Storia della Repubblica di Firenze v. 2/3 - 16

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con suoni di trombe e rumore grande. Insieme postisi a sedere, fecero
fermare le voci, e Ser Filippo Pieruzzi che aveva chiamato la Balìa
del 33, chiamò quest’altra; a cui risposero forse trecentocinquanta
cittadini, siccome troviamo notato in più luoghi, sebbene Cosimo ne’
suoi _Ricordi_ scriva che fu grandissima moltitudine. Questa Balìa
annullava ogni altra Balìa dal 1393 in poi; quindi si tornarono i
Signori in Palagio ed i Prelati al Papa: fu comandato alle genti
d’arme e ai cittadini tornarsi ciascuno a casa, e non seguì alcuno
scandalo nella terra. Il primo d’ottobre la Signoria inviava al Papa
il Gonfaloniere di giustizia e uno dei Priori a fine di rendergli
grazie; avevano seco quattrocento fanti bene armati, e capi di questi
Neri di Gino, e con tradimento del nome suo Luca degli Albizzi ch’era
ammogliato ad una Medici. Alle quattro ore di notte giunti a Santa
Maria Novella ebbero subito udienza, e i due Signori stati un’ora
in camera del Papa col Vitelleschi grande amico di Cosimo (secondo
scrive egli medesimo), rimasero d’accordo insieme della ritornata
di questo, e poi rientrarono nel Palagio. Il giorno seguente era la
Piazza occupata di nuovo da genti armate, e con esse uno dei Medici e
Bartolommeo degli Orlandini svisceratissimo di quella parte e adoprato
poi, siccome dovremo più tardi conoscere, a fatti peggiori. Furono
in Palagio chiamati gli uomini della Balìa ed i Collegi, i quali
insieme con la Signoria a un grido levarono il bando a Cosimo de’
Medici e agli altri con lui mandati in esilio, e all’Acciaioli e a’
due Pucci. Riabilitarono agli uffici della Repubblica le famiglie dei
Medici e degli Alberti, che prima n’erano stati privi. Fecero i dieci
Accoppiatori che regolassero le tratte a modo di chi reggeva.[283]
Un Bartolommeo de’ Cresci, giovane ardito ch’era dei Collegi, e aveva
cercato levando rumore che la Pratica non si vincesse, fu preso e la
notte morì ne’ tormenti, o (come fu sparso) con le sue mani s’uccise
in carcere. L’altro dì poi furono confinati Rinaldo degli Albizzi
ed Ormanno suo figliuolo per otto anni, Ridolfo Peruzzi e Niccolò
Barbadori da principio per soli tre anni; i figli e i discendenti
loro posti a sedere. Narrasi che Rinaldo chiamato dal Papa avesse
conforti da lui e proteste, non avere egli creduto il dì che fece gli
accordi dovessero questi infine condurre al suo esiglio; e che Rinaldo
amaramente dicesse non d’altri dolersi che di sè medesimo, il quale
credette potesse in patria conservarlo chi il proprio suo seggio aveva
perduto.[284] Con queste parole Rinaldo degli Albizzi lasciò per sempre
la patria sua.
Cosimo de’ Medici era a Venezia quando per lettere e messi da Firenze
gli giunse notizia della nuova Signoria ch’entrava in ufficio,
sollecitandolo molti parenti ed amici s’accostasse intanto ai confini,
avendo speranza di tosto poterlo rimettere dentro. Ma Cosimo volle
prima bene assicurarsi dell’animo dei Signori, col dire che nulla egli
e Lorenzo farebbero contro al volere della Signoria. Dalla quale avuto
espresso avviso che si muovessero, a’ 30 settembre lasciata Venezia
giunsero al ponte di Lagoscuro. Poi narra Cosimo come per corriere il
primo d’ottobre avesse lettere che lo avvisavano dell’essere stati
rimessi in Firenze, e lo esortavano a venir presto. Onde recatisi
a visitare il Marchese di Ferrara che del fatto mostrò allegrezza,
continuando la via giunsero a Modena, alloggiati quivi nelle case
del Marchese con grande onore; dappertutto trovarono fanti ch’erano
ordinati perchè andassero con loro, e a questo fine Uguccione dei
Contrari da Ferrara aveva a soldo duecento cavalli. I quali però
da essi furono licenziati, perchè non era di bisogno: e a’ cinque
rientrarono sul terreno del Comune di Firenze, un anno appunto
dacch’essi n’erano prima usciti.[285] Passarono fuori delle mura di
Pistoia, e tutto il popolo si fece alla porta per vederli così armati e
con tale accompagnamento, essendo incontrati anche sulla via da molti
cittadini; cosicchè erano grande numero. A questo modo Cosimo stesso
racconta il fatto di questo suo viaggio per l’Italia, che venne dipoi
magnificato oltre al vero, e descritto come trionfale di plausi di
popoli e di solenni festeggiamenti. Nei giorni più splendidi di Casa
Medici e delle arti, tra le allegorie dei fatti di quella famiglia
dipinte per mano di artisti eccellenti nel bellissimo salone del Poggio
a Caiano, si vede il ritorno di Cosimo figurato per quello di Cicerone
quando fu in patria ricondotto (secondo egli scrive) sugli omeri di
tutta Italia. A’ sei giugnevano a desinare a Careggi, dove fu gran
gente; ma i Signori mandarono a dire non entrassero prima di sera;
e perchè tutta la via Larga era piena fino a casa loro d’uomini e di
donne, egli e Lorenzo con un famiglio ed un mazziere volgendo lungo
le mura vennero dietro la chiesa de’ Servi, poi da San Piero girando
presso alle vuote case di Rinaldo degli Albizzi, entrarono nel Palazzo
dei Signori; i quali vollero, per non fare maggiore tumulto, che
rimanessero quivi ad albergo fino alla mattina. Da questo giorno per
trecento anni tutta l’istoria di Firenze si annesta a quella di Casa
Medici.


CAPITOLO IX.
GLI STUDI CLASSICI IN FIRENZE; GRANDE INCREMENTO DELLE BELLE ARTI. [AN.
1378-1434.]

Gli studi classici erano grandemente venuti a scadere nei popoli
latini prima che fossero cancellati dall’urto dei barbari e avessero
incontro la scuola cristiana. Breve regno ebbe la lingua latina quanto
alla eccellenza dello stile; e al cominciare del terzo secolo i primi
autori cristiani già non avevano tra i pagani chi li pareggiasse.
L’amore del bello cadeva bentosto di cuore ai Romani, la poesia
dopo all’età d’Augusto fu arte oratoria più che poesia vera. Dipoi
vennero i grammatici, non d’altro studiosi che di salvare la lingua;
gli studi ogni giorno più assottigliavano, e gli antichi libri poco
erano letti; Virgilio rimase in cima sempre allora e poi, ma come
fonte della grammatica; indi nelle età più barbare fu anche profeta.
Quei popoli nuovi e incolti cercavano in ogni cosa il maraviglioso;
l’ingegno esercitavano volonterosi nelle dottrine più astruse,
amavano nell’istoria la leggenda: quindi molti seppero l’istoria delle
dottrine, pochi o nessuno quella dei fatti, imperocchè il sapere dei
più si formava di quel che avevano imparato a scuola. Duravano queste
cose fino anche dopo all’età dell’Alighieri, nel quale può dirsi che
fosse divinazione avere sentita e in sè compresa la squisitezza della
poesia di Virgilio, cui fu seguace senza mai farsi imitatore. Ma da
quello in fuori, parte piccolissima dei libri classici era conosciuta,
e spesse volte non dei sommi, dove le finezze stanno più riposte:
Orazio leggevano poco, rimase Ovidio come esemplare di versificazione,
Lucano in grazia dell’argomento; amavano in Seneca le brevi sentenze e
alcune cose da lui attinte (come noi crediamo) negli scritti o nella
conversazione dei cristiani, di Tullio conoscevano gli Uffici e le
Tusculane e piccol numero di Orazioni e quasi null’altro: l’Istoria
romana attingevano da Paolo Orosio, poco bastando i brevi tratti che ne
dà Sallustio, Tacito ignoravano, a Tito Livio poco si arrischiavano.
Tostochè Dante ebbe inaugurato la scienza laica e che una vita
letteraria cominciò ad essere fuori della scuola, cercare i codici
dove si nascondevano i grandi scrittori latini e farsene studio, fu
agli Italiani come andare alla recuperazione d’un antico patrimonio
vantato sempre, ma non goduto e gran parte ignoto. A questo si accinse,
e a lui ne spetta la prima lode, Francesco Petrarca; fu a lui passione
com’era ogni cosa, e di questa sola dice non avrebbe voluto guarire.
Scriveva oltremonti, scriveva oltremare per avere codici antichi, dei
quali si fece copiosa biblioteca, legata da lui alla città di Venezia e
principio a quella di San Marco; nei viaggi frequenti, ogni monistero
che incontrasse, vi accorrea cercando se un qualche tesoro di antichi
libri non vi fosse sotterrato. Rinvenne di Tullio le Lettere familiari
e tutte le Orazioni; ebbe in Firenze da Lapo da Castiglionchio le
Istituzioni di Quintiliano, ma guaste e scorrette. Le opere trovate
copiava spesso di mano sua, lagnandosi della scarsità dei copisti, del
caro prezzo e della temeraria infedeltà delle copie. Promosse lo studio
anche della lingua greca, della quale ebbe i rudimenti da un Barlaam
calabrese vissuto in Grecia monaco Basiliano. Aveva il Petrarca da
Costantinopoli avuto in dono un manoscritto dei poemi d’Omero in greco,
ma non seppe mai decifrarlo nè mai si diede molto allo studio di quella
lingua, egli uomo latino di genio e allora in età provetta. Chiedeva
pertanto al Boccaccio amico suo gli procurasse di quei poemi una
versione latina, la quale ottenne ma non compita: n’era stato autore, a
quello che sembra, un altro calabrese Leonzio Pilato, dottissimo nelle
greche lettere, e quanto gli concedevano i rozzi e strani costumi,
familiare al Petrarca ed al Boccaccio. Si deve a quest’ultimo che fosse
Leonzio chiamato l’anno 1360 ad insegnare nello Studio fiorentino
le lettere greche, cominciando dalla spiegazione dei poemi Omerici;
prima cattedra di greca lingua che si conosca nell’occidente d’Europa.
Nessun altri fece quanto il Petrarca ed il Boccaccio pel risorgimento
dei classici studi, i quali bentosto ebbero in Firenze un assai rapido
incremento.
Al quale prestava opera lunga e autorità grande Coluccio Salutati, che
fu trent’anni Cancelliere della Repubblica Fiorentina [m. 1406]. Questa
soleva a tale ufizio chiamare uomini letterati che già si avessero
acquistata fama; Coluccio, insigne per dottrina, fu anche onorato
per l’animo virtuoso. Per sè negli studi fu tutto latino, ma Leonardo
d’Arezzo scrive doversi a lui quel che si sapeva di greco in Firenze.
Il nostro Coluccio fu anche poeta, essendo questo come un necessario
finimento dei classici studi, poichè il latino cercavasi allora
massimamente nei poeti; e come poeta fu egli portato alla sepoltura
con la corona d’alloro in capo, avendone prima la Repubblica ottenuto
privilegio, in quella età necessario, dal Papa o dall’Imperatore o
forse da entrambi. Ma la sua gloria principale stette nelle molte
lettere latine scritte in nome della Repubblica, o in proprio suo nome
a principi o a letterati per l’Italia, questi accattando l’amicizia
del celebre uomo con molto incenso di lodi magnifiche: a noi quelle
lettere, che pure mostrano padronanza della lingua e copia di stile,
appariscono lontane assai da vera eloquenza. Ma tali non parvero al
grande nemico dei Fiorentini Gian Galeazzo Visconti, il quale soleva
dire (se scrivono il vero), temere egli una lettera del Salutati più
che molte spade: bisogna dire che certe nuove bellezze dello scrivere
destassero affetti, che in noi oggi non valgono a destare. Il che
avviene, credo, sempre nelle arti, dove un certo modo di sentire si
forma vario nei diversi tempi; e chi risponda più a quel modo, col
destare ammirazione produce negli animi un commovimento più simpatico:
nelle arti imitative ogni somiglianza al vero che prima non fosse
veduta dagli uomini, potè suscitare ad occhi inesperti anche una sorta
d’illusione, sebbene l’immagine ai nostri apparisca rozza ed informe.
Scriveva Coluccio in italiano le lettere che giornalmente andavano
per la Signoria dentro lo Stato ai rettori o ai comuni del contado;
e queste ora sono da noi cercate più avidamente di quelle famose in
lingua latina. Ma gli eruditi di quella età poco degnavano il volgare,
fatti ambiziosi di porre in mostra le nuove eleganze ch’avevano attinte
dall’uso dei classici. Si giunse a tale, che traducevano in latino le
istorie o le vite d’uomini insigni perchè ottenessero (così scrivevano)
maggiore divulgazione: già era formata quella che poi si chiamò
repubblica delle lettere; da questa accattavano le lodi, per questa
scrivevano. Dal che avvenne che separando troppo la scienza dall’uso
e la scuola dalla vita, la lingua avesse meno autorevole disciplina,
perchè i più dotti non si curavano di farsi uomini popolari. Troviamo
quindi per cento anni lo scrivere nella Toscana istessa come bipartito;
da un lato nell’uso familiare progredire, dall’altro fermarsi quasi
inceppato o irrigidito. Il quattrocento non è vero che in italiano
scrivesse male, ma fu sua colpa lo scrivere poco: scorreva la lingua
nelle scritture familiari e nelle lettere private forse meno viva
perchè già più adulta, ma più ordinata; ed il periodo era più finito
e le frasi meglio tra sè collegate di quello che fossero nell’aureo
trecento.
Ma sugli ultimi di quel secolo le novelle di Franco Sacchetti sono
il libro dove più s’impari in fatto di lingua, e molto ancora se ne
ricava circa i costumi di questa e d’altre città italiane. Si tenne
il Sacchetti lontano affatto dal Boccaccio quanto alla forma, ed ebbe
diverso il fine stesso delle novelle. Non pensò a farsi egli inventore
di bella prosa, ma scrisse alla buona, usando le naturali grazie della
lingua e quelle che uscivano a lui dall’animo esercitato al bello ed al
buono: racconta spedito con le sole circostanze che meglio conducano
a intendere il fatto ed a mostrarne la significazione. Scrisse anche
poesie leggiadre talvolta, ma le più risguardano a cose politiche, la
città essendo molto agitata in quegli anni che seguitarono al fatto
dei Ciompi. Il Sacchetti popolano, sebbene portasse casato di grandi,
odiava le tirannie di chi stava in alto, e quelle cercate in nome del
popolo e col mezzo della plebe. Di lui sono a stampa alcune lettere,
e scrisse un breve suo Quaresimale da far contrasto alle intemperanze
dei predicatori: sicuro e forte nella religione, fu molto severo a chi
l’abusava. Un poco più tardi il _Pecorone_ di Ser Giovanni Fiorentino
contiene racconti più spesso che novelle, di buona lingua, ma senza che
altro sia da dirne.
Molto abbondarono i Cronisti in quella età della lingua e della
repubblica. Marchionne Stefani terminava l’anno 1385 la lunga sua
Cronaca, la quale pei tempi da lui veduti e quando ebbero cessato i
Villani, è pregevole sopra ogni altra per la materia, bene esprimendo
lo stato della città e delle parti in quegli anni fortunosi che
prepararono il tumulto del 1378, poi, finchè rimase in vita lo Stato
allora fondato: Marchionne stava con le Arti minori, e in quel governo
ebbe qualche ingerenza. Non fu, a dir vero, felice scrittore; ma sa
metter fuori di quelle parole che riescono tratti di luce all’istoria.
Piero Minerbetti comincia laddove finisce lo Stefani e va fino al
1410; è buono scrittore, nè manca di certa sua gravità nè di acutezza,
sebbene alle volte alquanto prolisso. Di Gino Capponi abbiamo una
molto pregevole narrazione del tumulto de’ Ciompi, da lui condotta
fino alla distruzione del governo delle Arti maggiori: abbiamo anche
scritti nella ultima vecchiezza alcuni Ricordi a Neri suo figlio.
Non bene sappiamo a quale dei due appartenga il Commentario sopra
l’acquisto di Pisa, ma forse Neri ampliò e distese gli appunti del
padre. Scriveva Neri anche un Commentario delle cose da lui operate in
molti commissariati ed ambascerie, ma questo risguarda per la maggior
parte un tempo diverso, che sarà materia del libro seguente. Iacopo
Salviati anch’egli narrava le ambascerie onoratamente da lui sostenute.
Due Boninsegni continuarono una Istoria di Firenze fino al 1460. A
tutti sovrasta per la finezza della lingua e del dettato Giovanni
Morelli; non gli cadevano dalla penna inavvertite le eleganze, ma pochi
le ebbero più sincere e di miglior conio: una descrizione del Mugello,
d’onde era uscita la sua famiglia, pare abbia in sè tutta la freschezza
di quella grandiosa e amena provincia. Si estende la Cronaca dal 1393
al 1421. In quelli anni stessi Goro Dati diede a un suo libretto
titolo di Storia; dovea chiamarlo Discorsi politici intorno allo
Stato di Firenze ed al vivere della città. Noi l’adoprammo più volte
come di uomo pensatore che guarda e giudica le cose addentro, acuto e
pratico e che sa bene ritrarre le qualità e gli umori di questo popolo
fiorentino. Bonaccorso Pitti scrisse con vivacità le sue fortune alle
Corti di Francia e di Borgogna e di altri Principi, dei quali rendevasi
familiare, mi dispiace dirlo, per via del giuoco. Ma questo dovette
riuscirgli bene perchè tornò in patria ricco, ed ebbe la mano nelle
cose dello Stato: fu padre a quel Luca, le cui ricchezze fruttarono
male a lui e peggio alla Repubblica. Di altri minori sarebbe tedioso il
dare qui la enumerazione.
Tra’ libri di cose morali ed ascetiche è da contare un Trattato circa
il Governo della famiglia composto dal Beato frate Giovanni Dominici
dell’ordine dei Predicatori. Lo abbiamo a stampa da pochi anni, e vi
si scorge che l’autore aveva la buona lingua popolana dalla culla,
ma poi formava lo stile in gran parte sulle latinità dei Padri e
degli Scrittori ecclesiastici, il libro essendo tutto ascetico. Il
Dominici, creato cardinale da papa Gregorio XII in Lucca l’anno 1408,
seguì le fortune del suo promotore fino al Concilio di Costanza;
dopo di che inviato dal nuovo Pontefice in Ungheria Legato, moriva
in Buda l’anno 1420. Assai dei libri di devozione ed altri che senza
nome d’autore furono pubblicati la maggior parte ai tempi nostri,
o sono citati manoscritti come testi di lingua pel molto studiato
trecento, appartengono sicuramente agli ultimi anni di quello ed ai
primi del seguente secolo. Ma in questo crediamo venissero meno le
traduzioni popolari dai Padri o dai Classici latini poichè se ne furono
impadroniti i letterati. La poesia non ebbe nei primi anni di questo
secolo insigni cultori.
Ma fu come principe di quell’età Leonardo Bruni d’Arezzo, che morì
vecchio l’anno 1444: in Roma fu Segretario apostolico sotto quattro
Pontefici, indi molti anni Cancelliere della Repubblica fiorentina.
Tradusse in latino i libri politici di Aristotele e più altri di greci
scrittori; illustrò alcuni punti speciali delle antiche istorie. Pure
in latino scrisse una Istoria di Firenze dalle origini della città fino
alla morte di Gian Galeazzo Visconti, ed i Commentari delle cose da lui
vedute o fatte ne’ vari ufizi nei quali fu esercitato. Questi ultimi
offrono con le particolarità più vive, a noi più gradito insegnamento;
ma le Istorie sono libro da leggere utilmente anche ai giorni nostri
per l’alto senno che l’autore vi dispiega e per l’intelligenza della
Repubblica, della quale vidde l’interno roteggio. Ma vero è che piace a
lui non uscire dalle cose generali, e come erudito dare ai fatti nostri
romano colore. Le Vite pregevoli di Dante e del Petrarca furono da lui
composte nella nativa sua lingua.
Intanto lo Studio s’illustrava per Emanuele Crisolora, che nel 1396
vi fu chiamato da Costantinopoli sua patria per cura di alcuni dotti
fiorentini, e massimamente di Palla Strozzi, ad insegnare la greca
lingua. Cessava però lo Studio nel 1404; riaperto nel 12, fioriva
nel 1421. Sovente uomini fiorentini di grande affare nella Repubblica
attendevano quivi a spiegare le leggi, tra’ quali ebbero molta fama
Lorenzo Ridolfi e Marcello Strozzi; Paolo Minucci da Prato Vecchio,
rendutosi chiaro nelle maggiori Università d’Italia, fu ordinatore
del Diritto feudale. Paolo di Castro insigne giureconsulto, oltre
all’insegnare leggi, compilava quello Statuto fiorentino che nello
scorso secolo fu dato a stampa. Francesco Zabarella padovano insegnò
qui lungamente la teologia, poi fu Vescovo di Firenze e Cardinale
molto famoso nel Concilio di Costanza. Fra Leonardo Dati Generale
dei Predicatori ebbe in Firenze molta fama di sapiente in cose
ecclesiastiche ed autorità di cittadino. Filippo Villani professò
lettere, nelle quali si acquistò lode; egli e Giovanni da Ravenna
tennero la cattedra per la illustrazione della Divina Commedia.
Altri uomini chiari in lettere vennero ad insegnare in Firenze, tra’
quali Pier Paolo Vergerio da Capo d’Istria, e per breve tempo Guarino
Veronese e Giovanni Aurispa e il Filelfo; lo Studio essendo spesso
trascurato a cagione della spesa. Nè pensarono i Fiorentini a condurre
qui l’Università che aveano fatta tacere a Pisa: più tardi Niccolò da
Uzzano avendo lasciato gran parte dell’eredità sua per la fabbrica di
un Collegio che annesso allo Studio potesse contenere cinquanta alunni,
metà fiorentini e metà esteri, nella via che allora pigliò nome della
Sapienza, non fu eseguito quel testamento per la gelosia di chi non
voleva che tanto Firenze dovesse all’Uzzano.
Più della Repubblica, per l’incremento del nuovo sapere faceano i
privati. Molti cercavano manoscritti, viaggiavano in Grecia a tal fine
uomini oggi poco noti, Firenze abbondava già di buoni copiatori. Palla
Strozzi, grande cittadino, giovò agli studi egli sopra ogni altro;
ebbe a grande spesa i libri di Platone e di Plutarco, e la Politica
d’Aristotele e la Cosmografia di Tolomeo ed altri moltissimi; teneva
in casa chi gli facesse copie belle e sincere in greco ed in latino.
Radunò in breve ricca biblioteca, la quale voleva rimanesse a pubblico
uso, ad essa innalzando un edifizio molto degno in Santa Trinita, luogo
comodo a ciascuno per essere posto nel mezzo della città. Ma il bel
disegno andò fallito pel bando in cui finiva la vita, come tra poco
narreremo, quest’uomo illustre e benemerito. Un Piero de’ Pazzi, gran
ricco e grande spenditore, tardi si diede alla magnificenza del fare
copiare con ornamento di miniature gli antichi libri, lasciandone in
morte numero assai grande. Viveva in Firenze monaco Camaldolese negli
anni stessi Ambrogio della famiglia dei Traversari, che era stata
grande in Ravenna. Dotto nel greco, tradusse in lingua latina le Vite
dei Filosofi di Diogene Laerzio e molte scritture di antichi Padri.
Fatto Generale dell’Ordine suo, descrisse col titolo di _Odeporicon_
i viaggi per le visite dei monasteri, narrando ogni cosa che meglio
servisse al promovimento degli studi: di lui abbiamo anche non poche
lettere scritte ad uomini che attendevano allo stesso fine. Inviato
da Eugenio IV al Concilio di Basilea, ebbe poi gran parte in quel
di Firenze, che appena era chiuso quando Ambrogio fu rapito da morte
immatura con grande rammarico della città, dove la sua cella era il
ritrovo dei maggiori uomini e più virtuosi. Lo studio di quella prima
metà del secolo XV pareva che fosse tutto nel ritrovamento d’antichi
codici e nell’esibirli ad uso comune per dare agli ingegni nutrimento
dell’erudizione tuttora mancante. Nella quale opera niun altri meritò
quanto Niccolò Niccoli di famiglia mercante in Firenze, ma non dei
più ricchi. Nulla pare che scrivesse del suo, ma dottissimo nel latino
impiegò la vita in fare copie di sua mano dei buoni scrittori, o nel
corregger le altrui. Molte se ne riconoscono tuttora dovute al Niccoli,
che spese poi anche gli averi suoi nel procacciarsi manoscritti latini
e greci, dei quali lasciava il numero allora molto considerabile di
ottocento. Di questi ordinava si formasse una pubblica Biblioteca,
la quale dopo la morte sua fu aperta in San Marco: ebbe grandi
amicizie e grandi brighe co’ letterati dell’età sua, soliti astiarsi
oltre al costume tra gli eruditi non infrequente. Nessuno però nelle
arrabbiate contese e nelle diffamazioni svergognate, ma insieme nei
servigi lungamente resi ai classici studi, vinse Poggio Bracciolini
da Terranuova in Valdarno. Questi fu autore di molti libri o trattati
in lingua latina, spettanti a cose o filologiche o antiquarie, cui
si aggiungono esercitazioni su vari argomenti. Primeggia fra tutti
una assai nota Istoria Fiorentina, tradotta poi da Iacopo suo figlio.
Descrive le guerre con la Casa dei Visconti, non senza taccia di
adulatore alla città sua; d’interni fatti è scarso, e va circospetto sì
che, a dir vero, non molto se ne cava di sostanzioso. Fu cinquant’anni
Scrittore delle lettere pontificie e poi da ultimo Cancelliere della
Repubblica fiorentina, avendo protratta la vita molto più in là che non
giunga la materia di questo Capitolo. Di lui si cercano ai dì nostri
con maggior cura le Lettere che egli scriveva in gran copia nei viaggi
frequenti e di mezzo alle varie faccende nelle quali fu implicato. Andò
al Concilio di Costanza, da dove recatosi alla vicina e celebre abbazia
di San Gallo, ne riportò ricca merce di scritture d’autori latini,
tra’ quali non pochi giacevano ignoti anche di nome. Ampliava del pari
d’antichi libri le greche lettere, avendo lasciato può dirsi aperta
l’antichità quand’egli moriva nel tempo in cui venivano in luce le
prime grandi opere a stampa.
Così erano entrati il mondo greco ed il latino dentro al pensiero degli
Italiani, al quale era dato un libero spazio fuori della disciplina
dei maestri e delle tradizioni delle scuole. Alla grandezza dei fatti
ed alla copia delle dottrine si univano la magnificenza delle forme,
la varietà d’esse, e un’eleganza da ottenersi con l’uso dell’arte. Ma
con la forma va la sostanza; e l’antichità prestava intorno alle cose
nuovi concetti e giudizi nuovi, e certa finezza d’osservazioni e di
sentenze, benchè autorevoli, sempre disputabili: un fare insomma tutto
diverso da quello che aveva sino allora formato gli animi e dominato
gl’intelletti. Età più incolte viveano di fede e di passioni; ora gli
animi s’erano alquanto ingentiliti ma non per anche universalmente
guasti, nè la corruttela del seguente secolo si vidde spuntare in
Italia prima che declinasse il quattrocento. Guaste le Corti e i
letterati; ma per tutti quegli anni dei quali si è finquì discorso,
il popolo meno agitato da passioni le quali fossero a lui proprie,
teneasi più quieto e più castigato: quando il governo è in mano di
pochi, si adoprano questi generalmente a mantenere gli ordini posti
in tempi migliori. A Firenze le arti belle, cresciute in quelli anni,
furono educatrici buone; del popolo vero pareva che fossero a capo gli
artisti, e n’erano spesso tra’ più virtuosi.
Fu troppo creduto (secondo pare ai moderni critici) che la pittura dopo
Giotto avesse aspettato quasi cento anni prima di avanzare un altro
gran passo per opera di Tommaso da San Giovanni in Val d’Arno, che noi
conosciamo sotto il nome di Masaccio. Di lui si fece come una leggenda,
nè abbastanza si riconobbe come la maniera del dipingere d’alcuni dei
predecessori suoi già mostri un progresso. Certo è che Masaccio ampliò
i confini dell’arte; diede al concetto maggiore sostanza, ed alle
figure più rilievo; per la espressione da dare ad esse ed al conversare
dell’una coll’altra, non si appagò della verità semplice degli
atteggiamenti nè di accennare la bellezza delle forme, studiandosi
renderle più evidenti con la esecuzione: di queste cose fu maestro
a quelli che dopo lui vennero, e che da lui furono eccitati a studi
maggiori e fatti abili a più ardimenti.
Da Giotto a Masaccio e da questo a Fra Bartolommeo e ad Andrea Del
Sarto, può dirsi che l’arte in Firenze lentamente percorresse tutto il
suo cammino, segnato dai nomi d’uomini eccellenti: di questi ve n’ebbe
tanto gran numero, che deve bastare a noi solamente fermare il discorso
su quelli che furono come principi dell’età loro, e dalle seguenti
furono tenuti in conto di maestri. Ma non potremmo senza peccato tacere
del più caro e più veramente spirituale dei pittori, Frate Giovanni
soprannominato Angelico per la singolare bontà de’ costumi e per la
fervente devozione che a lui fu sola ispiratrice dell’arte; per il che
non volle trattare altro che argomenti sacri, e il suo dipingere era
una preghiera. Benchè nato nel Mugello, fu detto da Fiesole dov’egli
vestiva l’abito dei Predicatori: delle opere sue grandissimo è il
numero, più spesso in piccole figure, ma cercate molto ai giorni
nostri perchè, a tutti superiore pel sentimento, ebbe dall’arte già
progrediente e dall’ingegno in lui grandissimo, acconci mezzi a bene
esprimere e a colorire ogni suo concetto. Nato nel 1387, moriva nel
1455.
In quegli anni stessi fu ritrovata in Firenze un’arte plastica, dove
la pittura chiamata a soccorso della statuaria, venne con l’opera
dei colori a fare più vivi ed a variare gli effetti che si ottengono
dal bassorilievo. Luca della Robbia [n. 1400], dopo avere provato
sè stesso nel marmo e nel bronzo, inventò questa molto più spedita
maniera di lavorare, con la quale fece anche talvolta grandissimi
quadri con molte figure e bellissime composizioni, avendo trovato il
segreto di una vernice rilucente e tanto solida, che più secoli non
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