Storia della Repubblica di Firenze v. 2/3 - 12

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in potestà; così che però i cittadini da sè governassero le cose di
dentro come facevano per l’innanzi. Per quell’accordo Tommaso di Campo
Fregoso ebbe la signoria di Sarzana; la quale città essendo posta
di qua della Magra, parve essere stato da Filippo rotto il confine
che per la pace egli medesimo avea posto (siccome dicevano) tra la
potenza lombarda e la libertà toscana. Aveva egli anche per accordo
col Legato di Bologna mandato sue genti a difendere quella città
contro all’assalto dei Bentivogli; che fu tenuta come un’altra e più
manifesta violazione della pace. Dal che cercava egli di scusarsi
per ambasciatori mandati a Firenze; ma intanto negava l’entrata in
Milano a quelli che aveangli i Fiorentini inviato, dicendo veniano
di luogo ammorbato, per essere in Toscana allora la peste.[178] In
questo mezzo accadde che Giorgio Ordelaffi signore di Forlì lasciasse
morendo il figlio Tibaldo sotto la tutela di Filippo, la quale parendo
sospetta alla madre, ch’era di casa degli Alidosi, trafugò in Imola
il fanciullo; ma fu costretta restituirlo, dappoichè il popolo di
Forlì preferì stare alla osservanza del testamento dell’Ordelaffi;
e il Duca volendo non al tutto discuoprirsi, mandava le genti del
Marchese di Ferrara ad occupare la terra. Su questo in Firenze per
lunghe consulte fu deliberato di muovere guerra, sebbene a molti
paresse il farla pericoloso, e nulla potervi la Repubblica acquistare
per la vicinità della Chiesa; talchè d’ogni impresa, comunque felice,
non altro avrebbesi che l’aggravio. Giovanni de’ Medici si legge
avere biasimato quella guerra e insieme con lui Agnolo Pandolfini;
ma pure Giovanni fu coll’Uzzano tra i primi Dieci creati a fine di
governarla. Elessero questi Pandolfo de’ Malatesti capitano, il quale
muovendo all’espugnazione di Forlì, trovò che le genti del Duca guidate
da Agnolo della Pergola, avendo occupata Imola e mandato l’Alidosi
prigione in Milano, facevano forza per avere Zagonara, castello pel
quale era loro necessario aprirsi la via a soccorrere Forlì. Muovevano
pertanto contro alle duchesche le genti dei Fiorentini per lungo
cammino e fatto malagevole dalle pioggie, tantochè giunsero a Zagonara
co’ cavalli stracchi: e la pioggia seguitava, che non più i campi
si conoscevano dalle vie; ed essi per dare l’assalto ai nemici erano
costretti andare nel fango sino alle ginocchia. Carlo Malatesta, ch’era
lì a’ fianchi di Pandolfo suo fratello, e contro al parere di Lodovico
degli Obizzi aveva persuaso quella mossa, valorosamente combattendo su
un grosso cavallo, invano incuorava i suoi che stavano in troppo grande
disavvantaggio contro a’ nemici freschi e ordinati in forte sito. La
rotta fu grande; Carlo Malatesta preso, Lodovico degli Obizzi ed uno
degli Orsini morti; fuggiva Pandolfo col suo siniscalco Niccolò da
Tolentino.[179]
Di quella rotta fu molto grande in Firenze lo sbigottimento, e più nei
maggiori cittadini che temevano per sè, come quelli che avevano addosso
tutto l’odio della guerra e il carico d’una impresa fallita, che
pagare bisognava facendo danaro per via di prestanze, cui non sapevano
come provvedere. Avevano imposto, per un così detto prestanzone
rinnovato più volte nel corso di pochi mesi, novecento migliaia di
fiorini d’oro;[180] ed inventato un Monte nuovo per le fanciulle e
per i fanciulli da maritare, dove i superstiti guadagnassero sopra le
somme decadute per le morti di coloro sul capo dei quali erano stati
posti in comunanza, che è modo vizioso e meritamente riprovato.[181]
Chiamarono quindi un Consiglio di richiesti più largo che prima non
fossero soliti, perchè non bastava empirlo di quelli che assentivano
ogni cosa, ma quando è bisogno che paghino tutti, bisogna che tutti
pure siano rappresentati. Degli uomini antichi prima non volevano
sapere, ma ora sforzati si volsero a quelli che avevano ributtato; ed
era tra gli altri Rinaldo Gianfigliazzi, che da quarant’anni figurava
nello Stato, vecchissimo allora ma sempre vigoroso così da essere
adoprato pure in quegli anni nelle ambascerie; ed uomo di mezzo, come
noi vedemmo, e voce da essere ascoltata. Nel Consiglio erano molti
giovani, dai quali nulla non si cavava: si alzò Rinaldo e rinfrancò gli
animi non meno a speranza di salute che a difesa di giustizia; disse il
segreto di quelle guerre: «Voi non avete perduto nulla del vostro, anzi
hanno perduto coloro che erano creditori de’ vostri soldi, co’ quali
medesimi soldi ne avrete altrettanti più freschi e più forti, perchè
_chi ha del pane, mai non gli manca cane_. Solo in una cosa consiste il
vostro rimedio, cioè di non volere che le borse degli uomini impotenti
abbiano a pagare quello che non vi si trova e non vi è rimaso. A chi
ha da pagare si pongano le gravezze e si risquotano. È più ragionevole
difenda il Comune chi ha gli onori e gli oneri del Comune, che chi è
escluso dagli onorevoli luoghi della Repubblica. Soldisi gente a piè
ed a cavallo, e stiesi alle difese.[182]» Chiamarono venti cittadini
a porre le nuove gravezze, per le quali veniva il carico degli uomini
potenti cresciuto di cinque soldi per lira: ai quali pareva essere
entrati in disperato laberinto, vedeano la guerra andare in lunghezza,
e gli spendii dovere uscire dalle loro borse: chiederono sgravio, il
quale più volte fu messo a partito e molta pugna se ne fece, ma non
si potè mai vincere per alcun modo, perchè gli artefici e il numero
dei cittadini di poco stato erano cagione che non si vincesse. Veduto
il che, cercarono rendere odiosa la gravezza; e diedero autorità ai
messi e berrovieri di portare arme; e degli oltraggi che facessero
ai debitori del Comune non si potesse conoscere. Dal che avvennero
disordini gravi; ed un Francesco Mannelli, tra gli altri, fu ferito
sconciamente.
Delle Arti che prima erano forza della città, cadute al basso (come
vedemmo) le Capitudini, rimanevano le Confraternite religiose, antica e
sempre molto vivace istituzione che in ogni tempo mantenne in Firenze
le forme e gli ordini popolari. Più tardi i Medici, fatti principi,
assai penarono a ridurle pazienti e docili alla servitù: ma ora
stavano contro gli ottimati, in quelle facendosi congreghe segrete, e
lì si sfogavano le ire popolari, e ordivansi trame contro allo Stato.
Cosicchè furono insino dall’anno 1419 levate via e chiuse le Compagnie
laicali in città e fuori per un miglio attorno, con pene rigorose.
Dessero i libri e le scritture al cancelliere del Comune, i mobili
venduti e distribuito il danaro ai poveri; i luoghi che fossero atti si
riducessero ad abitazione, gli altri si serrassero; e se alcun prete
o religioso fomentasse simili adunanze, vollero che fosse procurato
col Papa di privarlo de’ benefizi e mandato fuori del dominio.[183] Ma
perchè tutti questi rigori, secondo il solito, non bastavano, troviamo
in quest’anno 1426 trattarsi del modo come impedire che risorgessero
congreghe siffatte contro ai termini delle provvisioni poste.[184]
Ma quanto facessero per tali industrie era nulla, se non pervenissero
a ridurre in pochi lo Stato, che era il fine d’ogni cosa, levando di
mezzo quei cittadini d’ogni colore i quali s’erano dovuti ammettere
per necessità a fare numero nei Consigli; perchè gli ordini della
Repubblica a ogni modo erano popolari, nè industria bastava, se
le antiche forme non si alterassero e lo Stato venisse al tutto
e scopertamente in potestà degli ottimati, grandi o di popolo che
si fossero. Quindi, con permesso del Gonfaloniere Lorenzo Ridolfi,
ordinarono d’essere insieme una mattina in Santo Stefano settanta
dei più eminenti cittadini; tra i quali (secondo si legge) Rinaldo di
Maso degli Albizzi, che tutti vinceva per eloquenza, parlò così: «Le
vostre discordie vi hanno dato a compagnia chi già ad altro tempo non
sarebbono stati tolti per sufficienti famigli de’ vostri maggiori:
dimenticate le ingiurie che fossero intra voi, ed accordatevi al
popolare reggimento ed al comune utile. Voi siete il Consiglio di
questa città; adunque quello che per voi si farà, farà il Comune,
perchè il Comune siete voi. In antico per dispetto de’ nobili e degli
antichi popolani, ciascuno ha fatto nuovo rimbotto, e aggiunti tanti
novissimi e meccanici nelle borse, che ora le loro fave è tal numero
che le vostre non ottengono. Io vi ricordo che sempre in tutti i popoli
è grandissimi odii tra’ nobili e meccanici cittadini. Nonostante che
qui tra noi non sia quella gentilezza che per li savi si conchiude, ma
noi siamo gentili appresso a chi noi ci abbiamo fatti compagni; chi
è venuto da Empoli, chi di Mugello, e chi c’è venuto per famiglia,
ed ora ce li troviamo per compagni al governo della Repubblica. Ed
almeno stessono contenti a quello che eletti gli abbiamo, ma e’ ci
tengono per servi, e loro essere i signori. Se si ragiona di guerra,
eglino la confortano e tra loro dicono: noi non possiamo perdere; però
che se la guerra vinciamo, noi siamo al governo appresso di loro, ed
empianci le borse; se si perde, che è a noi? conciossiachè niente o
poco ci costa, perocchè le nostre botteghe hanno altrettanto d’uscita
quanto d’entrata; possessione ne’ danari di Monte nostri non si
trovano e non abbiamo. Aggiungono ancora un’altra ragione, e dicono il
vero: quando c’è le guerre, la città è sempre abitata da moltitudine
di soldati a piede e a cavallo; chi viene per acconciarsi e chi s’è
acconcio; chi per le sue paghe e chi per fare la mostra; e così tutta
la terra sta sempre piena di gente bellicosa, la quale conviene che
ogni sua necessità compri; là ove gli artefici ne stanno grassi e bene
indanaiati. Savi cittadini, la guerra dei lupi sempre fu ed è pace
degli agnelli; e’ dicono essere gli agnelli, e voi i lupi; e però
niun partito, il quale voi ordinate e desiderate che si faccia, non
vogliono vincere con le loro fave, anzi desìano e cercano il vostro
disfacimento. Che amore credete voi che gli abbiano alla Repubblica
coloro a cui mai costò nulla? Eglino non sanno quasi chi essi si
sieno; come possono avere amore ad altrui coloro che non l’hanno a
loro medesimi? Io ho veduto venire il villano di contado, e dirgli il
figliuolo: quando venisti e quando ne andate? per le quali parole pare
che più tosto ami che se ne vada, che non ami che ci venisse. Ancora
di quelli ho veduti che hanno vietato al padre che non lo manifesti
per figliuolo, però che non vogliono che si sappia che il padre sia
bifolco o agricolo. Adunque, che amore credete abbiano a voi e alla
vostra Repubblica quelli i quali non l’hanno alle loro medesime case?
Niuna differenza è al nascere e al morire dal gentile al villano; ma
ne’ costumi sono differenze, e massimamente nell’amare; il gentile ama,
il villano teme: dico che dal villano all’artefice è poca differenza.
C’è poi tra tante ragioni una massima, conciossiachè l’origine della
vostra signoria distendeva il contado dal Galluzzo a Trespiano, e ciò
che avete d’avanzo possono dire non essere di vostra ragione; anzi
di coloro, di cui questi veniticci furono già fedelissimi vassalli.
Adunque l’amore è piuttosto nelle origini dei vostri nemici che non
è nella vostra Repubblica, e così naturalmente sono desideratori del
vostro rovinamento. Sicchè provvedete; che vi è tanto più necessario,
che bisogno vorrebbe già essere provveduto. Signori cavalieri, e voi
valorosi cittadini, non vedete voi ch’egli hanno poste le gravezze
trasordinatamente a tutti voi, i quali avete in mano le redini della
Repubblica? E vedete le ingiuste poste, le quali per voi si comprende
non le potere soddisfare. Avete addimandati non nuovi modi, ma antichi
ed usati da lunghe consuetudini. In simili condizioni di trasordini si
è sempre usato lo sgravio, acciocchè quelle poste che sono fuori del
ragionevole, si correggano e rechinsi al ragionevole per lo sgravio.
E niente hanno voluto acconsentire; innanzi vogliono contaminare
l’antico consueto dello sgravio, che ottenerlo colle fave alla civile
usanza. Non sapete voi che la lunga consuetudine si ritrova in tra
le leggi? E chi dalla legge si parte, rinunzia al ben vivere ed alla
civile libertà? Per certo voi potete vedere come in tutto cercano il
vostro disfacimento e quello della vostra Repubblica. Credete voi che
non tengano a mente la crudeltà de’ loro padri, e che non sappiano
quanto la loro perfidia si distese sopra il sangue de’ vostri maggiori?
Cercate i conventi de’ frati, e trovereteli pieni di corpi e di carogne
de’ vostri antichi; guatate il muro del Capitano, che ancora ritiene le
note del sangue di tanti valenti cittadini, i quali erano sufficienti
per le loro mani tutta lingua latina essere giustamente governata.
Qual cosa ci fu che non fosse piena di pianto e di lamento di vedove
e di pupilli? Tutta la città era piena di oscuri vestimenti con volti
tutti lagrimanti e pieni di dolorosi aspetti. Non sentiste voi le voci
delle misere madri, degli orfani e de’ pupilli gridare e dire: non
vi fate compagni coloro che ci hanno tolti i nostri sposi e i nostri
padri, i quali furono l’onore e la gloria di questa Repubblica. Qual
via o qual contrada sapete voi, che ancora non vi rinnovelli delle
reliquie delle loro arsioni? Perchè col fuoco le loro furie l’arsero
e disfecero. Quaranta maledetti mesi tennero in servitù questo popolo!
tanti sbanditi, tanti confinati, ed ancora con veleni nobili cittadini
falsamente feciono morire, e tali con le coltella perirono, e non
era cittade che non fusse piena de’ vostri antichi: chi v’era in
esilio, chi per isbandito e tale per rubello: e così le stranie patrie
abitavano. Piacciavi perdio di non volere stare pertinaci nelle vostre
discordie, acciocchè quelle non sieno più l’esca che accenda il fuoco,
il quale fu spento da quel vostro cittadino di Bardo Mancini. Voi ci
avete misto i campi di Figline e di Certaldo e di cotali luoghicciuoli,
con assai disutili schiatte; e venutici colla bottega al collo, hanno
tenuto in mano il vostro gonfalone. Ancora avete aggiunto a questi così
fatti mostacci, ammoniti ed originali ghibellini i quali sapete che
sempre furono nemici del guelfo reggimento; e addietro avete lasciato i
nobili della vostra città. Questo dite che fate per le incomportabili
superbie che usavano i loro antichi: la superbia non si niega che non
sia abbominevole a comportare, ma e’ non è minore il fastidio presente
della stolta plebe, che si sia la preterita superbia degli antichi e
de’ nobili. Diremo noi che sia superbia incomportabile quella di colui
che è nato de’ Bardi, se desidera di essere maggiore che il nipote
di Piero Ramini, e il figliuolo di Silvestro fornaio? Non è egli più
giusta cosa, che quegli che è nato de’ Rossi sia sopra quello dello
Stucco, che quello dello Stucco sopra lui? o che quel seggio sia
negato a’ Frescobaldi, che è conceduto allo Stuppino? Senza che non
contendono questo, ma desiderano egualità con tutti, e non maggiorità
di persona. Dico, che queste non sono superbie, ma più tosto ragioni
naturali e comandate dalla grandigia e dalla nobiltà della Repubblica;
avvegna dio che, da quanti più nobili è governata la Repubblica, tanto
è più nobile la Repubblica. E nientedimeno i nobili addietro avete
lasciati, e i vostri nemici per le vostre sfrenate volontà vi avete
fatti compagni. Dico che a voler tutti i vostri benefizi conservare,
è da dar modo che le borse si vuotino delle maladette pravità de’ mali
uomini. Sapete che la terra è compartita in tre generazioni d’uomini,
cioè scioperati, mercatanti ed artefici. Avete le leggi de’ vostri
antichi, che nel numero de’ Signori sia due delle Arti minori, e gli
altri sieno delle sette maggiori Arti e scioperati mescolatamente; e
per simile modo e ne’ Collegi. Ma il Consiglio del popolo, dov’è il
tutto delle volontadi, e dove si conchiude tutte le cose del Comune,
vi è delle ventuna Arte, sette delle maggiori, e quattordici delle
minori. Adunque vedete, che le due parti vi è delle minori e il terzo
delle maggiori; così la legge non è obbedita, e però non vi riescono le
vostre volontadi, perchè naturalmente vi sono nemici e hanno le fave
nelle mani. E’ si vuole le quattordici minori Arti recare a sette, e
che il numero degli artefici seguiti lo scemo delle Arti: dico là dove
sono due artefici, torni ad uno, ed a quel mancamento vi si aggiunga
le maggiori Arti e i Scioperati. Questo vi sia assai abile a fare:
come uomini nuovi, non intendono quello che si fanno, se non quando
comprendono fare il vostro disfacimento. Noi il senso della legge e
la volontà nostra faremo trarre a un medesimo fine: sempre la chiosa
di colui che ha fatto il testo va innanzi a tutte le altre; ed è
ragionevole, avvegnadio che tutte le leggi, per efficaci e giuste che
sieno, stanno soggette alla forza: chè sempre la spada nell’ultimo è il
competente giudice. Ed è tra voi la forza e il dominio sopra la gente
dell’arme, per l’asprezza della presente guerra: che avremo se non a
soldare due tre migliaia di fanti, e mostrare di voler fare una segreta
cavalcata in accrescimento della Repubblica, e quelli in un deputato
giorno, sotto colore di fare la mostra, condurli in sulla maestra
piazza a far pigliare le bocche per le quali gente plebea vi potesse
noiare? E chi ha il governo, adoperi le fave col favore della spada,
e per questa via si verrà alle desiderate conclusioni. Qui non resta
se non a dare il modo a seguire l’ordine ed eleggere il tempo abile a
tanto fatto. Se mestiero fosse la mislèa, vi è debito non fuggirla,
ma seguitarla. A che ricorreranno queste vili Capitudini? I fornai
si armeranno di pale, e con le vostre schiave ne faranno cordoglio;
e così altri coi loro trafficatori si compiagneranno della vostra
gloria. Però in tutto vi si prega, e me con voi insieme, a dare il modo
che gli uomini degni abbiano gli onorevoli luoghi del Comune; e che
questi veniticci stiano alle loro articelle a esercitare gli alimenti
necessari a nutricare le loro famiglie, ed in tutto dal governo della
Repubblica escluderli siccome seminatori di scandali e di discordie.
E se nessun altro più ottimo rimedio ci vedete, prego si manifesti; e
quanto più presto, meglio: e quello che è più utile, perdio, con tutta
sollecitudine si faccia.»
A questo parlare tutti alzarono le mani al cielo, lodando Dio e messer
Rinaldo; e tutti si volsero a Niccolò da Uzzano, mostrando talento
d’udire il parere di Niccolò quanto aveano mostrato piacere del
consiglio di Rinaldo. Ma il grande Anziano lodando il fatto, una cosa
aggiunse: «Voi sapete come la famiglia de’ Medici è stata sempre capo
e guida della plebe. Ora voi vedete Giovanni di Bicci essere capo di
tutta la famiglia, ed è sostegno e guida degli artefici ed ancora di
più mercatanti, i quali reputano lui padre non che di tutte le Arti
minori, ma delle maggiori sostegno e campione. Io consiglio che chi si
sente a lui intimo, lo richiegga di recarsi alla nostra intenzione, ed
ogni volta che questo sia senza nulla di dubbio, faremo tutto quello
che il valente cavaliere ha consigliato.» A queste parole ciascuno
s’accordò; e messer Rinaldo fu chiamato a richiedere Giovanni de’
Medici alla loro congiura. Andò Rinaldo ed espose il fatto; al quale
Giovanni si negava risolutamente, com’era da prevedere; e biasimandolo
forte: «Donde cavate voi (disse) che i sollevamenti de’ popoli sieno
pace e tranquillità de’ cittadini? Se il vostro padre vivesse, ei non
avrebbe voluto che il popolo fosse del suo luogo rimosso se non per
abilità de’ poveri uomini; e se voi tenete a mente i suoi portamenti,
direte questo medesimo essere così.» Qui annoverò alcuni benefizi che
Maso avea fatti a pro degli infimi, ed i freni posti alle soperchierie
dei potenti. Aggiunse: «Volete ora voi ritrovarvi a disfare con
insopportabile ingiuria, tanti benefizi del vostro eccellente padre
verso questo popolo? Io v’annunzio per vostro avviso che quando eglino
avessino acconci loro, che egli sconceranno voi e me e gli altri
buoni uomini di questa città. Io, come ho trovo il popolo, così il
voglio lasciare; ed ancora ne conforto voi che il simile facciate.»
Giovanni accennava ai grandi, che avrebbono sconciato ben tosto
tutta la parte dei popolani e tutti gli ordini dello Stato. Nè credo
l’Uzzano altra replica si aspettasse, nè altra volesse, avversi ambedue
ai modi violenti a cui Rinaldo parve inclinare. L’Uzzano esortava
si ripigliasse lo Stato come aveva fatto Maso degli Albizzi nel 93,
serrando le borse senza più fare rimbotti, cioè senza chiamarvi per via
di partiti altri nuovi cittadini; voleva che fosse rinnovata la balía
ogni dieci anni regolarmente, innanzi cioè che avesse potuto alterarsi
quello Stato, perchè le balíe non uscissero di mano ai capi di esso,
nè aprissero mai le vie degli uffici ad altri che ai loro. Bramava
accostarsi quanto più potesse ai modi e alle forme della Repubblica
veneziana: andava però con passi malfermi, secondo imponevano le troppo
diverse condizioni; e in certo suo scritto pare consigli ringiovanire
le decadute istituzioni della Parte guelfa, tornare cioè ai modi
antichi, soli possibili in questo popolo com’egli era.[185] Giovanni
voleva anch’egli serbare le forme antiche della Repubblica, null’altro
cercando a sè ed ai suoi che il favore popolare.
Ma una parte si formava intorno a lui non consenziente, e i figli suoi
Cosimo e Lorenzo gli facevano rimprovero del non mostrarsi più vivo,
stimolati anche da un Averardo di Alamanno de’ Medici, uomo cupido e
ambizioso. Dai quali Giovanni qualche rara volta si lasciava condurre
in Palagio; ma rifiutandosi, quanto a lui, ad ogni cosa per cui potesse
nascere divisione nella città. Diceva: «Per me io voglio attendere
alle mercanzie dalle quali ebbi ogni grandezza, e da quelle in fuori la
Repubblica non mi glorifica; perchè quand’io ero indigente, non che la
Repubblica mi alzasse, ma cittadino non ci era che mi conoscesse o che
non mostrasse di non avermi mai veduto.» Giovanni di Bicci e Niccolò
da Uzzano, ambedue vecchi, s’adopravano a contenere ciascuno i suoi;
ma troppi già erano ai quali giovava la guerra aperta, e che cercavano
ad essa cogliere le occasioni. Erano in Palagio due Cancellieri; che
l’uno, ser Paolo di Lando Fortini, era tutto degli Uzzani, e l’altro,
ser Martino di Luca Martini, stava co’ Medici. Per il che cercando
quegli rimuoverlo dall’ufficio, ottennero questi che invece ser Paolo
fosse levato: l’anno dipoi fu casso il Martini; del che si legge il
vecchio Giovanni avere avuta grande afflizione.[186]
Questo è il solo fatto di cui si trovi nei minori Cronisti alcun
cenno, ma basterebbe anche solo a mostrare già essersi scoperta la
parte de’ Medici, Rinaldo a quella dichiaratamente avverso, avverso
ma cauto Niccolò da Uzzano. Di tutto ciò noi però teniamo conto
accurato, perchè della grande mutazione che indi avvenne cerchiamo
indagare con ogni studio le prime origini, oscure in gran parte. Ma
quanto alle cose fin qui dette ci corre obbligo di dichiarare tutto il
racconto essere fondato sopra la nuda testimonianza d’un solo autore
contemporaneo, ch’è Giovanni Cavalcanti: da lui traeva il Machiavelli
non che la materia del quarto suo Libro, bene spesso le parole, senza
che per altri libri o documenti crescesse lume a questi fatti.[187] La
radunanza in Santo Stefano e i discorsi che vi si tennero, non hanno
per noi altro mallevadore che il Cavalcanti, alla cui autorità non
vorremmo starcene alla cieca; e quell’arringa che egli poneva in bocca
a Rinaldo, sembra esprimere a dir vero anzi i concetti degli antichi
grandi che i propri dell’Albizzi. Ma perchè assai bene e con linguaggio
molto nervoso ci mette innanzi le divisioni che erano in seno della
Repubblica, credemmo potesse riuscire utile all’istoria; e quando
ai lettori fosse apparita troppo lunga, saremmo ingannati del nostro
giudizio. Inoltre il fatto dell’essersi allora qualcosa agitato, riceve
conferma per altri indizi, sebbene lievi, che a studio potemmo altrove
raccogliere.[188] Torniamo al seguito del racconto.
Ai reggitori di quello Stato, sebbene intorno si ammontassero le
difficoltà, non mancò l’animo; e rifatti di danaro pei balzelli pur
quella volta riscossi, pigliarono a soldo quanti poterono Capitani
che fossero al caso da restaurare quella guerra. Fidavano molto nelle
armi Braccesche, nelle quali era il conte Oddo, giovinetto che dopo la
morte del padre suo Braccio aveva seco governatore di tutte le imprese
Niccolò Piccinino, che fu il migliore tra i discepoli di Braccio, e
dopo lui tenne la condotta di quelle armi: bramò egli fare un’impresa
segnalata contro a Faenza, mosso da uno de’ Manfredi, ribelle che
si era posto ai servigi della Repubblica. Sperava favore costui nei
villani delle valli del Lamone, i quali vedemmo un’altra volta quanto
potessero; ma perchè i soldati non attendevano che a rubare, gli
furono contro, e chiudendo i passi, misero in rotta quei predatori,
uccidendo il misero e pro’ giovinetto, che bello della persona e
franco nelle armi s’era valorosamente diportato. Rimase prigione il
Piccinino, e fu menato nella città di Faenza: quivi egli riusciva con
le persuasioni a voltare quel Signore, sicchè lo condusse a entrare in
lega co’ Fiorentini. I quali però venivano successivamente a perdere
quante fortezze e terre aveano in Romagna, alcuna di esse abbandonate
con poca difesa per viltà dei Commissari che le tenevano: per il che
apparve tanto più eminente la virtù di Biagio del Melano; il quale,
mancatogli ogni mezzo alla difesa della rôcca di Monte Petroso e pure
negando renderla, e i nemici con animo di costringerlo avendo appiccato
il fuoco all’intorno; Biagio si fece ai merli, e gittate prima a terra
quante avea robe in casa leggere e morbide, vi gettava sopra i propri
suoi figli di piccola età, i quali furono dai nemici pietosamente
raccolti, ed egli lasciossi perire in mezzo a quelle fiamme anzichè
rendere la fortezza: il nome di lui fu molto in patria celebrato, e
la Repubblica provvedeva splendidamente ai rimasti figli del preclaro
cittadino. In Val di Tevere Capitano era Bernardino detto della Carda,
di quella casa degli Ubaldini la quale, avendo perduto lo Stato per
lunghi assalti dei Fiorentini, serviva ad essi ora per la necessità
di vivere colla spada, com’era l’usanza dei signori castellani: da
costui nacque (la madre s’ignora) quel Federigo che risuscitò la casa
dei Montefeltri e fu il migliore dei Principi di quel secolo. Avea
Bernardino incontro le forze dappertutto vittoriose di Guido Torello e
d’Agnolo della Pergola, dai quali essendo colto in Anghiari, fu messo
in rotta e andò prigione in Lombardia: e frattanto il Piccinino, per
indugi che i Dieci posero a soddisfarlo di certe pretese, lasciò allo
spirare della sua condotta per sempre i servigi della Repubblica;
alla quale, come capitano del Visconti, fece poi soffrire gravissimi
danni.[189]
Tante rotte successive e tante perdite avean messo in grave angustia
i Fiorentini; dai gioghi alpestri della Romagna fino alla valle di
Chiana scoperto lo Stato delle più valide sue difese con tanto studio
acquistate, incerta la fede de’ Signori circostanti, e Siena e Lucca
male disposte perchè in sospetto esse medesime delle ambizioni della
Repubblica. Bisognosa di soccorso, cercava essa quindi con ogni
industria procurarselo. Sigismondo imperatore avea differenze col
duca Filippo; tantochè avendo speranza condurlo in Italia contro
lui, gli mandarono ambasciatori, fidando anche molto nel favore
dello Spano. Ma essendo Sigismondo tuttora in guerra ed in assai
mala inclinazione verso la Repubblica dei Veneziani, riusciva inutile
ogni pratica.[190] Al Papa era andato due volte Legato Rinaldo degli
Albizzi, e dimorato in Roma più mesi,[191] s’ingegnava intimorirlo
delle intenzioni che il Duca aveva nel Reame, per le quali praticava
segretamente col re Alfonso. Ma il Papa cercava invece condurre i
Fiorentini ad una sforzata pace, alla quale il Duca mettea condizioni
impossibili ad accettare, null’altro volendo che turbare in ogni modo
lo stato d’Italia. Ogni speranza era dunque posta nella Repubblica di
Venezia, dov’erano andati prima lo stesso Rinaldo, indi Palla Strozzi,
e troviamo che vi andasse Giovanni de’ Medici. Lorenzo Ridolfi, che
seguitò a questi e poi vi rimase, penò lungamente a fare capace quella
circospetta Signoria della convenienza di pigliare in tempo riparo
contro alle aggressioni che addosso a lei si volterebbero quando ella
fosse rimasta sola. Si narra che un giorno orando in Senato, Lorenzo
dicesse queste parole: «i Genovesi non aiutati da noi fecero Filippo
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