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Storia della Repubblica di Firenze v. 2/3 - 28
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condotto Innocenzio ad un atto di favore molto insolito, e che fu nei
tempi avvenire fondamento dal quale saliva fino al principato la casa
dei Medici. Giovanni, secondo figlio di Lorenzo e che i due altri per
ingegno superava, dal padre era stato fin dalla puerizia incamminato
all’ecclesiastiche dignità. Ai sette anni insieme alla cresima ebbe la
tonsura, e fatto dal Papa Protonotario, si chiamò da indi in poi Messer
Giovanni: il re di Francia Luigi XI gli avea conferita l’abbadia di
Fonte Dolce; ebbe indi quella di Passignano in Toscana, ed una dal Duca
di Milano, e poi quella fra tutte insigne di Monte Cassino. Luigi XI
aveva anche tenuto discorso di farlo arcivescovo d’Aix in Provenza; al
che il Papa metteva per gli anni difficoltà, sebbene lo avesse fatto
abile a tenere gli ecclesiastici benefizi.[547] Tuttociò era innanzi
la morte di Sisto IV e che il fanciullo pervenisse ai nove anni. Prima
che fosse giunto ai quattordici, da Innocenzio fu creato Cardinale,
ma con la riserva di indugiare alla pubblicazione tre anni; i quali
essendo compiti nel marzo del 1492, pigliava con grande solennità in
Firenze Giovanni l’investitura di quel grado, e subito andava in Roma
ad esercitarlo.[548] Abbiamo i consigli che il padre a lui dava per
iscritto intorno al modo di contenersi nel cardinalato; consigli che
onorano Lorenzo: e poichè ad abbreviarli si guasterebbero, e letti
potranno servire all’istoria, abbiamo proposito di pubblicarli tra’
Documenti che saranno in fine a questo volume.[549]
Per tante grandezze a molti pareva Lorenzo avviarsi al principato, ed
era voce che non appena con l’età di quarantacinque anni divenisse
abile al supremo magistrato, sarebbesi fatto creare Gonfaloniere a
vita. Un grande passo aveva fatto l’anno 1490 col togliere al Consiglio
dei Settanta l’autorità di creare la Signoria, il che era avere lo
Stato in mano. Questo da principio Lorenzo aveva sofferto dividere con
un collegio di suoi devoti, ma era numeroso ed era perpetuo, da non
potersi alla lunga governare: per questo e perchè le cose andassero più
strette e più spedite, fece Lorenzo eleggere una Balìa di Diciassette,
dei quali era uno egli medesimo. Fu ordinato che ai Settanta rimanendo
l’autorità d’una Pratica o Consulta, tutto il maneggio delle scelte
si facesse per vie coperte dagli Accoppiatori, com’era già stato.
Quella Balìa decretava più altre riforme, tra le quali, perchè era in
Firenze quantità di monete nere di vari paesi; mettendo queste fuori
di corso, ordinarono che le gabelle si pagassero in monete bianche
allora coniate, nelle quali entravano due oncie d’argento per libbra e
valevano il quarto più delle altre. La cosa era per sè buona, ma per
questo modo crebbero assai le entrate della città, con molto gridare
della plebe alla quale rincaravano tutte le grascie e cose necessarie
al vitto. Con altre industrie fu continuato l’antico scandalo
circa al Monte delle Doti, di nuovo ridotte e sempre a benefizio di
Lorenzo.[550]
Il titolo di Magnifico a lui serbato dalla posterità era solito darsi
a chiunque avesse condizione più che di privato. Già egli traeva a sè
ogni cosa: lui personalmente riconoscevano ed a lui si obbligavano i
Signori della Città di Castello, e i Baglioni di Perugia, e i Malaspini
di Lunigiana, ed altri che aveano soldo dal Comune; quelli di Faenza a
lui erano in tutela. I Re ed i Principi con lui solo carteggiavano di
cose di Stato: Luigi XI di lui pigliava cura come d’amico. Ferrando gli
rendea grazie dell’averlo salvato egli solo nell’ultima guerra; col re
d’Ungheria Mattia Corvino aveva relazioni per cose di studi. Vedemmo il
favore di che egli godeva presso al Signore dei Turchi; ed il Soldano
d’Egitto mandava doni a lui e alla Signoria, tra’ quali era un Leone
domestico ed una Giraffa, strano animale che altra volta s’era veduto
in Firenze; ma gli Artisti e gli Scrittori faceano a Lorenzo gloria
d’ogni cosa, come di omaggio che a lui rendessero i re barbari.[551]
In casa e in città mantenne sempre modi e costumi di cittadino; il
vivere suo era più compagnevole che fastoso, eccetto in qualche solenne
occasione di feste o conviti a principi forestieri: serbava con tutti
la fiorentina dimestichezza, ed a chi fosse di più età di lui cedeva
la mano.[552] Il figlio suo Piero maritò con l’Alfonsina di quella
stessa casa Orsini donde egli medesimo aveva la moglie: le nozze furono
celebrate in Corte di Napoli ed alla presenza del Re. In questo e nel
maritaggio della figlia Maddalena cercò alleanze di famiglie signorili,
ma collocò le altre figlie con privati cittadini di Firenze, sposando
Lucrezia a Iacopo Salviati, e Contessina a Piero Ridolfi; aveva la
terza figlia promessa a Giovanni dell’altro ramo di casa Medici, ma
essa moriva quando era sul punto di andare a marito.
Come in Firenze i maritaggi tra gli Ottimati serviano spesso alle
politiche aderenze, così Lorenzo che per tal modo si avea legato due
famiglie delle maggiori nella città, poneva studio diligentissimo
nell’impedire che tra le grandi Case non si formassero alleanze a lui
sospette, o ne faceva egli a suo modo, avendo l’occhio sugli andamenti
dei cittadini, sulle amicizie, sugli interessi: male sofferiva persino
che altri si rendesse grato con balli e conviti in occasione di nozze,
com’era costume antico in Firenze, d’allora in poi quasi dismesso.
«Nelle quali cose ebbe a durare grande fatica massimamente nei primi
tempi, e ad altro pareva non attendesse il dì e la notte mettendovi
tutto l’ingegno e l’industria con assidua pazienza e usando a tal
fine varie arti con sètte segrete e compagnie che l’una non sapeva
dell’altra:[553]» nelle stesse liberalità poneva tale misura che niuno
s’arricchisse troppo, e che gli uomini dello Stato non apparissero
all’universale violenti e rapaci. Dipoi, la congiura dei Pazzi gli
aggiunse amici nuovi e ristrinse i vecchi più intorno a lui, tanto
che la potenza sua divenne più assoluta, e crebbe un grado da quella
che aveva tenuta Cosimo. Il Palagio della Signoria perdeva ogni dì
credito, ai Consigli ed agli stessi Collegi, che prima erano ogni cosa,
pochi si curavano d’intervenire: onde nacque caso che non si potendo
fare la tratta dei magistrati al dì necessario, e taluni ch’erano a
caccia nelle ville loro avendo ricusato andare, sebbene chiamati a
grande fretta, dal Gonfaloniere furono ammoniti. Ma parve a Lorenzo,
assente in Pisa, che avesse quegli presa di suo capo troppo grande
libertà; e si aggiunse l’avere negato, secondo l’usanza, l’entrata in
Palagio mentre i Consigli deliberavano, a Ser Piero da Bibbiena ch’era
Cancelliere di Lorenzo; per queste cose il Gonfaloniere appena uscito
d’ufizio fu ammonito per tre anni.[554] Industria antica di Casa dei
Medici era tenere in ciascun ufizio o magistrato un Cancelliere di
confidenza loro: e uno ve n’era salariato dal Comune da stare fermo
nelle ambascerie che spesso mutavano, il quale aveva con Lorenzo conto
a parte e lo avvisava d’ogni cosa. Per tale modo i grandi cittadini
aveano gli uffici, ma gli uomini tirati su da Lorenzo esercitavano ad
arbitrio suo la potestà effettiva, massimamente in ciò che spetta alle
gravezze ed al Monte, ch’egli era accusato volere annullare per indi
volgere più liberamente le entrate pubbliche a suo pro. A ciò era dalle
private sue necessità costretto; ma il danno feriva grande numero di
cittadini che aveano nel Monte i loro capitali, e ne ricavavano fra
tasse e riforme più che dimezzato l’interesse. Ma sopra ogni altra
odiose riuscivano le riduzioni fatte al Monte delle Doti, che non si
pagando al tempo promesso rimanevano nel Monte, e le fanciulle che si
maritavano, in luogo di sorte non avendo altro che l’interesse sotto
certe regole, era alle famiglie necessità sborsare la dote in contanti
per non si potere valere di quello che aveano a tal fine più anni prima
depositato. Dal che avveniva che poche fanciulle si maritassero, e
anche bisognava chiederne licenza perchè il parentado andasse a genio
di Lorenzo.[555]
Ogni principio di rumore, se pure nascesse, prontamente gastigava, come
apparve in un caso narrato dall’oratore Modenese, allora in Firenze,
le cui parole giova riferire. «Andando io in piazza, trovai gran
tumulto di popolo, e la causa fu perchè menandosi uno giovine della
terra alla giustizia perchè avea morto un famiglio de li Otto a’ dì
passati, ed essendo fuggito a Siena, i Senesi lo diedero nelle mani
di questa Signoria per i capitoli comuni. E menandosi detto giovine
per piazza per condurlo al luogo della giustizia, il popolo si levò,
gridando _scampa, scampa_; in modo che lo cominciarono a togliere dalle
mani alla famiglia del bargello. Pure li Otto della Balìa in persona
vennero in piazza e fecero fare subito un bando, alla pena della forca,
che la piazza fosse sgombrata. Ed essendo fatta instanza per l’oratore
di Milano ed il Genovese per ottenere la grazia di quel giovine, e ad
instanza di Lorenzino e di Giovanni e di Pier Francesco (de’ Medici)
con il Magnifico Lorenzo che si trovò in Palazzo a tale tumulto, Sua
Magnificenza gli dette buone parole, e operò ch’egli fosse appiccato
in piazza ad una finestra del bargello: poi fece pigliare quattro di
quelli del popolo che gridavano _scampa, scampa_, e a ciascheduno fu
dato quattro tratti di corda e furono sbanditi per quattro anni fuori
della terra. A questo modo si sedò il tumulto, e mai non si volse
partire fuori della piazza il Magnifico Lorenzo sinchè non vide sedato
il popolo.[556]» Di questo tumulto non fanno parola gli scrittori
Fiorentini.
Ma più della forza poteano il favore e i nuovi costumi, il popolo
essendo a lui devoto in città fiorente per l’eccellenza delle Arti
e per la dovizia dei mestieri: domato di prima, impinguato ora più
che mai fosse pei grossi guadagni, rallegrato dalle feste, godevasi
ambiziosamente come sue la grande fama di Lorenzo, le magnificenze
della Casa Medici, la gloria che a tutta la città ne derivava. Essendo
a Lorenzo falliti i traffici ai quali sdegnava calare l’ingegno,
si voltò alle possessioni; e al Poggio a Caiano edificò una Villa
d’architettura elegantissima, della quale egli medesimo avea dato il
primo concetto a Giuliano da San Gallo che dietro a quello poi la
condusse. Cercando risollevare l’infelice Pisa dal tetro squallore
in che era caduta, comprò molte terre in quella provincia e case
in città, dove a lui stesso non di rado piaceva dimorare facendovi
spese e mettendo vita intorno a sè: ripristinò anche l’antico gioco
del Ponte, caro ai Pisani e quindi vietato dalla sospettosa gelosia
della Repubblica di Firenze. Era in Pisa uno Studio, anch’esso deserto
dopo la conquista; ma Lorenzo volle sorgesse a celebre Università;
chiamandovi con larghi stipendi da ogni parte d’Italia eccellenti
professori in legge, in medicina, in divinità.[557] Le umane lettere
e le Arti aveano in Firenze già grande splendore: Lorenzo era tale in
sè medesimo da più illustrarle; ingegno potente, vario, elegantissimo
e curioso d’ogni sapere, capace di alzarsi al pensiero filosofico e
al sentimento delle Arti belle, scrittore non ultimo in prosa ed in
verso tra molti insigni che lo attorniavano, raccoglitore munifico
di quelle opere dell’antichità dalle quali aveano impronta gli studi.
Il secolo era nelle dottrine incerto e mutabile, nei costumi sciolto,
gaio nella vita com’essere sogliono i tempi che alle ruine precedono.
Lorenzo pareva in sè accogliere tutto il secolo, scrivea rime sacre
e canti carnascialeschi, cercava e ascoltava gli uomini religiosi ed
era involto negli amori. Assiduo alle cure di Stato e infaticabile in
ogni cosa che a lui servisse o a lui dèsse fama, pareva non altro amare
che celie e sollazzi, e compagnia d’uomini arguti e faceti; avea tal
natura, che a tutto bastava e ad ogni cosa pareva fatto. La Casa dei
Medici era un museo, una scuola, un ritrovo degli ingegni che ad essa
accorrevano; da quella partivano i consigli gravi, e la luce delle
lettere, e i giochi e le feste e le corruttele dei costumi: in quella
cresceano fanciulli due Papi, ivi risedeva l’Accademia Platonica intesa
con gli studi a rinnalzare la vita e il pensiero; ed ivi continua la
dimestichezza del Poliziano e del conte Giovanni Pico della Mirandola
che fu portento dell’età sua; ivi Michelangiolo faceva saltare dal
marmo le prime scaglie, e Luigi Pulci leggeva il Morgante nelle cene
geniali: tanta ampiezza di vita, nè tanta magnificenza, nè allegrezza
forse alcun tempo non vide mai; era il nome di Lorenzo in cima a ogni
cosa.
E intanto la vita di lui declinava. I dolori delle gotte, ereditari
nella famiglia sua, lo avevano afflitto sino dalla giovinezza; e noi
lo troviamo già nell’anno 1482 ai Bagni del Senese ed a quei di Lucca,
e spesso di poi al Bagno a morbo nel Volterrano.[558] Si aggiunsero
doglie frequenti di stomaco, dalle quali fu talmente logorato, che
a vedere alcuni ritratti di lui si direbbe uomo decrepito. Crebbe il
male nei primi mesi dell’anno 1492, nè vollero gli amici e i congiunti
crederlo mortale insinchè agli otto del mese d’aprile nella villa
di Careggi, di poco avendo egli compiti quarantaquattro anni, tra
sofferenze acerbissime e con segni di religione fervente si spengeva
quella vita della quale non fu altra mai con maggior pianto desiderata,
nè più nei tempi che sopravvennero celebrata. Due giorni prima, caduto
un fulmine sulla Cupola di Santa Maria del Fiore aveva spezzato quella
delle grandi costole di marmo che scende dal lato dov’era la Casa dei
Medici, e i pezzi cadendo foravano in più luoghi la vôlta del tempio.
La notte di quel dì stesso che era stato ultimo a Lorenzo, Pier Leoni
da Spoleto, medico fra tutti reputatissimo, fu trovato morto in un
pozzo a San Gervasio, o ch’egli medesimo, come fu detto, vi si gettasse
per disperazione, o che vi fosse da altri gettato. Nella città era
grande la costernazione, pauroso l’avvenire a coloro stessi che mal
volentieri ubbidivano a Lorenzo; gli amici a lui più bene affetti, o
si dispersero, o mancarono: due anni dopo moriano, sebbene di lui più
giovani, Pico della Mirandola e Angelo Poliziano: Marsilio Ficino, già
vecchio, finiva non molto dipoi.
Tempi luttuosi conseguitarono alla morte di Lorenzo dei Medici, e
accrebbe favore al suo nome l’essersi da indi in poi di tutta Italia
arrovesciate le sorti, quasi fosse ella perita con lui che solo era
abile a scamparla. Bentosto si vennero a urtare insieme le ambizioni
degli altri Principi, insinchè non furono oppresse tutte dalla
sopravvenienza delle armi straniere che uno di loro aveva chiamate. Fu
detto Lorenzo avere creata la scienza che poi fu appellata d’equilibrio
e che ai politici delle età seguenti divenne studio; ma era già arte
della Repubblica di Firenze, naturale protettrice delle città e degli
Stati minori di lei, perchè ella cercava tra mezzo ai maggiori la
propria sua conservazione. La quale arte stando rinchiusa dentro ai
confini d’Italia, valeva a tenerla bene spartita e contrappesata in
sè medesima finchè d’oltremonti nessun pericolo minacciasse; più non
bastava se una volta le altre nazioni venendo a comporsi in forti
regni, la divisione rendesse invalida la difesa; il che presentiva
l’istesso Lorenzo. Questi mantenea frattanto l’Italia in bilancia,[559]
il che era un rimuovere le cause interne e le occasioni per cui
venissero gli assalti di fuori: e ciò da lui solo riconosceva ed a lui
ne diede, fra tutti gli altri, amplissima laude Francesco Guicciardini
nel principio della grande Istoria sua; sebbene avesse egli in altra
opera giovanile, ponendo a confronto Cosimo e lui, attribuito maggiore
all’avo prudenza e giudizio. Bene ebbe Lorenzo assai più di Cosimo
ardito il consiglio e in più vasto campo spaziava il pensiero: natura
d’artista, anima di principe, ultima grandezza d’un’età splendida che
finiva.[560]
CAPITOLO VIII.
SCIENZE, LETTERE ED ARTI SOTTO IL GOVERNO REPUBBLICANO DI CASA MEDICI.
[AN. 1434-1491.] — LA LINGUA TOSCANA DIVIENE ITALIANA.
Abbiamo veduto per cento anni l’operosità intellettuale degli Italiani
volgersi quasi unicamente a riporre in luce gli autori classici,
ad assicurarne la lezione, a propagarne l’uso e l’intelligenza. In
essi cercavano forme più elette alla parola, ma per quello studio
apersero come un nuovo mondo alla erudizione, che fino allora si era
aggirata dentro a termini molto angusti; della quale Dante era assetato
penosamente, ed il Petrarca troppo soddisfatto. Ma intanto l’istoria
tornata in luce rettificava molti degli errori che aveano goduto
autorità e corso nell’età di mezzo, e la critica si assottigliava,
e molte passioni si temperavano col cessare l’ignoranza che l’uomo
racchiude in sè medesimo e lo rende spesso agli altri più ostile.
Molto anche appresero dai Latini quanto agli uffici dell’uomo civile;
la scienza pratica si avvantaggiava, ma facendo ingombro a eletti
ingegni nei quali si vede scarsa in quegli anni l’originalità: dipoi,
saziata la foga del ritrovare, venne il pensiero speculativo a farsi
più ardito, quando ai Latini s’aggiunsero i Greci scrittori e che
lo studio di questa lingua si fu divulgato. Uomini dotti tra’ Greci
accorsero al Concilio tenuto in Firenze per l’unione delle due Chiese,
e in tale occasione le controversie teologiche riaprirono il campo alle
filosofiche; i Greci portarono in esse un rivolo delle antiche loro
scuole, buono ad irrigare i campi fatti aridi della scolastica, donde
san Tommaso aveva oggimai cavato ogni frutto.
Tra gli altri erano due Greci, cultori della Filosofia platonica,
Gemisto Pletone ed il cardinale Bessarione che aveva promossa l’unione,
e che rimasto poi sempre aderente alla Chiesa dei Latini godeva in
Italia autorità negli studi. Da questi due uomini dovette Cosimo dei
Medici essere indotto a favorire quella dottrina che molto bene si
confaceva al genio artistico e religioso de’ Fiorentini; l’accolse
egli stesso nel suo Palazzo, e ad essa volle che fosse allevato quasi
dalla fanciullezza Marsilio Ficino ch’era figliuolo del medico suo.
Ivi si facevano conversazioni di dotti, le quali pigliarono nome
platonico d’Accademia, divenuto solenne dipoi a questa e ad altre
simili riunioni. Cotale indirizzo dato agli studi sino d’allora io
credo fosse argine alla corruttela del pensiero. Finchè un principio
d’autorità poneva limiti alla controversia, e i più alti gradi della
scienza in lei scendevano dalla fede, giovava seguire la disciplina
dei peripatetici, sottile arnese ed atto ai lavori delle scolastiche
officine. Ma ora che il pensiero ambiva spingersi fino all’altezza dei
primi veri, e le dottrine del gentilesimo tutto invadevano il sapere,
bene fu almeno alle scuole nostre avere accolta quella filosofia che in
cima a sè stessa aveva un principio fuori di sè stessa, sovraimponendo
l’idea di Dio a tutta l’opera del ragionamento. Per quelle dottrine
si temperarono molti ingegni fino ai più audaci e dissoluti: corse
oltre a un secolo, e la prevalenza ch’ebbe in Toscana un tale abito
nel filosofare, io credo infondesse maggior sanità nell’intelletto di
Galileo e della scuola che da lui discese. Si vede egli sempre nella
fisica avere a guida una filosofia, e per lo studio della materia
non perdere mai l’idea dello spirito: bene gli avvenne che al primo
formarsi di quella mente gli stesse innanzi nelle tradizioni casalinghe
una filosofia religiosa; così l’accademia Platonica diede qualcosa del
suo all’accademia del Cimento.
Marsilio Ficino [n. 1433, m. 1499] tradusse in lingua latina le opere
di Platone, che fu il maggiore servigio prestato da lui direttamente
alla filosofia. Tradusse i libri anche di Plotino, e si affaticò molto
intorno a Proclo, a Giamblico e agli altri della Scuola neoplatonica
d’Alessandria; ne accolse le mistiche astrusità, e da quelle fu
condotto infino ai sogni dell’Astrologia giudiziaria e ad altre
consimili fantasie. La sua maggiore opera è un libro col titolo di
_Teologia Platonica_, perchè nel pensiero di lui, platonico e cristiano
erano tutt’uno; ed egli cercava per tal modo soddisfare insieme
all’ingegno sottile ed al cuore dov’era la fede sincera e schietta: fu
prete e parroco virtuoso, di vita semplice, di costumi puri; e, quale
si fosse il valore delle sue dottrine, la conversazione di lui educava
agli alti pensieri e alla bontà i molti suoi discepoli o seguaci.
Innanzi alla morte del Ficino e poi molti anni, tenne in Firenze la
cattedra di filosofia Platonica Francesco Cattani da Diacceto, che pei
suoi libri si acquistò fama come illustratore di quella dottrina. Nei
tempi di Marsilio, e di lui più vecchio, Cristoforo Landino [n. 1424,
m. 1504] fu anch’egli platonico: scrisse in latino le Disputazioni
Camaldolesi, un trattato sulla nobiltà dell’anima ed altre molte
cose in prosa ed in verso; in lingua italiana, un dotto Commento e
assai reputato sulla _Divina Commedia_; tradusse in volgare l’Istoria
Naturale di Plinio; insegnò in Firenze le belle lettere e fu segretario
della Repubblica: pochi s’agguagliarono a lui per l’onorata vita e pei
servigi recati agli studi.
In quel secolo fu la Toscana oltremodo ferace d’ingegni, sebbene ad
alcuni tra’ sommi nuocesse la varietà delle cose a cui si volsero nel
tumultuare che le menti facevano in quella novità di studi tuttora
immaturi. Il che si vidde in Leone Battista Alberti, nato in esiglio
su’ primi anni del quattrocento, di quella famiglia che noi vedemmo
fieramente perseguitata in Firenze. Attese da giovane allo studio delle
leggi e fu laureato nel diritto canonico, intantochè egli scriveva
in latino una Commedia che fu creduta d’autore antico, e si rendeva
singolare per forza e destrezza negli esercizi del corpo ed in tutte
le arti liberali e cavalleresche. Artista e scrittore non trascurò la
pittura e la scultura ma fu grande nell’architettura, di lui rimanendo
per l’Italia alcuni insigni edifici, tra’ quali bellissima la chiesa
in Mantova di Sant’Andrea: scrisse un trattato di quest’arte, libro
che lo pone anche oggi tra’ primi che ne furono maestri. Si dilettò
molto della meccanica, ingegnandosi a comporre macchine che riuscirono
singolari massimamente per ciò che spetta all’arte nautica: nella
scienza della prospettiva fu maestro a quelli che dopo lui vennero.
Seguendo in filosofia le dottrine platoniche, scrisse non pochi
trattati di cose morali in lingua volgare. Uno tra questi che ha
per titolo della _Famiglia_ contiene nel terzo Libro la materia di
quello che lungamente andò col nome di Agnolo Pandolfini. Duole a noi
spogliare il buono e onorato vecchio della lode che a lui ne venne:
certo che il libro si direbbe opera d’un massaio anzichè d’uomo a cui
fa peso l’erudizione, ed il cui scrivere in volgare parve aspro agli
stessi amici suoi, per essere egli nato in esiglio ed assai tardi
venuto in Firenze. Ma poichè vediamo lui stesso chiamare _nudo lo stile
di quel terzo libro, essendosi in quello provato a imitare il greco
soavissimo scrittore Senofonte_, non rimane altro a noi (se falsa non
sia quella lettera), che ammirare qui pure l’ingegno tanto pieghevole
dell’Alberti, dolendoci che sempre non abbia egli scritto nudo a quel
modo. Poco egli visse in Firenze, dov’era stata dal Medici richiamata
la famiglia degli Alberti; e morì l’anno 1472.
Abbiamo narrato di Sant’Antonino il suo valore anche nelle lettere:
dicemmo assai di Giannozzo Manetti del quale non ebbe Firenze altro
cittadino più lodato nella vita civile nè più di lui autorevole per
sapere. Scrisse molti libri, dotto com’egli era in greco e in latino,
ma con predilezione si diede all’ebraico; tradusse da questa lingua
il Saltero, combattè i giudei, trattò argomenti di religione e di
morale, cui bene serviva con la integrità del costume. Infelice come
cittadino, Giannozzo fu l’ultimo che insieme attendesse alla Repubblica
e agli studi: la vita civile diveniva più angusta, intantochè si
apriva un campo più vasto alla vita letteraria che già in quel tempo
si diffondeva per tutta Italia. Ma pure i Medici non disdegnavano
chiamare agli uffici i letterati devoti a loro, e si onoravano con
l’inviarli ambasciatori a’ Principi forestieri: così è che ascese ai
più alti gradi in quella nuova sorta di Repubblica Matteo Palmieri,
il quale ottenne stima di solenne letterato per le molte opere da lui
composte, ma oggi meno lette. Tra queste primeggia un trattato sopra
la _Vita Civile_, che fu tradotto anche in francese, ed una Cronaca
dalla creazione del mondo fino a’ suoi tempi, con altre minori opere
istoriche, e un Poema teologico in terza rima ad imitazione di Dante,
che ha per titolo _Città di Vita_. I Segretari o Cancellieri della
Repubblica si sceglievano per antico uso, come abbiamo detto, tra
gli uomini letterati, che tali furono Carlo Marsuppini, e Benedetto
Accolti aretini e Bartolommeo Scala da Colle in Val d’Elsa. Ebbe
l’Accolti un fratello di lui più chiaro come giureconsulto, di nome
Francesco, seduto su varie cattedre in Italia. Filippo Bonaccorsi, nato
in San Gimignano, che ad uso di quella età pigliò nome di Callimaco
Esperiente, giovane appartenne a quell’Accademia Romana che poi
soffriva fiere persecuzioni; donde scampato viaggiò per l’Oriente,
e fermatosi in Polonia e divenuto ivi grande personaggio, scrisse
in latino assai elegante l’Istoria della infelice guerra nella quale
venne a morte l’ultimo nazionale re d’Ungheria. Un altro sangimignanese
Paolo Cortese, cui diede fama un libro di Teologia purgata dal gergo
scolastico, soleva menare la vita in un castello presso al luogo
nativo, dove accoglieva i dotti, e di alcuni dettava le Vite.
Abbiamo a stampa, ma in troppo scarso numero, le prediche di San
Bernardino da Siena, che al modo di altri celebri e più antichi
Frati sermoneggiando sulle piazze delle città d’Italia, predicava la
cessazione dalle inimicizie cittadine; oratore concitato, ricco di
figure, caldo e abbondante come avvezzo a sempre cercare gli effetti
subiti sulle moltitudini. D’un altro senese che fu Enea Silvio
Piccolomini, papa col nome di Pio II, bene fu detto avere egli scritto
più libri che altr’uomo ozioso, e trattato più faccende che altri
ad esse unicamente rivolto. Viaggiò dell’Europa alcune parti ancora
meno note, descrivendo i luoghi osservatore acutissimo, fu ministro
dell’imperatore Federigo III, fu cancelliere del Concilio di Basilea
e propugnatore della contesa ivi sostenuta contro a papa Eugenio.
Disciolto il Concilio, si acconciò col Papa; Legato in Germania
ch’egli bene conosceva, sostenne acremente ivi le parti della cattedra
pontificia, e questa tenne poi decorosamente avendo finita, coma
narrammo, la vita nelle fatiche di un troppo ardito divisamento. Le
opere sue tutte in latino, oltre agli scritti di controversia ed alle
Poesie, contengono Istorie del tempo suo, Commentari e descrizioni di
paesi; i fatti d’Italia narrò fin presso alla morte sua, quelli della
Germania come attore o come testimone sempre autorevole quando anche
appassionato: scrittore copioso, arguto, gratissimo a leggere per una
sua eleganza e disinvoltura signorile da lui acquistata nella pratica
dei grandi uomini e delle grandi cose; ingegno vario, di cui fu danno
che non si abbellisse la lingua italiana.
Le Scienze allora sorgevano anch’esse, nelle quali non possiamo tacere
il nome di Paolo Toscanelli che non si vuol confondere con un altro
fiorentino Paolo Dagomari, detto dell’Abbaco, vissuto prima che il
Toscanelli nascesse l’anno 1397. Dotto di cose astronomiche, derise
l’Astrologia: essendo venuta a compimento la grande Cupola di Santa
Maria del Fiore, pensò d’apporre in cima d’essa uno Gnomone rimasto
famoso. Questo per la grande altezza disegna con raggio più lungo più
larghi gli spazi, i quali lo spettro solare fa correre dal foro, ch’è
in cima, sul marmo infisso nel pavimento; dal che più distinto riesce
il punto meridiano, e più si determina il momento del solstizio.
Ma gloria maggiore ebbe il Toscanelli dall’essere stato _cagione in
grande parte al Colombo d’intraprendere il grande suo viaggio_; il
che sappiamo dalla Vita che Ferdinando Colombo ha lasciato del suo
genitore. Paolo, curioso della Geografia, ebbe da mercanti fiorentini e
da certi uomini inviati dalle Indie al papa Eugenio IV notizie di quei
paesi e occasioni di farsi un concetto, fortunatamente sbagliato, della
via da percorrere per giungervi da Occidente. Ne scrisse a un Martinez
tempi avvenire fondamento dal quale saliva fino al principato la casa
dei Medici. Giovanni, secondo figlio di Lorenzo e che i due altri per
ingegno superava, dal padre era stato fin dalla puerizia incamminato
all’ecclesiastiche dignità. Ai sette anni insieme alla cresima ebbe la
tonsura, e fatto dal Papa Protonotario, si chiamò da indi in poi Messer
Giovanni: il re di Francia Luigi XI gli avea conferita l’abbadia di
Fonte Dolce; ebbe indi quella di Passignano in Toscana, ed una dal Duca
di Milano, e poi quella fra tutte insigne di Monte Cassino. Luigi XI
aveva anche tenuto discorso di farlo arcivescovo d’Aix in Provenza; al
che il Papa metteva per gli anni difficoltà, sebbene lo avesse fatto
abile a tenere gli ecclesiastici benefizi.[547] Tuttociò era innanzi
la morte di Sisto IV e che il fanciullo pervenisse ai nove anni. Prima
che fosse giunto ai quattordici, da Innocenzio fu creato Cardinale,
ma con la riserva di indugiare alla pubblicazione tre anni; i quali
essendo compiti nel marzo del 1492, pigliava con grande solennità in
Firenze Giovanni l’investitura di quel grado, e subito andava in Roma
ad esercitarlo.[548] Abbiamo i consigli che il padre a lui dava per
iscritto intorno al modo di contenersi nel cardinalato; consigli che
onorano Lorenzo: e poichè ad abbreviarli si guasterebbero, e letti
potranno servire all’istoria, abbiamo proposito di pubblicarli tra’
Documenti che saranno in fine a questo volume.[549]
Per tante grandezze a molti pareva Lorenzo avviarsi al principato, ed
era voce che non appena con l’età di quarantacinque anni divenisse
abile al supremo magistrato, sarebbesi fatto creare Gonfaloniere a
vita. Un grande passo aveva fatto l’anno 1490 col togliere al Consiglio
dei Settanta l’autorità di creare la Signoria, il che era avere lo
Stato in mano. Questo da principio Lorenzo aveva sofferto dividere con
un collegio di suoi devoti, ma era numeroso ed era perpetuo, da non
potersi alla lunga governare: per questo e perchè le cose andassero più
strette e più spedite, fece Lorenzo eleggere una Balìa di Diciassette,
dei quali era uno egli medesimo. Fu ordinato che ai Settanta rimanendo
l’autorità d’una Pratica o Consulta, tutto il maneggio delle scelte
si facesse per vie coperte dagli Accoppiatori, com’era già stato.
Quella Balìa decretava più altre riforme, tra le quali, perchè era in
Firenze quantità di monete nere di vari paesi; mettendo queste fuori
di corso, ordinarono che le gabelle si pagassero in monete bianche
allora coniate, nelle quali entravano due oncie d’argento per libbra e
valevano il quarto più delle altre. La cosa era per sè buona, ma per
questo modo crebbero assai le entrate della città, con molto gridare
della plebe alla quale rincaravano tutte le grascie e cose necessarie
al vitto. Con altre industrie fu continuato l’antico scandalo
circa al Monte delle Doti, di nuovo ridotte e sempre a benefizio di
Lorenzo.[550]
Il titolo di Magnifico a lui serbato dalla posterità era solito darsi
a chiunque avesse condizione più che di privato. Già egli traeva a sè
ogni cosa: lui personalmente riconoscevano ed a lui si obbligavano i
Signori della Città di Castello, e i Baglioni di Perugia, e i Malaspini
di Lunigiana, ed altri che aveano soldo dal Comune; quelli di Faenza a
lui erano in tutela. I Re ed i Principi con lui solo carteggiavano di
cose di Stato: Luigi XI di lui pigliava cura come d’amico. Ferrando gli
rendea grazie dell’averlo salvato egli solo nell’ultima guerra; col re
d’Ungheria Mattia Corvino aveva relazioni per cose di studi. Vedemmo il
favore di che egli godeva presso al Signore dei Turchi; ed il Soldano
d’Egitto mandava doni a lui e alla Signoria, tra’ quali era un Leone
domestico ed una Giraffa, strano animale che altra volta s’era veduto
in Firenze; ma gli Artisti e gli Scrittori faceano a Lorenzo gloria
d’ogni cosa, come di omaggio che a lui rendessero i re barbari.[551]
In casa e in città mantenne sempre modi e costumi di cittadino; il
vivere suo era più compagnevole che fastoso, eccetto in qualche solenne
occasione di feste o conviti a principi forestieri: serbava con tutti
la fiorentina dimestichezza, ed a chi fosse di più età di lui cedeva
la mano.[552] Il figlio suo Piero maritò con l’Alfonsina di quella
stessa casa Orsini donde egli medesimo aveva la moglie: le nozze furono
celebrate in Corte di Napoli ed alla presenza del Re. In questo e nel
maritaggio della figlia Maddalena cercò alleanze di famiglie signorili,
ma collocò le altre figlie con privati cittadini di Firenze, sposando
Lucrezia a Iacopo Salviati, e Contessina a Piero Ridolfi; aveva la
terza figlia promessa a Giovanni dell’altro ramo di casa Medici, ma
essa moriva quando era sul punto di andare a marito.
Come in Firenze i maritaggi tra gli Ottimati serviano spesso alle
politiche aderenze, così Lorenzo che per tal modo si avea legato due
famiglie delle maggiori nella città, poneva studio diligentissimo
nell’impedire che tra le grandi Case non si formassero alleanze a lui
sospette, o ne faceva egli a suo modo, avendo l’occhio sugli andamenti
dei cittadini, sulle amicizie, sugli interessi: male sofferiva persino
che altri si rendesse grato con balli e conviti in occasione di nozze,
com’era costume antico in Firenze, d’allora in poi quasi dismesso.
«Nelle quali cose ebbe a durare grande fatica massimamente nei primi
tempi, e ad altro pareva non attendesse il dì e la notte mettendovi
tutto l’ingegno e l’industria con assidua pazienza e usando a tal
fine varie arti con sètte segrete e compagnie che l’una non sapeva
dell’altra:[553]» nelle stesse liberalità poneva tale misura che niuno
s’arricchisse troppo, e che gli uomini dello Stato non apparissero
all’universale violenti e rapaci. Dipoi, la congiura dei Pazzi gli
aggiunse amici nuovi e ristrinse i vecchi più intorno a lui, tanto
che la potenza sua divenne più assoluta, e crebbe un grado da quella
che aveva tenuta Cosimo. Il Palagio della Signoria perdeva ogni dì
credito, ai Consigli ed agli stessi Collegi, che prima erano ogni cosa,
pochi si curavano d’intervenire: onde nacque caso che non si potendo
fare la tratta dei magistrati al dì necessario, e taluni ch’erano a
caccia nelle ville loro avendo ricusato andare, sebbene chiamati a
grande fretta, dal Gonfaloniere furono ammoniti. Ma parve a Lorenzo,
assente in Pisa, che avesse quegli presa di suo capo troppo grande
libertà; e si aggiunse l’avere negato, secondo l’usanza, l’entrata in
Palagio mentre i Consigli deliberavano, a Ser Piero da Bibbiena ch’era
Cancelliere di Lorenzo; per queste cose il Gonfaloniere appena uscito
d’ufizio fu ammonito per tre anni.[554] Industria antica di Casa dei
Medici era tenere in ciascun ufizio o magistrato un Cancelliere di
confidenza loro: e uno ve n’era salariato dal Comune da stare fermo
nelle ambascerie che spesso mutavano, il quale aveva con Lorenzo conto
a parte e lo avvisava d’ogni cosa. Per tale modo i grandi cittadini
aveano gli uffici, ma gli uomini tirati su da Lorenzo esercitavano ad
arbitrio suo la potestà effettiva, massimamente in ciò che spetta alle
gravezze ed al Monte, ch’egli era accusato volere annullare per indi
volgere più liberamente le entrate pubbliche a suo pro. A ciò era dalle
private sue necessità costretto; ma il danno feriva grande numero di
cittadini che aveano nel Monte i loro capitali, e ne ricavavano fra
tasse e riforme più che dimezzato l’interesse. Ma sopra ogni altra
odiose riuscivano le riduzioni fatte al Monte delle Doti, che non si
pagando al tempo promesso rimanevano nel Monte, e le fanciulle che si
maritavano, in luogo di sorte non avendo altro che l’interesse sotto
certe regole, era alle famiglie necessità sborsare la dote in contanti
per non si potere valere di quello che aveano a tal fine più anni prima
depositato. Dal che avveniva che poche fanciulle si maritassero, e
anche bisognava chiederne licenza perchè il parentado andasse a genio
di Lorenzo.[555]
Ogni principio di rumore, se pure nascesse, prontamente gastigava, come
apparve in un caso narrato dall’oratore Modenese, allora in Firenze,
le cui parole giova riferire. «Andando io in piazza, trovai gran
tumulto di popolo, e la causa fu perchè menandosi uno giovine della
terra alla giustizia perchè avea morto un famiglio de li Otto a’ dì
passati, ed essendo fuggito a Siena, i Senesi lo diedero nelle mani
di questa Signoria per i capitoli comuni. E menandosi detto giovine
per piazza per condurlo al luogo della giustizia, il popolo si levò,
gridando _scampa, scampa_; in modo che lo cominciarono a togliere dalle
mani alla famiglia del bargello. Pure li Otto della Balìa in persona
vennero in piazza e fecero fare subito un bando, alla pena della forca,
che la piazza fosse sgombrata. Ed essendo fatta instanza per l’oratore
di Milano ed il Genovese per ottenere la grazia di quel giovine, e ad
instanza di Lorenzino e di Giovanni e di Pier Francesco (de’ Medici)
con il Magnifico Lorenzo che si trovò in Palazzo a tale tumulto, Sua
Magnificenza gli dette buone parole, e operò ch’egli fosse appiccato
in piazza ad una finestra del bargello: poi fece pigliare quattro di
quelli del popolo che gridavano _scampa, scampa_, e a ciascheduno fu
dato quattro tratti di corda e furono sbanditi per quattro anni fuori
della terra. A questo modo si sedò il tumulto, e mai non si volse
partire fuori della piazza il Magnifico Lorenzo sinchè non vide sedato
il popolo.[556]» Di questo tumulto non fanno parola gli scrittori
Fiorentini.
Ma più della forza poteano il favore e i nuovi costumi, il popolo
essendo a lui devoto in città fiorente per l’eccellenza delle Arti
e per la dovizia dei mestieri: domato di prima, impinguato ora più
che mai fosse pei grossi guadagni, rallegrato dalle feste, godevasi
ambiziosamente come sue la grande fama di Lorenzo, le magnificenze
della Casa Medici, la gloria che a tutta la città ne derivava. Essendo
a Lorenzo falliti i traffici ai quali sdegnava calare l’ingegno,
si voltò alle possessioni; e al Poggio a Caiano edificò una Villa
d’architettura elegantissima, della quale egli medesimo avea dato il
primo concetto a Giuliano da San Gallo che dietro a quello poi la
condusse. Cercando risollevare l’infelice Pisa dal tetro squallore
in che era caduta, comprò molte terre in quella provincia e case
in città, dove a lui stesso non di rado piaceva dimorare facendovi
spese e mettendo vita intorno a sè: ripristinò anche l’antico gioco
del Ponte, caro ai Pisani e quindi vietato dalla sospettosa gelosia
della Repubblica di Firenze. Era in Pisa uno Studio, anch’esso deserto
dopo la conquista; ma Lorenzo volle sorgesse a celebre Università;
chiamandovi con larghi stipendi da ogni parte d’Italia eccellenti
professori in legge, in medicina, in divinità.[557] Le umane lettere
e le Arti aveano in Firenze già grande splendore: Lorenzo era tale in
sè medesimo da più illustrarle; ingegno potente, vario, elegantissimo
e curioso d’ogni sapere, capace di alzarsi al pensiero filosofico e
al sentimento delle Arti belle, scrittore non ultimo in prosa ed in
verso tra molti insigni che lo attorniavano, raccoglitore munifico
di quelle opere dell’antichità dalle quali aveano impronta gli studi.
Il secolo era nelle dottrine incerto e mutabile, nei costumi sciolto,
gaio nella vita com’essere sogliono i tempi che alle ruine precedono.
Lorenzo pareva in sè accogliere tutto il secolo, scrivea rime sacre
e canti carnascialeschi, cercava e ascoltava gli uomini religiosi ed
era involto negli amori. Assiduo alle cure di Stato e infaticabile in
ogni cosa che a lui servisse o a lui dèsse fama, pareva non altro amare
che celie e sollazzi, e compagnia d’uomini arguti e faceti; avea tal
natura, che a tutto bastava e ad ogni cosa pareva fatto. La Casa dei
Medici era un museo, una scuola, un ritrovo degli ingegni che ad essa
accorrevano; da quella partivano i consigli gravi, e la luce delle
lettere, e i giochi e le feste e le corruttele dei costumi: in quella
cresceano fanciulli due Papi, ivi risedeva l’Accademia Platonica intesa
con gli studi a rinnalzare la vita e il pensiero; ed ivi continua la
dimestichezza del Poliziano e del conte Giovanni Pico della Mirandola
che fu portento dell’età sua; ivi Michelangiolo faceva saltare dal
marmo le prime scaglie, e Luigi Pulci leggeva il Morgante nelle cene
geniali: tanta ampiezza di vita, nè tanta magnificenza, nè allegrezza
forse alcun tempo non vide mai; era il nome di Lorenzo in cima a ogni
cosa.
E intanto la vita di lui declinava. I dolori delle gotte, ereditari
nella famiglia sua, lo avevano afflitto sino dalla giovinezza; e noi
lo troviamo già nell’anno 1482 ai Bagni del Senese ed a quei di Lucca,
e spesso di poi al Bagno a morbo nel Volterrano.[558] Si aggiunsero
doglie frequenti di stomaco, dalle quali fu talmente logorato, che
a vedere alcuni ritratti di lui si direbbe uomo decrepito. Crebbe il
male nei primi mesi dell’anno 1492, nè vollero gli amici e i congiunti
crederlo mortale insinchè agli otto del mese d’aprile nella villa
di Careggi, di poco avendo egli compiti quarantaquattro anni, tra
sofferenze acerbissime e con segni di religione fervente si spengeva
quella vita della quale non fu altra mai con maggior pianto desiderata,
nè più nei tempi che sopravvennero celebrata. Due giorni prima, caduto
un fulmine sulla Cupola di Santa Maria del Fiore aveva spezzato quella
delle grandi costole di marmo che scende dal lato dov’era la Casa dei
Medici, e i pezzi cadendo foravano in più luoghi la vôlta del tempio.
La notte di quel dì stesso che era stato ultimo a Lorenzo, Pier Leoni
da Spoleto, medico fra tutti reputatissimo, fu trovato morto in un
pozzo a San Gervasio, o ch’egli medesimo, come fu detto, vi si gettasse
per disperazione, o che vi fosse da altri gettato. Nella città era
grande la costernazione, pauroso l’avvenire a coloro stessi che mal
volentieri ubbidivano a Lorenzo; gli amici a lui più bene affetti, o
si dispersero, o mancarono: due anni dopo moriano, sebbene di lui più
giovani, Pico della Mirandola e Angelo Poliziano: Marsilio Ficino, già
vecchio, finiva non molto dipoi.
Tempi luttuosi conseguitarono alla morte di Lorenzo dei Medici, e
accrebbe favore al suo nome l’essersi da indi in poi di tutta Italia
arrovesciate le sorti, quasi fosse ella perita con lui che solo era
abile a scamparla. Bentosto si vennero a urtare insieme le ambizioni
degli altri Principi, insinchè non furono oppresse tutte dalla
sopravvenienza delle armi straniere che uno di loro aveva chiamate. Fu
detto Lorenzo avere creata la scienza che poi fu appellata d’equilibrio
e che ai politici delle età seguenti divenne studio; ma era già arte
della Repubblica di Firenze, naturale protettrice delle città e degli
Stati minori di lei, perchè ella cercava tra mezzo ai maggiori la
propria sua conservazione. La quale arte stando rinchiusa dentro ai
confini d’Italia, valeva a tenerla bene spartita e contrappesata in
sè medesima finchè d’oltremonti nessun pericolo minacciasse; più non
bastava se una volta le altre nazioni venendo a comporsi in forti
regni, la divisione rendesse invalida la difesa; il che presentiva
l’istesso Lorenzo. Questi mantenea frattanto l’Italia in bilancia,[559]
il che era un rimuovere le cause interne e le occasioni per cui
venissero gli assalti di fuori: e ciò da lui solo riconosceva ed a lui
ne diede, fra tutti gli altri, amplissima laude Francesco Guicciardini
nel principio della grande Istoria sua; sebbene avesse egli in altra
opera giovanile, ponendo a confronto Cosimo e lui, attribuito maggiore
all’avo prudenza e giudizio. Bene ebbe Lorenzo assai più di Cosimo
ardito il consiglio e in più vasto campo spaziava il pensiero: natura
d’artista, anima di principe, ultima grandezza d’un’età splendida che
finiva.[560]
CAPITOLO VIII.
SCIENZE, LETTERE ED ARTI SOTTO IL GOVERNO REPUBBLICANO DI CASA MEDICI.
[AN. 1434-1491.] — LA LINGUA TOSCANA DIVIENE ITALIANA.
Abbiamo veduto per cento anni l’operosità intellettuale degli Italiani
volgersi quasi unicamente a riporre in luce gli autori classici,
ad assicurarne la lezione, a propagarne l’uso e l’intelligenza. In
essi cercavano forme più elette alla parola, ma per quello studio
apersero come un nuovo mondo alla erudizione, che fino allora si era
aggirata dentro a termini molto angusti; della quale Dante era assetato
penosamente, ed il Petrarca troppo soddisfatto. Ma intanto l’istoria
tornata in luce rettificava molti degli errori che aveano goduto
autorità e corso nell’età di mezzo, e la critica si assottigliava,
e molte passioni si temperavano col cessare l’ignoranza che l’uomo
racchiude in sè medesimo e lo rende spesso agli altri più ostile.
Molto anche appresero dai Latini quanto agli uffici dell’uomo civile;
la scienza pratica si avvantaggiava, ma facendo ingombro a eletti
ingegni nei quali si vede scarsa in quegli anni l’originalità: dipoi,
saziata la foga del ritrovare, venne il pensiero speculativo a farsi
più ardito, quando ai Latini s’aggiunsero i Greci scrittori e che
lo studio di questa lingua si fu divulgato. Uomini dotti tra’ Greci
accorsero al Concilio tenuto in Firenze per l’unione delle due Chiese,
e in tale occasione le controversie teologiche riaprirono il campo alle
filosofiche; i Greci portarono in esse un rivolo delle antiche loro
scuole, buono ad irrigare i campi fatti aridi della scolastica, donde
san Tommaso aveva oggimai cavato ogni frutto.
Tra gli altri erano due Greci, cultori della Filosofia platonica,
Gemisto Pletone ed il cardinale Bessarione che aveva promossa l’unione,
e che rimasto poi sempre aderente alla Chiesa dei Latini godeva in
Italia autorità negli studi. Da questi due uomini dovette Cosimo dei
Medici essere indotto a favorire quella dottrina che molto bene si
confaceva al genio artistico e religioso de’ Fiorentini; l’accolse
egli stesso nel suo Palazzo, e ad essa volle che fosse allevato quasi
dalla fanciullezza Marsilio Ficino ch’era figliuolo del medico suo.
Ivi si facevano conversazioni di dotti, le quali pigliarono nome
platonico d’Accademia, divenuto solenne dipoi a questa e ad altre
simili riunioni. Cotale indirizzo dato agli studi sino d’allora io
credo fosse argine alla corruttela del pensiero. Finchè un principio
d’autorità poneva limiti alla controversia, e i più alti gradi della
scienza in lei scendevano dalla fede, giovava seguire la disciplina
dei peripatetici, sottile arnese ed atto ai lavori delle scolastiche
officine. Ma ora che il pensiero ambiva spingersi fino all’altezza dei
primi veri, e le dottrine del gentilesimo tutto invadevano il sapere,
bene fu almeno alle scuole nostre avere accolta quella filosofia che in
cima a sè stessa aveva un principio fuori di sè stessa, sovraimponendo
l’idea di Dio a tutta l’opera del ragionamento. Per quelle dottrine
si temperarono molti ingegni fino ai più audaci e dissoluti: corse
oltre a un secolo, e la prevalenza ch’ebbe in Toscana un tale abito
nel filosofare, io credo infondesse maggior sanità nell’intelletto di
Galileo e della scuola che da lui discese. Si vede egli sempre nella
fisica avere a guida una filosofia, e per lo studio della materia
non perdere mai l’idea dello spirito: bene gli avvenne che al primo
formarsi di quella mente gli stesse innanzi nelle tradizioni casalinghe
una filosofia religiosa; così l’accademia Platonica diede qualcosa del
suo all’accademia del Cimento.
Marsilio Ficino [n. 1433, m. 1499] tradusse in lingua latina le opere
di Platone, che fu il maggiore servigio prestato da lui direttamente
alla filosofia. Tradusse i libri anche di Plotino, e si affaticò molto
intorno a Proclo, a Giamblico e agli altri della Scuola neoplatonica
d’Alessandria; ne accolse le mistiche astrusità, e da quelle fu
condotto infino ai sogni dell’Astrologia giudiziaria e ad altre
consimili fantasie. La sua maggiore opera è un libro col titolo di
_Teologia Platonica_, perchè nel pensiero di lui, platonico e cristiano
erano tutt’uno; ed egli cercava per tal modo soddisfare insieme
all’ingegno sottile ed al cuore dov’era la fede sincera e schietta: fu
prete e parroco virtuoso, di vita semplice, di costumi puri; e, quale
si fosse il valore delle sue dottrine, la conversazione di lui educava
agli alti pensieri e alla bontà i molti suoi discepoli o seguaci.
Innanzi alla morte del Ficino e poi molti anni, tenne in Firenze la
cattedra di filosofia Platonica Francesco Cattani da Diacceto, che pei
suoi libri si acquistò fama come illustratore di quella dottrina. Nei
tempi di Marsilio, e di lui più vecchio, Cristoforo Landino [n. 1424,
m. 1504] fu anch’egli platonico: scrisse in latino le Disputazioni
Camaldolesi, un trattato sulla nobiltà dell’anima ed altre molte
cose in prosa ed in verso; in lingua italiana, un dotto Commento e
assai reputato sulla _Divina Commedia_; tradusse in volgare l’Istoria
Naturale di Plinio; insegnò in Firenze le belle lettere e fu segretario
della Repubblica: pochi s’agguagliarono a lui per l’onorata vita e pei
servigi recati agli studi.
In quel secolo fu la Toscana oltremodo ferace d’ingegni, sebbene ad
alcuni tra’ sommi nuocesse la varietà delle cose a cui si volsero nel
tumultuare che le menti facevano in quella novità di studi tuttora
immaturi. Il che si vidde in Leone Battista Alberti, nato in esiglio
su’ primi anni del quattrocento, di quella famiglia che noi vedemmo
fieramente perseguitata in Firenze. Attese da giovane allo studio delle
leggi e fu laureato nel diritto canonico, intantochè egli scriveva
in latino una Commedia che fu creduta d’autore antico, e si rendeva
singolare per forza e destrezza negli esercizi del corpo ed in tutte
le arti liberali e cavalleresche. Artista e scrittore non trascurò la
pittura e la scultura ma fu grande nell’architettura, di lui rimanendo
per l’Italia alcuni insigni edifici, tra’ quali bellissima la chiesa
in Mantova di Sant’Andrea: scrisse un trattato di quest’arte, libro
che lo pone anche oggi tra’ primi che ne furono maestri. Si dilettò
molto della meccanica, ingegnandosi a comporre macchine che riuscirono
singolari massimamente per ciò che spetta all’arte nautica: nella
scienza della prospettiva fu maestro a quelli che dopo lui vennero.
Seguendo in filosofia le dottrine platoniche, scrisse non pochi
trattati di cose morali in lingua volgare. Uno tra questi che ha
per titolo della _Famiglia_ contiene nel terzo Libro la materia di
quello che lungamente andò col nome di Agnolo Pandolfini. Duole a noi
spogliare il buono e onorato vecchio della lode che a lui ne venne:
certo che il libro si direbbe opera d’un massaio anzichè d’uomo a cui
fa peso l’erudizione, ed il cui scrivere in volgare parve aspro agli
stessi amici suoi, per essere egli nato in esiglio ed assai tardi
venuto in Firenze. Ma poichè vediamo lui stesso chiamare _nudo lo stile
di quel terzo libro, essendosi in quello provato a imitare il greco
soavissimo scrittore Senofonte_, non rimane altro a noi (se falsa non
sia quella lettera), che ammirare qui pure l’ingegno tanto pieghevole
dell’Alberti, dolendoci che sempre non abbia egli scritto nudo a quel
modo. Poco egli visse in Firenze, dov’era stata dal Medici richiamata
la famiglia degli Alberti; e morì l’anno 1472.
Abbiamo narrato di Sant’Antonino il suo valore anche nelle lettere:
dicemmo assai di Giannozzo Manetti del quale non ebbe Firenze altro
cittadino più lodato nella vita civile nè più di lui autorevole per
sapere. Scrisse molti libri, dotto com’egli era in greco e in latino,
ma con predilezione si diede all’ebraico; tradusse da questa lingua
il Saltero, combattè i giudei, trattò argomenti di religione e di
morale, cui bene serviva con la integrità del costume. Infelice come
cittadino, Giannozzo fu l’ultimo che insieme attendesse alla Repubblica
e agli studi: la vita civile diveniva più angusta, intantochè si
apriva un campo più vasto alla vita letteraria che già in quel tempo
si diffondeva per tutta Italia. Ma pure i Medici non disdegnavano
chiamare agli uffici i letterati devoti a loro, e si onoravano con
l’inviarli ambasciatori a’ Principi forestieri: così è che ascese ai
più alti gradi in quella nuova sorta di Repubblica Matteo Palmieri,
il quale ottenne stima di solenne letterato per le molte opere da lui
composte, ma oggi meno lette. Tra queste primeggia un trattato sopra
la _Vita Civile_, che fu tradotto anche in francese, ed una Cronaca
dalla creazione del mondo fino a’ suoi tempi, con altre minori opere
istoriche, e un Poema teologico in terza rima ad imitazione di Dante,
che ha per titolo _Città di Vita_. I Segretari o Cancellieri della
Repubblica si sceglievano per antico uso, come abbiamo detto, tra
gli uomini letterati, che tali furono Carlo Marsuppini, e Benedetto
Accolti aretini e Bartolommeo Scala da Colle in Val d’Elsa. Ebbe
l’Accolti un fratello di lui più chiaro come giureconsulto, di nome
Francesco, seduto su varie cattedre in Italia. Filippo Bonaccorsi, nato
in San Gimignano, che ad uso di quella età pigliò nome di Callimaco
Esperiente, giovane appartenne a quell’Accademia Romana che poi
soffriva fiere persecuzioni; donde scampato viaggiò per l’Oriente,
e fermatosi in Polonia e divenuto ivi grande personaggio, scrisse
in latino assai elegante l’Istoria della infelice guerra nella quale
venne a morte l’ultimo nazionale re d’Ungheria. Un altro sangimignanese
Paolo Cortese, cui diede fama un libro di Teologia purgata dal gergo
scolastico, soleva menare la vita in un castello presso al luogo
nativo, dove accoglieva i dotti, e di alcuni dettava le Vite.
Abbiamo a stampa, ma in troppo scarso numero, le prediche di San
Bernardino da Siena, che al modo di altri celebri e più antichi
Frati sermoneggiando sulle piazze delle città d’Italia, predicava la
cessazione dalle inimicizie cittadine; oratore concitato, ricco di
figure, caldo e abbondante come avvezzo a sempre cercare gli effetti
subiti sulle moltitudini. D’un altro senese che fu Enea Silvio
Piccolomini, papa col nome di Pio II, bene fu detto avere egli scritto
più libri che altr’uomo ozioso, e trattato più faccende che altri
ad esse unicamente rivolto. Viaggiò dell’Europa alcune parti ancora
meno note, descrivendo i luoghi osservatore acutissimo, fu ministro
dell’imperatore Federigo III, fu cancelliere del Concilio di Basilea
e propugnatore della contesa ivi sostenuta contro a papa Eugenio.
Disciolto il Concilio, si acconciò col Papa; Legato in Germania
ch’egli bene conosceva, sostenne acremente ivi le parti della cattedra
pontificia, e questa tenne poi decorosamente avendo finita, coma
narrammo, la vita nelle fatiche di un troppo ardito divisamento. Le
opere sue tutte in latino, oltre agli scritti di controversia ed alle
Poesie, contengono Istorie del tempo suo, Commentari e descrizioni di
paesi; i fatti d’Italia narrò fin presso alla morte sua, quelli della
Germania come attore o come testimone sempre autorevole quando anche
appassionato: scrittore copioso, arguto, gratissimo a leggere per una
sua eleganza e disinvoltura signorile da lui acquistata nella pratica
dei grandi uomini e delle grandi cose; ingegno vario, di cui fu danno
che non si abbellisse la lingua italiana.
Le Scienze allora sorgevano anch’esse, nelle quali non possiamo tacere
il nome di Paolo Toscanelli che non si vuol confondere con un altro
fiorentino Paolo Dagomari, detto dell’Abbaco, vissuto prima che il
Toscanelli nascesse l’anno 1397. Dotto di cose astronomiche, derise
l’Astrologia: essendo venuta a compimento la grande Cupola di Santa
Maria del Fiore, pensò d’apporre in cima d’essa uno Gnomone rimasto
famoso. Questo per la grande altezza disegna con raggio più lungo più
larghi gli spazi, i quali lo spettro solare fa correre dal foro, ch’è
in cima, sul marmo infisso nel pavimento; dal che più distinto riesce
il punto meridiano, e più si determina il momento del solstizio.
Ma gloria maggiore ebbe il Toscanelli dall’essere stato _cagione in
grande parte al Colombo d’intraprendere il grande suo viaggio_; il
che sappiamo dalla Vita che Ferdinando Colombo ha lasciato del suo
genitore. Paolo, curioso della Geografia, ebbe da mercanti fiorentini e
da certi uomini inviati dalle Indie al papa Eugenio IV notizie di quei
paesi e occasioni di farsi un concetto, fortunatamente sbagliato, della
via da percorrere per giungervi da Occidente. Ne scrisse a un Martinez
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