Storia della Repubblica di Firenze v. 2/3 - 15

fattolo a sua posta tornare in Firenze.[254] Intanto Lorenzo, venuto
in grande intrinsechezza col Duca, lo avrebbe persuaso a mandare
genti in Toscana perchè la guerra andasse più in lungo. Tuttociò i
Medici avriano fatto perchè i cittadini più trovandosi aggravati, se
gli potessero maggiormente legare co’ prestiti e farli mettere allo
_specchio_ del libro dei debitori, dal quale essi poi gli ritraevano:
oltrechè piaceva a quei tanto danarosi cambiatori prestare al Comune,
che era buono impiego; così obbligandosi anche la Repubblica. Ma noi
non crediamo la parte dei Medici potesse poi tanto nè volesse tanto
male; nè dare possiamo gran fede alla deposizione di quel Tinucci che,
dimestichissimo all’Uzzano (com’egli dichiara) innanzi al 1426, brigava
dipoi oscuramente co’ Medici per intromessa di Ser Martino, e avvolge
in parole confuse ed incerte le accuse più gravi. Dinanzi a lui stava
il terrore della fune, o era tirato da larghe promesse, quando egli
porgesse materia a procedere contro a colui che nell’istorie troviamo
chiamato il non colpevole uomo, perchè fino allora non reo che bastasse
a giusta condanna.
Abbiamo tre lettere di Cosimo istesso:[255] la prima annunzia grande
fiducia nella guerra, ma insieme accenna alle male arti per cui taluni
s’ingegnavano guastarla.[256] Nelle altre due scritte di Lombardia,
dove era andato per fuggire la peste tornata quell’anno 1430 in
Firenze, già vede le cose voltare al peggio; e non vorrebbe essere dei
Dieci nè andare ambasciatore a Vinegia, come uomo cui giovi tenersi
in disparte, e il carico dell’avere fatta muovere quell’impresa
nascondere sotto le colpe o gli errori di chi poi l’ebbe condotta
a male.[257] Così egli andavasi destreggiando mentrechè durava la
guerra e dopo: i suoi lasciava con mettersi innanzi, attendendo
quanto a sè ad acquistarsi vie più la grazia delle moltitudini e lode
fra tutti di animo temperato: studiavasi molto anche d’accrescersi
le ricchezze,[258] dal che a lui veniva favore grandissimo pei
larghi imprestiti all’erario pubblico, ed ai privati che a sè legava
chiamandoli a parte dei vasti traffici o rendendoli, col fargli liberi
dallo _Specchio_, capaci d’entrare negli uffici dello Stato: già i
poveri tutti insieme invocavano a sè il patrocinio di lui, possente a
dare ad essi valida mano.
Egli che s’era mostrato sempre vôlto alle cose grandi e _di non essere
contento al poco_, giovane ancora, per fuggire l’invidia era andato al
Concilio di Costanza, «dov’era tutto il mondo,» e poi due anni viaggiò
gran parte della Magna e della Francia; donde ritornato, si diede a
usare con uomini di bassa condizione, ritraendosi dal Palagio: il che
diceano facesse per addormentarli, e n’ebbero maggiore sospetto.[259]
Avea però anche certe grosse famiglie di grandi a sè congiunte di
parentela, tenendo egli in moglie la Contessina dei Bardi signori di
Vernio, e Lorenzo suo fratello una dei Cavalcanti, la cui madre era di
casa dei marchesi Malespini, e per le sirocchie di lei tirava a Cosimo
due possenti casate di popolo, i Giugni e una parte degli Strozzi:
seco erano pure il maggior numero dei Buondelmonti, a lui guardando
generalmente il ceto dei grandi come a nuova cosa capace di abbattere
gli antichi ordini della Parte guelfa, e contentandosi, per avere un
grado nella città, di riconoscere un padrone. Ma come parte nella
Repubblica, quella dei Medici nemmeno aveva in quei principii nome
da lui, e si chiamò dei Puccini[260] da Puccio del quale più sopra
dicemmo, e che era fra tutti gli amici di Cosimo il più scaltrito ed
intramettente; lui dicono autore de’ più sagaci consigli, e sopra di sè
pigliava il carico de’ più odiosi. Cercavasi Cosimo i frutti piuttosto
che le apparenze della signoria; il ch’ebbe gli effetti di un’arte
finissima, ma era in lui cosa connaturale, innanzi tutto essendo egli
sempre fiorentino e popolano, che il bel vivere di Firenze non avrebbe
voluto scambiare con gli aspri costumi dei Signori di Lombardia; nè
questo era popolo che ciò sofferisse. Affermano tutti, egli essere
stato umano e benigno nel continuo della vita; ma quante volte gli
paresse tornare a lui conto essere malvagio, non ebbe nè affetti che lo
ritraessero, nè forti passioni che lui spingessero oltre al segno: nè
raro è tra gli uomini le stesse migliori qualità loro porre al servigio
delle meno buone. In lui ogni cosa mirava a fondare la grandezza della
Casa sua, ma seco avea complice gran parte del popolo; nè invero può
dirsi che Firenze discendesse in bassa fortuna, o che poi cadesse da
ogni splendore, sotto a quell’ombra di Casa Medici.[261]
La pace con Lucca e col Visconti non rinnalzava il pubblico credito,
caduto a terra negli ultimi anni.[262] Frattanto l’urtarsi delle
due parti contrarie tenea guasta la città. Già erano tanto gli
antichi ordini trasandati, che dall’un anno si prevedevano le tratte
dell’altro; ed un Benedetto cieco predicava quali sarebbero per più
anni i Gonfalonieri di giustizia. Chiunque sapeva essere nelle borse
impolizzato, sapeva altresì di quali calendi avrebbe potenza di
vendicare le sue ire e dare effetto ai suoi disegni. Ad ogni tratta
degli ufizi principali, per la città si teneva conto quanti ve n’era
dell’una parte e quanti dell’altra; e non era mai tratta di Signori
che tutta la città non istesse sollevata, chi con sospetto e chi con
isperanza che le cose andassero a suo modo: le forze pareano essere
uguali tra le due parti.
Il primo settembre di quell’anno 1433 pigliò il gonfalone Bernardo
Guadagni, al quale si disse Rinaldo degli Albizzi avere innanzi pulito
lo specchio, perchè la tratta non gli fallisse, e patteggiato con lui
quello che fu la ruina della città e di loro stessi. Nè al fatto posero
tempo in mezzo. Era Cosimo in Mugello (secondo egli narra in certi
Ricordi lasciati da lui),[263] dove era stato più mesi per levarsi
dalle contese che dividevano la città; e già mormorandosi di cose
nuove, fu scritto a lui tornasse, ed egli tornò a’ dì quattro. Andò
il giorno stesso a visitare i Signori, tra’ quali ve n’era amici a lui
ed obbligati; e detto loro quello che si diceva, tutti prestamente lo
negarono, e che _voleano lasciare la terra_ come _l’avevano trovata_.
A’ cinque ordinarono una pratica di otto cittadini, due per quartiere,
tra’ quali erano Cosimo istesso, Rinaldo degli Albizzi e altri de’
maggiori; dicendo voleano col consiglio di questi fare ogni loro
deliberazione. A’ dì 7 la mattina, e sotto colore della detta pratica,
mandarono per Cosimo; ed egli, sebbene da taluno fosse sconfortato,
andò in Palagio:[264] quivi trovò la maggior parte dei compagni, e
mentre stavano a ragionare, dopo buono spazio gli fu comandato per
parte dei Signori andasse su di sopra, e dal Capitano dei fanti fu
chiuso dentro la torre in una cameretta, la quale scrive egli che era
chiamata la Barberìa, e tutti gli altri l’Alberghettino. Lorenzo dei
Medici era anch’egli di Mugello venuto in Firenze, sentendo il caso;
e chiamato dai Signori, andò in Palagio; poi subito si partì e tornò
al Trebbio: quivi dall’Alpe di Romagna e d’altri luoghi si radunarono
intorno a lui grande quantità di fanti. Niccolò da Tolentino capitano
di guerra il dì stesso era venuto da Pisa in arme fino alla Lastra,
volendo fare che fosse Cosimo rilasciato; ma perchè temevano gli
amici di questo dare occasione a torlo di mezzo, Niccolò fu persuaso
tornarsene a Pisa; e Lorenzo, licenziati i fanti, se ne andò a Venezia
co’ figli di Cosimo.
Alla presura di tale uomo romoreggiando la città e massime i borghi
dove i più poveri abitavano, Rinaldo degli Albizzi era con molta
fanteria corso alla Piazza; seco i Peruzzi ed i Gianfigliazzi e tutti
quelli della parte loro. Suonò la campana, e a’ 9 settembre si fece
Parlamento; i Signori scesero in ringhiera, e Ser Filippo Pieruzzi
delle Riformagioni parlò ad alta voce e disse: «o popolo di Firenze,
tenete voi che in questa Piazza sieno le due (terze) parti del vostro
popolo? Fu risposto: sì di certo, noi siamo le due parti e più.
Continuò: siete voi contenti che si faccia uomini di Balìa a riformare
la vostra città? Gridarono sì; e al modo stesso, d’ogni altra cosa che
il Notaio dimandasse. Questi allora sopra un libello che aveva in mano
lesse i nomi di duecento cittadini dei quali doveva la Balìa comporsi,
ed i Signori comandato si radunasse per il dì vegnente, risalirono in
Palagio.» La Balìa aveva autorità quanta l’intero popolo di Firenze;
ma questo limite le fu posto, che le Borse rimanessero, aggiugnendovi
de’ nuovi nomi senza cavarne gli antichi, e che il Catasto non si
annullasse: ordinava farsi a mano dai Signori gli Otto di guardia, a
questi ed al Capitano del popolo concedendo autorità d’inquisire in
cose di Stato quanta nei passati tempi avessero mai goduta maggiore:
le quali perchè parvero essere esorbitanti cose, molto riuscirono dure
a vincere. Dipoi rifecero le borse dei Magistrati e dei Consigli e dei
Consoli delle Arti; crearono dieci Accoppiatori i quali traessero a
mano il Gonfaloniere di giustizia, e mettessero a loro arbitrio nel
borsellino i Priori. Rafforzarono le provvisioni circa la vendita
dei beni dei debitori del Comune. Levarono via i Consoli del mare,
e fecero che duecento fanti si assoldassero da stare a guardia della
Piazza. In quanto a Cosimo, già innanzi che fosse radunata la Balìa
aveano i Priori pronunziato contro lui ed Averardo la prima condanna.
Abbiamo noi questo singolare documento, dove esposte da prima le colpe
di quelli della Casa Medici a cominciare dal 1378, e quindi accusati
di gravi macchinazioni Cosimo ed Averardo negli anni passati, e
ultimamente apposta loro la guerra di Lucca, la quale fu quasi ruina
non solo della Repubblica ma di tutta Italia; appella quei due _nemici
truculenti e crudelissimi, promotori di stragi d’incendii e d’ogni
devastazione, e quale che fosse la diabolica natura loro, tollerati per
singolare benignità del popolo fiorentino_: questi, perchè la clemenza
di questo popolo medesimo rifugge dal sangue, hanno confine di un anno
solo, Cosimo a Padova ed Averardo a Genova; ch’è sentenza invero assai
mite dopo tanto sfoggio d’accuse contro essi e di feroci parole.[265]
Con altra sentenza degli undici, la Balìa prolungava fino a cinque anni
il confine di Cosimo e di Averardo, confinava a vari tempi in diversi
luoghi Lorenzo ed altri della Casa Medici.
Cosimo intanto dall’alto della torre dov’era rinchiuso udendo più
volte suonare a Balìa e la Piazza piena d’armi, viveva in sospetto
grandissimo della vita, e non aveva più giorni voluto mangiare
altro che un poco di pane temendo veleno. In Palagio non mancava chi
cercasse levarsi d’impaccio, facendo morire Cosimo per qualche segreto
modo: a questo effetto due de’ Priori e due degli Otto si trova che
avessero sollecitato Federigo dei Malavolti da Siena Capitano dei
fanti in Palagio, al quale era stato il prigioniero dato in guardia.
Ma quegli, com’era di nobile animo, respingeva l’indegna richiesta;
e andato a Cosimo e lagnandosi del poco onore che temendo gli faceva,
quasi egli che avealo in guardia volesse tenere le mani a una simile
scelleratezza, con calde parole tutto lo riconfortò, ed aggiunse:
«perchè tu del cibo ti tenga sicuro, mangeremo insieme le cose
medesime.» Cosimo con le lacrime agli occhi abbracciò e baciò Federigo,
e lieto offerse d’avernegli gratitudine se dalla fortuna gliene fosse
data occasione. Un altro giorno Federigo, per dargli piacere, condusse
a cena seco un familiare del Gonfaloniere, uomo faceto e sollazzevole
che per soprannome era chiamato il Farganaccio; e quando furono alle
frutta, Cosimo col piede toccò Federigo e col viso accennò che si
partisse: levatosi il quale, come se andasse per alcune cose della
mensa e rimasti soli, Cosimo diede un contrassegno al Farganaccio,
col quale andasse allo Spedalingo di Santa Maria Nuova per millecento
ducati, e pigliandone cento per sè, mille ne recasse al Gonfaloniere,
il quale dipoi fu tutto per Cosimo.[266] Questi medesimo ne’ Ricordi
suoi racconta con poco divario dei fiorini dati al Gonfaloniere e
d’altri ottocento a uno de’ Priori; aggiugne dipoi da vero mercante:
«ebbero poco animo, chè se avessero voluto denari, n’avrebbero avuti
diecimila o più, per uscire di pericolo.[267]»
Il prolungarsi che faceva senza buon consiglio l’inutile prigionia
dimostra già essere disegno fallito quello dell’Albizzi e dei suoi:
gli amici molti che aveva Cosimo in Palagio e fuori si agitavano
sordamente, nei vincitori e nella parte loro non era fiducia. Cosimo
giudica lo tenessero un mese in carcere per due cagioni. La prima, per
vincere i voti della Balìa colla minaccia di farlo morire; e l’altra,
perchè si credevano che non potendo egli valersi del suo, venisse a
fallire; il che non riusciva ad essi, che anzi la Casa dei Medici non
perdè credito e da molti mercanti e signori fu loro offerta grande
somma di danaro. E nei Ricordi pure si trova: la Signoria di Venezia
avere mandato tre ambasciatori a Firenze (e pone anco i nomi), i quali
ottennero non fosse offeso nella persona, e concordarono la liberazione
sua offrendo tenerlo a Venezia con la promessa che nulla farebbe contro
alla Signoria di Firenze. Il Marchese di Ferrara per simile modo facea
comandare al Capitano di guardia, ch’era messer Lodovico del Ronco
da Modena e suddito suo, salvasse Cosimo se poteva, fuggendo con seco
qualora occorresse, senza nulla dubitare.
Infine usciva al 29 settembre la terza sentenza alquanto aggravata
dalle prime due, ma lieta a Cosimo perchè ne seguiva la pronta sua
liberazione. Fecero dei grandi tutta la schiatta dei Medici, tranne
i discendenti di Vieri, privandoli anche degli uffici pertinenti
all’ordine dei magnati, ma senza costringerli a mutare casa, quartiere
o pieve, nè a dare malleveria. Rilegarono per dieci anni Cosimo a
Padova, ed Averardo dei Medici a Napoli, Lorenzo a Vinegia per cinque
anni, ed altri di quella Casa in vari luoghi a tempi più brevi.
Lasciarono a tutti la proprietà dei loro crediti e capitali: quelli
sul Monte vollero che fossero sempre intestati nei nomi loro, ma senza
però che gli potessero alienare.[268] A’ 3 d’ottobre lo cavarono di
carcere, e fattolo venire innanzi alla Signoria, gli denunziarono il
confine; ed egli accettava con allegro animo, offerendo in qualunque
luogo fosse alla città, al popolo e alle loro Signorie sè stesso
e tutte le sostanze sue. La notte, perchè si sentiva Ormanno degli
Albizzi con molti armati essere in Piazza per manometterlo, volle lo
stesso Gonfaloniere sotto buona guardia condurselo a casa; dove fattolo
cenare, dipoi con la scorta di due degli Otto per la montagna di
Pistoia accompagnato da quelli alpigiani e presentato di biada e cera
(come solevano agli Ambasciatori), Cosimo usciva dal territorio del
Comune. Poco dipoi furono confinati Puccio e Giovanni Pucci, ch’erano
suoi principali amici, Bernardo Guadagni, che usciva di Gonfaloniere,
andò Capitano a Pisa; e gli altri della Signoria che seco avevano
prestato mano a quei fatti ebbero premio d’uffici lucrosi.[269]
Frattanto i pericoli nei quali versava il nuovo Stato parea chiedessero
qualcosa d’insolito; troppo aveano osato, da starsene fermi negli
ordini consueti: nè Cosimo era tanto uno scandalo da rimuovere, quanto
era oggimai col nome e col seguito e con la pietà ch’avea destata,
e con la prova contra lui fatta inutilmente, più forte egli solo
nel felice esiglio di quello che fosse lo Stato in Firenze. Rinaldo
degli Albizzi bene si accorgeva di avere fatto troppo o troppo poco;
e ch’avess’egli avuto disegno d’uccidere Cosimo, nè voglio affermare
nè al tutto negare, perchè in lui poteano essere impeti di passione
ma non le furie dei Signori avvezzi al delitto; nè tra essi due era
nimistà indurita, nè dopo la breve e dubbia vittoria, Rinaldo ed i
suoi mai diedero segno di volere uscire dai modi civili: questo deve
l’istoria mantenere a grande onore di lui e di tutta quella parte.[270]
Col rifare gli squittinii, col porre a sedere coloro che erano nelle
antiche borse, e con l’arbitrio sulle tratte concesso agli Otto e agli
Accoppiatori, cercavano essi non lasciarsi uscire lo Stato di mano:
ma questo non si poteva stringere tanto, che al difuori non rimanesse
la libertà dei Consigli e dei Collegi; nè questa città dava materia
sufficiente a una repubblica d’ottimati. Si avrebbe ciò forse potuto
in addietro quando tutte insieme le grosse famiglie di grandi o di
popolo si fossero strette ad un concorde volere; il che noi vedemmo
Rinaldo degli Albizzi avere cercato, ed era già tardi per le lunghe
offese e gli odii scambievoli: ma oggi non poteva questo in lui essere
che un desiderio, perchè i grossi popolani divisi in sè stessi e
affranti dalla loro vittoria stessa, non erano tali da potersi unire
co’ grandi senza esserne oppressi, nè tali da smuovere i fondamenti
della Repubblica e fare opera sì difficile. Già erano tutti gli antichi
ordini come triturati dal vario percuotersi e confondersi tra loro; e
i più tra’ magnati vedeano con gioia prepararsi un’altra forma novella
di Stato, la quale avendo sua forza nella plebe, offrisse anche a loro
speranza d’alzare su quel fondamento più largo e sicuro una qualche
sorta di grandezza.[271] Così vedea l’Albizzi (e non lo taceva) da
quella sua stessa potenza uscire il proprio suo disfacimento; al quale
già molti chetamente lavoravano di quelli medesimi che prima non soliti
stare co’ Medici, s’accostavano ora alla parte che li desiderava. Era
un giovane Agnolo Acciaioli in Palagio nelle pratiche per ordinare lo
Stato, del quale una lettera a Cosimo venne nelle mani di Rinaldo;
scrivevagli crescere ogni giorno il numero di quei che bramavano
fosse egli in patria restituito, al quale effetto lo consigliava sopra
ogni cosa di farsi amico Neri di Gino, ed aggiugneva che una qualche
guerra nascerebbe presto e forse per voglia degli stessi reggitori,
nella quale mancando colui ch’era solito di sovvenire con le proprie
ricchezze il Comune, sarebbe necessità di farlo subito richiamare.
Per questa lettera l’Acciaioli fu preso, e dopo essere stato messo
alla corda, andò a confine in Cefalonia, terra dove la famiglia degli
Acciaioli avea principato.
La guerra nasceva bentosto da quella necessità che era sempre
nei soldati di stare sulle armi, e dalle infrenabili cupidità dei
condottieri i quali ambivano farsi principi: le terre della Chiesa
offrivano campo fra tutti agevole alle aggressioni. Il conte Francesco
Sforza, data voce di andare nel Reame, s’insignoriva di quasi tutta
la Marca d’Ancona, e di là scendeva a Todi e a Viterbo, intantochè
le armi Braccesche avevano occupato sotto la condotta di Niccolò
Fortebracci gran parte dell’Umbria e del Patrimonio di San Pietro
insino a Tivoli. Tantochè il Papa stretto a quel modo, si accordava
col conte Francesco, al quale concesse il marchesato della Marca, e
consentì farlo Gonfaloniere di Santa Chiesa. Furono quindi tra i due
Capitani fazioni di guerra, e Niccolò Piccinino anch’egli scendeva con
le armi del Duca nel Patrimonio: ma in questo mezzo avendo i Romani
levato rumore, cacciarono il Papa, il quale nascosto in vesti mentite
e lungo il Tevere inseguíto con le balestre, pervenne ad Ostia, dove
con un solo Cardinale montato sopra una galea sottile che v’era della
regina Giovanna di Napoli, e di già essendo dai Fiorentini apprestata
a suo salvamento un’altra galera in Civitavecchia, pervenne a Livorno.
Quivi accolto con grandissime onoranze dalla Repubblica, fece indi
solenne ingresso in Firenze, dove fu raggiunto da molti prelati, ed
egli rimase a lunga dimora. Intanto Bologna s’era anch’essa ribellata
al Papa con l’opera di Battista da Canneto, che uccisi i capi della
contraria parte, cacciò il Legato; e perchè il duca Filippo Maria,
cui era buona ogni occasione, aveva pigliato i Bolognesi in tutela,
parve a’ Fiorentini e alla Repubblica di Venezia non essere caso da
starsene fermi: questa inviava nella Romagna Erasmo da Narni più noto
col nome di Gattamelata, pe’ Fiorentini andò il loro vecchio Capitano
Niccolò da Tolentino, le genti ecclesiastiche ubbidivano al Legato
Vitelleschi vescovo allora di Recanati; intantochè a fronte stava il
Piccinino con forte esercito di ducheschi. Non era consiglio delle
Repubbliche collegate venire a giornata: ma il Piccinino, maestro di
guerra, appiccò la zuffa sotto Imola il dì 28 agosto 1434, dove per
lunghi aggiramenti condotto a dividersi l’esercito della Lega già male
unito sotto al comando di tre capitani, ottenne vittoria per quello
che davano i tempi grandissima; avendo con la morte di pochi de’ suoi
fatto tremilacinquecento prigionieri, e tra essi il prode Niccolò da
Tolentino, il quale condotto a Milano e di là mandato più mesi dopo
in Val di Taro, moriva d’una caduta, o come fu detto per ordine del
Visconti.[272] Il corpo di lui, recato in Firenze, ebbe più tardi
esequie magnificentissime, e l’effigie di lui a cavallo si vede nel
tempio di Santa Maria del Fiore.[273]
Per questa rotta, la quale avvenne contro l’opinione di ciascuno, molte
ebbero accuse i reggitori della Repubblica; dai quali è da credere
che più s’alienassero i Signori Veneziani, propensi al Medici più
che a loro, siccome apparve per tutto il tempo della dimora che fece
Cosimo in Venezia. Questi, che in Firenze viveva alla pari con gli
altri cittadini, era onorato come principe durante l’esilio. A Modena
il Governatore del Marchese di Ferrara lo visitò e presentò, e gli
fece dare compagnia e guida: innanzi che uscisse dallo Stato, un altro
grande gentiluomo del Marchese gli fu inviato con molte offerte. Andò
in Venezia, appena giunto, a ringraziare la Signoria di quanto aveva
operato per la sua salute, da essa mostrando riconoscere la vita: fu
ricevuto con tanto onore e tanta carità che non si potrebbe dire, la
Signoria dolendosi degli affanni patiti da lui, e offerendo per ogni
suo contentamento la città e le entrate loro. Così egli stesso.[274]
A Padova fu alloggiato nella casa di messere Iacopo Donati, bella e
fornita lautamente; andavano a fargli offerte uomini della Signoria,
ai quali però con le usate cautele fu comandato che fuori nulla ne
spargessero. Dipoi, a richiesta di Cosimo, fu a lui permesso dimorare
liberamente in qualunque luogo dentro al territorio della Repubblica
di Venezia, la quale in Firenze per il suo ambasciatore avvalorò
la domanda.[275] Ed egli si stette poi sempre in Venezia, quivi
dimostrandosi non che amorevole alla patria sua, benigno inverso
coloro stessi che lo avevano sbandito; delle quali cose gli rendeva
testimonianza una lettera che a lui scrisse la Signoria di Firenze.
Altre poi ne sono a lui di grande commendazione, massimamente di
letterati, dei quali troviamo avere egli sempre cercato il favore:[276]
e tanta era poi la magnificenza di quell’esule, tante le ricchezze, che
egli in Venezia faceva a sue spese edificare da Michelozzo architetto
la Biblioteca dei Monaci Benedettini in San Giorgio, secondo appare
da una iscrizione che ivi fu posta ad onore suo.[277] Per tanti modi
era manifesto ch’egli tornerebbe in patria già come signore e principe
dello Stato.
I magistrati aveano ricominciato a farsi per tratte, e poichè le
vecchie borse non furon arse, ma rimanevano tramischiate con le nuove,
ogni volta si aspettava che uscirebbe una Signoria d’amici a Cosimo:
quella che doveva entrare in ufizio il primo di settembre 1434, tale
era che gli animi se ne sollevarono diversamente così del popolo come
della parte Rinaldesca; ma tutti vivevano sospesi, e temevano questi
di perdere; gli altri di non vincere. Gonfaloniere fu Niccolò di
Donato Cocchi, uomo nuovo, non ricco e fra tutti volonteroso di farsi
innanzi, secondato com’egli era dal maggior numero dei Priori, tra’
quali troviamo quel Luca di messer Bonaccorso Pitti ancora giovane,
ma del quale avremo a dire poi le grandezze. Disegno dell’Albizzi
era impedire con la violenza l’entrata in ufizio d’una tale Signoria
facendo col mezzo del Gonfaloniere che usciva, Donato Velluti, suonare
a Parlamento e annullare a voce di popolo la nuova tratta: ma nè
gli amici di Rinaldo osarono tanto, e il Cocchi appena entrato in
ufizio fece condannare per baratteria e chiudere in carcere l’antico
Gonfaloniere. I nuovi Signori scrivevano a Cosimo, apparecchiavano
ogni cosa in città e fuori a stringere insieme e ordinare le forze dei
molti bramosi di mutare il reggimento, mettevano armi segretamente
in Palagio; mentre più apertamente Rinaldo degli Albizzi e i suoi
armavano intorno a sè molti dei soldati licenziati ch’erano in Firenze,
e dal contado faceano scendere villani: era imminente l’aperta guerra.
Quando ad un tratto, a’ 26 settembre la Signoria fornì la Piazza e la
ringhiera di fanti, facendo richiedere a comparire in Palagio Rinaldo
degli Albizzi, Ridolfo Peruzzi e Niccolò Barbadori: al che subito
questi uscirono armati, e seco aveano i Guasconi, i Rondinelli, i
Castellani, i Gianfigliazzi e alcuni de’ Bardi con altre famiglie,
e i Capitani di Parte e gli Otto di guardia. Rinaldo degli Albizzi
aveva più volte con grande istanza chiamato l’aiuto di Palla Strozzi:
questi era uomo di alto grado per la possanza della Casa[278] e per gli
ufizi esercitati, ma l’ingegno di lui teneva del mansueto e del dolce,
più atto ai gentili studi delle lettere che alle sollecitudini dei
moti civili. Si narra che un altro buono e caro cittadino, il vecchio
Agnolo Pandolfini, avesse da quella mossa inclinante a civil guerra
disconfortato lo Strozzi,[279] il quale co’ fanti che aveva raccolti
fu contento di guardare le proprie sue case. Troviamo però che tardi
venisse sopra un ronzino e coll’accompagnamento d’un solo famiglio[280]
alla piazza di Santo Apollinare, dove Rinaldo e i suoi avevano fatto
testa, deliberati quant’era in loro di assaltare il Palagio, qualora
le forze a ciò avessero sufficienti. Ma non che lo Strozzi, più
altri cittadini o mancarono al convegno, o si ritrassero o voltarono.
Giovanni Guicciardini non potè muoversi, ritenuto dal fratello Piero
il quale seguiva le parti di Cosimo, come faceva Luca degli Albizzi
fratello a Rinaldo; Neri Capponi e Nerone di Dionigi Neroni balenavano,
tenendosi guardinghi a vedere dove inchinassero le faccende.
Con tutto ciò aveva Rinaldo degli Albizzi intorno a sè ottocento fanti,
i quali tenevano dal Palagio del Potestà le strade che menano verso
la Piazza: da parte dei Signori molti venivano a Rinaldo offrendo
concordia, e che non avevano intenzione rimettere Cosimo. Ridolfo
Peruzzi andò in Palagio egli medesimo a trattare queste cose. Intanto
alcuni cittadini principali, tra’ quali sarebbono stati Neri Capponi
e Giannozzo Pitti,[281] si erano raccolti a Bellosguardo, quivi
aspettando, prima di dichiararsi, dove il fatto riuscisse. Era in
Firenze, come dicemmo, papa Eugenio IV, in nome del quale giugneva a
cavallo sulla piazza di Santo Apollinare il Legato Vitelleschi: trattò
con Rinaldo lì sulla piazza, poi nel Palagio co’ Signori, e quindi
tornato ottenne che Rinaldo a un’ora di notte si persuadesse andare
al Papa ed in lui rimettersi. Andò Rinaldo, ma seguitato dagli armati
suoi, i quali passando voleano bruciare le case ai Martelli, e a stento
furono impediti. Infine a cinque ore di notte Rinaldo cedendo al Papa
e al Legato, rinviava i suoi fanti alle case loro disarmati, rimanendo
egli lì presso Eugenio in Santa Maria Novella. Quali speranze questi
gli desse non so, ma più ignoro quello che potesse allora promettere:
dipoi si tenne egli ingannato, ma era d’animo poco fermo. Rinaldo,
o fosse in lui bontà d’animo a non volere la guerra civile, o troppa
fede in Eugenio, o troppa fiducia nelle parole dei più mortali nemici
suoi, o che veramente conoscesse non potere fidarsi nelle armi contro
alla forza dei magistrati, rimase due giorni senza che di lui più altro
sappiamo, nè a quali partiti cercasse appigliarsi, nè quali pratiche si
tenessero.[282]
A’ 29 di settembre suonò a Parlamento: stava del Palagio serrata la
porta, e dentro armati forestieri e cittadini; la Signoria aveva fatto
venire in Firenze la sua gente d’arme, e questi e molto popolo minuto
presero tutta la Piazza ed il Mercato Nuovo e Vecchio in modo che non
passava persona. Il Papa mandava ai magnifici Signori il Vitelleschi
con altri due Vescovi ed il Reggente della Camera suo proprio nipote,
i quali essendo saliti in ringhiera, poco stante scesero i Signori