Storia della Repubblica di Firenze v. 2/3 - 09

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Gino Capponi e Bartolommeo Corbinelli, che l’uno e l’altro erano dei
Dieci. Sapevano essi che Pisa bentosto caderebbe per la fame; dal che
era segno, tra molti altri, che Bindo veniva sempre digiuno, e dopo
cenato avrebbono voluto egli ed il compagno portar seco qualche pane;
ma Gino diceva: «portatene in corpo quanto volete, chè altrimenti non
ne avrete tanto che vi tenga in vita pure un centesimo d’ora.» Ma
benchè avessero quella sicurezza, pensavano pure che ad acquistare
Pisa per assedio si penava qualche dì di più; il quale indugio avea
pericoli, e che la città sarebbe andata a sacco senza rimedio: quindi
parve loro tornasse al Comune più conto averla salva e buona, che
guasta e deserta. Fermarono i patti, dei quali Gino era andato a
conferire co’ Dieci a Firenze: i patti furono, che messer Giovanni
desse in mano de’ Commissari la cittadella ed i contrassegni delle
rôcche; avesse fiorini tremila d’oro e la signoria di Bagno, per la
quale fosse egli raccomandato al Comune di Firenze; gli rimanessero le
isole di Capraia, della Gorgona e del Giglio, e per Andrea Gambacorti
la rôcca di Sillano; tutti fossero cittadini di Firenze, nella quale
avessero tre case, e fossero esenti da gravezze e gabelle nè potessero
per debiti essere costretti: in benefizio dei Pisani non si scrisse
nulla. Per l’esecuzione dei quali patti se gli doveano dare venti
statichi, i quali stessero dentro alla rôcca di Ripafratta nelle mani
di messer Luca del Fiesco capitano delle genti fiorentine, e di Sforza
e del Tartaglia condottieri. I venti erano giovani delle principali
case di Firenze, tra’ quali Cosimo dei Medici e Neri Capponi figlio del
Commissario, che l’uno e l’altro toccavano appena l’anno diciottesimo.
I Commissari, i Capitani e i Condottieri si radunavano quindi alla Casa
Bianca sulla riva d’Arno a fine di consigliare il come ed il modo (nel
caso che Pisa si avesse per patti) d’entrarvi senza che ella andasse
a ruba ed a sacco. Nel che differivano, tra loro sempre mali amici,
Sforza e il Tartaglia; chè l’uno voleva s’entrasse in Pisa per la
porta dei Prati, come in luogo più largo e meno facile alle offese, e
l’altro per quella di San Marco giù per il Borgo. Grande era la contesa
tra’ Capitani, quando Gino levatosi disse: «voi ci avete alcuna volta
dato ad intendere di vincere Pisa per forza, e ora che noi vi facciamo
aprire qual porta voi volete, e voi dubitate: avete paura voi di gente
assediata ed affamata? non più novelle, noi vogliamo che s’entri per
San Marco, e date modo ciascuno di voi che s’entri come se si dovesse
entrare in Firenze, o il difetto de’ vostri uomini porteranno le
persone vostre.» Alle quali parole, uno dei condottieri Franceschino
della Mirandola avendo risposto: «voi ci fate un aspro comandamento e
stretto; ma se il popolo contra noi si levi, non volete voi che s’entri
a ogni modo?» Gino a fatica gli lasciò finire le parole, e con impeto
e furia se gli volse e disse: «Franceschino, Franceschino, se il popolo
si rivolgerà, noi vi saremo come tu, e comanderemo e a te e agli altri
quello che sia da fare; e non ci andare più tentando o rompendo il
capo, chè noi vogliamo che si faccia quanto per noi v’è comandato.»
Andò a Firenze allora Gino, e parlò prima co’ Dieci e co’ Signori
soli; poi ai Signori ed ai Collegi disse: «Magnifici Signori, Iddio
ha permesso che Pisa venga alla vostra signoria; ed essa è in tanta
necessità delle cose da vivere, che pare a noi essere certi che voi
l’avrete in venti dì, come siamo certi d’avere a morire: ma così
accadendo non veggiamo come la terra non vada a saccomanno, con le
arsioni e ruberie e adulteri che a quello seguitano. Ma voi potete
averla per patti: sta ora alle Vostre Signorie a pigliarla per uno
de’ due modi, qual più v’aggrada; che se a patti eleggerete volerla,
l’avrete senza lesione alcuna nè ruberie o altro atto disonesto: e nel
cospetto di Dio ne acquisterete merito, ed appresso le strane genti
perpetua fama.» Sulle quali cose tenuto Consiglio, unitamente dissero
a voce viva volerla per patti. E dipoi messa a partito tra’ Signori,
Collegi e Dieci, di quarantasette ch’erano a sedere vi fu quarantasei
fave nere ed una bianca. Al che tutti gridarono ad una voce: rimettasi
un’altra volta, acciocchè si possa dire essere stati tutti d’una
volontà e che nessuna ce ne sia bianca; e così fatto, trovarono essere
tutte le fave nere.
Allora Gino tornò in campo, e sottoscrisse l’accordo; gli Statichi
giunsero da Firenze agli 8 d’ottobre, i quali doveano essere posti
sotto la guardia dei Capitani in Ripafratta perchè si potesse ire a
pigliare la tenuta della città; se non che i giovani malvolentieri
vi andavano, che avevano gran voglia d’essere all’entrata in Pisa:
del che ebbero grazia, avendo Gino e Bartolommeo promesso per loro si
costituirebbero il dì seguente, e i Capitani se ne fecero debitori al
Gambacorti. All’alba del giorno 9 di ottobre 1406, digià essendo per
alcune centinaia di fanti occupata la porta San Marco, ciascuno del
campo fu a cavallo, e ordinate le schiere con le bandiere spiegate
del Giglio e di Parte guelfa, e con gli stendardi del Capitano e
dei condottieri, giunsero al levare del sole in sulla porta di Pisa,
dov’era messer Giovanni Gambacorti con un verrettone in mano, il quale
pose in mano a Gino e disse: «questo vi dò in segno della signoria
di questa città, la quale è il più bel gioiello ch’abbia l’Italia;
e me di quello che abbia a fare avvisate.» Seguirono oltre tanto che
giunsero in piazza, dove il capitano Luca del Fiesco armò cavaliere
Iacopo dei Gianfigliazzi che teneva l’insegna del Giglio: fu fatta gran
forza dello stesso anche a Gino ed a Bartolommeo, ma non vollero. Era
la piazza gremita di fanti e di cavalli, che non vi si capiva; donde
sfilarono tutte le brigate armate, e andarono per la città pigliando
lungo cammino. I cittadini maravigliati si facevano alle finestre, che
pochi aveano prima saputo di quell’entrata: vedevansi gli uomini e le
donne smunti e quasi paurosi guatare. Alcuni dei soldati avevano recato
pani di campo, e ne buttavano dove avessero veduti assai fanciulli
alle finestre, i quali si gittavano a quel pane come uccelli rapaci;
ed i fratelli insieme si azzuffavano, e mangiavano con tanta rabbia
che a vederli era una pietà. Poi venne in Pisa, com’era dato l’ordine,
pane e farina in buona quantità; e ogni cittadino che poteva, corse
non guardando a prezzo; fu detto che molti per mangiare con troppa
rabbia, nè credendo mai torsi la fame, morissero. Non si trovò in Pisa
grano nè farina; solo vi era un poco di zucchero e un po’ di cassia e
tre vacche magre; ogni altra cosa v’era mangiata per necessità insino
a corre l’erba delle piazze e seccarla e farne polvere e poi focacce;
il pane che mangiavano i Priori era di lin seme. Bartolommeo da Scorno
aveva comprato un quarto di staio di grano che pesava libbre diciotto
e pagato fiorini diciotto d’oro larghi. E la mattina dell’entrata
sentendo ciascuno potere avere del pane mandò per un sacco del detto
pane, il quale nella sala di casa gittato innanzi alla famiglia sua
ch’era di trenta bocche, i fanciulli gridarono: Babbo, ne avremo noi
anche a merenda? tanto erano usi a patir la fame.
Tornati in piazza, i Commissari entrarono in palagio dov’erano i Priori
a piè delle scale, i quali a Gino ed a Bartolommeo diedero le chiavi
delle porte della città, e Neri di Gino per giovanile allegrezza
le prese in mano. Furono i Priori fatti ritrarre, e di palagio si
partì ognuno, salvo i Commissari con le brigate loro; e le bandiere
del Comune di Firenze furono appiccate alle finestre del palagio. Al
che Gino, ricordandosi d’una bandiera che i Pisani aveano tolta sul
principio della guerra e che trascinata a vitupero per la città era
indi stata posta a ritroso nel Duomo di Pisa; mandò ivi a rialzarla
e poi con grande compagnia e festa di trombetti recarla in palagio,
dove fu con le altre posta alle finestre. Mandarono quindi trecento
cavalli a pigliare le castella del contado di Pisa, delle quali niuna
fece resistenza, e tutte le terre mandarono in Pisa a fare le debite
sommissioni.
Gino allora volendo rassicurare gli animi dei cittadini, ai quali
pareva un miracolo che la terra non fosse ita a sacco, e non potevano
credere che ella ancora non andasse, tal che la mattina le robe
si davano per la metà della valuta; mandò per tutti i più notabili
cittadini, e raunati nella sala del Palagio, si levò e disse queste
parole che ognuno intese: «Onorevoli cittadini, noi non sappiamo se
pe’ vostri peccati o pe’ nostri meriti Iddio vi abbia condotti sotto
la signoria del nostro Comune, la quale con grandissimi spendii e
con grandissima sollecitudine abbiamo acquistata; e per le vostre
discordie questa vostra città è ridotta in tali termini, che infino
che la città di Firenze non diminuisse, ogni volta saremo atti a
conquistarvi di nuovo; e nonostante questo, siamo in animo disposti con
ogni sollecitudine conservare l’acquistato, con morte e con perpetuo
sterminio di chi tentasse il contrario. E quando voi penserete delle
cose passate, e quante volte voi siete stati cagione di mettere la
nostra città in pericolo della sua libertà, conoscerete voi essere
stati ricettacolo di qualunque è voluto venire in Toscana, e colla
compagnia degli Inghilesi fatto ardere e dibruciare i nostri contadi,
intesovi coi Visconti di Milano, ed a loro dato ogni aiuto e favore
per offendere e sottomettere la nostra città, infino a patire voi
d’essere venduti a messer Giovan Galeazzo, e sopportare la sua signoria
per offendere noi: e così molt’altre offese e ingiurie potremmo
raccontare. Ma perchè a voi sono benissimo note, le trapasserò. E per
rispetto delle quali vedrete che il nostro Comune non poteva fare
di meno che s’abbia fatto, a volere vivere sicuro di suo stato; nè
a voi debbe dispiacere tale signoria, perocchè i nostri magnifici ed
eccelsi Signori ci hanno comandato, che con ragione e giustizia noi
vi governiamo fino a tanto ch’altri manderanno al vostro governo:
e già per effetto potete avere veduto, che avendovi noi vinti per
assedio, ch’eravate ridotti in tanta estremità che vi conveniva o
morire di fame o aprirci le porte in questi tre giorni, e questo a
noi era benissimo noto. Ma noi piuttosto abbiamo voluto fare cortesia
a messer Giovanni Gambacorti di fiorini cinquantamila per avere la
città con patti, acciocchè con ragione si sia potuto rimediare che non
siate iti a sacco; chè se avessimo aspettato e non voluto concordia,
noi avevamo la città, e i soldati il sacco, il quale dicono che di
ragione non debbe essere loro vietato: e voi avete veduto che non
altrimenti sono entrati dentro, che se religiosi stati fussono; chè
solo una minima ruberia o estorsione non s’è inteso che sia stata
fatta ad alcuno. Del che certo noi medesimi ce ne rendiamo grandissima
maraviglia, che qualche scandalo non sia nato alla moltitudine grande
della gente che ci è; e non altrimenti che se nella propria città di
Firenze avessimo avuto a fare la mostra, e con molta più onestà si
sono portati, che quivi non arebbono fatto: chè, se altrettanti frati
osservanti ci fussono entrati, più scandalo certo ci sarebbe stato. La
cagione perchè al presente noi vi abbiamo qui raunati, principalmente
si è per confortarvi della Signoria del nostro Comune, dalla quale non
secondo l’opere fatte per voi pel passato contro a quello, ma siccome
buoni figlioli sarete benignamente trattati. Appresso, per rendervi
sicurtà, che voi e ogni altro vostro cittadino stia sicuramente, e
che di niente dubiti, nonostante alcun delitto o eccesso o bando per
qualunque cagione, o commesso da oggi indietro, ed etiam nonostante
alcun patto fatto con messer Giovanni, de’ rubelli ch’egli ha voluto
per patto (il quale patto di ragione non procede, come a luogo e tempo
sarete avvisati). E se a nessuno fosse fatta cosa alcuna non dovuta,
venga sicuramente a dolersene, e così vi comandiamo, e vedrete che per
effetto se ne farà tale punizione che sia esempio ad ognuno, e non fia
sì piccola ingiuria, che le forche quali abbiamo fatte rizzare in più
luoghi per la città, e i ceppi e mannaie che già in sulla piazza sono
in punto, si adopreranno contro a chi facesse quello che non dovesse.
E a questi Capitani e Condottieri che ci sono, abbiamo comandato, che
se di loro brigata alcuno farà cosa non dovuta, la imputeremo fatta
da loro propri, e che alle proprie persone daremo quella medesima
punizione che meriterebbe chi commessa l’avesse; sicchè state di buona
voglia, e di niente dubitate. Vogliamo eziandio che le vostre botteghe
e d’ogni altro s’aprano, e che attendiate a fare le vostre faccende,
traffichi e mercatanzie sicuramente sopra di noi. Crediamo ancora che
sia utile, che voi provvediate di mandare a’ piè de’ nostri eccelsi
Signori una solenne ambasciata con pieno mandato a riconoscerli per
vostri signori; e bench’essi sieno disposti benignamente verso di voi,
pure tale andata fia cagione di confermarli nel loro proposito: e anche
potrete loro raccomandarvi della riforma, che al presente si ha a fare
di questa città; del che non può essere che utilità grandissima non ve
ne segua.»
Finito che Gino ebbe di dire, si pose a sedere; al quale, com’era
prima ordinato, un Bartolo da Piombino rispose parole (un Pisano non
avrebbe) di abietta sommissione, di pentimento delle offese fatte
alla Repubblica di Firenze, e di smaccata gratitudine perchè la città
non fosse andata a saccomanno. Questa lunghissima diceria irta di
testi latini, ripigliando le parole che Gino avea dette, esortava
nominare gli ambasciatori i quali andassero ai Signori di Firenze
con pieno mandato a fare umili raccomandazioni circa l’assetto che ai
sopradetti Signori piacesse dare a questa loro città di Pisa. E dopo
ciò, fatto suonare a parlamento, furono eletti venti ambasciatori tra
cavalieri, dottori e capitani i più onorevoli che avesse la città, i
quali andassero a rappresentarsi ai Signori. Gino fu eletto Capitano di
Pisa per otto mesi, e Bartolommeo Corbinelli Potestà per sei, i quali
avessero il governo;[118] quindi a ordinare tutte le cose e dare forma
al nuovo acquisto elessero dieci, i quali furono chiamati i Dieci di
Pisa.
Non è da dire se a Firenze, tosto che seppero la novella, fosse
gran festa. Tre sere fecero fuochi in città e nel contado, tre dì
processioni e rendimenti di grazie a Dio nel maggior Tempio. Mandarono
avvisi per tutta Italia; e dai Signori in accomandigia e dai vicini e
dagli amici vennero ambasciate a congratularsi col Comune. Celebrarono
in sulla piazza di Santa Croce una ricca giostra, un’altra ne diede
il Signore di Cortona venuto in Firenze, un’altra fu a spese dei
Capitani di Parte guelfa. Grande lo sfoggio della magnificenza negli
abbigliamenti delle donne, e gli statuti contro al lusso non mai furono
osservati meno:[119] era Firenze in sul colmo allora d’ogni opulenza
e felicità. Molto anche si tenne onorata di quel celebre volume delle
Pandette di Giustiniano, che aveano i Pisani portato da Amalfi tre
secoli prima per concessione di Lotario imperatore, e Gino Capponi
recava in Firenze:[120] il quale volume sebbene non fosse (come fu
creduto lungamente) solo in Italia a risuscitare ne’ tempi d’Irnerio
lo studio delle Romane leggi, fu però tra’ pochissimi esemplari tenuti
siccome testi autorevoli del diritto. Quindi riporlo negli armarii loro
parve a’ Fiorentini premio tra’ più nobili della vittoria conseguita,
siccome ai Pisani venirne spogliati fu lungo dolore, nè d’altro si
tennero ingiuriati maggiormente, nè più abbassati nella opinione degli
uomini allora volti agli studi d’erudizione e alla ricerca d’antichi
Codici. Oltre alle _Pandette_, vennero in Firenze certe Reliquie tenute
in grande venerazione dai Pisani. Questa pratica del togliere alle
città vinte le reliquie dei loro Santi non era nuova ai Fiorentini;
avea recato d’Arezzo in Firenze Donato Acciaioli quella di San Donato:
intorno a che uno storico non si dimentica classicamente di ricordare
la simile usanza che aveano i Romani, che non lasciarono se non per
obbrobrio ai Tarentini gli Dei sdegnati.[121]
Quindi con grande sollecitudine si diedero in Pisa a fabbricare
fortezze in più luoghi, bene avveggendosi fin d’allora quella essere
la sola via d’assicurarsene. Oltreciò ritennero gli ambasciatori in
Firenze, dove obbligarono trasferirsi quanti erano in Pisa cittadini di
più conto sia per le ricchezze, sia per il grado e pel valore. Andavano
a Pisa dalla Signoria le liste di quelli ch’erano da levare, o soli o
con le famiglie loro; condotti a Firenze, era ordinato si rassegnassero
ogni mattina al Potestà. Viveano, secondo scrive Giovanni Morelli,
decorosamente mesti, e praticando coi Fiorentini mostraronsi bella ed
onorata cittadinanza: ma il Capponi, perchè fu lento alla esecuzione
del duro comando e alle preghiere cedeva, ebbe rimproveri molto
acerbi. Sinchè le fortezze fossero compiute, cercavano Pisa rimanesse
vuota quanto più fosse d’abitatori; temeano scendessero nella città i
contadini in troppo gran numero, e vi abbondasse la vettovaglia più
che non facesse alla necessità giornaliera.[122] Non poche famiglie
delle maggiori avevano spatriato, le più a Napoli ed in Sicilia, dove
illustri casate ritengono sempre nomi che furono di Pisana origine. Col
venir meno i capitali, co’ ceppi a’ commerci, con la oppressione delle
leggi, con l’impaludamento di quelle pianure, la nobile Pisa cadde in
miserabile fortuna: si trovano privilegi dati a tedeschi mercatanti,
i quali vi andassero siccome in vuota città a esercitare le industrie
loro.[123] Ma ciò non bastava; e la paura facea crudele contro ai
Pisani la Repubblica di Firenze più anni ancora dopo la conquista.[124]
Le istorie di Pisa cessano al cadere della indipendenza. Un Cronista
pisano di quegli anni i quali corsero fino alla disperata ribellione
del 1494, nulla registra fuorchè i nomi dei castellani e poche altre
cose: due volte sole sente allegrezza quando la peste, vendetta di Dio,
colse da prima i Genovesi e i Fiorentini dipoi;[125] città infelice,
più non viveva che agli odii memori de’ suoi danni.
Quello ed il precedente anno aveano in Italia veduto private della
indipendenza loro tre illustri città, Pisa, Verona, Padova; i novelli
Stati già cominciavansi a comporre, e già la struttura interna d’Italia
andava a quella abortiva forma d’onde uscì guasta la vita nostra.
Ma la Repubblica di Venezia, siccome più forte, trattava i sudditi
anche delle città grandi con più sapiente dignità, e questi a lei
tennero fede costante; Pisa e Firenze non seppero altro che farsi
male, spettacolo empio tra due popoli vicini. Ma era guerra disuguale;
dappoichè Pisa tutta vivendo sulle marine, avea perduto con la signoria
di queste l’antica possanza; nè un popolo ghibellino trovava favore
tra gli altri popoli dell’Italia, dov’egli si stava come disagiato:
avvenne poi che Firenze avesse da oltre cento anni maggiore ventura
di forti uomini e d’ingegni. L’acquisto di Pisa non bastò a comporre
la Toscana, ma diede a Firenze la sicurezza di sè medesima e de’ suoi
traffici: la Repubblica avrebbe però d’allora in poi abbisognato, col
farsi più grande, di migliori ordini a frenare le private cupidigie e
le ambizioni fatte più audaci. Scrive Gino Capponi ne’ suoi Ricordi,
come i savi uomini di Firenze avessero preveduto innanzi l’acquisto,
che la grandigia e riputazione de’ cittadini del Reggimento, cioè di
quei pochi nei quali stava, sarebbe mancata; ma chi ne fu operatore
(aggiunge egli, a sè accennando) ebbe riguardo al bene universale.
Se vero bene fosse non so, ma era necessità; era di quelle necessità
che le passioni a sè stesse fanno, e sulle quali, perchè rivengono
quasi uniformi nei casi simili, fonda i suoi calcoli la politica, e la
storia i suoi canoni. Certo s’ampliarono i commerci ed il largo vivere,
le possessioni dei Fiorentini parvero essere più sicure: queste che
si trovano ammontare a venti milioni di fiorini d’oro, e i capitali
sul Monte presso che a cinque milioni, crebbero il quarto dopo avuta
Pisa.[126] Ma crebbero anche le imprese fuori e le spese dentro; e
insieme con esse quelle civili disuguaglianze che sono perdita della
libertà.


CAPITOLO V.
CONCILIO DI PISA. — GUERRA CON LADISLAO RE DI NAPOLI. ACQUISTO DI
CORTONA E DI LIVORNO. [AN. 1407-1421.]

Cento anni prima sarebbe stata quella vittoria dei Fiorentini tenuta
vittoria del popolo guelfo per tutta Italia; ma ora l’Italia nemmeno
sapeva più essere guelfa: divisa la Chiesa per la continuazione dello
scisma, e il nome dei Papi e quello di Roma caduti sì al basso, che
un Re di Puglia credette aggiugnere ai suoi dominii quella città
come finitima e vacante, senza che Italia se ne risentisse. Era il
giovine Ladislao, che avendo respiro dagli Angiovini di Provenza e
vago d’imprese, poichè gli falliva quella d’Ungheria, perduto retaggio
della famiglia del re Roberto, si voltò a Roma ed all’Italia. Avendo
suoi complici i Colonna ed i Savelli, possenti baroni, attizzava le
discordie allora continue tra Innocenzio VII che aveva il Vaticano,
ed il popolo di Roma il quale teneva secondo i patti il Campidoglio.
Attorno stava con le sue genti il Re che aveva pure tentato
d’occupare la città, ma ributtato popolarmente per aspra battaglia,
vidde frustrati i suoi disegni fino alla morte del Papa, la quale
avvenne sulla fine di quell’anno 1406. A lui successe Angelo Corraro
veneziano, che si chiamò Gregorio XII; ma era elezione condizionata
a che dovess’egli immediatamente praticare si radunassero i due
collegi per la cessazione dello scisma; e dove non fosse per tale
modo egli confermato papa, lasciasse la tiara, della quale si tenesse
frattanto custode o solamente procuratore. Di ciò in Firenze abbiamo
autentico documento; ma la Repubblica si era un poco intinta con quel
di Avignone, e quindi per altre più strette cagioni s’allontanarono da
Gregorio. Aveva egli fin dai primi giorni scritto lettere a Benedetto,
e Benedetto a lui, perchè tra essi e tra’ Cardinali di ambe le parti
un convegno si fermasse, il quale dopo assai lunghe pratiche fu
appuntato in Savona: e Gregorio si partiva da Roma e chiese venire in
Firenze, ma dalla Repubblica schivato con belle parole, si fermò in
Siena. Quivi a lui furono ambasciatori di molti Principi, e chi l’una
cosa e chi l’altra gli diceva: Gregorio prestava orecchie facili a
coloro che a lui mostravano il gran rischio di porsi in Savona sotto
la mano del Re di Francia e dell’Antipapa suo; chiedea guarentigie
e difese che bastassero: intanto però si mosse e venne fino a Lucca,
mentre Benedetto era disceso in Porto Venere. Così da vicino era un
andare e venire, e uno scambiarsi di condizioni poste all’accordo,
che lo rendevano ogni dì più arduo; perchè nelle pratiche, se l’uno si
accostasse, l’altro si scostava; e le due parti, anzichè intendersi,
viemaggiormente si dividevano.
Allora s’udiva come Ladislao con forte esercito assalita Ostia e andato
poi contro a Roma stessa, era ivi entrato con intelligenza di Paolo
Orsini che in nome del Papa tenea la città, mostratosi connivente lo
stesso Legato che venne a Lucca senz’altro dire. E Bucicaldo in que’
giorni stessi avea nel porto di Genova armate tredici galere, a qual
fine s’ignorava; le quali uscite, mentre aspettavano in Porto Venere
il mare propizio, giunse la novella che Ladislao era entrato in Roma:
al che tosto le galere tornarono in Genova, scoprendosi allora o almeno
essendo tenuto per certo l’intendimento che Bucicaldo avrebbe avuto di
collocare colle armi sue Benedetto in sulla cattedra di San Pietro.
Certo è però che Gregorio in Lucca approvò il fatto di Ladislao più
che col silenzio, e ne mostrò allegrezza, rompendo in quel punto i
negoziati, ed a viso aperto dichiarando sè essere solo e vero Papa. I
Fiorentini di tal mutazione accusavano un concittadino loro, Giovanni
Dominici, che era l’anima de’ suoi consigli: a tutti riusciva quella
caparbietà troppo nuova in uomo già vecchio e tenuto fino allora di
mite natura, senza orgoglio nè ambizione, pel quale concetto lo avevano
scelto. Ma il grado assunto e la controversia lo aveano mutato, e la
persuasione del diritto in lui radicata pigliava calore e tenacità
di fede; nella quale si venivano a travestire la compiacenza dello
imperare gustato, e l’insofferenza d’umiliarsi in faccia ai men degni
dopo le scambiate contumelie, facendosi come traditore della parte che
intorno a lui s’era andata formando e che a resistere lo incitava.
Dichiarò a un tratto volere fare altri quattro Cardinali; il che da
coloro che stavano seco si gridava essere contro la solenne promessa
data: non vi badò, e fece i Cardinali nuovi, tra’ quali era il Frate
Giovanni Dominici, ed un altro pure fiorentino Fra Luca Manzuoli della
regola degli Umiliati, vescovo di Fiesole.[127] Vietò agli antichi
uscire da Lucca, e a Paolo Guinigi signore della città faceva istanza
non gli lasciasse; ma i Cardinali, tutti fuorchè uno, deliberati di
abbandonare Gregorio, trovarono modo di condursi a Pisa;[128] e quei
rimase con cinque soli, mentre al maggiore numero che da lui s’erano
separati, altri si vennero ad aggiugnere di quelli che stavano in
comunione con Benedetto. Il quale poichè in grande sinodo nazionale
la Chiesa di Francia gli aveva tolta l’ubbidienza, non si tenendo più
sicuro nella riviera; montò con pochi suoi aderenti in sulle navi,
prima fuggitosi in Perpignano, poi a stabile residenza in un monastero
dell’Aragona patria sua. E i Cardinali delle due parti, dopo lunghe
conferenze avute in Livorno, deliberarono insieme aprire un Concilio,
al quale chiamarono in Pisa pel giorno 25 di marzo del prossimo anno
1409 i vescovi e il clero da ogni parte della cristianità, scrivendo
ai Principi con invitazione di farsi in quello rappresentare, affinchè
avesse autorità d’universale consentimento. La Repubblica non senza
contrarietà di consigli, e dopo aver procurata consultazione solenne di
quanti erano in Firenze dotti e maestri ne’ sacri canoni, diede licenza
si radunasse in Pisa il Concilio, pel quale si vidde stare la coscenza
del mondo cristiano; e a’ Fiorentini parve che fosse «restituire la
Chiesa in quello che prima l’avevano offesa, avendone grazia appresso
a Dio e onore del mondo e fortezza dello Stato.[129]» Questo pensare,
ch’era nel popolo, reggeva l’animo dei potenti, offrendo un mezzo a
contenere le ambizioni di Ladislao che minacciavano la Toscana.
Era palese oramai l’accordo tra questo Re e Gregorio papa. Aveva
quegli invidiosamente chiesto ai Fiorentini il passo per due migliaia
delle sue genti, che in Lucca andassero a tutela del Pontefice. Al
che si negava la Repubblica, ma diede scorta a Gregorio di soldati,
quando da Lucca si recò in Siena, ritrattosi quindi più tardi a
Gaeta: ma in Siena, dov’egli creò altri nove Cardinali, fu detto
avere al Re concessa l’occupazione delle terre della Chiesa, questi
avendogli somministrato ventimila ducati d’oro, dei quali il Papa aveva
necessità per proprio suo sostentamento. Vedeano pertanto i Fiorentini
sè in odio al Re per il Concilio chiamato in Pisa, e distendendosi
le armi sue da tutta la Marca sino ai confini della Toscana, ben
prevedevano si volterebbero contra loro. A lui mandarono prima in Roma
ambasciatori; ed egli essendo tornato in Napoli, altri ne inviava alla
Repubblica.[130] Cercava il Re trarre seco in lega i Fiorentini, che
rifiutarono pertinacemente: bene usando parole amiche, giustificaronsi
del favore prestato al Concilio, da lui richiedendo lasciasse andarvi
i prelati del suo regno; e tra’ motivi del permesso dato, mettevano
quello d’evitare che se il papa in altro luogo si eleggesse, ne uscisse
un papa oltramontano. Mostrarongli anche certa segreta scritta che i
Cardinali avevano fatta obbligandosi di conservarlo, qualunque di loro
divenisse papa, nella possessione del regno di Napoli. A questo rispose
Ladislao, che i suoi prelati non manderebbe al Concilio, e della
scritta dei Cardinali si curava poco, dicendo com’egli fuori del Reame
teneva Roma ed altre terre che non voleva lasciare. In quanto a Roma,
gli ambasciatori consentivano la ritenesse; ma si dolevano di Perugia,
siccome avvìo alle cose di Toscana, circa le quali parlarono alto.
Era tra essi Bartolommeo Valori, uomo d’assai grande estimazione nella
città; il quale al Re, che gli domandava con che genti si potrebbono
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