati appena nell’adolescenza;
e il padre soleva fidare in Giovanni più che non facesse in Piero,
impedito molto dalle gotte, da cui lo stesso Cosimo era stato più
anni afflitto. Questi negli ultimi mesi della vita facendosi portare
per casa, dicea sospirando ch’ella era troppo gran casa per così poca
famiglia. Lasciò anche un figlio naturale, Carlo, che divenne cherico
e fu Proposto di Prato. Lorenzo, fratello minore di Cosimo, era morto
nell’anno 1440; e i discendenti di lui continuati con poca celebrità
finchè durava il lignaggio primogenito, montarono con l’estinzione di
quello a viemaggiore fortuna, avendo dato alla Toscana per duegento
anni i suoi Granduchi.
Cosimo aveva per testamento vietato che se gli facessero esequie
solenni: ma l’usata magnificenza della famiglia e il dolore di molti,
e l’ossequio dei magistrati, onorarono la fine di questo fra tutti
potente ed insigne cittadino.[422] Colui che aveva detto «meglio città
guasta che perduta,» fu per decreto pubblico soprannominato Padre della
Patria, quel titolo ancora leggendosi sopra il marmo che ricuopre il
corpo suo nella chiesa di San Lorenzo. Fu Cosimo di comunale statura,
magro e olivastro, di aspetto benigno, non senza acume e gravità.
Parco dicitore ma efficacissimo a persuadere, veniva al fatto senza
ornati; breve nel rispondere, non si spiegava innanzi d’essere chiaro
egli stesso si chiudeva in detti ambigui. Nessuno lo vinse quanto
ad accortezza; alla fortuna dovette l’essere portato in alto dai
suoi nemici, a sè medesimo il potersi bene difendere dagli amici: le
malvage opere parcamente usava e a quelle sapeva trovare compagni. Ebbe
grandezza di principe, e vita e costumi di privato cittadino: fuori
lo tenevano come signore della città, ed i principi e le repubbliche
si condolsero della sua morte.[423] Ma in Firenze ciascuno trattava
famigliarmente con lui, nel vivere giornaliero non oltrepassava le
usanze comuni. Venuto in potenza, non si volle imparentare con signori;
ma diede a Piero in moglie la Lucrezia dei Tornabuoni, e le due
figlie di lui maritava in Casa i Pazzi ed i Rucellai. Ebbe ricchezza
tale, che niuno privato uomo e pochi principi l’agguagliavano; era al
suo tempo il primo banchiere in Europa, tenendo banchi e ragioni in
molte città, ed il nome di Casa Medici avendo credito dappertutto.
Narra Filippo de Comines come i danari di Cosimo fossero di grande
aiuto a Eduardo IV d’Inghilterra per sostenersi nel Regno, tenendo
fuori per conto suo alcuna volta più di centoventi mila fiorini, ed
avendoli pe’ suoi agenti fatta malleveria verso il Duca di Borgogna
una volta di cinquanta, ed una di ottanta mila altri fiorini.[424]
Ma niuno mai fece più di lui nobile uso della ricchezza, e nelle
liberalità sue metteva splendore ma non senza accorgimento; piacevasi
molto a servire di danaro con cortesia fina i primi uomini del suo
tempo. Così aveva fatto con frate Tommaso da Sarzana, che divenuto
Niccolò V lo fece depositario in Firenze della Chiesa, della quale nel
Giubbileo del 1450 si trovò avere in mano oltre a cento mila ducati.
Avea molte possessioni, e queste amministrava con diligenza, essendo
egli intendentissimo dell’agricoltura, tantochè si dilettava alcuna
volta di sua mano potare le viti ed innestare i frutti che amava di
avere singolari. Ma la magnificenza sua mostrava più che altro negli
edificii; oltre al palagio di Firenze, fabbricava ville grandiose a
Careggi, a Fiesole, e nel Mugello, al Trebbio ed a Cafaggiolo. Vedemmo
com’egli edificasse una Libreria in Venezia, restaurò un Collegio degli
Italiani in Parigi; la Casa in Milano, dove un Portinari teneva il
Banco in nome suo, vinceva ogni altra d’ornato sontuoso ed elegante;
rimane essa in piedi tuttora. Le quali spese erano di molto passate da
quelle che egli faceva pel divin culto: alzò in città dai fondamenti la
Basilica di San Lorenzo, ampliò la Chiesa e il Convento di San Marco;
sul monte di Fiesole edificò la Badia ed un Convento a San Girolamo;
nel Mugello, un altro Convento pei Frati Minori: in molte chiese fondò
altari e cappelle splendidissime. Nè a ciò fu contento, che fino in
Gerusalemme apriva e dotava co’ suoi danari uno Spedale pei poveri
pellegrini. «Facea queste cose (scrive il biografo che gli fu amico)
perchè gli pareva tenere danari di non molto buono acquisto; e soleva
dire, che a Dio non aveva mai dato tanto che lo trovasse nei suoi libri
debitore. E altresì diceva: io conosco gli umori di questa città,
non passeranno cinquant’anni innanzi che noi ne siamo cacciati; ma
gli edifizi resteranno.» Sapiente parola quanto era magnifica, e buon
fondamento alla grandezza di Casa sua.[425]
S’imbatteva egli in quella età nella quale le arti belle si
esercitavano con più squisitezza di sentimento, come abbiamo già
veduto: i sommi artisti ebbe familiari, ed egli col dare ad essi lavoro
gli sovveniva; ma non ottenne che Donatello, al quale avea mandato a
casa una roba di panno rosato, volesse andare altro che in giubbetto.
Stavano quegli artisti a bottega, ma invece le lettere, dacchè
si fondavano principalmente sulla erudizione, erano signorilmente
trattate; e per l’acquisto o per le copie dei libri antichi latini
e greci, che in tanto numero quasi ad un tratto veniano in luce,
volevano spesa cui non bastavano che i più ricchi. Per quanti vizi
ella si avesse, certo era splendida quella età; e i Principi a gara
promuovevano gli studi, ed in Firenze erano molti cittadini facoltosi
che vi ponevano la persona e il tempo e l’opera e il danaro loro.
Cosimo si stava in mezzo tra questi; non era egli di molta dottrina,
benchè senza lettere non fosse, ma quanti a lui ricorressero trovavanlo
sempre aperto e facile. In San Marco fondava una prima Biblioteca,
la quale volle che fosse a comune uso degli studiosi; ne aperse
un’altra nella Badia di Fiesole, e aveva in sua casa grande numero di
codici, pei quali ebbe principio la libreria che fu poi detta Mediceo
Laurenziana. Da Vespasiano, che per lui faceva copiare i libri,
sappiamo quanta cura vi ponesse;[426] e così nel raccogliere anticaglie
ed ogni genere di preziosità. I Greci che innanzi al Turco fuggivano,
e che aprirono alle lettere un campo vastissimo e fino allora non
esplorato, trovarono lauto rifugio in Firenze; e l’Argiropulo ed
il Crisolora ed altri vi tennero cattedre per opera massimamente di
Cosimo, e vissero familiarmente con lui. Ma si onorava egli soprattutto
col sollevare la giovinezza povera ed oscura di Marsilio Ficino al
quale donava una casa in città ed una villetta a Careggi: la scuola
fondata dal buon Marsilio fruttò a quel secolo quanto ne uscisse di più
elevato nelle dottrine, e nella vita di più onesto e dignitoso.
Cosimo dei Medici ebbe non tocchi da esterne guerre gli anni suoi
ultimi, e la città lieta, dalle arti abbellita, fiorente d’industrie;
la moltitudine degli artefici assicurata contro alla oppressione
delle Arti maggiori. Fonte principale di ricchezza quella della seta,
dove è più semplice il lavoro, e quasi che tutto si viene a compiere
nelle case con poca ingerenza di quei minuti mestieri che nell’arte
della lana tanto disordine producevano: cessato lo sciopero, fra tutti
pessimo, delle sedizioni, cresceva il lavoro ed era meglio remunerato.
Gli spiriti, è vero, di questo popolo si abbassavano in quella pace,
nè il favore di Casa Medici era senza corruttela: ma questo rimase
dell’antico stato popolare, che principato non si avesse, nè corte,
nè armati a guardia del signore, nè abietto servire, nè silenzio
comandato. Cosimo sicuro dello Stato, come si è detto, con l’avere
in mano i magistrati e le gravezze, lasciava nel resto le cose andare
liberamente[427] ed amministrarsi pei Collegi e pei Consigli, dei quali
non era l’autorità vana. Il popolo vedeva non alterate le forme dei
suoi magistrati; e questi invece d’appartenere volta per volta a quella
fazione che la violenza ponesse in seggio, dipendevano da una Casa che
il popolo stesso aveva inalzata, di quella facendosi tutela contro gli
avversari suoi e contro ai danni delle sue proprie intemperanze. Dal
punto a cui siamo e già decaduta essendo la vigoria di questo popolo
di Firenze, ne sembra l’istoria perdere grandezza: ma pure è gloria
di questo popolo avere temprato a sè medesimo quella signoria che ad
ogni modo qui e dappertutto voleva ristringersi, e che uscita dal suo
proprio seno, lasciavagli pure ampiezza di vita: signoria tanto più
onorata quanto era più cittadina.


CAPITOLO IV.
PIERO DI COSIMO DE’ MEDICI. [AN. 1464-1469.]

Il governo di Firenze sebbene alla morte di Cosimo dei Medici si
reggesse tuttavia sulla potenza che il suo nome aveva in città e fuori,
pure nelle apparenze dipendeva da quei cittadini che stati capi della
fazione sua e da lui medesimo promossi, conoscevano sè oggi più liberi
e meno sicuri, tanto che dovessero a sè ed alla parte da sè medesimi
provvedere. Di questa erano principali Luca Pitti, Dietisalvi Neroni,
Agnolo Acciaioli; il primo dei quali, vano e fastoso, era strumento
da usare ma senza punto fidarsene; Dietisalvi, di grande ingegno ma
dubbio, e non di tale animo che valesse a trarsi dietro le moltitudini;
Agnolo, più atto a praticare le corti che non al vivere popolare, e
contro al Medici inasprito da offese private. Imperocchè essendosi
tenuto certo d’avere per un suo figlio l’arcivescovado di Pisa, Cosimo
volle darlo invece ad un suo congiunto Filippo dei Medici, costringendo
l’Acciaioli a contentarsi del vescovado d’Arezzo. Inoltre, avendo un
altro suo figlio presa in moglie con dote grandissima una fanciulla
de’ Bardi, ed essa tenendosi maltrattata in quella casa, uno dei Bardi
di notte tempo con molti armati la trasse via; il che parendo agli
Acciaioli offesa gravissima, e la causa avendo rimessa in Cosimo,
questi sentenziò che fosse la dote ai Bardi restituita e la fanciulla
restasse libera. Ma insieme ad Agnolo gli altri due pure invidiavano
alla potenza della Casa Medici, e questa credevano, per quanta si
fosse, difficilmente potersi tenere da Piero infermo e perduto quasi
dalle gotte, nè di tale ingegno che una incerta signoria valesse in sè
medesimo a continuare con le arti del padre. Vedevano anche la grande
mole della ricchezza lasciata da Cosimo divisa essere in tanti luoghi e
amministrata da tante mani, che il governarla era come avere un altro
Stato da conservare; faticosa opera, e massimamente gravata essendo
dalle tante liberalità e spese ch’egli avea fatte, sicchè il bilancio
male potrebbesi ricavare. Di tutte queste difficoltà Cosimo essendo
bene accorto, avea prima di morire commesso al figlio si consigliasse
con Dietisalvi Neroni circa il governo delle facoltà sue e dello Stato.
Il Machiavelli, che narra ciò, aggiugne come avendo Dietisalvi veduto i
calcoli delle ragioni e in questo trovato essere disordine, mostrasse
a Piero la necessità di fare vivi i danari dei molti crediti lasciati
giacenti da Cosimo, e che Piero avendo ceduto a quelle persuasioni
disdicesse le somme imprestate con tanta larghezza a ogni qualità
di cittadini: i quali tenendosi male trattati come se Piero, anzichè
ritorre il suo, gli avesse privati del loro, ne venne egli a perdere
riputazione ed amici, imputandosi all’avarizia sua l’incaglio ne’
traffici e i fallimenti che ne seguirono. Aggiugne lo stesso autore,
che fosse quell’imprudente consiglio dato a malizia da Dietisalvi, il
quale ricchissimo e potente di aderenze e fra tutti reputato sagace
e pratico dello Stato, ambisse in tal modo levarsi più in alto con la
ruina di quella Casa.
Egli pertanto e l’Acciaioli essendo in tutto risoluti d’abbattere
Piero, a sè tirarono facilmente Luca Pitti con dargli speranza di fare
lui principe della città; e usato che avessero il molto seguito di lui
e le ricchezze e la temerità non rallentata, sebbene fosse egli già
vecchio, erano certi di farlo quindi per la incapacità sua agevolmente
cadere. Con essi era un altro reputato cittadino e assai potente nella
Repubblica, Niccolò Soderini, il quale mosso da non private ambizioni
ma da onesto desiderio di restaurare la libertà, cercava con tutte le
forze dell’animo l’abbassamento di Casa Medici. Così nello Stato furono
manifeste le divisioni: la parte che aveva il nome da Luca si chiamò
del Poggio, fabbricando egli il suo Palagio su quello di San Giorgio;
e del Piano l’altra, che stava pei Medici: segrete combriccole si
tenevano per la città; molto sparlavasi in aperto. Di Piero dicevano:
non essere da tollerare in città libera tale continuità di maggioranza
da padre in figlio; molte cose essersi concedute alla prudenza, all’età
ed ai servigi resi da Cosimo alla patria sua, le quali non si doveano
a Piero concedere, avaro, altero, di poca esperienza, e per le sue
infermità poco o niente utile alla Repubblica. Ma gli altri dicevano,
che Luca vendeva lo Stato a ritaglio; che aveva la casa piena di
sbanditi, di condannati e d’ogni sorta di scellerati uomini; che sotto
apparenza di cortesia e di liberalità rubava il privato, spogliava il
pubblico, e non prezzando nè Dio nè Santi confondeva le cose umane
e le divine. A questo modo continuandosi gran parte dell’anno 1465
le divisioni, gli avversi a Piero misero innanzi che i Magistrati
ricominciassero, serrate le borse, a trarsi a sorte; il che da Piero
fu consentito perchè la cosa piaceva tanto, che il contrariarla
sarebbe stato tirarsi addosso troppo gran carico. Fu vinto con tale
consentimento ed allegrezza dei cittadini, che nel partito di tutto il
Consiglio non si trovarono che sei fave bianche.[428]
Usciva dipoi Niccolò Soderini Gonfaloniere per gli ultimi due mesi di
quell’anno, e parve che per lui si avesse a restaurare la libertà con
modi civili, secondo che gli uomini più assennati desideravano; laonde
fu egli accompagnato in Palagio da gran moltitudine di cittadini, e per
via gli fu posta in capo una corona di ulivo. Ma egli, com’era più atto
a svelare con l’eloquenza i mali che non con l’opera a correggerli,
avendo al principio del suo magistrato due volte radunato prima
cinquecento e poi trecento cittadini, e ad essi con lunga ed ornata
diceria mostrato i disordini, e chiesto che ognuno in quanto ai rimedi
volesse esporre il parer suo, molti dicitori saliti in tribuna, chi
l’una e chi l’altra cosa proponevano; così le due volte pei dispareri
dei consultori nessuno effetto ne conseguitava. Tentarono quindi
egli ed i suoi di levare via il Consiglio del Cento che disponeva di
tutte le cose importanti della città; al che essendosi opposti alla
scoperta gli amici di Piero, finalmente ciò impedirono. Ebbe anche
pensiero il Soderini di rivedere i conti a coloro che avessero avuto
amministrazione nello Stato; del che Luca Pitti non volendo per nulla
sapere, non se ne fece cosa alcuna. Corresse con molta fatica poche
delle esorbitanti cose fatte in addietro; volle dal popolo essere
creato Cavaliere, ma non l’ottenne. Infine avendo consumato il tempo
dell’ufizio suo nel rivedere le borse e fare il nuovo squittinio, lunga
opera e odiosa a molti, cedeva con poca sua reputazione il magistrato
il quale con tanta aspettazione aveva preso. Al che si credette
averlo condotto massimamente i consigli di messer Tommaso Soderini suo
fratello, che era molto amico a Piero e uomo da non volere commettere,
senza utile certo, a nuovi pericoli le sorti della città.[429]
Ma in questa si venne a scoperta divisione quando per la morte di
Francesco Sforza duca di Milano, avvenuta il giorno 8 di marzo 1466,
parve casa Medici avere perduto l’antico sostegno ed essere in dubbio
la pace d’Italia. Sebbene Venezia impegnata nelle guerre contro al
Turco, sola difendesse la Cristianità sul mare intanto che gli Ungheri
la difendevano sul Danubio, pure la molta potenza di quella Repubblica
e l’ambizione perseverante e la finezza dei consigli e quella stessa
superbia di modi ch’ella usava nel trattare con gli altri Principi e
Stati d’Italia,[430] a tutti la rendevano odiosa e temuta; e quindi la
lega che lo Sforza e Cosimo avevano stretta, ed alla quale Ferrando re
di Napoli aderiva, parea necessaria a comune difensione. A questo Re
si era lo Sforza congiunto per iscambievoli parentadi, e fu accusato
d’avere anche avuto le mani nello scellerato tradimento pel quale
Ferrando tirava a morte Iacopo Piccinino tra mense ospitali e sotto
apparenze d’amicizia sviscerata.[431] Con arti migliori teneva lo
Sforza il ducato di Milano, dove tra’ Visconti non era stato, a mio
parere, chi lo agguagliasse nelle virtù di principe, come niuno lo
avea pareggiato nella scienza della guerra. Levando in istima tra gli
stranieri il nome suo e le armi d’Italia, aveva mandato in Francia
soccorso di quattro mila cavalli al re Luigi XI nella guerra contro ai
suoi Baroni e contro ai Duchi vassalli di Borgogna e di Brettagna; ed
era in quelle armi Galeazzo Maria suo figliuolo primogenito, quando
essendo il duca Francesco venuto a morte quasi all’improvviso, al
figlio convenne ricondursi nello Stato, non senza pericolo d’insidie
per via, ma quivi accolto ed acclamato. Fu sempre fatale ai principi
Italiani che se uno sorgesse di pregio eminente, avesse figliuoli al
tutto degeneri: Galeazzo educato al fasto e ai riposi della corte,
ignaro delle armi, nè illustrandosi che pei vizi, di molto abbassava
nel breve suo regno la reputazione della Casa Sforza.
La Repubblica di Firenze mandava ambasciatori a Milano Bernardo Giugni
e Luigi Guicciardini, i quali offerissero al nuovo Duca tutte le forze
della città e sopravvegliassero ai casi occorrenti. Trovarono quello
Stato in gran disordine di danari, e qualche sospetto di guerra co’
Veneziani: richiesti, scrissero a Firenze perchè si stanziasse, come
s’era fatto più volte nei tempi del duca Francesco, qualche danaro in
prestanza, pigliando l’assegna sopra alle entrate più vive della città.
Fu risposto che offerissero quaranta mila ducati; e su questa sicurezza
vennero in Firenze, co’ due che tornavano, gli ambasciatori del Duca
per trattare i modi e procurare lo stanziamento.[432] Piero dei Medici
e i suoi allegavano le antiche ragioni che ebbe suo padre di mantenere
l’amicizia con lo Sforza; gli avversari, quelle che già noi vedemmo
ai tempi di Cosimo essere addotte contro una lega la quale pareva
d’utile privato più che di pubblico: aggiungnevano ora, non valere il
figlio quello che il padre valeva, e non v’essere motivo sufficiente di
scomodarsi per lui. Al che non bastando avere opposto, che la debolezza
del giovine Duca tanto più dava necessità di fare sforzi a mantenerlo,
il ch’era salute di tutta Italia; non fu il pagamento, sebbene
promesso, mai pei Consigli deliberato.
Da indi in poi gonfiati gli animi, le divisioni si resero vie più
manifeste. Ma i primi sei mesi di quell’anno 1466 le due parti stavano
l’una contro dell’altra in aspetto; e la Signoria, volendo pure fare
qualcosa, ordinava che i cittadini atti ai maggiori uffici prestassero
giuramento di non s’obbligare a parte veruna, di non fare segrete
combriccole e di non servire che alla Repubblica.[433] Giuramenti,
come avviene sempre ne’ casi politici, osservati da coloro cui non
bisognavano. Agli altri però giovava, sebbene diversamente, l’indugio:
Piero tenendosi in possesso, ed i nemici di lui reputando che per
essere le tratte libere si dovessero i magistrati bentosto empire
d’uomini della parte loro, donde agevolmente e senza disordini la
Casa dei Medici venisse a cadere da una autorità che risedeva in mani
deboli; giudicavano che dove a Piero venisse meno la facoltà di valersi
de’ danari del Comune, non potendo egli più sostenere l’antico credito
nelle mercanzie, ruinerebbero le sue private sostanze e insieme con
esse la reputazione nello Stato. Così aspettando volta per volta che
una Signoria uscisse che fosse opportuna ai loro disegni, cercavano
intanto di farsi aderenze negli altri Stati d’Italia, dove la pace
era in dubbio, e nuove occasioni potevano suggerire consigli nuovi.
Piero dei Medici era amico naturale al giovane duca Galeazzo Maria;
ed un Nicodemo Tranchedini, uomo di gran fede col duca Francesco e
che in Firenze risedeva da più anni oratore, manteneva quell’amicizia
e consigliava Piero in tutte le cose. I congiurati aveano qualche
speranza nel re Ferrando di Napoli; ma questi, per avviso di messer
Marino Tomacelli che per lui stava in Firenze, pigliava partito di
aspettare osservando senza scuoprirsi per alcuna parte. A Pio II era
succeduto nel pontificato Pietro Barbo veneziano, che assumeva il nome
di Paolo II. Questi da principio amico allo Stato dei Fiorentini, s’era
poi molto alienato da essi quando alla morte del cardinale Scarampi,
ch’era camarlingo della Chiesa ed uomo ricchissimo, volendo i nipoti
di lui succedere nella possessione di gioie e danari ed altro mobile
per somma grandissima che il Cardinale aveva in Firenze, e Luca Pitti
come parente agli Scarampi favorendo quelle pretensioni loro, il Papa
al contrario voleva che andassero alla Camera apostolica. Il che non
poteva egli ottenere per la potenza di Luca Pitti: e ne fu per nascere
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