Storia della Repubblica di Firenze v. 2/3 - 05

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quando venti popolani di chiare famiglie furono messi tra’ grandi, e
trentanove privati d’ufficio, intantochè venti ch’erano tra’ grandi
vennero ammessi dentro al popolo. Contro ai ribelli atroci leggi, gli
odii essendo inveleniti più che mai sempre dai sospetti; voleano tôrre
loro i beni e farli andare in altre mani per creare loro addosso nuovi
nemici: con questo fine avevano formata una balía d’Otto ufficiali a
fare le vendite, designando essi i compratori e a ciò forzandoli quando
non volessero: agli stessi Otto era imposta multa se dall’ufficio si
ritraessero. Da quelle vendite decretarono che dieci mila fiorini
fossero tolti ed assegnati a promuovere la uccisione dei ribelli
_in ogni forma e via e modo che agli Otto paresse_, intantochè erano
posti nuovi rigori contro a chi osasse di richiamarli. Gli ammoniti
erano dei più accesi, e molto potevano tuttavia sempre in quello
Stato, risuscitando essi le passioni che prima s’erano eccitate
quando fu guerra contro alla Chiesa; alla quale perchè era promesso di
restituire i beni venduti, trovarono modo a compensare i compratori
togliendo ai Cherici le prestazioni ad essi dovute per vari titoli
dallo Stato,[40] e privarono del beneficio di riavere le possessioni
quelli ecclesiastici che negassero ai compratori i sacramenti. Anche
cercavano leggi nuove a ordinare le gravezze, cosicchè i poveri se
ne vantaggiassero; ma in quanto ai modi non s’intendevano, ciascuno
volendo tirare l’acqua al suo mulino, come si legge in Marchionne
Stefani, ch’ebbe le mani in quello Stato, e anch’egli aveva il mulino
suo. Posero ancora gravezze nuove, che tosto furono abolite; il nuovo
estimo era fatto, e mai non ebbe esecuzione: ridussero il Monte a quel
solo capitale che fu sborsato dai creditori, togliendo a questi il
beneficio d’essere iscritti per due o tre volte quel ch’era pagato, e
mantenendo l’istesso frutto del cinque per cento in luogo del quindici
che i creditori soleano averne:[41] veniva ad essere spogliazione; e,
come è a credere, durò poco. Oltreciò vollero gli artefici che fosse
disfatta e riformata la moneta spicciola, dal che venisse a scemare
il prezzo del fiorino d’oro; ed era ciò a vantaggio loro, perchè i
mercanti vendeano a fiorini e pagavano le manifatture a soldi:[42] i
lanaioli e tutti quelli che vivevano di rendite perdeano assai nella
differenza. Intanto nelle arti e nel maneggio di esse era ogni cosa
scompaginato: i tintori e quelli altri mestieri tolti alla suggezione
dei lanaioli aveano briga con essi continua; ed i lavori cessavano.
Le famiglie facoltose così vedendosi soverchiate o per sè temendo,
si ritraevano per le ville, tanto che ad esse fu imposta multa se
non tornavano in città. A questo modo le condizioni dei braccianti
peggioravano, ed i guadagni al minuto popolo venendo a perdersi ogni
giorno più, moltiplicavano i provvedimenti pe’ quali il male più si
aggravava, e la miseria cresceva, e il vizio con essa e il gioco e
le usure, e frequenti le uccisioni per odii di parte o per vendette
private,[43] contro alle quali facevano leggi ma tutte inutili e
impotenti.
Erano molti, come si è detto, da prima i capi che avevano insieme
guidato il popolo ad occupare lo Stato; ma perchè ciascuno a fine dei
conti faceva per sè, ben tosto vennero a dividersi, ognuno di essi
pigliando il luogo che a lui davano l’audacia o le forze o la capacità
sua. Tommaso Strozzi e Giorgio Scali si erano spinti più innanzi,
sempre così da essere quasi che principi nello Stato. Tenevano seco
per loro arnesi o ministri o (come gli appellavano) scorridori, molti
artefici minuti, massime delle due Arti nuove, ai quali aveano fatto
dare licenza di portare arme: costoro ad altro non attendevano che
a seminare scandali e a minacciare questo o quello e a fare accusa.
Talchè i buoni uomini e mercanti si cominciarono a destare; e già
Benedetto degli Alberti si era spiccato da quelli altri, biasimando i
modi che a loro vedeva tenere piuttosto tiranneschi che civili. Occorse
ne’ primi dell’anno 1382 che uno degli Scorridori soprannominato
lo Scatizza, uomo di pessima condizione, accusò Giovanni Cambi ed
altri gonfalonieri di Compagnie che più francamente s’erano scoperti,
cercando così farli cacciare dal reggimento. Ma colui fu preso dal
Capitano, ch’era un messer Obizzo degli Alidosi signori d’Imola, e
confessò il falso dell’accusazione. Per quante pratiche si facessero,
il Capitano anzichè liberare lo Scatizza, mostrava intenzione di farlo
morire. Tommaso e Giorgio, bene accorgendosi che per loro ne andava
ogni cosa, di notte con molti assalirono armata mano il palagio del
Capitano; il quale veggendosi così sforzato, andò ai Signori e depose
la bacchetta in segno di volere lasciare l’ufficio: quelli riebbero lo
Scatizza. Il che sentendosi per la terra il seguente giorno, i consoli
delle Arti con molto seguito andarono ai Signori a dolersene e a
confortarli, loro profferendosi ad ogni bisogno; esortarono il Capitano
a ripigliare l’ufficio, esercitandolo francamente, e lo riposero in
palagio: Giovanni Aguto era sulla piazza con trecento armati a cavallo.
Subito allora il Capitano, mandata fuori la sua famiglia, fece pigliare
Giorgio Scali, il quale non s’era voluto fuggire sebbene da molti fosse
avvertito. Era di coloro che stanno col popolo, perchè non vogliono o
non sanno adattarsi con gli eguali, e quello si credono avere strumento
sicuro e valido nelle mani loro. Fidando in sè e nel caldo del favore
che prima godeva, quando fu richiesto per andare dal Capitano, rispose
che anderebbe volentieri: giunto alla piazza, udì molte voci contro lui
gridare giustizia. Era in sul vespro: al far del giorno gli fu tagliata
la testa sopra il muro del cortile; e quivi egli, che era stato il
primo in Firenze, rimase più ore, senza alcuno adornamento e senza
nemmeno avere uno sciugatoio che lo cuoprisse.[44] Tommaso Strozzi,
scampato a Mantova, trapiantava in quella città un ramo della sua
famiglia. Indi un corazzaio, Simone di Biagio, il quale era stato dei
più furiosi in quei tumulti, e seco un figlio ed alcuni altri, furono
morti e strascinati crudelmente per le vie.
Non così tosto le maggiori Arti e tutto il popolo facoltoso viddero
il ceto dei braccianti abbandonare o gastigare egli medesimo i suoi
capi, bene s’accorsero ch’era tempo alla mutazione dello Stato.
La stessa mattina, e fatte appena le esecuzioni, si levò in piazza
grande rumore, ciascuno gridando Vivano i Guelfi: allora sopraggiunse
l’Arte della lana in arme tutta, e di coloro che erano appellati buoni
cittadini e delle maggiori famiglie e quasi d’ogni casa guelfa tanto
gran numero che non vi capivano. Fra loro d’accordo ordinarono una
petizione e la recarono ai Signori, contenente la riforma della città
e il ribandimento degli sbanditi ed altre cose: al che i Signori fecero
suonare a Parlamento per ispazio di due ore, e in questo mezzo innanzi
alla porta del Palagio procederono all’usata ed inevitabile cerimonia
di creare cavalieri circa una ventina dei più grossi popolani. Quando
fu restato di suonare, fatto il Parlamento, si deliberò che i Signori
e Collegi e i due Capitani di Parte, e due della Mercanzia, e due
de’ Dieci di libertà, e due cittadini guelfi per ciascuno dei sedici
gonfaloni, insieme avessero tutta la Balía in nome del popolo e del
Comune di Firenze. Fatto il Parlamento, si levò l’insegna della Parte
che fu data in mano a Giovanni Cambi, colui che per l’accusa avuta
dallo Scatizza diede occasione a tutto quel moto; ed egli con seco il
Capitano e i cavalieri novelli e con la gente dell’arme e molto popolo
cavalcò per la città, gridando tutti: «Vivano i Guelfi e l’Arti.»
L’altro dì quelli della Balía radunati in Palagio deliberarono la
nuova forma di reggimento, i lanaioli e seguaci loro tuttora essendo
in piazza armati: nel priorato sieno quattro delle maggiori Arti e
quattro delle minori, ma il Gonfaloniere, ch’era il nono, sempre sia
tratto delle maggiori; dei sedici Gonfalonieri e dei Dodici buoni
uomini, degli Otto di Guardia e de’ Dieci di Libertà, sempre per le
Arti maggiori uno più della metà; lo stesso pei capitani e priori
della Parte e pel Consiglio del popolo; ma in quello del Comune tra i
due ordini doveva essere parità, i magnati rimanendo quivi nel numero
conosciuto. Inoltre contiene quella provvisione, che gli sbanditi e
carcerati per causa di Stato dopo il 18 giugno 1378 sieno assoluti,
e che riabbiano i beni loro, ma non possano tornare per tutto il mese
prossimo di febbraio: che i fatti grandi dopo quel giorno ed i privati
dell’ufficio o messi a sedere, vengano restituiti e tolto ad essi ogni
divieto; che sieno gli ordini contro ai grandi rimessi come avanti il
78; che le due Arti di nuovo aggiunte sieno annullate, disfatte le case
o residenze loro, con che però dei dieci consoli dell’Arte della lana
due sieno sempre delle Arti soggette, e gli altri otto lanaioli.[45] Il
terzo dì furono arse in Palagio le borse del priorato degli uffici.
Tuttociò andava contro alle quattordici Arti minori, le quali scorgendo
avere annullato le due nuove Arti scemava loro le forze, e dubitando
che il simile non fosse poi fatto a loro, subillate anche dagli smuniti
i quali ad ogni intemperanza tenevano mano, si ragunarono tutti alle
loro residenze con intenzione di venire armati in Piazza co’ gonfaloni,
per farsi forti contro agli avversari loro. Ma non poterono, perchè
avendo ciò presentito l’Arte della lana e l’altre maggiori, con
rinforzo di villani che aveano chiamati, furono in Piazza prima di
loro; cosicchè essendo venuti alcuni delle minori Arti, cioè beccai e
vinattieri, furono cacciati con mal commiato ed alcuni morti. Venivano
su per quei nuovi ordini le famiglie de’ mercanti grossi, odiate dai
grandi per antiche nimicizie: avrebbero questi volentieri dato mano
alla gelosia degli artefici; se non che gli Otto di guardia, i quali
n’ebbero qualche sentore, provviddero che di bel nuovo s’armasse
l’Arte della lana con le altre maggiori e buon numero di cittadini;
e radunatisi in Mercato Nuovo, con bandi e altre dimostrazioni fecero
capire ai grandi e agli artefici che attendessero ai fatti loro. Dopo
di che per alcuni giorni la città fu quieta, essendo venuta novella,
che una compagnia d’Arezzo era entrata nel contado, cacciata ben tosto
e inseguita dall’Aguto.
Una lunga confusione regna nei fatti che indi seguirono. A noi proviene
in qualche parte dalla narrazione dei cronisti che si fa oscura con
l’addentrarsi nei più minuti avvolgimenti: ma era continua necessità in
uno stato di quella sorta. Fondato sulle Arti, voleva comporsi nella
fratellanza, la quale è anima delle industrie: tale era il pensiero
incessante dei migliori, dei buoni uomini, di coloro che mantenendosi
non interamente servi alle private cupidità, pur sempre amavano come
loro proprio il comun bene, e nei quali stava quel grande fascio della
comunanza che era la forza e la salute di questo popolo di Firenze. Il
quale popolo comprendeva, a dir così, tutta la città e si distendeva
nel contado, avendo in parte annichilato ma in maggior parte tirato
a sè ogni elemento che discordasse; i grandi erano impotenti, la
plebe scarsa: quello che in antico e, pur diciamolo, tra molte altre
nazioni moderne plebe si chiama, e tale è, qui era popolo educato
dalle antichissime tradizioni e da cento anni di libertà e dagli
esercizi dell’ingegno e da quel senso del bello in cui si comprendono
il vero ed il buono, e onde hanno gli animi gentilezza. Così mentre
era studio continuo ma sempre vano, trovare forme ordinatrici d’una
egualità che voleva essere troppo vasta, era impedito il soverchiare
di sola una parte sulle rimanenti; e in mezzo pure alla ferocia quasi
legale che da per tutto era un avanzo del paganesimo, qui dagli eccessi
delle passioni, frequente il ritorno a una certa temperanza che il
male attenua o corregge, e che pure lo impediva dallo sconvolgere
questo popolo comunque mobile e disordinato. Chi guardi infatti alle
discordanze che dividevano la città, chi alla mancanza di buone leggi
che forma dessero allo Stato, e alle incessanti perturbazioni che lo
agitavano, male saprà intendere certa serena giocondità ch’era nel
vivere di Firenze, e che apparisce dalle scritture. Lo stesso insorgere
contro ai vizi fiero e continuo, pure manifesta non rara essere già
nel popolo quella bontà che non era guasta dalle ambizioni immoderate,
e salute era del comun vivere. Così cresceva e prosperava una città
della quale forse niun’altra fu ordinata peggio. Lo stesso acume degli
ingegni scalzava giù dai fondamenti ed infiacchiva ogni autorità,
negando credito ai magistrati; le botteghe dividevano col male
intendersi la Repubblica, e la Repubblica le botteghe; parea vittoria
l’ottenere una debole maggiorità ne’ magistrati e ne’ consigli, ciascun
magistrato in sè avendo la mistura degli elementi i più discordi,
senza che niuno de’ vari ordini avesse intera la vita sua e una sua
propria rappresentanza: nel congegno dello Stato mancava affatto
ogni contrappeso, nelle ingerenze de’ magistrati tutto era arbitrio e
confusione; questo avea fatto la gelosia nutrita in tutti e contro a
tutti dal sentimento della egualità; la forza istessa di questo popolo
era fiacchezza della Repubblica. Nel tempo al quale siamo ora giunti,
le Arti minori contro alle maggiori quasi dividere si potessero,
stavano in guerra: queste voleano tale una forma di reggimento dove
il sapere e la ricchezza e il grande seguito prevalessero, ma non
soffrivano si mettessero troppo innanzi quelle schiatte che fra tutte
erano prepotenti e che appellavano _le famiglie_; i Ciompi si erano
accostati ai grandi, entrambi essendo dai mezzani del pari oppressi,
o fuorusciti; i grandi cercavano per ogni modo e come la occasione
dava, nelle aderenze coi sommi o dal malcontento della plebe, a sè
medesimi una via da porre un piede dentro allo Stato con l’abolire gli
antichi ordini, i quali stavano contro a loro; e gli ammoniti oggi
rimessi, col farsi parte a sè medesimi e da sè soli una setta nuova
e un nuovo scandolo nello Stato, mostravano essere non tutte ingiuste
quelle accuse, per le quali erano stati esclusi nei tempi andati dal
reggimento. Quindi nei fatti la confusione.
Continuava la Balìa creata negli ultimi giorni del gennaio 1382, e
mentre attendeva a formare gli squittinii secondo gli ordini nuovamente
posti, il Capitano di guardia, troppo arrendevole alle suggestioni
dei più eccessivi tra’ vincitori, procedeva ad inquisire contro a’
seguaci di Giorgio Scali e contro gli autori della mossa dei beccai;
o tali fossero o sospetti. Laonde nei primi giorni del febbraio più
di ottanta cittadini ebbero bando o confine in vari luoghi d’Italia:
abbiamo i nomi, e tra questi ultimi era Salvestro dei Medici confinato
per cinque anni a Modena,[46] e altri di coloro i quali volevano più
essere popolari, e inoltre non pochi dei bassi mestieri. Ma ciò non
bastava nè ai grandi percossi dal rigore delle leggi, nè a quelle
famiglie che mal sopportavano stare nei termini della egualità, nè
agli sbanditi del 78, che troppe avevano da esercitare vendette;
costoro volevano risuscitare le ammonizioni o fare anche peggio,
avendo seco di quella plebe la quale era stata più volte battuta, e
che trae dietro facilmente ad ogni bandiera perchè ella è sempre tra
i malcontenti. Costoro insieme vennero in piazza ai 15 di febbraio,
recandosi innanzi un gonfalone di Parte guelfa; ed era tra’ primi quel
Carlo Strozzi, che fu ingiuriato dal calzolaio nel 78:[47] sulla piazza
era il Capitano di guerra Giovanni Aguto con molti soldati a piedi e
a cavallo, ma non fece mossa; e quelli cresciuti in maggior numero,
imponevano continuasse la Balìa per tutto febbraio, ed ai centotre che
la tenevano si aggiungessero altri quarantatre cittadini, i nomi dei
quali portavano scritti; e inoltre voleano fossero tosto deliberate
certe loro petizioni, delle quali era questo il tenore: Che tutti
i condannati confinati o inquisiti per questo ultimo rivolgimento,
sieno dichiarati ribelli; e che all’incontro gli sbanditi ribanditi e
i danneggiati nel 78 sieno ristorati dei danni sofferti, e ai grandi
tolto ogni divieto, e levati di Palagio gli smuniti i quali fossero
negli uffici o nei consigli; che nella Signoria fossero sei delle
maggiori Arti e tre delle minori, con la stessa proporzione riducendo
la parte di queste negli altri uffici e nei collegi; che fossero ai
Ciompi restituite le balestre ad essi tolte nel 78; che i debiti per
le prestanze da un fiorino in giù siano ridotti a venti soldi, e dato
termine a pagare; che avessero piena assoluzione i maleficii commessi
in questi ultimi giorni, e (cosa incredibile) quelli pure che si
commettessero tutto quel dì infino all’ora di mezzanotte. Qui erano,
come ciascun vede, le famiglie le quali voleano più ristringere lo
Stato, gratificando alla plebe; e nel numero dei quarantatre erano i
primi e più insigni nomi, insieme a pochi bassi artefici. Fu suonato
a Parlamento, dal quale voleano fossero decretate le petizioni; ma
Coluccio Salutati cancelliere della Repubblica, opponendo la illegalità
del fatto, tirava in lungo; e quell’impeto si raffreddava; e già l’Arte
della lana con molti buoni uomini e mercanti veniva in Palagio, dicendo
in palese che bastavano alla Balìa i primi eletti, e nulla ci avevano
che fare gli altri quarantatre. I quali furono tolti via, ma per la
meglio convenne delle cose dimandate alcuna concedere, quella cioè
che risguardava al numero dei Priori; ed a ristorare gli sbanditi si
fece un qualche provvedimento; e pei danari del Monte, dove erano tre
centinaia ne scrissero due, cosicchè il frutto scendesse al dieci per
cento; inoltre fecero che chi fosse stato dei maggiori uffici dopo il
1312, o egli o il padre o l’avolo suo, non si potesse per alcun modo
nè ammonire nè dichiarare sospetto alla Parte: così per allora le cose
parvero acquietarsi.[48]
Il primo di marzo pigliava l’ufficio con grande apparato una nuova
Signoria, nella quale erano usciti molti delle famiglie primarie,
un Ricci, un Pepi, un Peruzzi, un Acciaiuoli, e messer Rinaldo dei
Gianfigliazzi Gonfaloniere; con essi erano tra’ Priori, un calzolaio
ed un beccaio. Avvenne che alcuni degli smuniti fossero tratti a certi
piccoli uffici, del che i contrari si adombrarono tosto, e sapevasi
che le Famiglie faceano venire gente di contado: si levò rumore a’
10 di marzo e n’erano autori gli sbanditi ritornati, i quali aveano
sollevato i Ciompi: innanzi portavano un gonfalone di Parte guelfa, ed
altri delle Arti si avevano tolti e dati in mano a uomini dei loro;
fu detto gridassero «viva le ventiquattro Arti» che era un volere
la restituzione delle tre minute di fresco abolite. Andavano per la
terra, avendo da prima arsa la casa d’un Ciardo vinattiere[49] ch’era
stato decollato come seguace di Giorgio Scali: infine si trassero
sopra il monte della Costa di San Giorgio, quivi facendo segno di
afforzarsi; e il Capitano del popolo pare che fosse d’accordo con loro:
e la brigata s’ingrossava anche di cittadini ch’erano andati a fine
di contenerli, e intanto ad udire da loro quello che domandassero.
Veniano dall’altra parte alla Piazza in molto numero i buoni uomini
e mercanti; il Gonfaloniere già s’armava, volendosi muovere con essi
incontro ai sediziosi, ma fu ritenuto; infine taluni dei cittadini
andati in sulla Costa, essendo entrati mezzani e suonato a Parlamento,
per meno male furono concordati alcuni punti; cioè: privare in perpetuo
gli smuniti d’ogni ufficio, e che gli sbanditi riavessero i beni e
le condannagioni pagate e la valuta delle case arse; fossero date
ricompense al Capitano e ad uno dei Beccanugi fattosi capo a quei
tumulti; che a discrezione del Capitano venissero confinati venticinque
cittadini, tra’ quali troviamo confinato a Chioggia Michele di Lando:
gli storici posteriori a coro vituperano la popolare ingratitudine.
In Firenze erano grandi mormorii, e dopo tre giorni le Arti si fecero
forti, e avendo di nuovo co’ Gonfaloni della giustizia e della parte
corse le strade sgombrate allora dalla brigata dei Ciompi, tanto
operarono che altra Balìa fu eletta per la quale vennero annullate la
maggior parte delle concessioni fatte, ed a sei tolto il confino (tra’
quali non era Michele di Lando) e a tutti gli altri agevolato: il prode
Michele tornato più tardi moriva in Firenze a’ 31 luglio 1401, e fu
sepolto in Santa Croce.[50] Due mesi dopo altro tumulto nasceva, fu
detto a istigazione di un Adimari; ma venne in breve ora con le armi
represso, e alcuni Ciompi decapitati. Intanto erano gli smuniti di
continuo sospettati; e se uno di loro fosse tra’ Priori, gli altri da
lui si guardavano per quella nota di ghibellino, e non tenevano con lui
colloquio di cose segrete; se alcun rumore nascesse dove entrasse uno
smunito, si diceva per città che gli ammoniti ghibellini uccideano i
guelfi. I grandi erano careggiati dai popolani maggiori, che non gli
voleano però lasciare troppo pigliare del campo; ed i grandi se lo
conosceano, ma per lo migliore si stringevano con essi: poi v’erano
artefici più temuti nella Piazza che rispettati in Palagio, i quali
faceano sollevare ad arme chi a loro piacesse; ma la temperanza dei
buoni uomini impediva la baldanza di coloro che per avere gli uffici
si metteano innanzi a tutti gli altri, il che dicevano farsi segno: e
niuno in Firenze si fece mai segno, che non fosse saettato.[51]
Vedemmo Arezzo essere tenuto in possessione da Carlo, novello re di
Napoli: un Vicario di lui avendo a fine di pace fatto rientrare nella
città i Tarlati e gli Ubertini e gli altri oramai da quarant’anni
fuorusciti di fazione ghibellina, questi con la potenza di fuori
e le aderenze che aveano dentro ne divennero come padroni così da
costringere gli amici stessi del Re a fuggirsi nella rôcca. I quali
sapendo il conte Alberigo da Barbiano ed altre masnade stare ne’
confini di Perugia, lo chiamarono che gli aiutasse a racquistare
la terra. Parve a lui meglio farne suo prò, ed occupata la diede in
preda a’ suoi soldati, che la misero a sacco e vi dimorarono più mesi,
infinchè essendosi contra loro fatta lega delle città di Toscana, si
condussero nel Regno. Scendeva in Italia, a questi tempi, di Francia
con grande forza di cavalli il Duca d’Angiò, chiamato dalla regina
Giovanna di Napoli suo figlio adottivo e successore nel regno, d’onde
egli veniva a cacciare Carlo di Durazzo: mandava per tutte le città
d’Italia con larghe profferte, pure che seco si collegassero. E
dall’altra parte Carlo alla Repubblica ricordava l’antica amicizia,
ed essere il Duca d’Angiò venuto per la oppressione di papa Urbano e
della Chiesa, egli aderendo all’Antipapa che avea dimora in Avignone.
Non potean altro i Fiorentini che starsi neutrali; ma Carlo aveva
grande favore nelle famiglie che più salivano in potenza, talchè a
soccorrerlo senza fare altra più aperta dimostrazione fu trovato
questo modo, che licenziato Giovanni Aguto ne andasse a Roma con
danari che i Fiorentini gli aveano dati in nome del Papa. Così l’Aguto
passò a Napoli, e fu grande aggiunta alle forze di quel Re; ma di ciò
si tenne molto offeso il Duca d’Angiò, e scrisse in Francia perchè
fosse fatta rappresaglia sopra alle robe ed alle persone dei mercanti
fiorentini. L’anno dipoi 1384 un’altra grossa Compagnia di Francesi
venne a rinforzo del Duca d’Angiò: la conduceva Enguerramo Signore
di Coucy, il quale disceso di Lombardia in Toscana, prima si fermava
presso a San Miniato, poi su quel di Siena, dove i fuorusciti d’Arezzo
veniano a lui con la promessa di fargli occupare quella città per le
intelligenze che avevano dentro. Accettò l’offerta, ed occupò Arezzo
non senza battaglia contro a’ cittadini che validamente la difesero;
ma non prima ne fu egli al possesso, che giunse novella essere in
Puglia venuto a morte il Duca d’Angiò: dal che ebbe fine quella
impresa che si faceva per lui, ed i Francesi d’Arezzo, che a tornare
in Francia abbisognavano di moneta, pensarono vendere ai Fiorentini
quella città. Più volte avevano questi avuto discorsi di vendita dai
vari che l’avevano occupata, e fin dai Tarlati; nè certo si stavano
dal fare disegni sulle fortune d’Arezzo, ora che lo Stato di Firenze
era venuto in mano di pochi ai quali importava rialzare se stessi con
le imprese di fuori, e che avevano a condurle assai maggiore abilità.
Dunque il Coucy vendeva Arezzo per quaranta mila fiorini d’oro:
quanti degli Aretini fossero allegri di quel mercato noi non sappiamo;
questo bensì, che se ne fecero in Firenze grandi allegrezze e giostre
e luminarie; ma si trova che avessero speso intorno solamente alla
città d’Arezzo duecento mila fiorini. Il bello si fu che nell’atto
di cessione diceva il Coucy donare Arezzo ai Fiorentini pel grande
amore e devozione che avevano essi portato sempre alla Reale Casa di
Francia, e perchè avevano posseduta più anni prima quella città: per
un altro atto del giorno stesso i fiorini, ch’erano la somma di tutto
il negozio, veniano al Coucy per essersi egli astenuto da ogni danno
sopra le terre della Repubblica: Iacopo Caracciolo, il quale teneva pel
re Carlo tuttavia la rôcca d’Arezzo, la cedè subito. Così la Repubblica
di Firenze venne in possessione della città d’Arezzo e del suo contado
e sue dipendenze. Donato Acciaiuoli, Commissario per i Fiorentini,
condusse con molta sua lode le pratiche per l’acquisto; e ricevuto
l’atto di dedizione, ordinava poi tutto il governo del nuovo Stato:
abbiamo a stampa gli atti e i documenti a ciò relativi nella più volte
lodata collezione dei Capitoli del Comune di Firenze.[52] Molte grosse
terre di Valdichiana vennero tosto in balìa dei Fiorentini, sebbene
Lucignano e Monte Sansavino fossero più a lungo disputate dai Sanesi:
Marco Tarlati cedeva Anghiari con più castella di Val di Tevere: poi
tutte le altre fino a Pietramala, antico nido di una famiglia tanto
nemica dei Fiorentini, vennero in mano della Repubblica; alla quale si
diedero pure in accomandigia gli Ubertini e quei di Montedoglio ed i
Faggiolani ed altri, d’onde ebbero i Fiorentini breve guerra col Conte
d’Urbino. E quindi anche venne a pigliare contro essi grande ira papa
Urbano, sebbene lui solo riconoscessero vero papa, nè mai piegassero
alle sollecitazioni di quel d’Avignone ch’era protetto dai Re francesi.
In questo tempo ebbe termine la guerra tra Veneziani e Genovesi tanto
grandiosa e memorabile, la quale ha nome di guerra di Chioggia. Amedeo
Conte di Savoia era stato arbitro per la pace, quei principi essendosi
allora ingeriti per la prima volta nei fatti d’Italia. Ai Veneziani
era imposta la demolizione dei castelli costrutti da essi nell’isola
di Tenedo, con l’obbligo intanto e finchè non attenessero la promessa
di depositare in mano al Comune di Firenze centocinquanta mila fiorini
d’oro in tante gioie; il che fu occasione a qualche vertenza prima che
il fatto restasse compiuto.[53]
Nell’estate del 1383 era di nuovo la peste entrata in Firenze, dove
morivano fino a due e tre e quattrocento persone al giorno, ma più di
giovani e fanciulli, che d’uomini e femmine di compiuta età. Fuggiva
chi poteva, e si temette, partendosi i ricchi, la gente minuta non si
accozzasse co’ malcontenti e facesse novità. Quindi per legge imposero
una multa a chi se ne andasse, e col ritratto di questa soldarono
gente. Imperocchè gli uomini delle famiglie primarie che già tiravano
a ristringere in pochi lo Stato, aveano continue intelligenze co’
nuovi capitani delle Compagnie che in oggi erano italiani, e come
nobili fuorusciti o privati nelle città loro del grado che ambivano,
poneansi di grande animo ai servigi degli ottimati, che già in questi
anni prevalevano per tutta Italia generalmente. Il popolo intanto
aveva perduta nei passati sconvolgimenti la superbia di sè stesso,
e il commercio della seta venuto in grande auge negli ultimi anni di
questo secolo, insieme alle nuove ricchezze creava nuove dipendenze,
e un adagiarsi nei godimenti nei quali gli animi si rendevano parati
e docili a ogni signoria. I Ciompi riapparvero dopo il 1382, ma come
stracchi per mosse brevi che gli mostravano di già vinti; e quella
parte ch’era venuta su, fortificavasi ogni giorno con le aderenze di
fuori e con le pratiche al di dentro, così da rompere ogni ostacolo. In
Siena il Governo che da più anni era nelle mani del popolo basso, tornò
all’ordine dei Nove che si componeva de’ più alti cittadini: la parte
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