Storia della Repubblica di Firenze v. 2/3 - 03

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Dipoi stando tutto il giorno in quell’esercizio, arsero le case di
Piero degli Albizzi e de’ suoi nipoti e quelle di Carlo degli Strozzi
e dei Cavicciuli e dei Siminetti e di Migliore Guadagni, ed il palagio
dei Pazzi e la loggia e le case dei Buondelmonti, e Oltrarno quelle
dei Canigiani e dei Soderini e dei Serragli: ruppero dipoi tutte le
carceri del Comune e fuori trassero i prigioni. In quel medesimo dì uno
di plebe minuta, posto un cappello sopra una lancia, seguito da molti
andava per la città facendo danni e ruberie; cui altri s’aggiunsero con
l’insegna della libertà, e tutti insieme entrati a forza nel convento
dei Romiti degli Angeli, dove molti cittadini avean sgombrato le loro
sostanze, vi rubarono danari e gioielli e robe, stimati centomila
fiorini; e due frati vi morirono. Similmente alcuni del quartiere di
Camaldoli e di San Frediano, andati al convento di Santo Spirito a
rubare, avrebbero fatto qui danno grave; ma uno dei Priori, Piero di
Fronte, lanaiolo, armato a cavallo gli sopraggiunse in sulla piazza: il
quale salvava con molta sua lode anche la Camera del Comune, che certi
ribaldi volevano ardere. Infine i Signori, udito che alcuni Fiamminghi
tessitori voleano muoversi per rubare, avendo mandato per la città i
gonfaloni delle Compagnie in arme, quattro ne fecero impiccare, uno per
quartiere, in cui s’abbatterono; e così cessarono le ruberie venendo la
notte.
Il primo di luglio entrava in ufficio la nuova Signoria, nella quale
fu Gonfaloniere Luigi Guicciardini: non si osservarono quella volta
le solennità usate del suonare le campane e del sermonare in sulla
ringhiera, ma tutto si fece nella sala del Consiglio; ed il Palagio
stette serrato con gente d’arme, e guardia in sulla piazza. Salvestro
de’ Medici fu a casa accompagnato con grande onore, e correvano le
vie di gente che fargli volea riverenza. Avevano quelli della passata
balìa avviata l’opera dello smunire (come dicevano) gli ammoniti, e
dichiarare ribelli e fare dei grandi; tra’ quali fu Piero degli Albizzi
confinato a trenta miglia dalla città. Le quali cose furono quietamente
per alcuni dì continuate dai nuovi, e questi e quelli a sè dando
privilegi principalmente del portare arme, talchè in Firenze oltre a
cinquecento cittadini portavano l’arme. Nè per tuttociò le Arti minute
si contentarono; e fecero sindachi, due per Arte a comune difensione,
volendo godessero quelle medesime preminenze ch’erano date alla balìa:
convenivano segretamente nelle botteghe adunando armi, guardie si
facevano dalle due parti nella città. Ad attizzare viepiù l’incendio
si aggiungevano gli smuniti, i quali dovevano stare tre anni fuori
d’ufficio, e quelli che ancora smuniti non erano; tutti questi faceano
insieme da centottanta tra cittadini e famiglie di cittadini. Quindi
ottennero che le ammonizioni a un tratto fossero tolte via, e che
gli uffici della Parte fossero tutti mutati e le borse rinnovate. Più
giorni trattaronsi coteste cose in Palagio coi sindachi delle Arti, ed
a mala pena si vincevano avendo contrari il maggior numero nei Collegi,
intantochè tali che in palese facevano contro alle petizioni degli
artefici, gli confortavano sottovoce viepiù animandoli all’impresa.
Il giorno 18 dello stesso luglio fu senza gran festa pubblicata la
pace col Papa; ma ciò nonostante gli Otto erano tuttavia rimasti in
Palagio (sebbene avessero fatto mostra di volere lasciare l’ufficio)
e soffiavano in quell’incendio, usando il destro che avevano dal
magistrato, ma non palesi come altri capi della parte popolare: a tutti
innanzi andavano gli ammoniti non per ancora riabilitati, che tanto
erano Ghibellini, quanto odiavano Parte guelfa, oramai fatta comodo
arnese di cui si valevano gli ottimati. Quindi promossa dai popolani
la guerra col Papa; e noi vedemmo all’apparire del grande dissidio che
era nel seno della Repubblica, favoreggiato il riconoscimento della
imperiale supremazia dai più amatori del viver libero. Oggi volevano
restaurare l’egualità come nel 43, quando il popolo si levò d’addosso
una tirannide forestiera e la molestia dei grandi; al quale effetto
contrapponevano le Arti minute alle maggiori, affinchè il numero
prevalesse. Ma quando tu chiami la forza del popolo a fare impeto nelle
vie, il vero popolo non risponde; e vedi uscire una moltitudine cui si
pertiene diverso nome, la quale non puoi nè dirigere, nè contenere, e
che travalica ogni tuo disegno. Avevano da principio chiamato le Arti,
ma dietro a queste venne la turba di coloro che non hanno (come in
Firenze diciamo) nè arte nè parte, e quella plebe di mal vissuti che
sempre abbondano in città opulente, anche più astiosi che affamati.
Costoro avevano già tentato fare tumulti e ruberie alla cacciata dei
grandi, ma erano soli a quella mossa, allora essendo bene uniti il
grosso popolo ed il mezzano; ora il mezzano ed il minuto levati insieme
veniano a dare come un titolo ed una scusa a quei più infimi, che pur
vogliono innanzi a sè una idea che gli rinnalzi o che gli assolva, e
cui si credano ministrare. Non mai le sêtte, comunque sieno forti di
numero e d’audacia, hanno potere per sè medesime, se non si annestino
a un’idea comune ch’esse intervengono a guastare; nè la plebe di
per sè piglierebbe animo alle ribellioni, se non avesse fuori di lei
un vessillo da seguire, che a lei ne desse autorità. Le Arti minute
chiamate in piazza aveano fatto un mese innanzi quel dato numero di
arsioni che prima erano designate; e gli stessi rubatori che la virtù
di Piero di Fronte avea riuscito a contenere, troviamo ch’ebbero una
insegna da mano ignota d’uomo possente,[20] e diceano fare vendetta
pubblica. Ora, non pochi tra’ primi autori di quei tumulti tardi
cercavano un qualche modo alla composizione e pacificare la città; ma
gli uomini delle più minute Arti erano mal soddisfatti, e peggio d’essi
gli ammoniti, e gli strumenti dei mali fatti, a sè temevano il gastigo
che sopra i deboli suol cadere: sapevano essere armi in Palagio ed un
Bargello di rinomata ferocità, e che soldati si radunavano.
Quindi avevano cominciato tra loro ad intendersi i fattori (oggi
diremmo braccianti) delle Arti minori e molti delle maggiori, e quelli
che arte per sè non facevano, e tutto quel fondo che sopra dicemmo
di minuto popolazzo: audaci pel numero e pronti a ogni cosa erano gli
uomini di quei mestieri, i quali viveano soggetti al collegio dell’Arte
della lana: a questi aveva il Duca d’Atene dato consoli ed un’insegna,
dov’era un Angiolo dipinto, e si chiamavano i Ciompi; nome corrotto,
secondo trovo, da quel di _Compare_ che ad essi davano francescamente i
famigliari del Duca. Furono insieme fuori la porta San Pier Gattolino
in certo luogo detto il Ronco, e fecero loro sindachi o caporali a
comune difensione, con gran sacramenta legandosi ad essere gli uni con
gli altri alla vita ed alla morte; e si baciarono in bocca, inviando
alle case dei loro pari a dare il giuramento ed a ricevere promissioni.
Di questo i Signori ch’erano in Palagio non avevano sentore infino
a’ 19 luglio; quando per avviso ad essi recato che il dì seguente la
terra si doveva levare a rumore e che facessero tosto, avendo mandato
a pigliare un Simoncino dalla porta di San Pier Gattolino, detto
Bugigatto; come lo ebbero in Palagio, il Proposto se ne andò con lui
nella cappella dinanzi all’altare, e lo interrogò di quel trattato.
Simoncino disse: Signor mio, ieri io con altri, in tutto dodici,
ragunati nello Spedale dei preti di via San Gallo, e avendo fatti
venire altri minuti artefici, si determinò che domani sulla terza si
dovesse levare il rumore, com’era dato ordine per certi sindachi che
noi facemmo più dì sono. E sappiate, signor mio, che noi siamo infiniti
congiunti insieme, ed evvi fra noi degli artefici bene assai, e de’
buoni; ed ancora ci è grandissima parte degli ammoniti, i quali si sono
molto profferti. Domandò il Proposto: anche che questa gente si levi,
che voglion’eglino dalla Signoria? Vogliono, continuava Simoncino, che
i mestieri soggetti all’Arte della lana abbiano consoli e collegi loro,
nè riconoscano l’ufficiale che per piccola cosa li tormenta, nè aver a
fare co’ maestri lanaioli, che molto male li pagano e del lavorío che
vale dodici ne danno otto. Ed anche vogliono avere parte nel reggimento
della città, e che d’ogni arsione e ruberia fatta non si possa contro
essi conoscere in alcun tempo. Domandò il Proposto se alcun cittadino
popolano o grande fosse loro capo; nominò alcuni; chiesto poi d’altri,
non volle dire. Il Proposto allora fattolo bene guardare, ragunò i
compagni e narrò il fatto: era dopo cena ed insieme presero partito
di chiamare i Gonfalonieri delle compagnie, i quali innanzi che si
potessero avere era già notte. E di presente consultandosi co’ Dodici e
con gli Otto della guerra e co’ sindachi delle Arti ch’erano in Palagio
a trattare co’ Signori, deliberarono di mandare pe’ Consoli delle
Arti; i quali venuti, consigliarono che si facesse venire in piazza
le genti dell’armi, e che vi fossero in sul dì; e che i Gonfalonieri
andati a casa facessero armare tutti quelli del gonfalone, ognuno il
suo, e anch’essi venissero in piazza armati co’ gonfaloni spiegati. E
intanto aveano mandato lettere alle leghe e comunanze per il contado,
e a’ conti Guidi, nell’Alpe ed in altri luoghi, perchè mandassero
con prestezza genti il più che potessero. Parve altresì di mettere
Simoncino nelle forze del Capitano, e che fosse tanto martoriato
ch’egli dicesse tutto il vero: posto sulla corda, confermò il detto,
aggiugnendo che Salvestro dei Medici era capo e guida di questo
trattato; e diede i nomi di due suoi compagni che ne sapevano più di
lui: questi, pigliati la notte stessa, confermarono di tutto punto la
confessione del primo, e che ogni cosa nella città era già in ordine
alla esecuzione per la mattina seguente a terza.
Accadde che un Niccolò degli Orivoli essendo in Palagio a racconciare
l’orologio, s’accorse ai gridi che Simoncino era tormentato; di
che subito se ne andò a casa sua da San Frediano, e armossi e uscì
gridando: _Levatevi, i Signori fanno carne_. Un di Camaldoli cominciò
a dare nella campana del Carmine, e la gente di là armatasi conveniva
dov’era prima dato l’ordine; in un subito, e di campana in campana,
tutta Firenze suonava a stormo. Primi quelli da San Pier Maggiore, poi
altra brigata giù per Vacchereccia vennero in piazza, dove erano forse
ottanta lance di gente dell’arme discesi a piedi e con le barbute in
testa; ma non si mossero, e dicevano: dateci delle vostre insegne e
de’ vostri cittadini, ed aiuteremo quando il popolo sia con noi: dei
Gonfalonieri nessuno veniva in soccorso dei Signori, com’era ordinato.
Ben v’era taluni che sarebbono voluti andare e s’erano mossi; ma
Tommaso Strozzi e Giorgio Scali gli rattennero, e ad uno che disse
com’egli voleva per sè andare ad ogni modo, gli volsero contro la furia
del popolo: due soli più tardi vennero in sulla Piazza con Giovenco
della Stufa e Giovanni Cambi; ma nulla poterono. Avevano i Signori
la notte mandato per Salvestro dei Medici e dettogli come fosse egli
infamato d’essere capo alla congiura; del che Salvestro si scusava,
bensì confessando che lo avevano ricercato. Poi quando la gente in
Piazza ingrossava, gridando gli fosse renduto Simoncino e gli altri
prigioni, sebbene taluno dicesse «Rendiamoli sì ma in due pezzi;» il
Gonfaloniere volle che fossero lasciati andare. E quei del Palagio
mandarono lo stesso Salvestro e Benedetto degli Alberti, Benedetto di
Carlone pianellaio e Calcagnino tavernaio a intendere quello che il
minuto popolo si volesse; e vi andò uno anche dei Signori, Guerriante
Marignolli. Usciti, viddero che i più ardenti si avevano tolto il
Gonfalone dal palazzo dell’Esecutore, e con esso innanzi facevano
arsioni e danni e mali, consentendo quelli ch’erano stati mandati fuori
ad acquietare il tumulto, ma viepiù lo raccendevano: ed ai Signori
venivano e rapportavano, che costoro voleano purgare il peccato delle
ammonizioni; ma, fatto un poco, resterebbero.[21] Imperocchè arsero
prima la casa del Gonfaloniere Luigi Guicciardini, poi d’un altro
Albizzi e di quel Simone Peruzzi che abbiamo noi più volte ricordato,
e di ser Piero delle Riformagioni e d’un Ugolino lanaiolo e di due
Ridolfi e d’un Castellani e di un Corsini e d’altri; altre disfecero,
per non appiccare il fuoco a’ vicini: e poi andarono e misero fuoco
al palagio dell’Arte della lana, e ne cacciarono l’ufficiale. Ma
perchè pure non si dicesse questa volta che andavano rubando, avevano
uomini preposti a badare che ogni cosa fino alle più preziose fosse
gettata nel fuoco; e narra lo Stefani avere veduto dare d’una lancia
nelle spalle a tale che aveva rubato un pezzo di carne salata e nol
voleva gettare. Molti seguivano per paura, siccome avviene, quelli
che ardevano; e ciò faceano per non essere arsi, perchè bastava che
uno gridasse: A casa il tale, e subito era fatto. Ora ecco uno strano
capriccio di popolo: pigliavano cittadini, chi per amore e chi per
forza, e gli armavano cavalieri; il popolo aveva diritto a ciò fare,
ed era usanza, cerimonia molto solenne nella città: primi Salvestro de’
Medici e Tommaso Strozzi, e Benedetto ed un altro degli Alberti, e gli
Otto della guerra e Giorgio Scali ed altri assai, fra tutti sessanta:
due ve n’era delle Arti minori, che uno scardassiere e un fornaio. Il
popolo vago di novità, correndo qua e là, menava taluni e levavagli
a dignità di cavalleria, dei quali prima era stata arsa la casa o
ardeva in quel tempo, siccome avvenne al gonfaloniere Guicciardini: chi
aveva paura di essere arso mandava in piazza chi gridasse, Facciamolo
cavaliere: muovevansi al grido, e andavano per lui e lo portavano di
peso: era il più strano viluppo che mai si vedesse.
Speravano molti che nella festa e nell’allegrezza del fare cavalieri
il popolo si quietasse, ma non avvenne: e sulla sera più migliaia
di gente minuta accampati da San Barnaba mandarono alle Arti perchè
venissero ordinati sotto a’ gonfaloni loro a formare certe petizioni
da portare alla Signoria. Quelli delle Arti che mossi gli avevano, si
cominciavano a pentire, perchè tutti i loro fattori s’eran messi nella
turma, e tardi s’avviddero che male avean fatto; chi v’andò e chi vi
mandò, per tema i più, e tale gonfalone non era seguito da più di sei
uomini. Gli artefici e il popolo a fatica s’accordavano sulla materia
delle petizioni; infine convennero che delle due parti ciascuna desse
la sua, e insieme armati le presentassero. Avevano anche mandato la
notte in Santa Croce per la cassa delle imborsazioni, che la volevano
ardere; ma i Signori, questo presentendo, l’avevano trafugata. Sul far
del dì venne una piova che tale niuno si ricordava; durò fino a terza
e correva le vie: la gente del popolo battuti dall’acqua, che aveano
vegghiato, si riposavano e pensavano; allora gli astuti guidatori
loro, con la paura dei mali fatti, gli conducevano a far peggio:
venuti in Piazza vi rizzarono le forche, dove appiccarono e sbranarono
crudelmente ser Nuto Bargello: di lì andati al palagio del Potestà, e
combattutolo due ore, l’ebbero a patti; e senza offendere il Potestà,
bruciarono tutte le scritture che trovarono in Palagio e i libri e
statuti dell’Arte della lana, e della Grascia: poi ne andarono a’
Signori con le petizioni, le quali erano a questo modo. Si contentavano
da principio che le arti soggette all’Arte della lana avessero consoli,
e questa più non dovesse avere ufficiale forestiero: volevano ora che
i pettinatori, scardassieri, vergheggiatori e lavatori ed altri che
lavoravano nella lana, e similmente che i tintori, i barbieri, i sarti,
i cimatori, i pettinagnoli, i cappellai avessero consoli e tra loro
due priori, e che le quattordici Arti che prima avevano due priori ne
avessero tre, e così il terzo degli altri uffici di dentro e di fuora.
Appresso volevano che si facesse l’estimo delle possessioni e degli
averi entro sei mesi; che il Monte non rendesse più interesse, ma
solamente il capitale in dodici anni, traendo a sorte i creditori da
rimborsare, cosicchè alla fine dei dodici anni i creditori del Monte
fossero tutti pagati del capitale che v’era iscritto, venendo a perdere
l’interesse. Che non si mettesse più prestanze da indi a sei mesi, e in
quelle che poi si mettessero, chi fosse tassato da quattro fiorini in
giù, pagasse venti soldi di piccioli, e chi da quattro fiorini in su,
mezzo fiorino per ogni fiorino d’oro: il ch’era un principio alla scala
o progressione delle imposte, che indi i Medici praticarono. Appresso,
che niuno di questi minuti potesse nel tempo di due anni essere
condannato per alcun debito da fiorini cinquanta in giù. Che agli
ammoniti si togliesse ogni divieto, e loro fosse agevolato l’essere
smuniti; che gli sbanditi, eccetto i ribelli, fossero ribanditi, e che
si levasse via la pena de’ membri, i condannati pagando la multa senza
condizione. Che d’ogni eccesso fatto e commesso dai 18 giugno fino a
questo dì non si potesse conoscere per alcun rettore sotto gravissime
pene a chi accusasse di queste cose in tempo alcuno, o condannasse. Che
a qualunque fossero state arse e atterrate le case in questi rumori
passati, fosse privato in perpetuo degli uffici, o almeno per dieci
anni (questa era invero bella giustizia, e nuovo titolo di delitto).
Che la piazza di Mercato Vecchio non pagasse più di trecento fiorini
d’oro l’anno, cioè la descheria dei beccai, e quelli andassero a
benefizio di messer Giovanni di Mone biadaiolo che era degli Otto, ed
oggi fatto novello cavaliere. Che Guido Bandiera scardassiere, fatto
cavaliere novello perchè fu uno de’ primi che levò il rumore ed ora
si era portato bene in rubare e ardere, avesse de’ beni de’ rubelli
fiorini due mila d’oro. Che messer Salvestro de’ Medici, per potere
sostentare sua milizia, avesse le pigioni del Ponte Vecchio, che sono
fiorini 600 o più l’anno. Chiedevano per ultimo favori ad altri degli
amici loro, bando ai contrari e pene novelle o aggravamento delle
antiche.[22]
Quel che importassero tali petizioni, ciascuno sel vede. Avute le
quali, subito i Signori fecero radunare i Collegi ed il Consiglio
del popolo; ai quali essendo presentate, furono vinte senza alcuna
diminuzione o mutazione.[23] I gonfaloni delle Arti e il popolo degli
artefici tutti armati erano sulla piazza, le grida andavano fino al
cielo; e perchè si penò un poco a radunare il Consiglio, si mossero
a furia e andarono oltr’Arno per ardere le case di due de’ Priori;
e così avrebbono fatto, se non che innanzi che le affuocassino fu
loro venuto a dire che le petizioni erano vinte. Venuta la notte, si
ridussero nel palagio del Potestà, quanti ve ne potè capire: già nella
sera, quando i fanti dei Signori tornavano da serrare le porte della
città, il popolo minuto si fece loro innanzi e tolse le chiavi: il
che fecero perchè avevano sentito dire che i Signori facevano venire
fanti forestieri in loro soccorso. Il dì seguente, che fu giovedì 22
luglio, suonò la mattina a Consiglio di Comune: i Gonfalonieri delle
Arti e il Gonfalone di giustizia ed il popolo minuto vennero in piazza;
il rumore tale che nulla s’udiva quando le petizioni si leggevano a’
consiglieri: furono vinte senza indugio, e il Consiglio licenziato.
Ma quelli montati allora per questo in maggior furore, gridavano che
volevano entrare in Palagio, e che i Signori se ne uscissero. Uno di
questi, Guerriante Marignolli, già si era partito d’allato i compagni
dicendo voleva scendere giù a guardare che il popolo non entrasse; ma
presa la porta, difilato uscì di Palagio. Quando il popolo e le Arti
viddero che Guerriante se ne andava a casa, cominciarono a gridare:
Scendanne tutti, noi non vogliamo che siano più Signori. Allora venne
Tommaso Strozzi nell’Udienza, e disse come Guerriante se n’era ito a
casa sua; per questo il popolo e Arti al tutto vogliono che voi altri
Signori tutti ve n’andiate a casa. I Signori smarriti deliberarono
significare ciò ai Collegi e agli Otto a fine d’intendere la loro
volontà. Quivi essendo tutti a cerchio, fu da uno di loro esposto il
caso; niuno sapeva pigliare partito, ed i Collegi piangevano, chi si
torceva le mani, chi si batteva il viso; gli Otto si mostravano tristi
e dolenti: fuori gridavano, che i Signori se ne andassero e gli Otto
rimanessero in Palagio, altrimenti che la città andrebbe a fuoco ed a
sacco; e che se di subito non ne uscissero, piglierebbono le loro mogli
e i loro figliuoli, e in loro presenza gli ucciderebbono: tutte queste
minaccie usavano come era loro insegnato dire. Benedetto Alberti,
venuto alla Signoria, propose che due del popolo delle Arti venissero
su a risiedere come Priori insieme con loro; il che essendo facilmente
consentito, egli e Tommaso andarono giù a trattare col popolo; il quale
non volle, dicendo: noi abbiamo fatto tante offese a questi Signori,
che noi non ci potremo mai più fidare di loro. I Signori guardavano
pure che un qualche accordo si facesse, che rimanessero in Palagio
con amore e volontà del popolo e delle Arti. Ma gli Otto e i Collegi
consigliarono che per manco male se ne andassero: dei Signori due,
Alamanno Acciaiuoli e Niccolò del Nero Canacci, dissero che per loro
non intendevano eglino uscire, e chi voleva andare se ne andasse;
il Gonfaloniere piangeva la moglie ed i figliuoli; gli altri Signori
stavano che parevano tutti morti. Non era persona che gli confortasse
nè che a loro si profferisse; ed anzi molti di quei che erano giù nella
Corte, venivano su e supplicavano se ne andassero: così era abbandonata
quella Signoria. La famiglia del Palagio si era nascosta nelle camere
degli Otto, ed i fanti venuti a richiesta della Signoria stavanle
contro; e già buona parte del popolo minuto era entrato nel Palagio. Il
Gonfaloniere, partitosi da’ compagni, se ne andò a Tommaso Strozzi e
a lui si raccomandò; Tommaso il prese e trasselo di Palagio e lo menò
a casa sua. Gli altri Priori e i Gonfalonieri e i Dodici anch’essi
se ne andarono. L’Acciaiuoli e Manetto Davanzati venuti nell’Udienza,
come viddero essere quivi soli, si tennero morti; e infine avviatisi
anch’essi giù per le scale, fecero dare al Proposto delle Arti le
chiavi della porta; la quale fu aperta, e il popolo irruppe ed entrò in
Palagio.
A tutti innanzi era un pettinatore di lana chiamato Michele di Lando,
e la sua madre vendeva stoviglie;[24] egli in pianelle o scarpette e
senza calze, portando in mano il gonfalone. Salite le scale si fermò
ritto a mezzo la scala dell’Udienza dei Signori, e qui fu gridato a
voce di popolo Gonfaloniere di giustizia: rispose voleva; e volle, e
tosto pigliò animo dal magistrato, con grande ardire e intendimento,
essendo quel giorno egli solo come signore della città, e tenne il
Palagio, e scrisse lettere e comandamenti. Il seguente dì fatto suonare
a pubblico Parlamento, fu in piazza confermato Gonfaloniere fino a
tutto agosto, e data balía a lui ed agli Otto ed ai sindachi delle
Arti, quanta ne avesse tutto il popolo, di riformare la città e di fare
nuovi Priori e i dodici Buonuomini e i Gonfalonieri delle compagnie.
I quali essendo messi in ufficio con le solennità consuete, insieme
agli altri della Balía ed a Salvestro de’ Medici e a Benedetto degli
Alberti, crearono subito tre nuove arti e consolati, la prima de’
sarti, farsettai e cimatori e barbieri, la seconda de’ cardatori e
tintori, la terza dei Ciompi o popolo minuto; il che fu segno ad altri
mestieri, che erano sudditi delle principali Arti, di levarsi contro
a’ maggiori loro, e ai discepoli contro ai maestri; che fu cagione
di fieri scandali. Aveano da prima, col consiglio di ambasciatori
venuti da Perugia e da Bologna, voluto alle Arti maggiori mantenere la
preminenza; ma di ciò il popolo non si contentava: e quindi provviddero
che la Signoria fosse divisa per terzo sì che nel priorato fossero tre
delle Arti maggiori, tre delle minori, tre delle nuove Arti aggiunte,
avendo ognuno di questi tre ordini alla sua volta il Gonfaloniere
della giustizia. Credevansi gli Otto rimasti in Palagio d’aver essi
la balía di fare ogni cosa, e che potessono eleggere i Signori a mano;
tanto che avevano già mandato a dire a messer Giorgio Scali ch’egli era
fatto de’ Priori e che venisse in Palagio: ma quando il popolo l’udì
nominare, disse non lo voleano, e che voleano essere Signori loro: egli
si tornò a casa.[25] La plebe che aveva il suo Michele di Lando, poteva
far senza il nobile Giorgio Scali; nè fu bastevole questo disinganno
all’ambizione di Giorgio, che ebbe indi a porvi anche la vita. Costui
d’antica famiglia de’ grandi, ma fatto di popolo, fu di sottile ingegno
e di gran vedere, ardito e molto intramettente nelle cose dello
Stato; ammonito l’anno 1375, la città se ne turbò. Egli, quand’era
Gonfaloniere l’anno 1374, aveva posta una legge per la quale i grandi
non potessero avere tenuta o possessione che avesse fedeli e vassalli,
ma che fossero costretti di farne vendita al Comune dentro certo tempo:
la quale legge fu rivocata.[26]
Correva frattanto il mese d’agosto, a fine del quale doveasi eleggere
nuova Signoria da cominciare al tempo usato. Per questa fecersi gli
squittinii; ai quali intervennero, oltre ai già detti, i Dieci di
libertà ed i nuovi Capitani della parte e gli Otto della Mercanzia,
di questi essendosi accresciuto il numero, sì che ne fossero sempre
due delle Arti minori: ma in quello squittinio prevalsero le Arti di
nuovo aggiunte ed il popolo minuto, gli altri tenendosi in disparte
per tema o disdegno, o a bello studio allontanati. Gli Otto frattanto
e i sindachi delle Arti, e gli altri che avevano in mano lo Stato
si cercavano perpetuarlo, e a sè arrogavano preminenza del portare
armi, ed onori, e salari ed uffici dentro e fuori, tra loro stretti in
consorteria fin da principio di quei tumulti,[27] e volendo che nessuna
riformagione valesse, se prima non fosse dai sindaci deliberata. Il
povero popolo era arrabbiato di fame, perchè le botteghe quasi stavano
serrate, e se stavan aperte non lavoravano; onde a chetarlo si prese
modo di dare uno staio di grano per bocca a chi ne volesse, e si
diedero a far venire biade in città: posero prestanze ai cittadini
di quaranta mila fiorini, poi di venticinque mila, com’era voluto
nelle petizioni di sopra esposte; levarono l’interesse ai capitali del
Monte, e che d’ora in poi nessun Monte si facesse, ma che si facesse un
estimo a tutti i cittadini; mandarono uomini pel contado a confortare
i contadini, ad essi scemando le stime il terzo, e ne assoldarono dalle
tre miglia in qua. Confinarono per le città d’Italia trentuno dei capi
del vecchio Stato; ch’era vendetta e sicurezza, ed era anche modo di
far danari da compire le prestanze, per le multe che ogni tratto i
confinati pagavano, costretti ogni dì presentarsi all’ufficiale della
terra dove risiedevano: per il che erano di continuo trovati in fallo e
condannati.[28]
Più altre provvisioni si fecero tutto quel mese di agosto: prima
ordinarono mille balestrieri per la difesa della città; se nascesse
qualche rumore, vietarono mostrarvisi in arme e persino lo sparlare
contro allo Stato e contro al popolo minuto: si adoperarono a
recuperare ovunque i danari del Comune o le poste debite, rimettendo
però le penali, e a tenere la città provvista; concessero agli antichi
sbanditi qualche giorno di stare in città e farsi togliere il bando:
le signorie private di luoghi forti nel contado sottoposero alla
ubbidienza del Comune: cercavano insomma quella violenza di cose
comporre a stato fermo e regolare sotto a nuove leggi, per fare andare
come la forza anche il diritto in mano al popolo degli artefici.[29]
Quello che impedisce cotesti governi popolari, è il non potergli fare
tanto larghi che sempre non sieno monchi e imperfetti: popolo siamo noi
tutti, ma pure in ogni popolo vi è una parte il cui diritto consiste
nell’essere quanto è possibile governata bene, perchè se vi ponga le
mani da sè, costretta accorgersi di non saper fare altro che male, si
spinge innanzi in quello che sa, ch’è la sola opera del disfare. Non
era in Firenze via da contentare i più feroci e infatuati: radunatisi
di loro circa due mila in San Marco nei giorni ultimi d’agosto, vennero
alla Piazza de’ Signori, e con essi alcuni d’ogni Arte co’ gonfaloni
loro, quali appiccarono alla ringhiera, eccetto quello del minuto
popolo che sempre era portato attorno. La turba empieva tutta la Piazza
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