Storia della Repubblica di Firenze v. 2/3 - 25

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e quale fosse il cuore loro, quale il diportarsi, l’istoria lascia
tremendo argomento alle invenzioni del Poeta.
Così apprestata la materia dentro, e parendo essere giunto il tempo da
porvi la mano, Francesco dei Pazzi e l’arcivescovo Salviati da Roma
vennero a Firenze. Aveano ordinato col conte Girolamo che Lorenzo
da Città di Castello, uomo del Papa, ne andasse al paese suo, e Gian
Francesco da Tolentino in Romagna, i quali tenendo le loro compagnie
in ordine, ubbidissero al primo cenno che da Firenze ricevessero di
assaltare da due lati oppostamente la Toscana. E al tempo stesso, sotto
colore di vendicare un insulto fatto da Carlo da Montone ai Perugini ed
ai Senesi, Giambatista da Montesecco venne a Firenze con alcune diecine
di uomini d’arme, dicendo essergli comandato di fare l’impresa del
Castello di Montone. Visitò Lorenzo de’ Medici, e accolto umanamente
da lui, n’ebbe consigli intorno a quel fatto savi e amorevoli; tanto
che al duro animo del soldato cominciò a parere strana cosa quello
essere l’uomo ch’egli era venuto per ammazzare. Ma Francesco dei
Pazzi e l’Arcivescovo lo stringevano all’opera, alla quale il re
Ferrando mediante il suo Oratore prometteva aiuto valido; ed avevano
ad essa tirato Bernardo Bandini e Napoleone Franzesi, giovani arditi
e alla famiglia dei Pazzi obbligatissimi: tiraronvi Iacopo di Poggio
Bracciolini, temerario, bisognoso, pronto ad afferrare ogni cosa nuova,
ed un Antonio da Volterra che per la memoria del sacco dato alla città
sua odiava Lorenzo, ed uno Stefano sacerdote che in casa di Iacopo
dei Pazzi insegnava lettere ad una sua figliuola naturale. Questi ed i
famigli delle due case bastavano; solo rimaneva da fermare il modo per
ammazzare i due fratelli.
Al che si offrivano facili e pronte le occasioni per non avere
essi alcuna usanza di guardarsi; giovani, piacevansi di praticare
alla libera con gli altri giovani: siffatti modi, tutti fiorentini,
vedemmo anche essere presso i Medici accortezza. Ma in questo era la
difficoltà, che bisognava opprimerli insieme, perchè il superstite non
avesse a vendicare l’ucciso: pensarono a coglierli lontani tra loro,
tanto che uno non potesse soccorrere l’altro, e quindi aspettavano
se Giuliano andasse a Piombino per le nozze che si trattavano con
la figlia di quel Signore, o Lorenzo a Roma come si diceva.[484] Ma
frattanto correvano i giorni, e la cosa era in bocca di molti. Allora,
fosse disegno o caso, Raffaello Riario nipote a Girolamo, giovanetto
che non giungeva a’ vent’anni, essendo a studio in Pisa, fatto in quei
giorni dal Papa Cardinale, venne in Firenze per andare quindi Legato
a Perugia. Era occasione di feste e conviti, dove i due fratelli per
onorare il Cardinale converrebbero: alloggiava egli a Montughi in una
villa di Iacopo dei Pazzi, il quale invitava seco a desinare Lorenzo
e Giuliano, ma questi impedito da leggera infermità non intervenne.
Un altro convito dato al Cardinale dai Medici nella loro villa presso
Fiesole, non parve porgesse comoda occasione. Giunse infine il giorno
della domenica 26 aprile: il Cardinale era invitato a solenne desinare
in casa Medici, s’allestivano le mense, mettevansi fuori gli addobbi
splendidissimi della Casa. Innanzi assisteva il Cardinale ad una Messa
in Santa Maria del Fiore: Lorenzo e Giuliano doveano andare a quella
Messa per fare corteggio al Cardinale ed accompagnarlo quindi a casa
loro. Deliberarono i congiurati quella mattina medesima di compiere in
chiesa, senza più indugio, l’attentato.
Aveano assegnato il punto e l’ordine all’impresa quando il sacerdote,
avendo fatta la comunione, finisce la Messa; perchè allora il tocco
delle campane del Duomo darebbe il segno all’arcivescovo Salviati ed
a Iacopo Bracciolini e agli altri cui era commesso d’occupare a forza
il Palagio. Voleano che Giambatista da Montesecco avesse la cura di
ammazzare Lorenzo, Francesco de’ Pazzi e Bernardo Bandini, Giuliano. Ma
Giambatista prima addolcito dalla umanità di Lorenzo e avendo orrore di
commettere tanto eccesso in chiesa, ricusò dicendo che a ciò l’animo
non gli basterebbe; il luogo suo ebbero Antonio da Volterra e Stefano
sacerdote. La chiesa era piena di popolo, i due Fratelli passeggiavano
intorno al Coro, quando venuto il punto, Francesco de’ Pazzi e Bernardo
Bandini ch’erano presso a Giuliano con armi corte gli traversarono
il petto sicch’egli cadde subito in terra; ma quelli pure gli si
gittarono sopra e lo finirono con altri colpi: in quel furore Francesco
de’ Pazzi di propria mano sbadatamente ferì sè stesso in una gamba.
Antonio da Volterra e Stefano prete assalivano Lorenzo, ma questi se
ne avvide in tempo, e cavò l’arme e si difese, non avendo egli avuto
altro che una leggera ferita nel collo. Francesco de’ Pazzi, tutto che
ferito, e Bernardo Bandini accorrevano per ammazzare anche lui, ucciso
avendo Francesco Nori che gli era appresso; ma Lorenzo saltò in Coro,
e passando dinanzi all’altare uscì di faccia alla sagrestia nuova,
dove molti essendo accorsi de’ suoi, lo misero dentro e chiusero la
porta ch’era di bronzo, e Piero suo padre l’avea fatta fare. Quivi,
tra gli altri, si trovò Agnolo Poliziano che descrisse la Congiura:
sentivano fuori tumulto e grida e remore d’armi, nulla sapevano di
Giuliano. Stati poco tempo, udirono molti farsi alla porta gridando:
uscite; non erano certi che fossero amici, ma un giovane Sigismondo
della Stufa ch’era ivi con gli altri, salito per una scaletta sulla
cantoria dell’Organo, tornò assicurando ch’erano a difesa di Lorenzo:
il quale uscito dopo circa un’ora ch’era stato in sagrestia, fu in
mezzo a grande compagnia d’armati menato a casa. I congiurati veduto
ch’ebbero Giuliano morto e Lorenzo in salvo, chi in qua e chi in là
s’erano dispersi. Il giovinetto Cardinale che udiva la Messa, rimasto
solo tutto spaurito accanto all’altare, fu poi raccolto da’ suoi preti,
e quando fu tempo, da due degli Otto con guardia bastante condotto in
Palagio e ivi ritenuto.
Intanto l’arcivescovo Salviati, uscito di chiesa col dire che andava
a visitare sua madre, s’era recato al Palagio; seco avea Iacopo suo
fratello conscio del fatto, ed un cugino che nulla sapeva e Iacopo
Bracciolini e certi Perugini fuorusciti ed altri, in tutto forse trenta
armati. Dei quali rimasti alcuni a guardare la porta, l’Arcivescovo
saliva con pochi, e trovato che la Signoria desinava, chiese parlare
al Gonfaloniere; il quale subito si levò da tavola e fece in camera
entrare seco l’Arcivescovo, che disse avere certe commissioni da fare
a lui proprio in nome del Papa. Era Gonfaloniere quel Cesare Petrucci
che stato in Prato Commissario nel tumulto del 1470, di bassa fortuna
era salito a quel grado pel favore di Casa Medici: il quale s’accorse
che l’Arcivescovo nel parlare si mutava in viso e non attaccava parola
da trarne costrutto; poi voltandosi verso l’uscio, si spurgava come
se volesse fare cenno a gente di fuori. Al che subito il Gonfaloniere,
come esperto di quelle mischie, saltato fuori dall’uscio e chiamati a
sè i compagni e quei ministri che si trovarono in Palagio, usando le
armi che il caso offerse, bastarono contra ogni mossa dei congiurati;
dei quali anche era avvenuto ch’entrati certi in una stanza e chiuso
l’uscio, ch’era a colpo, non ne potessero quindi uscire. In questo
mezzo giungeva in Piazza Iacopo de’ Pazzi, venuto da casa con molti
congiunti, e amici, egli a cavallo e seco forse un centinaio d’uomini
armati; dei quali taluni, essendo la porta in mano dei loro, salivano
su. La Signoria ed il Palagio correvano pericolo; ma in Piazza sebbene
avesse Iacopo gridato il nome della Libertà, perch’era come di lingua
morta, niuno si mosse; e invece accorreva da ogni parte gente devota ai
Medici che gridava Palle. Di questi essendo entrati tanti in Palagio
da assicurarsi dei congiurati ch’erano sopra; chiusero la Porta, e
perchè di fuori il Pazzi co’ suoi facevano segno di combatterla, quei
di dentro saliti in alto sul ballatoio gli allontanarono co’ sassi
che la Signoria teneva sempre lassù per difesa: cosicchè a Iacopo fu
necessità tornarsi a casa, dove aspettato se per la città nascesse
qualche rumore di libertà, poichè fu certo essere il contrario, fattosi
aprire la porta alla Croce, fuggiva con parte de’ suoi in Romagna. Ma
lui ritrattosi, era la porta del Palagio stata riaperta, dove entrati
molti, raccontarono il fatto come avvenne in chiesa, e Giuliano ed il
Nori uccisi, ed il pericolo di Lorenzo. Al che senz’altri discorsi il
Petrucci e gli Otto, tra ira e paura, ordinarono che l’Arcivescovo così
com’era, co’ suoi Salviati e con Iacopo di Poggio fossero appiccati
alle finestre del Palagio a vista del popolo, e che tutti gli altri
ch’erano dentro fossero gettati, morti o semivivi, fuor delle finestre.
Altri erano stati in quella furia tagliati a pezzi, in tutti ventisei;
tra’ quali alcuni preti e servitori del Cardinale: fra tutti uno solo
potè salvarsi, che dopo quattro giorni rinvenuto sotto a certe legna e
quasi che morto dalla fame, gli fu perdonato.
A casa i Medici accorrevano da tutti gli ordini della città, chi a
offrire sè stesso, chi ad accertarsi dell’accaduto, ciascuno agitato
da incerte passioni. La strada era piena di popolo, e tutti chiedeano
vedere Lorenzo, il quale dovette mostrarsi alla finestra fasciato il
collo da un asciugatoio. Ma intanto in Palagio avevano dato il segno
alla plebe, la quale non fu sorda a rispondere, aizzata e al sangue
condotta dai cagnotti di Casa Medici. Corse alle case dei Pazzi,
e avendo trovato in quelle Francesco solo, che per la ferita s’era
gittato sul letto, così mezzo ignudo com’era, lo condussero al Palagio,
dove fu accanto agli altri impiccato. Quindi spiando dove si fosse
alcun dei Pazzi ricoverato, trovarono Giovanni d’Antonio negli Agnoli,
e Galeotto di Piero che cercava di rifugiarsi, vestito da femmina, in
Santa Croce; e pure quei due furono condotti in Palagio. La Signoria
intanto spacciava lettere e cavallari attorno, ordinando dovunque
taluno di costoro capitasse, fossero presi ed a Firenze condotti; quivi
recati il dì seguente di Mugello tre altri dei Pazzi con alcuni fanti
di quei del Montesecco, furono alle finestre del Palagio impiccati. La
plebe infuriava sopra i cadaveri bestialmente, e trascorrendo per le
vie, faceva temere a molti che non volesse mettere la città a sacco, nè
fu repressa che a grande stento. Renato de’ Pazzi, che avea biasimato
la congiura, come si è detto, ma che la sapeva, cercando fuggire in
veste di contadino, fu preso e a quel modo com’era, impiccato. Reo fu
Lorenzo a non salvarlo, e quella morte sola ebbe compianto universale
nella città: Renato altro non poteva. Andando con gli altri faceva
contro alla coscienza sua, denunziarli era iniqua opera, e mettersi
prima in salvo era questo pure un’accusarli e sè non assolvere vivendo
sempre poi svergognato; nocque a lui essere tenuto savio, e perchè nel
popolo aveva credito e benevolenza, parve a chi teneva lo Stato che
fosse tal uomo da levarselo dinanzi.
Il dì seguente venne messer Iacopo de’ Pazzi, il quale fuggendo
era stato raggiunto in sull’Alpi, e venne in lettiga perchè reggere
non si poteva e fu a quel modo menato in Palagio; dove egli ebbe la
sorte degli altri, avendo per via pregato invano quelli Alpigiani
che l’uccidessero. Nè a questo solo strazio era serbato quell’uomo,
tenuto prima felice ed invidiato per grado e ricchezze, e capo egli di
famiglia fiorentissima, e vissuto fino alla vecchiezza nei primi onori
della città. Imperocchè essendo prima sotterrato in Santa Croce, e poi
levatasi fama ch’egli fosse morto bestemmiando, s’attribuivano certe
lunghe pioggie che in quei giorni avvennero, all’essere egli stato
sepolto in luogo sacro. Laonde i Signori nottetempo fattolo levare
di chiesa, lo mandarono a sotterrare lungo le mura; ma i fanciulli
(guidati da uomini scelleratissimi) cavatolo anche di lì, col capestro
ch’egli aveva alla gola, lo trascinarono alle case sue gridando:
_aprite a messer Iacopo de’ Pazzi_; nè sarebbe finita quella nefandità
se la Signoria, per cavarlo ad essi di mano, non lo avesse fatto
pigliare e gettare in Arno, che allora grosso di molte acque portava
quel corpo a galla, spettacolo di orrore insieme e di compassione. I
due feritori di Lorenzo presi in Badia, pendevano il dì poi con gli
altri dalle finestre del Palagio. Ivi ed in Piazza i morti sommarono
tra impiccati e tagliati a pezzi, chi dice il minor numero a settanta,
e chi il maggiore presso a cento. Giovan Battista da Montesecco, preso
nei giorni stessi e lungamente esaminato, dopo avere scritta quella
Confessione della quale abbiamo discorso, ebbe il capo mozzo sopra la
porta del Palagio del Potestà. Bernardo Bandini e Napoleone Franzesi
riuscirono a porsi in salvo, ma il secondo moriva l’anno dipoi nelle
armi del Duca di Calabria, venuto a campo sopra a Firenze. Bernardo
Bandini ricoverato in Costantinopoli, fu per ordine del Sultano preso
e consegnato a un Antonio di Bernardetto dei Medici, che Lorenzo aveva
mandato apposta in Turchia: così era grande la potenza di quest’uomo
e grande la voglia di farne mostra, e che non restasse in vita chi
aveagli ucciso il fratello: fu egli appiccato appena giunto.
Nè per tutto il mese di maggio seguente cessavano le condanne delle
quali abbiamo il testo, profferite dal magistrato degli Otto di Guardia
e Balìa, che ne ingiungeva la promulgazione al Potestà: questi era
Matteo de’ Toscani milanese. Tutti quei della famiglia Pazzi che uccisi
non furono, andarono in fondo alla torre di Volterra, eccetto Guglielmo
che per avere in moglie la Bianca sorella di Lorenzo fu solamente
confinato a cinque miglia lontano dalla città: abbiamo notizia come sei
anni dopo, dimorassero la moglie in Firenze ed egli in Roma, trattato
dai Medici con benignità riservata e contegnosa, come uomo perdonato
e che potesse tornare in grazia di parente.[485] La famiglia dei
Salviati rimase in grado, e fu poco dopo imparentata con Casa Medici.
I fratelli del Bandini, due altri figliuoli del Poggio, tutta l’antica
ed illustre famiglia dei Franzesi da Staggia e alcuni dei Corsi, come
sospetti, e molti che il Magistrato inquisitore e giudice andava in
qua e in là raggranellando, furono o carcerati o confinati o resi
inabili agli uffici; il che dicevano ammonire, continuando tuttavia
quel nome usato in antico dal magistrato di Parte guelfa; ma ora negli
Otto stava quell’arbitrio che si appellava giurisdizione. Un Vespucci,
amicissimo dello Stato ma che aveva salvato un colpevole, fu condannato
in perpetuo alla carcere nelle Stinche, poi liberato. Frattanto i Pazzi
erano dipinti nella facciata del Palazzo del Bargello impiccati come
traditori col capo all’ingiù.[486] Chi avesse in moglie una discendente
di Andrea dei Pazzi era ammonito egli ed i figli suoi, e le fanciulle
che si maritassero di quella prosapia recavano seco il divieto nelle
case dove elle entravano: una provvigione della Signoria ordina queste
cose, e che il nome dei Pazzi in perpetuo rimanga abolito costringendo
a mutar casato quei che rimanevano; e che sieno cancellate le armi loro
dovunque si trovino, e le insegne e le iscrizioni d’onore, sien’anche
in case private; e che il Canto de’ Pazzi pigli altro nome; e che
l’onorificenza del Carro e dell’appiccare il fuoco nella solennità del
Sabato Santo fosse tolta alla famiglia dei Pazzi. La quale rimase,
di numerosissima ch’ella era, come annullata, e sebbene fosse poi
restituita negli onori, non racquistò mai l’antica grandezza.
Questo fine ebbe la Congiura de’ Pazzi; l’aveano tramata senza consenso
dentro nè favore popolare, e, quel che fu peggio, con intelligenze
fuori odiose a chiunque bramasse in Firenze col torre via i Medici
recuperare la libertà: poi quella strage in luogo sacro, in ora
solenne, e l’uccisione di Giuliano che il popolo amava, destarono
affetti incontro ai quali nulla aveano essi fuorchè un pensiero
d’istituire, facendo a mezzo con la Casa dei Riari, non so quale forma
d’incerta repubblica o di tirannide. Acquietati gli animi, furono
a Giuliano celebrate esequie magnifiche: riseppesi ch’era incinta
di lui una donna dei Gorini; ed il fanciullo, che nacque pochi mesi
dopo, nutrito e cresciuto nella compagnia dei figli che aveva Lorenzo,
divenne papa Clemente VII.[487]


CAPITOLO VI.
GUERRA CON SISTO IV. — LORENZO DE’ MEDICI A NAPOLI. [AN. 1478-1480.]

Quando giunse a Roma la prima notizia del fatto atroce, risedeva in
quella città per la Repubblica, oratore, Donato Acciaioli. Era egli
ora per la seconda volta inviato a Sisto, le commissioni difficili
e odiose e in tutto aliene dall’animo di Donato; il quale andatovi
per ubbidienza di buon cittadino, faceva il meglio. Quali poi fossero
le cose segrete che aveva a trattare, tace il biografo di lui (come
suole fare sovente) «per non offendere chi non l’avrebbe per bene.»
Inteso pertanto ch’ebbero a Roma del Cardinale preso e dell’Arcivescovo
impiccato, se ne fece grandissimo caso; e il Conte Girolamo riscaldò
il Papa ed il Collegio dei Cardinali quanto potè a farne dimostrazione
contro all’ambasciatore Fiorentino. Quindi egli stesso con molto numero
di fanti armati andò alla casa dove l’Acciaioli dimorava, salì su, e
gli disse d’andare con lui: poi, senza badare nè al diritto inviolabile
d’ambasciatore, nè alle dignitose proteste che invano questi faceva,
messolo in mezzo a quei soldati, lo menò in Palazzo. Qui giunto Donato,
volle essere subito condotto al Papa, il quale alle forti parole di
lui, giurato avendo sopra il suo petto che di questo caso non ne sapeva
nulla, e dimostrato che gli dispiacesse, gli diede licenza d’andarsene
a casa. Non era mancato pensiero di metterlo in Castel Sant’Angelo,
ma gli Ambasciatori di Venezia e di Milano dichiararono che il bene
ed il male che fosse a lui fatto verrebbe da essi riguardato come cosa
loro. Così egli rimase in Roma tranquillo, ma scorato ed avvilito per
l’onore offeso della sua città, e intimorito delle conseguenze che ne
uscirebbero. A Firenze scrisse, rendessero subito il giovane Cardinale
Raffaello di San Giorgio, che era stato preso; al Papa avea dato fede
che ciò era stato fatto per cavarlo di mano al popolo, e che ogni
volta che lo rivolesse, lo renderebbero; il che aveva per lettere anche
promesso la Signoria. La quale era stata a ciò confortata anche dal re
Ferrando, che prometteva, facendo questo, non ne seguiterebbe alcuno
scandalo di quei gravissimi, i quali altrimenti potevano uscirne.
A questo effetto aveva il Papa mandato a Firenze il Vescovo di Perugia;
il quale essendovi più giorni rimasto, non potè ottenere che lo
rendessero.[488] Era un pegno in mano delle robe e delle persone dei
molti Fiorentini che stavano in Roma: aveano scritto a quei mercanti
che al più presto mettessero in salvo le robe ed uscissero di Roma;
il che essendo giunto alle orecchie del Papa, e temendo egli il grave
danno che ne verrebbe ai cortigiani che aveano danari nei loro banchi,
mandò gente ai passi perchè non uscissero, e poi ne fece taluni mettere
in Castello, di dove furono liberati in capo ad alcune ore, data
promessa di non si muovere. Questo abbiamo da una lettera a Lorenzo
dei Medici, scritta dal Cardinale decano Vescovo d’Ostia, ch’era egli
medesimo stato in Castello alla liberazione di quei mercanti. Gli
annunzia, il Papa con tutto il Collegio avere eletto una congregazione
di cinque Cardinali a fare il processo per via di giustizia contro
alla Repubblica di Firenze, se non si renda liberamente il Cardinale
di San Giorgio: esorta quindi Lorenzo, come affezionato a lui, «che
di tal cosa non si pigli passione alcuna, ma con ogni istanza procuri
quella liberazione; altrimenti quello che unanimiter il Sacro Collegio
ha deliberato per i detti Deputati, si manderà ad esecuzione con ogni
celerità: della qual cosa a noi rincrescerà assai, perchè sapete che
il Sacro Collegio non more mai; e, al parere nostro, per voi non fa
pigliare questa impresa, della quale ne poteria seguire gran mancamento
e scandalo alla detta vostra Excelsa Comunità.[489]»
Pare a noi che il vescovo d’Ostia volesse distinguere i procedimenti
del Sacro Collegio _che non muore mai_, da quello che il Papa
facesse di proprio moto e di passione. Questi da principio aveva
mandato lettere di condoglianza ai Fiorentini, dei quali scriveva in
altro luogo, non essersi fatti per anche rei d’alcuna offesa contro
all’ecclesiastica dignità.[490] Pure doveva sapere dell’Arcivescovo
impiccato e del Cardinale preso; ma quegli ben troppo se lo aveva
meritato, e il Cardinale contava rendessero. Mordevalo intanto la
parte che egli ebbe nell’atroce fatto; pensava le accuse che a lui
ne verrebbero maggiori del vero, e del mal esito si doleva. Ma il
Conte Girolamo gli faceva suonare alle orecchie le acerbe accuse e
le parole che in Firenze andavano, senza ritegno alcuno, contro alla
persona stessa del Pontefice, sinchè la misura delle ire fu colma per
la dinegata restituzione del Cardinale. E Sisto lanciava nelle calende
di giugno un Breve di scomunica a Lorenzo dei Medici, alla Signoria,
agli Otto e a tutti che avessero in qualche modo partecipato alle
prave opere di costoro. Dichiarava essere quei sopraddetti, e primo
Lorenzo, dannati, infami, abbominevoli, inabili essi e i figli e i
nipoti loro ai gradi ecclesiastici ed agli ufizi civili, incapaci di
ricevere eredità, di stare in giudizio e d’essere uditi come testimoni;
era vietato ad ogni uomo contrattare, o anche semplicemente avere con
essi commercio alcuno o conversazione; i beni loro devoluti al Fisco,
le case disfatte ed in perpetuo lasciate in ruina, così che elle sieno
ricordo ai futuri della scelleratezza di quegli uomini e del gastigo.
La città di Firenze, se dentro a un mese non gli avesse condegnamente
puniti, doversi intendere soggettata a interdetto strettissimo, privata
dell’episcopale dignità, interdette anche per ampliazione le diocesi
confinanti di Fiesole e di Pistoia. Il lungo Breve enumera da principio
i motivi della condanna: sono atti di malvicinato, offese ai commerci,
l’aiuto prestato a Niccolò Vitelli e ad altri contumaci inverso la
Chiesa, la possessione differita all’Arcivescovo di Pisa, ed altri
consimili fatti nei quali il Breve scorge altrettante manifestazioni
d’animo efferato contro alla Chiesa ed a’ suoi ministri. Si viene
da ultimo ai due capitali delitti, l’uccisione dell’Arcivescovo e la
detenzione del Cardinale; i quali delitti si dicono mossi in Lorenzo e
ne’ suoi da ingorda sete di crudeltà e d’ingiurie agli ecclesiastici:
imperocchè ai fatti che gli cagionarono è data nel Breve questa
spiegazione, che avendo Lorenzo, co’ suoi, voluto uccidere o cacciare
molti dalla città per farsi egli in essa più forte, e _da ciò essendo
sorte private e civili contenzioni_; gli scellerati colsero il destro
per uccidere l’Arcivescovo e ritenere il Cardinale. Rileva cotesti
delitti essere perpetrati in giorno di domenica: ma di ciò che avvenne
in chiesa quel giorno, dei sacri misteri interrotti, del tempio di
Dio bruttato di sangue, del tradimento, degli assassinii, nulla, come
se il fatto non fosse stato.[491] Era tasto da non toccarsi dal Conte
Girolamo, che certo era stato suggeritore del Breve; e Sisto infelice
lo avea sottoscritto. Giovò a Lorenzo quella manifesta alterazione dei
fatti; giovarono quelle furiose parole; ed i nemici del Papato allora
e poi n’ebbero bel giuoco, onde in quel fatto il nome di Sisto rimase
gravato generalmente più in là del vero.
Bel gioco, e agevole commissione ebbe anche Bartolommeo Scala,
cancelliere della Signoria, cui venne commesso rispondere al Breve
di Sisto IV. Narrò con semplici e brevi parole quel fatto che aveva
destato nel mondo rumore grandissimo; e in quanto ai motivi, gli bastò
trascrivere la Confessione del Montesecco, autenticata ora con grande
solennità. Raccolse inoltre la Signoria per la Toscana e per l’Italia
pareri di Canonisti e di Teologi, i quali negavano valore al Breve ed
alla scomunica data a quel modo: quindi obbligarono in Firenze e nelle
altre diocesi gli ecclesiastici a non cessare dalla celebrazione dei
divini uffici.[492] Inviarono quella risposta per mano di Ambasciatori
della Repubblica all’Imperatore, ai Re di Francia e di Spagna e
d’Ungheria, e presso che a tutti i Principi cristiani, chiedendo
difesa da tanta violenza, e la riparazione di uno scandalo che tutti
offendeva. Frattanto, a purgarsi, liberarono subito dopo il Cardinale,
che a’ 5 di giugno licenziato dal Palazzo dei Medici, dove l’aveano
messo, e andato a stare nel convento de’ Servi, uscì di Firenze sette
giorni dopo, andando a Roma per la via di Siena.[493]
Luigi XI avea scritto lettera consolatoria a Lorenzo, che a lui
rispondeva fiere parole e dignitose: dice la sua vera e sola colpa
essere questa, che egli sia vivo e che Dio lo abbia scampato da sì
empio e sacrilego assassinio.[494] Appellarono indi i Fiorentini ad
un futuro Concilio, del quale invitavano e scongiuravano in primo
luogo l’Imperatore, poi gli altri Principi, a farsi autori. Fu anche
affermato che un Sinodo si celebrasse a questo effetto in Firenze, ed
un preteso decreto di questo Sinodo si rinviene di quel tempo scritto;
ma non è che una molto prolissa apologia dei Fiorentini e di Lorenzo,
in risposta al Breve, tempestata di gonfie e triviali ingiurie al Papa
che oltrepassano ogni modo: nè mai quel Sinodo (che noi sappiamo) fu
radunato, sebbene vi fosse chi n’ebbe intenzione, e intanto allestiva
l’atto da farsi, o lo mentiva.[495]
Intanto il Papa ed il Re avevano cominciato la guerra in Toscana.
Fecero di questa Capitano generale Federico duca di Urbino, e seco era
Alfonso duca di Calabria primogenito del Re: i quali essendo nei primi
giorni del mese di luglio giunti ai confini presso Montepulciano, un
trombetta del duca di Calabria recava in Firenze un Breve del Papa
in data dei sette di luglio. Con esso notificava ai Fiorentini, come
non potendo più tollerare l’ingiurie che da Lorenzo dei Medici in
diversi tempi erano state fatte alla Sedia Apostolica, si trovava
costretto prender le armi contro a lui, acciocchè liberata la città
di Firenze da cosiffatto tiranno, potesse egli volgersi con l’aiuto
di tutti i principi e delle repubbliche dei Cristiani alla impresa
dei Turchi. Credeva pertanto quella prudentissima Repubblica vorrebbe
ultimamente risolversi ai partiti migliori, la quale verrebbe a perdere
sè medesima, quando ella volesse in tanto dannosa servitù continuare;
e chi ciò consigliasse, oltre all’opporsi insiememente alla religione
ed ai comandi della cristiana repubblica, darebbe segno che Dio
l’avesse tolto affatto d’intelletto: quindi la confortava a considerare
diligentemente quello che si metteva a fare, conchiudendo che una
volta fosse cacciato Lorenzo, restituirebbe alla Repubblica di Firenze
l’antica amicizia. Lette queste lettere, e non parendo a Lorenzo che
fosse bastante una deliberazione dei Consigli, ma che dove andava della
sua persona dovess’egli parlare col popolo, avendo in Palagio radunato
grande numero di cittadini, cominciò a dire: «Che delle cose passate
non voleva entrare a parlare, sì perchè non gli accadeva scusare sè, nè
accusare altri, poichè la Repubblica intorno a ciò avea pronunziato,
e sì perchè avrebbe desiderato che di tanto fiera crudeltà la memoria
si spegnesse. Dolergli bene sino al profondo del cuore, che un Vicario
di Cristo in tanta dignità posto, ed abbattutosi in tempi di tanto
pericolo alla Cristianità, fosse potuto scendere a perseguitare con
tanto furore un uomo privato, e perciò a muovere tale guerra ad una
sì eccelsa Repubblica e della Chiesa benemerita. Non saper se in lui
maggiore fosse l’obbligo che alla sua patria doveva sentire per averlo
con tale costanza difeso e protetto, o il dolore dell’esser egli per
altrui colpa cagione di porre in tanto scompiglio quella città ch’egli
amava più della vita sua. Bastargli in quanto a sè, che di nulla lo
rimordesse la coscienza; sperando nel resto che la Repubblica, con
l’aiuto di Dio e per la prudenza dei suoi cittadini, agevolmente
si sarebbe in breve con gloria dalle presenti molestie liberata. La
quale se intanto la morte o l’esilio di lui credesse utile alla comune
salvezza, egli la vita e l’avere e il sangue de’ figli largamente alla
patria profferiva.» Fu a Lorenzo in poche parole risposto da chi a
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