Storia della Repubblica di Firenze v. 2/3 - 39

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tempo, per esser la persona del Conte Carlo qui e alloggiato in
casa dei Martelli, deliberorono lassarlo stare per fine a tempo
novo; et avisò, che se devidisse el campo, e chosì fo fatto. Nè de
questa cosa fu parlato più per uno pezo _etc._ Et essendo stato a
Imola per la recuperation de Valdiseno, et essendosi recuperato,
me n’andai a Roma questo marzo, dove cie trovai la Signoria del
Conte e Giovanfrancesco da Tolentino e messer Lorenzo da Castello e
Francesco de’ Pazzi _etc._...; fra i quali molte volte si parlava
de queste cose; et che se comenciava adesso aproximar el tempo
d’expedir decta causa. E domandando io que modo era questo, me
disse: Lorenzo deve venir qui per questa Pasqua, et _quamprimum_ se
senta la sua partita, Francesco se parterà anchora lui, et andarà
a spedirsi; e farse el servitio a quello remanerà, et all’altro,
inanzi che torni, se penserà quello se doverrà far de lui, et
terrassi con esso tal modo, che la cosa sarà bene assettata inanzi
che se parta da noi. Io gle disse: Faretelo morire? Me respuse:
Madianò, che questo non voglio per niente, che qui habbia alcuno
dispiacere; ma inanzi che el parta, le cose saranno bene assectate,
in forma che staranno bene. Domandai el Conte: Nostro Signore sa
questo? Me disse: Madiasì. Dico: diavolo, egl’è gran facto che el
consente! Me respuse: Non sa’ tu, che gle famo fare quello volimo
noi? Basta che le cose andranno bene. E stettesi in queste trame
parechie dì del suo venire o no. Da poi, veduto che non veniva,
deliberaron ad ogni modo cavarne le mane prima che fosse fora
maggio _etc._... Et chomo ò detto più e più volte, di questo ne
fo parlato in la chamera del Conte, e como manchava materia, se
tornava in su questa, e chi prima si trovava insieme co’ loro,
ne parlava, dicendo che per niente la cosa podeva durar così,
che non venissi a palese, e questo per esser in tante lingue, e
che ad ogne modo bisognava darli speditione. Onde che per decta
casione fo preso per partito, che Francesco se ne venissi qui, e
Giovanfrancesco da Tolentino et io cie ne andassemo a Imola, e
misser Lorenzo da Castello _etc._..., per dare ordine a quello
s’avesse da fare, e poi se ne tornasse a Castello; et omne uno
colle preparation facte stesse apparechiato a tucto quello che da
messer Iacomo, l’Arcievescovo e Francesco fosse ordinato, e che ad
omne sua requesta omne uno fusse presto a far quanto per loro saria
comandato. E questo ordine ce fu dato tucto per el Signor Conte,
in Roma. Da poi vene ultimamente el Vescovo de Lion, el quale ce
comandò de novo, che ad omne requisition dei sopradetti fossemo
apparechiati sanza fare una difficultà al mondo; e chosì s’è facto,
nè mai se intese niuno loro ordine, si non lo sabato a doi hore di
nocte; e poi la domenica mutorono anchora proposito. Et in questa
forma sono state governate queste chose, diciendo imperò sempre,
che l’onor de Nostro Signore e del Conte cie fosse ricomandato.
E con questo ordine la domenica mattina, a dì XXVI d’aprile
MCCCCLXXVIII, se fece in Sancta Liberata quanto è publico a tucto
el mondo.
Item, che tornando de Romagna, et andando a Roma, quando io fui
là, e parlando con Nostro Signore d’altre cose, me disse: poi,
Giovanbatista dell’Arcievescovo e de Francesco, che diceva voler
far tante chose, e’ non savessero mutare uno Stato chomo quello de
Fiorenza, ma non credo savesse pure acozzare tre ove in un bacile,
se non con cianciatori. Tristi che se impaccia con loro.
Item, che el signor Conte m’ha dicto molte volte, che Nostro
Signore à così gran desiderio della mutatione de questo Stato, como
noi; et se tu intendesse quello dice, quando semo lui e mi, diresti
quello che dico io.
Io Giovanbaptista da Montesecco confesso e fo fede esser vere tucte
le predicte cose scripte in un foglio intero et in uno altro mezzo,
e qui di sopra, e quanto io ò scripto haver dicto a misser Iacomo
qui in Fiorenza, della mente e voluntà della Sanctità del Papa; e
queste cose sono verissime, et io mi trovai presente, quando la Sua
Sanctità lo disse, e tucto quanto è scritto, è de mia man propria.
Io Matheo Tuscano da Milano, cavalero e presente Potestà della
magnifica cictà di Fiorenza, sono stato presente, insema colli
reverendi Patri infrascripti, _videlicet ut infra_, che el prefato
Iovanne Batipsta ha detto, che quanto è scripto sopra, in un foglio
intero e in uno altro mezzo e in questo, che tucti s’alligaranno
inseme, sono de sua propria mano, et confessò esser vero quanto de
sopra è scripto. Et così ne fazo fede de mia propria mano, che gli
è la propria verità quanto in esse scripto se contenne. A’ dì IIII
di maggio MCCCCLXXVIII, in Firenza.
Io Frate Batipsta d’Antonio, priore al presente di San Marcho
di Firenze, dell’Ordine de’ Predicatori, fu’ presente a decta
confessione, e fo fede, che detto Giovanbatipsta disse tucto esser
di sua mano, et esser la propria verità quanto in esse si contiene.
Detto dì.
Io Benedetto d’Amerigo da Firenze, monaco e priore indegno
della Badia di Firenze, fo fede e fui presente quando el prefato
Giovanbatipsta da Montesecco confessò essere di sua propria mano le
predette scripture, delle quali nell’altra faccia di questo foglio
si fa mentione nella subscriptione del Podestà et Frate Batipsta.
Et io fo fede, che disse esser la propria verità quanto in esse si
contiene. Però ò facto questo di mia mano, detto dì.
Io Frate Nofri d’Andrea da Firenze, dell’Ordine de’ Frati
Predicatori, fui presente quando el detto Giovanbatipsta confessò
le dette scripture essere di sua propria mano et essere la propria
verità quanto in essa si contiene. E per chiarezza ò facto questa
scriptura di mia mano, dì decto di sopra.
Io don Miniato di Francesco d’Andrea da Firenze, monaco e professo
della Badia di Firenze, fu’ presente quando detto Giovanbatista
confessò le dette scripture esser di sua propria mano, e esser la
propria verità quanto in esse si contiene. E in fede di ciò ò facto
questa di mia mano, el decto dì.
Io don Antonio di Domenico, monaco di Cestello de Florentia, fo
fede e fui presente quando el sopradecto Giovanbatipsta confessò
essere di sua propria mano le dette scripture, et esser la propria
verità quanto in esse si contiene. Et in fede di ciò ò facta questa
subscriptione di mia mano, detto dì sopra.
Io don Marco di Benedetto, dell’Ordine di Cestello, fui presente
quando detto Giovanbaptista liberamente confessò esser di sua
propria mano le predette scripture, e che era il proprio vero
quanto in esse si contiene. E in fede di ciò ò fatta questa
subscriptione di mia propria mano, dì detto di sopra.

In nomine Domini Nostri Yhesu Christi, amen. Anno ab eius
salutifera incarnatione millesimo quadringentesimo septuagesimo
ottavo, indictione XI, die vero XI mensis augusti. Hoc exemplum
per me Andream notarium infrascriptum, ex orriginali, scripto
manu dicti Iohannis Batiste, magnifico domino Potestati Civitatis
Florentiæ insinuatum fuit, et in eius presentia, per me ipsum
Andream notarium et alios infrascriptos notarios, diligenter
cum originali scriptura, manu propria dicti Iohannis Batistæ,
auscultatum. Et cum idem Potestas cognoverit illud cum ipsa
originali scriptura per ordinem concordare; ut adhibeatur
eidem exemplo de cetero plena fides, suam et Comunis Florentiæ
interposuit auctoritatem et decretum.
(L. S.) Ego Simon olim Grazini Iacobi Grazini, civis et notarius
florentinus, imperiali auctoritate index ordinarius ac notarius
publicus, hoc suprascriptum exemplum attestationis dicti Iohannis
Baptiste, cum subscriptionibus eorum qui presentes fuerunt, de
quibus supra, una cum infrascriptis ser Carolo Pieri Betti et ser
Tommasio ser Bartolomei de Orlandis et ser Dominico Buonaccursii
et ser Pace Bambelli notariis, ad auctenticam scripturam prefatam,
scriptam dicti Iohannis Batiste, coram prefato domino Potestate
diligenter et fideliter auscultavi; et quia utrumque concordare
inveni de ipsius domini Potestatis mandato in eiusdem exempli fidem
et testimonium me subscripsi, et signum meum apposui consuetum,
dicta die XI suprascripti mensis augusti anni MCCCCLXXVIII.
(L. S.) Ego Carolus Pieri Betti de Iohanninis, notarius publicus
ac civis florentinus, imperiali auctoritate iudex ordinarius, hoc
suprascriptum exemplum attestationis dicti Iohannis Baptiste cum
subscriptionibus eorum qui presentes fuerunt, de quibus supra, una
cum suprascripto ser Simone Grazini Iacobi et infrascriptis ser
Tommasio ser Bartolomei de Orlandis et ser Dominico Buonacchursii
et ser Pace Bambelli notariis, ad autenticam scripturam prefatam,
scriptam manu dicti Iohannis Baptiste, coram prefato domino
Potestate diligenter et fideliter auscultavi; et quia utrunque
concordare inveni, de ipsius domini Potestatis mandato, in
eiusdem exempli fidem et testimonium me subscripsi et solito
meo signo signavi, dicta die XI dicti mensis augusti anno Domini
MCCCCLXXVIII.
(L. S.) Ego Tommas ser Bartolomei Neri de Orlandis, notarius
publicus ac civis florentinus, imperiali autoritate iudex
ordinarius, hoc suprascriptum exemplum atestationis dicti Iohannis
Batiste, cum subscriptionibus eorum qui presentes fuerunt, de
quibus supra, una cum suprascriptis ser Simone Grazini Iacobi et
ser Charulo Pieri Betti et infrascriptis ser Dominicho Bonachursi
et ser Pace Banbelli notariis, ad autenticham scripturam prefatam,
scriptam manu dicti Iohannis Batiste, coram prefato domino
Potestate, diligenter et fideliter ascultavi et quia utrumque
concordare inveni, de ipsius domini Potestatis mandato, in
eiusdem exempli fidem et testimonium, me subscripsi et solito
meo signo signavi, dicta die XI dicti mensis augusti anno Domini
MCCCCLXXVIII.
(L. S.) Ego Dominicus Bonacursii Dominici, civis et notarius
florentinus, imperiali auctoritate iudex ordinarius ac notarius
publicus, hoc suprascriptum exemplum attestationis Iohannis
Batiste, cum subscriptionibus eorum qui presentes fuerunt, de
quibus supra, una cum suprascriptis ser Simone et ser Carulo et
ser Tommasio et infrascripto ser Pace, notariis, ad autenticam
scripturam prefatam, scriptam manu dicti Iohannis Batiste, coram
prefato domino Potestate, diligenter et fideliter auscultavi,
et quia utrunque concordare inveni, de ipsius domini Potestatis
mandato, me, in eiusdem exempli fidem et testimonium, me subscripsi
et signum meum apposui consuetum, dicta die XI dicti mensis augusti
MCCCCLXXVIII.
(L. S.) Ego Paces Bambelli Pacis, civis et notarius florentinus,
imperiali auctoritate iudex ordinarius ac notarius publicus,
hoc suprascriptum exemplum attestationis Ioannis Baptiste, cum
subscriptionibus eorum qui presentes fuerunt, de quibus supra,
una cum suprascriptis ser Simone, ser Carolo et ser Thomaxio
et ser Dominicho Bonacorsii notariis, ad autenticam scripturam
prefatam, scriptam manu dicti Ioannis Baptiste, coram prefato
domino Potestate, diligenter et fideliter auscultavi; et quia
utrumque concordare inveni, de ipsius domini Potestatis mandato, in
eiusdem exempli fidem et testimonium me subscripsi et signum meum
apposui consuetum, dicta die XI suprascripti mensis anni Domini
MCCCCLXXVIII, indictione XI.
(L. S.) Ego Andreas quondam Romuli Laurentii, civis et notarius
florentinus, imperialique auctoritate iudex ordinarius notariusque
publicus, hoc suprascriptum exemplum, ex auctentica et originali
scriptura prefati Iohannis Baptiste, sub nomine domini Iohannis
Baptiste et eius manu propria scriptum, fideliter exemplavi;
et postmodum, in presentia dicti domini Potestatis, cum dictis
ser Simone, ser Carulo, ser Thomasio, ser Domenico et ser Pace,
notariis suprascriptis, diligenter cum ipso orriginali auscultavi;
et quia utrumque concordare inveni, de ipsius domini Potestatis
mandato, ad eius exempli fidem et testimonium, me subscripsi et
signum meum apposui consuetum, dicta die XI dicti mensis augusti
anni Domini MCCCCLXXVIII, indictione XI, feliciter.
Universis et singulis ad quos presentes advenerint Antonius de
Humiolis de Gualdo, Decretorum doctor, reverendissimi in Christo
patris et domini domini Raynaldi de Ursinis, Dei et Apostolice
Sedis gratia Archiepiscopi Florentini Vicarius in spiritualibus
generalis, post salutem, fidem facimus atque testamur. Quod
suprascripti ser Simon Grazini Iacobi Grazini et ser Carolus
Pieri Betti de Iohanninis et ser Thommas ser Bartholomei Nerii
de Orlandis et ser Dominicus Bonaccursii Dominici et ser Paces
Bambelli Pacis et ser Andreas Romuli Laurentii et quilibet
eurum, tempore preinserti transumpti facti, et satis antea et
hodie fuerunt et sunt publici legales auctentici et fide digni
tabelliones atque notarii florentini, eorumque et cuiusque
eorum scripturis publicis, in quibusvis locis in quibus de ipsi
respective notitia habetur, semper, in iudicio et extra, adhibita
fuit et adhibetur plena indubia atque intemerata fides, quemadmodum
scripturis publicis cuiuslibet alterius fidedigni legalis et
publici tabellionis atque notarii; in quorum fidem et testimonium
premissorum, presentes literas fieri, et per infrascriptum nostrum
et nostre Curie scribam subscribi fecimus, pontificalisque sigilli
Curie prefate iussimus impressione communiri. Date Florentie, in
Archiepiscopali palatio, anno Incarnationis Dominice milleximo
quadringentesimo septuagesimo octavo, indictione undecima, die vero
duodecimo mensis augusti.
[Illustrazione: L. S.]
Ego Mathias Cennis Aiuti, notarius et civis florentinus et dicte
Curie Archiepiscopalis Florentine Scriba, ad fidem subscripsi.


Nº X.
(Vedi pag. 399.)

ISTRUZIONE DI SISTO IV A MESSER ANTONIO CRIVELLI MANDATO SUO AL RE
FERRANDO; SCRITTA MENTRE LORENZO ERA TUTTORA IN NAPOLI E IL RE SI
VEDEVA GIÀ MOLTO INCLINATO AD ACCORDARSI CON LUI. FEBBRAIO 1480.
(Tratta dal Codice nº 22, appresso di noi.)
Essendo seguita la novità di Fiorenza in tanto vilipendio et carico
di Santa Chiesa, parve a noi di consultare la Maestà del Re, che
provisione gli paresse di farci, per la detention del Cardinale et
dell’altre cose etc. Et havendo risposto S. M., per più sue, non
solo parerli, ma confortatoci, persuasi et inanimiti noi a prender
l’armi, offerendoci et promettendo voler fare ogni sforzo, et
metter i figlioli et la vita propria per vendicar questa ingiuria
fatta alla Sede Apostolica; di comune consenso fu deliberato di
prender l’armi contro Lorenzo et suoi seguaci, come _contra petram
scandali_ et perturbatore della pace et quiete d’Italia, per
metter la città di Fiorenza in libertà; sì come ancor noi et S.
M. prefata, innanzi la detta novità, giustamente eramo obligati
per scritture pubbliche, et di man proprie fatte, per la malignità
d’esso Lorenzo, et per li scandali nati per sua opera in Italia
et massimamente contra li Stati communi, et atteso che con simile
studio havea Lorenzo cercato unirsi con la Lega contra detta Maestà
per alienarci da quella.
Et primieramente, per giustificar la santa et giusta impresa, fu
cominciato con l’armi spirituali, le quali non essendo bastate alla
liberatione del Cardinale, fu necessario venire all’armi temporali,
cioè alla guerra; nella quale il Re et ciascuno l’ha veduto quanto
ci siamo portati virilmente, non manchando di danari nè di altra
cosa necessaria, governandosi sempre con i recordi et consigli di
S. M. Questo medesimo facemmo nella prattica della pace, quando
tutte le potenze ancor fuor d’Italia erano al conspetto nostro,
havendo in ogni atto quel riguardo all’honore et dignità del Re che
della Chiesa.
Quest’anno presente habbiam fatto il medesimo sforzo et maggiore
assai che l’anno passato, et per l’accrescimento et sforza maggiore
dei nostri a Perugia; seguitando sempre di meglior animo per
riportarne vittoria, per il fine decto di sopra, et per l’honor
comune; et ciò non solo nella guerra di Toscana, ma di Lombardia.
Et già il Signor Dio, per sua gratia, et l’havea preparata et quasi
posta in mano per la rotta data ai nemici, nell’acquisto di Poggio
Imperiale, con la vittoria ottenuta in Lombardia.
Vennero intanto gli ambasciatori del Duca, per compor la pace,
domandando principalmente che si levassero l’offese. Parve alla
Maestà del Re che noi gli dovessimo parlare gagliardamente,
confortandoci che si dovesse insieme mandare a Milano per il
medesimo effetto, instando per l’espulsion di Lorenzo; et così
fu eseguito; et da S. M. furono sempre lodati i modi servati con
i detti ambasciatori, et partiti esclusi; _etiam_ che vi fossero
molti Cardinali che ci dissuadessero detta esclusione, dicendo
che tutto quello che confortava il Re, era perchè andassero a
trattar la pace a Napoli, per haverne egli quel merito et honore,
pur dicendoci che il Re la faria senz’haverci alcun riguardo, come
all’hora fu communicato con messer Anello. Nondimeno noi non mutamo
mai proposito, tenendo per certo che la Maestà Sua non faria altro
che quel che fusse grato a noi et honore allo Stato della Chiesa,
come continuamente ci affermava. Et non erano ancor arrivati gli
ambasciatori a Napoli, che messer Anello ci propose, ch’era da
considerare che se il Re escludeva in tutto gli ambasciatori del
Duca, di non voler ricever Lorenzo in gratia, gliene seguia carico
et l’esclusione della pace. Et noi, come quelli che dessideravamo
la pace et l’honor del Re, fummo contenti che la prattica
si tenesse, con tai mezi però che gli ambasciatori potessero
chiamarsi esclusi, nè ancora obligarsegli per modo che, volendo pur
l’esclusione di Lorenzo, non si potesse conseguire.
In questo mezo comparvero le littere della prattica di mastro
Alessandro, con la copia d’alcuni capitoli offerti et a noi et
alla Maestà del Re, per parte del quale messer Anello domandando
un breve diretto al Re, per il quale potesse pratticare con detti
ambasciatori in nome nostro; noi, benchè per diverse vie fossemo
dessuasi a dar fede alla detta prattica, aggiungendosi che il
Cardinal di Aragona haveva promesso molto largamente allo stato di
Milano, che il Re accettarebbe i capitoli, ci contentammo che il Re
trattasse a nome nostro, dicendo a messer Anello che scrivesse, con
questo che la Maestà Sua ne avvisasse dì per dì delle occorrenze.
Et arrivati detti ambassatori et poco dopo maestro Alessandro,
la Maestà Sua scrisse haverli uditi, et ancora l’ambassatore
del Duca di Bari, con li quali se era turbata più che mai fosse
stata in vita sua; parendogli che quei Signori di Milano non
correspondessero agli oblighi et benefitii receuti; dicendo che
mandarebbe qua mastro Alessandro, il quale non venne mai.
Dopo questo, messer Anello mostrò littere del Re, per le quali
monstrava dubitare, che lo stato di Milano non fusse a i communi
propositi. Item che il Re dubitava di una certa prattica de’
Venetiani col Re di Spagna et della prattica del detto Re
con Genovesi; ricordando che era bene di venire alla pace per
benefitio della Christianità, et ancora col perdonare a Lorenzo,
mettendo mille deficoltà nella sua espulsione; et che quando bene
l’espulsion seguisse, poteva egli nondimeno ritornare, come fece
Cosimo; promettendo in ultimo che Nostro Signore haverebbe le
conditioni portate per mastro Alessandro.
Noi, ancorchè nel secreto stessimo sospesi di questa proposta,
non ci parendo haver sodisfatto al primo instituto per il quale
fu prencipiata l’impresa, tenendo per certo che Lorenzo, il
quale, beneficato, fu sempre cattivo, havesse ad esser peggiore
nell’avvenire chiamandosi offeso; fummo nondimeno contenti di
condescendere ai pareri del Re, et per suo rispetto perdonargli:
con questo però che, se non si veniva alla conclusione di quanto
si prometteva per mastro Alessandro si dovesse la vittoria dai
Capitani.
La Maestà Sua, doppo che ci hebbe renduto gratie di tal remissione,
disse che entrarebbe nella prattica nè mai consentirebbe alla
pace salvo che con le condizioni ragionate, confermandosi col
parer nostro, che la vittoria si seguisse. Et havendo scritto i
Capitani dell’essercito che ogni speranza che si dava a Lorenzo,
d’havergliesi a perdonare, era dannosa alla total vittoria,
la Maestà Sua se ne turbò, dicendo che non si legava le mani
all’essercito per la prattica della pace. Et fummo contenti di
sodisfare al Re, non ostante che le ragione dei Capitani più ci
sodisfacessero.
Hauto immediate Colle, Sua Maestà mutò parere; perchè, dove si
dovea seguir la vittoria, fece far instantia che si levassero
l’offese, per gratificare gli ambasciatori; di che prendemmo
admiratione et dispiacere, cresciendo il sospetto che ci era
stato posto; et stavamo durissimi a non voler consentire. Ma
instando pur messer Anello, et cognoscendo noi non poter far
la guerra soli, fummo contenti; protestando però che, se per
questo levar dell’offese si difficoltassero le conditioni della
pace, ci aggravaremmo in eterno del Re; et così faremo della
necessità virtù, restando però malcontenti, conoscendoci esser
levata la vittoria et il contento di haver cacciato quel tiranno,
et restituita la libertà al Popolo fiorentino et la quiete
et tranquillità a tutta Italia. Restava a noi questa speranza
che, havendoci il Re tirato dove haveva voluto, dovesse almeno
concludere la pace con le conditioni ragionate et haver qualche
rispetto all’honor di Dio, di Santa Chiesa et suo proprio.
Lorenzo andò a Napoli, della quale andata il Re scrisse non haver
hauta notitia, ma che, se andava per mancare ad una minima parte
delle cose promesse per mastro Alessandro, non l’udirebbe, et lo
licentiarebbe; et che in quel caso noi dovevamo metter la mitra et
tutto lo Stato della Chiesa, et la Maiestà Sua vi voleva porre la
corona et dieci Regni, se tanti ne havesse hauti, per proseguire
l’espulsione di Lorenzo et la sua total rovina.
Stringendosi la prattica, il Re scrisse che Lorenzo negava
che fussero state promesse alcune di dette conditioni etc. Et
lasciamo andare che non sia stato licentiato, ma è stato ogn’hora
maggiormente honorato. Doppo, Sua Maestà ha scritto che Lorenzo non
vuol venire a domandar perdono; et perciò essortatoci a levarsi
di questa mente, che abbia a venire: non considerando che noi
non habbiamo altro colore di honor di questa impresa, che di tal
venuta.
Propose di più che si dovesse concedere un certo termine ai Signori
di Romagna, di poter domandar perdono, mettendo per fermo et saldo
il capitolo di Francia.
Et ricusando noi di voler acconsentire a queste così vittuperose
conditioni, la Maiestà Sua di novo scrisse, che havea hauto Lorenzo
et fattolo chiaro dell’animo nostro. Diceva haverlo ridotto in modo
che sperava che condescenderebbe alla sua venuta con buone sigurtà,
et così acconsentirebbe al capitolo dei Vicarii, et a comprometter
le terre, et secondo che era stato ragionato.
A’ tre dì dipoi, il Re scrisse, che Lorenzo havea mutato openione,
perchè lo stato di Milano non consentiva ad alcuna parte delle cose
ragionate, confortandoci a mandar giuntamente ambassatori a Milano.
Noi habbiamo ricusato di mandare il detto ambassatore, sapendo
che la mutatione non nasce da quella Maestà, la quale era
inclinatissima et dispostissima all’honor di Dio, di Sua Santa
Chiesa et alla pace, ma che da altri procedeva quella mutatione.
Et che se la pace si poteva fare con le conditioni ragionate et
promesse, fosse con il nome di Dio; et quando anche non, la Maestà
Sua provedesse come ricercava il bisogno et l’honor commune,
havendo Lorenzo nelle mani; il quale per le conditione nelle quali
si trovava, non era da credere che ricusasse, nè, volendo, potesse
ricusarle. Così la Maestà Sua procedeva unitamente con noi, com’era
obligata in tanti modi et deve fare; acciò che non si verificasse
quello che è stato detto pubblicamente, cioè che la Maestà Sua, per
salvare Lorenzo, non se era curata dell’honore di Dio, della Chiesa
et del suo proprio. Et quando la pace non si potesse havere con le
dette conditioni, noi ci risolvemo di non mai acconsentire et di
restar più tosto così così, raccomandandoci a Dio et a san Pietro,
sperando che ci habbiano d’aiutare. Doppo questa conclusione il
Re, per mezo di messer Lorenzo da Castello, ha proposto l’ultimo
partito, cioè che la dechiaratione dei Vicari si rimetta nella
Maestà Sua. Et non contentando noi a questo, di nuovo lo replica
a voi, magnifico messer Antonio Crivello. Della qual cosa noi non
solo habbiamo preso ammiratione ma gravissimo affanno et infinito
dispiacere; parendoci che il Re, per queste vie, cerchi di tirarci
a quelle cose, che non possiamo concedere senza nostro grandissimo
carico. Perchè, se ben noi potessimo pigliare ogni fede dal Re,
non è però che non ce sia carico, non ottenendo l’esclusione de i
Vicarii, nella publica stipulatione della lega compresa. Nè sì fa
per il Re, havendo a sententiare secondo la voglia nostra, perchè
così offenderà l’altra parte sententiando l’esclusione, quindeci
dì o un mese doppo la stipulatione, come nella stipulatione della
lega; et pare a noi che non vi sia dentro l’honor della Chiesa
nè il nostro nè mancho del Re; il quale sempre si dirrà che, per
sodisfare a Lorenzo, habbia posposto l’uno et l’altro, non obstante
li beneficii recenti, l’obligation del feudo, l’investitura et
le scritture publiche et di man propria, come di sopra. Et però
noi ci siamo resoluti che si facci intendere al Re, che siamo
stati contenti di perdonare a Lorenzo, per far quest’honore a Sua
Maestà, et per fargli cosa grata; non ostante che noi conoscessimo
havere la vittoria in mano, etiam che di questa impresa non ne
consiguivamo alcuno honore, havendo noi speso un pozzo d’oro
per ottenerla. Et siamo contenti perdonare a Lorenzo et di far
la pace, quale habbiamo desiderato sempre, et per haverla buona
et sicura fu cominciata la guerra. Et di ciò preghiamo il Re
strettamente, quando si possa haver con le conclusioni ragionate
et promesse tante volte per Sua Maestà; quando anco non si
possano havere le conditioni promesse, noi ci conosciamo non esser
mancato da noi di conseguir la vittoria, nè etiandio di non predir
questo fine per le cose precedenti. Conosciamo non poter venire
alle conclusioni, mancandosi delle cose promesse, senza nostro
grandissimo vittuperio, alla qual cosa non siamo per acconsentire;
ma ben preghiamo la Maestà Sua, che vi voglia provedere, come
può ragionevolmente [e] deve fare, havendo Lorenzo nelle mani, et
venendo da lui il manchamento, come gli è attribuito. Et quando Sua
Maestà non voglia far questo, n’haveremo dispiacere per li detti
rispetti, et haveremo patienza, sperando che Nostro Signore Dio non
habbia d’abbandonarci, et confidaremo così nella sua misericordia.


Nº XI.
(Vedi pag. 421.)

LETTERA CONTENENTE LE ISTRUZIONI E CONSIGLI DI LORENZO DE’ MEDICI AL
FIGLIO GIOVANNI, QUANDO FATTO CARDINALE, ANDAVA A ROMA NEL MARZO 1492.
(FABRONI, _Documenti_, pag. 308.)
Messer Giovanni. Voi sete molto obbligato a Messer Domenedio, e
tutti noi per rispetto vostro, perchè oltra a molti benefici et
honori, che ha ricevuti la Casa nostra da lui, ha fatto che nella
persona vostra veggiamo la maggior dignità che fosse mai in casa;
et ancora che la cosa sia per sè grande, le circostantie la fanno
assai maggiore, massime per l’età vostra et conditione nostra.
Et però il primo mio ricordo è, che vi sforziate esser grato
a Messer Domenedio, ricordandovi ad ogn’hora, che non i meriti
vostri, prudentia o sollecitudine, ma mirabilmente esso Iddio v’ha
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