Storia della Repubblica di Firenze v. 2/3 - 14

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di soldati che a lui venivano tolti, operando virilmente ma sempre
dolendosi, e avendo più volte chiesta licenza, la ottenne in fine a’ 18
marzo, nè d’allora in poi ebbe ingerenza in quella guerra.[221]
Diversa alquanto è la narrazione la quale discese negli scrittori
di questa guerra contro Lucca; ma noi seguitammo gli irrefragabili
documenti che sono le lettere scritte dal campo. Per quegli autori
assai più trista celebrità rimase all’altro Commissario Astorre Gianni;
e i fatti atroci a lui apposti sarebbero questi. Costui, essendo
malvagio uomo ed a vantaggiare la sua Repubblica parendogli essere ogni
via buona, predava le terre, i castelli disfaceva, recava ogni danno
ai miseri contadini. Al che atterriti gli abitatori di Seravezza, ed
ancora forse come antichi guelfi odiando il tiranno Lucchese e avendo
amicizie con la Repubblica di Firenze, avrebbono al Gianni mandato
ad offrire liberamente l’ingresso nella popolosa valle, dalla quale
promettevano aprirgli le vie a fare acquisto di Pietrasanta. Accettò
quegli; e occupato subito l’adito angusto a Seravezza, e messo sue
genti nei luoghi muniti ch’erano attorno, mandava grida per tutto
il paese, che a una data ora si radunassero nella Pieve a udire le
leggi che il Comune di Firenze ad essi darebbe, e a giurare fedeltà.
Nè prima furono ivi accolti ch’entrando i soldati, fecero prigioni
quanti erano dentro, e di lì andarono ogni cosa mettendo a ruba e ad
esterminio, le donne a vergogna; faceano crudeli e orribili vituperii.
Per la notizia di questi fatti sarebbe Astorre stato richiamato con
grande sua infamia; quei di Seravezza, quanto potevasi ristorati.[222]
Nessuna conferma di tanta malvagità ci viene da molto credibili
documenti: qualcosa era stato contro lui nella opinione dei Dieci; ma
pure è scritto, che se avessero lasciato Astorre intorno a Pietrasanta
l’avrebbe avuta e chiuso la strada ai soccorsi di Lombardia; che egli
fu richiamato con villane lettere per la improntitudine d’Averardo de’
Medici, e con la scusa del rimanere scoperta Pisa. Crediamo noi essere
qualcosa di vero in queste asserzioni, e assai più del vero in quelle
che contro lui rimasero nell’istoria.[223]
Era fatale che in quell’impresa riuscisse a male ogni divisamento.
Recavasi al campo quel mirabile uomo di Filippo Brunelleschi che allora
inalzava la grande Cupola in Firenze: ardito com’era in ogni concetto,
ma delle opere d’ingegnere non bene pratico, offeriva d’allagare
Lucca, voltandovi addosso l’acqua del Serchio per un nuovo argine,
e sperandola condurre per via di chiaviche a sua posta. Piacque il
disegno ai Magistrati, che furono vinti dal parlare di Filippo, e
avevano fretta perchè Lucca si pigliasse dentro al tempo loro; intanto
che il popolo si confidava di terminare la guerra in breve ora, e fare
acquisto della città, della quale erano tanto cupidi. Invano il Capponi
si contrappose al disegno, col dire che il campo sarebbe allagato
e non la città, la quale avrebbe in quella guisa, oltre alle mura,
difesa d’acque. Non fu ascoltato, e infine anch’egli dovè consentire:
ma quando l’argine fu presso a cingere la città, i Lucchesi guastarono
la pescaia e ruppero l’argine in più luoghi, cosicchè la predizione
di Neri avverandosi, divennero le condizioni degli assedianti di
molto peggiori, e il campo, che s’era condotto fin sotto le mura di
Lucca, dovette ritrarsi dov’era innanzi, a Camaiore.[224] Ciò fu nel
maggio del 1430. Nel giugno seguente mutati i Dieci, andò Commissario
tra’ nuovi eletti Giovanni Guicciardini, al quale più tardi fu tolto
l’ufficio perchè intorno a Lucca facea mala guardia, e si diceva che
i cittadini liberamente uscissero a comprare nel campo stesso degli
assediatori.[225]
A chi si piace nei viluppi della politica e considera le cose umane
come un gioco di tanto più bello quanto è condotto più sottilmente,
parranno quei tempi avere di molto progredito su’ passati, perchè
se nascesse d’allora in poi alcun fatto tra due vicine città, tutta
l’Italia se ne commuoveva, e di quello variamente pigliavano briga
quanti erano principi e repubbliche e condottieri da un capo all’altro
della penisola: certo era un principio di sorti migliori, ma era
lontano. Aveva Firenze mandato in più luoghi a notificare quella
guerra che essa imprendeva contro a Lucca, e le più amiche risposte
sarebbono ad essa venute da quello che più avea in animo di tradirla,
Filippo Maria Visconti, mentitore fra tutti solenne, e ora di fresco
pacificato.[226] Ma era grandissima l’ansietà in cui vivevano i Senesi,
nella pace abbandonati, come vedemmo, alle cupidigie male celate dei
Fiorentini, e non che offesi dalle macchinazioni di quei che reggevano,
messi in canzona popolarmente, come facile conquista a cui bastava
il porre mano.[227] Aveano mandato a Firenze ambasciatore un loro
insigne cittadino, Antonio Petrucci; il quale ivi essendo non senza
dispregio menato in parole, tornato in Siena e persuadendosi che alla
città per allora non giovava dichiararsi, ma egli volendo pur venire
a’ fatti, prima ne andava in Roma a papa Martino sempre a Firenze
poco amico, e col favore di lui raccolta in Maremma e per la riviera
di Genova quanta più gente potesse, venne in proprio suo nome e come
stipendiato da Paolo Guinigi su quello di Lucca, riuscito a munire di
maggior guardia la città. Nel passare aveva ripigliato molte terre dai
Fiorentini occupate, lasciando al marchese di Ferrara Castelnuovo ed
altri luoghi di Garfagnana, che da principio della guerra questi aveva
pigliato per sè. L’assedio però intorno a Lucca stringeva forte, e
più valido soccorso dentro era da tutti invocato variamente, secondo
portavano le condizioni della città. Recavasi quindi Antonio in Milano,
dov’erano andati due nobili Lucchesi, un Trenta e un Buonvisi, a
chiedere aiuto, non tenendo fede a Paolo Guinigi che, odiato da molti,
vedeano prossimo a cadere; ma offrivano al Duca darsi in protezione a
lui, quando egli traesse Lucca dalla cittadina servitù e lei scampasse
dall’esterna. Il Duca esitava, e trovo scritto che avesse egli dapprima
tentato il Piccinino perchè andasse sotto la coperta di servire Paolo
Guinigi in Lucca a torgli la città di mano; al che essendosi Niccolò
negato, chiamasse il Duca al brutto ufizio Francesco Sforza, che lo
accettava.[228] I Fiorentini aveano mandato a Milano ambasciatore
Lorenzo dei Medici fratello minore di Cosimo, ed allo Sforza un
Boccaccino Alamanni che gli era amicissimo: nulla ottenevano, perocchè
l’impresa già era sul muovere e il conte Francesco, prima fermatosi in
Parma a raccorre genti col dare voce ch’egli andasse per suo proprio
conto inverso Napoli, quando si trovò in punto, calava ad un tratto
giù per la via di Pontremoli, e sforzato i passi e le difese dei
Fiorentini, entrò in Lucca nel luglio del 1430: gli assediatori, levato
il campo, si ritrassero in Ripafratta. Condusse lo Sforza la guerra
infino sotto le mura di Pescia, la quale avendogli fatta resistenza
(sebbene l’avessero abbandonata gli ufficiali che la Repubblica vi
teneva), egli abbruciate nella Valdinievole alcune castella, tornato
indietro, si faceva forte presso alle mura di Lucca, o già guadagnato
dall’oro dei Fiorentini o avuto sentore delle pratiche tenute da Paolo
Guinigi con questi per dare ad essi Lucca in possessione al prezzo di
dugento mila fiorini d’oro. Non io però mi tengo certo che il Guinigi
espressamente a quelle pratiche aderisse; ma fatto è, che da quelle
avendo ragione ovvero pretesto lo Sforza, e il Petrucci ch’era dentro
la città, e quanti in essa nimicavano la signoria del Guinigi, dei
quali era capo un Piero Cenami, si misero insieme; e Antonio Petrucci
andato una notte a visitare il Guinigi, che di lui non si guardava,
lo fece prigione; Piero Cenami levò in arme la città, ed a quel cenno
Francesco Sforza pigliava il giovane Ladislao Guinigi che seco era in
campo: il padre ed il figlio, così dispogliati della signoria di Lucca
e d’ogni ricchezza,[229] furono condotti nella fortezza di Pavia, dove
l’infelice Paolo Guinigi tiranno di nome, in fatto però come uomo da
poco, men reo che non fossero il maggior numero de’ suoi pari, veniva
a morte in breve tempo. Lo Sforza, accordatosi con la Repubblica di
Firenze per cinquanta mila fiorini e ritrattosi d’intorno a Lucca,
se ne andava pe’ suoi fatti in Lombardia, nè più ebbe mano in quelle
cose.[230]
I Lucchesi fatti liberi tentarono, io credo con poca fiducia, l’animo
de’ Fiorentini perchè cessassero dalla impresa che aveano tolta
contro al tiranno. Era il caso dei Pisani quando si furono liberati
da Gabriele Maria Visconti; ma pur questa volta i Fiorentini erano
andati troppo innanzi, e si credevano facilmente avere la terra, non
bene guardata e molto scarsa di vettovaglie. Fecero risposta benigna
a parole, nel fatto dura, ponendo condizione che subito dessero Monte
Carlo e Camaiore in via di pegno, il ch’era un volere Lucca nelle
mani.[231] Teneano l’animo anche volto a Siena, e al conte Francesco,
il quale credevano andasse nel Regno, proposero fare per proprio suo
conto l’impresa di Siena, e con lui quindi si aggiusterebbero. Ma
questi, alieno dall’impacciarsi nelle cose di Toscana, denunziava il
tutto ai Senesi; ai quali non parve più essere tempo da usare rispetti,
viepiù irritati da un’insidiosa e falsa ambasciata che ad essi aveano
i Fiorentini mandata in quel mezzo.[232] Antonio Petrucci ogni cosa
conduceva; il quale essendo in Lombardia, potè agevolmente persuadere
al Duca di Milano, che se non voleva manifestamente rompere una pace
conchiusa di fresco, mandasse in Toscana sotto altro nome di quei
soldati ch’erano a’ suoi cenni; usato modo in quella età. Filippo
Maria, siccome vedemmo, aveva allora in protezione la città di Genova,
di nome libera; ed i Genovesi mandarono a dire in Firenze, desistessero
da ogni offesa contro ai Lucchesi amici loro: della quale intimazione,
fatta da uomini servi, non si tenne conto; e Niccolò Piccinino, come
licenziato dal Duca e come soldato di Genova, muoveva con quattro mila
cavalli e due mila fanti alla volta di Toscana. Il Conte d’Urbino,
molle Capitano che di recente i Fiorentini aveano condotto, stavasi
accampato presso alle mura di Lucca; dov’egli soffriva, sendo il verno
crudo, penuria di viveri per la difficoltà di condurli. Ne avea il
Piccinino grande provvigione condotta per mare dalle navi genovesi,
e appena giunto volendo farne entrare in Lucca, tentava il guado del
fiume del Serchio con tutto in arme l’esercito suo: a fronte gli stava
il campo nemico, dal quale una schiera uscita per foraggiare, avendo
passato il fiume in un luogo dove le acque erano molto basse, mostrava
al nemico la via; per la quale fatto impeto il Piccinino con tutte
le schiere, mentre che da Lucca usciti quanti erano capaci alle armi
di fianco assalivano il campo sprovvisto e male guardato, lo mise
in rotta, cosicchè pochi scampati a fatica non rimasero prigioni. Le
donne ed i vecchi dall’alto dei tetti e delle torri di Lucca batteano
le palme per allegrezza della vittoria: i Lucchesi celebrarono sempre
dipoi con festa solenne, fino al cadere della Repubblica, quel giorno
che fu il secondo di dicembre.[233]
Era tra’ minori condottieri i quali ubbidivano agli ordini del
Piccinino un Antonio da Pontadera fuoruscito che si diceva Conte, cui
parendo essere aperta una via a liberare la patria sua, insieme con
molti usciti da Pisa che in Lucca viveano, e co’ villani del territorio
e gli abitatori delle piccole castella che gli erano aperte per avere
mala guardia,[234] faceva gran pressa al prudente Capitano perchè egli
pigliasse l’impresa di Pisa. Ma i luoghi più forti aveano presidio così
da volere assedio lungo; e Pisa fortificata con gelosa cura dal non
mai cessante sospetto dei Fiorentini, sebbene bramosa di scuotere il
giogo, nulla poteva: ed una congiura, della quale s’era fatto capo un
dei Gualandi, non ebbe effetto; ed i Fiorentini chiudendo le porte agli
uomini del contado, e poi cacciando fuor della città per l’inopia di
vettovaglie le donne misere dei Pisani ed i fanciulli, stavano dentro
sicuri contro ad ogni assalto che avesse tentato il Piccinino. Laonde
questi con sano consiglio voltatosi prima all’acquisto delle Fortezze
di Lunigiana che a lui tenevano la strada aperta di Lombardia, scendeva
dipoi giù per la pianura nel contado di Volterra; imperocchè i passi
della Valle d’Arno gli erano chiusi, quivi essendosi affortificati con
molta industria i Fiorentini, che avendo raccolto del vinto esercito
molti avanzi, facevano guerra sempre intorno a Lucca, di là spingendosi
al racquisto dei castelli di Garfagnana, di Calci e d’altri in quel
di Pisa.[235] Ma si era in quel mezzo Siena dichiarata contro a’
Fiorentini, che invano mandavano a ritenerla ambasciatori, e in lega
con essa era entrato il Signore di Piombino; e di Lombardia veniva
soccorso di nuove genti capitanate dal conte Alberigo di Zagonara.
Pe’ Fiorentini stava in Poggibonsi Bernardino della Carda, e aveano
condotto Micheletto Attendolo da Cotignola parente di Sforza; al che
il Fortebracci, seguendo la solita rivalità delle armi, aveva lasciato
i loro stipendi accostandosi al Piccinino. E questi volgendo le sue
schiere da Volterra nel territorio di Siena, e di là scorrendo per
quel di Firenze, aveva espugnato parecchie castella; e muovendo verso
Arezzo, credevasi entrarvi per una congiura, la quale falliva: ma il
Piccinino, dopo aver fatto per Toscana gravi danni, veniva dal Duca
richiamato in Lombardia per le necessità della guerra che i Veneziani
un’altra volta collegatisi co’ Fiorentini gli aveano mossa.[236]
Pel Duca erano i due maggiori condottieri delle armi rivali, il
Piccinino e Francesco Sforza; a questo, perchè stesse con lui, Filippo
aveva insino d’allora promesso in isposa la figliuola naturale, erede
unico ch’egli avesse. Contro ai quali Francesco da Carmagnola menava
la guerra con dubbia fortuna e (siccome parve al Senato di Venezia)
con dubbia fede: la distruzione che in grossa battaglia fecero i
ducheschi d’un grande armamento di navi sul Po, la rotta in Soncino,
e invano tentato avere Cremona dai Veneziani molto ambita; queste
cose furono imputate a tradimento del Carmagnola, il quale condotto
a Venezia con inganno, vi perdè la testa con esecuzione solennemente
palese, ma con giudizio segretissimo: delitto inutile (se degli utili
ve ne fossero) e sfoggio di cruda ragione di Stato, nella quale non
ved’io nulla altro di buono, eccetto il volere con un grande esempio
tenere in paura la razza iniqua dei condottieri. Dopo ciò la guerra fu
trascinata più mesi: ma innanzi un fatto di mare vuol essere da noi
ricordato. I Genovesi tenevano in armi un forte naviglio, contro del
quale Venezia aveva mandato sedici galere sotto la condotta di Pietro
Loredano, le quali usavano la comodità dei Porti venuti in possesso
della Repubblica di Firenze, e avevano seco sei legni sottili armati
da questa, che stavano agli ordini di Paolo Rucellai. Si affrontarono
le due armate a Portofino con grande impeto, e le due navi capitane
erano alle prese, quando Raimondo Mannelli, il quale guidava una
galeazza fiorentina, cogliendo il vantaggio del vento, con essa venne
ad urtare siffattamente nella genovese ch’ella restò presa, tirando
con sè la vittoria de’ collegati: questi guadagnarono otto galere; ma i
prigioni, tra’ quali era il capitano Francesco Spinola, condotti prima
in Firenze a testimonio della virtù del Mannelli, furono dipoi mandati
a Venezia, non senza rammarico e malumore dei Fiorentini.[237] Uniti
a Venezia, avevano sempre le seconde parti; dal che oltre all’essere
umiliati, vedevano anche i vantaggi della guerra andare a crescere
la potenza di quello Stato di cui temevano più che d’ogni altro la
soperchianza, perchè la grandezza dei Visconti sapeano mutabile, e in
Venezia era perpetuità. Quindi usare i Fiorentini al collegarsi mille
cautele, che dai Veneziani maestri in politica erano tratte a loro pro:
nè l’alleanza tra le due migliori città d’Italia e tra’ due Stati che
primeggiassero per virtù, fu altro mai che una svogliata e ognora breve
necessità.
Qui un grande mutarsi fu di Capitani tra le due parti combattenti.
Niccolò da Tolentino, che prima era dai Fiorentini andato al Duca,
tornava ora, lasciato il Duca, ai servigi della Repubblica; la quale
a lui dava il bastone del comando generale, trovata essendosi male
soddisfatta di Micheletto. E Bernardino che, ricordando più l’origine
toscana degli Ubaldini che le offese a questi recate dalla Repubblica
di Firenze, soleva tenere quivi lieta vita, mutò ad un tratto anch’egli
bandiera e divenne capitano dei Senesi, i quali aveano messo in catene
il conte Alberigo di Zagonara che gli conduceva, e così prigione
mandatolo al Duca. Menava la guerra con buona fortuna Niccolò da
Tolentino, che prima avendo in Val d’Elsa racquistato con molta
battaglia il castello di Linari, e sentendo come le genti del Duca
erano a campo intorno a Montopoli e con gran forza l’aveano stretto,
portavasi tosto alla liberazione di quel castello; e venuti a zuffa
tra la Torre di San Romano e Castel del Bosco, fu ivi per lo spazio
di sei in sette ore molto aspro e grande combattimento, sinchè i
ducheschi furono rotti, lasciando in preda agli inimici mille cavalli
e centosessanta prigioni da taglia e molto numero di fanti a piè. Di
là il Tolentino spingeva al racquisto di Pontedera; e avrebbe avuto
anche Ponsacco, se non che venne al popolazzo di Firenze gran voglia di
fare danno ai Senesi, e costretto egli a recarsi da quel lato, non vi
fece altro che guasti inutili. Micheletto avea pure avuto dal canto suo
buoni successi contro a Lodovico Colonna, mandato in Toscana dal Duca
con rinforzo di nuove genti.[238]
Ma intanto avveniva in Italia maggior cosa. L’imperatore Sigismondo,
amico al Visconti, aveva pigliato la corona di ferro in Monza, e la
imperiale era convenuto di ricevere in Roma dal nuovo papa Eugenio
IV. Giugneva in Lucca, nè i Fiorentini però cessavano dal fare offese
alla città guidati da un giovane e molto audace capitano Baldaccio
d’Anghiari, fra tutti valente a bene usare le fanterie. Da Lucca
recavasi in Siena l’Imperatore con soli ottocento Ungheri, ed una
guardia d’altre poche centinaia di soldati avevagli aggiunta Filippo
Maria. Voleva dapprima Sigismondo, che a lui andassero due de’ Dieci
di guerra; ma fugli risposto, non essere usanza muovere gli uomini di
quel magistrato. Aveva ben egli contro alla Repubblica querele assai,
e fra tutte massima l’occupazione di Pisa, città ghibellina e solita
essere nella bassa Italia principale forza di parte imperiale; alle
quali rispondevano i Fiorentini, avere Pisa per giusto titolo, e che
la tenevano ad onore di Sua Maestà. Così acquetavasi la Cancelleria; e
cosa più grave fu il deliberare, se all’Imperatore dovesse impedirsi
la via di Roma, il che potea farsi collegandosi col Papa; ma questi
voleva maggiore sussidio di soldati e di moneta che a lui non potessero
i Fiorentini somministrare. Sarebbe anche stato uopo condurre a pace i
Senesi e avergli seco; pure un accordo stretto col Papa ebbe qualche
effetto, ed alcuni scontri così avvennero, dei quali uno di più
importanza alla Castellina, dove perirono molti Ungheri. Si erano in
quel mentre scoperti trattati contro alla Repubblica in Volterra e in
San Miniato. Passava infine Sigismondo, che avrebbe pur anche voluto
accordarsi toccando venticinque migliaia di fiorini, e contentandosi
venire in Firenze, per quindi senz’altro tornare in Ungheria: ed anche
troviamo che avesse passaporto dalla Repubblica di Firenze; tanto
era scaduta l’Imperiale Maestà: ma vero è che altri dice, aver egli
domandato trecento mila fiorini.[239] Cessato il contrasto, pigliava
in Roma Sigismondo la corona: e intanto la pace a’ 10 di maggio 1433 si
pubblicava in Ferrara tra ’l Duca di Milano e le Repubbliche di Venezia
e di Firenze ed i collegati di ambe le parti, ciascuna tenendo quel che
prima possedeva: era conchiusa per la intromessa del marchese Niccolò
da Este, che pare tenesse fra tutti in Italia il bell’ufficio di
paciere. Da Roma pigliava l’Imperatore la via del mare, ed abboccatosi
in Talamone col re Alfonso, quindi recavasi in Basilea, dove un
Concilio era adunato a continuare (sebbene avesse poi mala fine)
l’opera impresa già in Costanza per la riforma di Santa Chiesa.


CAPITOLO VIII.
ESILIO E RITORNO DI COSIMO DE’ MEDICI. [AN. 1433-1434.]

Al termine della guerra contro Lucca, crescendo le accuse e le ire tra
le parti, entrambe cercavano propizia al muoversi occasione. Sappiamo
le pratiche di quella dell’Albizzi, che prima essendo all’aggredire,
donava a Cosimo anche l’innocenza e con la finale vittoria il silenzio
delle arti usate a prepararla. Si legge che mentre viveva tuttora
Niccolò da Uzzano, andato un giorno a lui Niccolò Barbadori gli
facesse istanza perchè assentisse a tôrre di mezzo per via del bando
Cosimo de’ Medici. Al che il vecchio avrebbe risposto motteggiando:
«sarebbe a te meglio essere chiamato Barba d’argento, perchè venendo
i tuoi consigli da uomo canuto, non porterebbero la ruina ch’io
veggo appressarsi a te ed a noi ed alla Repubblica. Ma tu perchè non
conosci te medesimo, è ragionevole che tu nemmeno conosca gli altri;
il conoscimento di sè stesso bene io so che viene da Dio.» Aggiunse
di Cosimo: «quest’uomo è troppo utile al popolo, e massimamente agli
spendii delle guerre; non veggo oggi colpa o cagione per la quale stia
il popolo quieto al suo disfacimento. Cacciato, andranne egli buono,
e tornerà diverso, passando ogni giusto modo di vivere politico; andrà
oggi libero, e tornerà obbligato a coloro che lo avranno richiamato, i
quali sarà costretto fomentarsi e contentare d’ogni loro voglia. Datti
ad intendere, Niccolò, che io ho più volte meco medesimo disputato e
per ultimo conchiuso, che meglio è tacere che cominciare sì mortale
pericolo nella Repubblica. La parte dei Medici è unita e concorde, e ha
il popolo seco; la nostra, divisa, e più per natura che per accidente.
Imperocchè sempre tra’ patrizi spicciolati e le famiglie grosse furono
aguati sotto apparenze di falsa amistà: Maso degli Albizzi, per indurci
nell’odio del popolo, fece nel 1414 la pace col re Ladislao;[240] e
noi spicciolati popolani cercavamo il simile contro a quelle schiatte
fin dalla congiura contro a Maso nel 1400.» Di questa l’Uzzano avrebbe
confessato di essere stato partecipe. Venendo a dire poi di Rinaldo,
continuava: «costui non ha più a grado l’amico che il nemico, e ogni
uomo ha per cencio; costui non vuole concorrere con verun cittadino,
anzi cerca e desidera che ogni cittadino concorra con lui; costui
vuole che le sue volontà sieno ricevute dal popolo per leggi, e le
altrui cerca si scrivano in cenere, e pongansi dove con maggiore
forza soffiano i venti. Il padre fu tutto costante e amichevole a
chi la sua amicizia desiderava, costui è voltante e senza fermezza;
vedestilo essere con noi de’ principali in Santo Stefano, poi farsi
capo con Averardo alle rovine di Lucca, e per essere dei Dieci al tutto
gittarsi nelle braccia dei Medici. — Cosimo, dove non fosse lo stimolo
e la perversità d’Averardo, piuttosto desidererebbe essere accetto
da noi, che amato da loro. Noi, stando a vedere, avremo le due parti
del gioco; e soprattutto non abbiamo meno avvertenza alle opere de’
nostri parziali che alle opere di coloro i quali ci tengono avversi:
avvisandoti, che dei due qualunque ottenga l’impresa, noi per la
scarsità degli uomini, da ciascuno saremo adoperati nel governo della
Repubblica; e chi fia principio di scandalo, sarà del suo e dell’altrui
disfacimento cagione.[241]» — Queste parole furono scritte dal
Cavalcanti, ma verosimilmente non dette nè forse pensate dall’Uzzano:
il Machiavelli, trascrivendole sbadatamente, le ha rese immortali.
Occorse a noi di rilevare altra volta come i patrizi spicciolati che
s’innalzavano per gli uffici, avessero contro sè quelle famiglie che
forti di seguito, di parentele e di aderenze, facevano parte da sè
medesime, e cercavano tutta in sè chiudere la Repubblica. Di queste
era prima la Casa degli Albizzi; nella quale Piero s’innalzò e cadde,
fattosi capo della parte sua; ma seppe Maso rimanere infino alla morte
moderatore della Repubblica, della quale intese il Governo meglio che
niun altro insino allora avesse fatto, e conservando a sè l’amicizia
degli ottimati e dei patrizi, si acquistò quella del popolazzo.[242]
Rinaldo, più splendido e ornato d’ingegno, e d’animo forse più franco
e diritto, non ebbe prudenza che fosse guardiana delle ricche doti le
quali facevano lui primeggiare nella città; netto di presenti, frugale
nel vivere, ebbe taccia d’avarissimo; superbo di quella coscenza
medesima che egli aveva della virtù sua e disdegnoso di abbassarsi
alle arti comuni; ma iroso e mutabile e nei suoi fatti subitaneo, mal
seppe tenere il governo della sua parte e di sè stesso:[243] rimasto
principe nello Stato dopo la cacciata di Cosimo, nulla fece a mantenere
nè a sè la potenza nè alla Repubblica quegli ordini dei quali era egli
fra tutti sincero e forte e rigido amatore. Narrano si fosse mostrato
severo al padre suo stesso;[244] e un’altra volta noi troviamo che
avendo voluto Lorenzo Ridolfi in assai grave congiuntura ristringere
in pochi il numero dei richiesti, Rinaldo invece consigliò che
s’allargasse, facendo in ringhiera con parole generose il suo consiglio
prevalere.[245]
Vedemmo noi come a fare la mala impresa di Lucca Rinaldo e Cosimo
s’accostassero: nei primi mesi della quale troviamo Rinaldo ai
Cosimeschi familiarissimo,[246] avverso fra tutti a Neri Capponi, che
gli era dai Dieci messo come a sopraccapo. Temeva di lui per l’amicizia
col Fortebraccio e per il seguito che avea Neri tra gli uomini
armigeri della Montagna di Pistoia.[247] I Medici anch’essi temevano
il Capponi più che altr’uomo in Firenze;[248] e questi col porsi come
fuori delle parti e stare da sè, pigliò sin d’allora certo suo proprio
atteggiamento, che ebbe in quei principii qual cosa d’oscuro, ma che
a lui diede poi di tenere per la sua propria autorità e pel favore
dei cittadini grado e potenza e onorato nome sinch’egli visse, nel
nuovo Stato. Già fino d’allora valevano i pochi più della Repubblica;
incontro alle quali soperchianze divenivano le stesse leggi strumenti
alle parti che abusando le torcevano a loro utile o guastavano. Aveano
creato l’anno 1429 il nuovo ufficio dei Conservatori delle leggi,
preposti a frenare le baratterìe de’ magistrati, e ai quali dovessero
i cittadini ricorrere che si tenessero aggravati.[249] Nell’anno
seguente usciva altra legge, la quale ebbe nome degli _Scandalosi_;
gastigava quelli i quali tirassero ai loro disegni gli uffici pubblici,
o s’intromettessero in cose di Stato senza commissione e senza averne
autorità. Per questa legge fu l’anno 1432 tenuto a confine due mesi
in Roma Neri Capponi che, ivi essendo, aveva trattato (a quello che
sembra) di proprio suo capo una lega con Eugenio contro a’ Senesi e
all’Imperatore.[250] Rinaldo degli Albizzi anch’egli apparisce avere
temuto quando si fece quella legge che fosse contro a lui, ma scrive
in fine al figlio suo: «lasciala correre.[251]» Molto è poi da notare
come nell’anno 1432 Rinaldo fosse in Roma Senatore, ufficio che allora
equivaleva a Potestà; onde egli potè avere a Firenze denunziato quei
maneggi pei quali a Neri fu dato il confine.[252]
Nei tre anni che durava la guerra di Lucca, i nomi dei Dieci sei
volte rifatti non ci lasciano congetturare nè prevalenza dell’una
sopra l’altra parte, nè ondeggiamenti tra le due, ma si rinvengono
mescolati.[253] Lorenzo dei Medici andava solo ambasciatore a Milano
su’ primi dell’anno 1430; due anni dopo, lo stesso Cosimo ambasciatore
a Venezia. Questi certamente aveva co’ suoi grande ingerenza nella
condotta della guerra e nelle pratiche al di fuori: ma se alla parte
contraria a loro in tutto credere si volesse, avrebbono i Medici
fatto ogni cosa perchè andasse a male l’impresa, via via facendo
richiamare i Commissari che bene operavano, e inoltre tenendo a sè
obbligati co’ prestiti e con le comuni ruberie i capitani Micheletto
da Cotignola e massimamente Niccolò da Tolentino; il quale era tutto
di Cosimo, tanto che gli avrebbe questi fatto da prima lasciare i
servigi della Repubblica per andare a quelli del Duca, e poi di nuovo
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