Storia della Repubblica di Firenze v. 2/3 - 07

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la provvisione di quell’anno, per cui si toglieva a quel magistrato
l’odioso diritto dell’ammonire o condannare chicchessia per ghibellino,
che fu cagione di tanti scandali;[73] ma che non era più necessaria, lo
Stato essendo oggimai tolto di mano al popolo degli artefici. Al quale
effetto usarono anche un’altra industria; giovani nobili o _gentiletti_
si facevano matricolare nelle arti minute, e in quelle così veniano ad
_essere principali_.[74]
Ma qui ebbe principio una molto violenta persecuzione durata più anni
contro a quella famiglia degli Alberti che prima era stata toccata
con tanta riserva o quasi timidità, talchè uno solo d’essi, ma il
più famoso, moriva in esiglio. Ora, qualunque si fossero gli odii
di parte o più veramente quei personali di Maso degli Albizi, quanti
rimanevano degli Alberti, eccetto un solo co’ suoi discendenti, ebbero
bando a distanze grandi, chi in qua chi in là, in Rodi, in Fiandra, a
Barcellona; costretti dare malleverie o sodamenti per l’osservanza del
confino e pagare multe; con proibizione di vendere i beni loro o di
obbligarli in modo alcuno, perchè mentre gli uomini avevano bando, gli
averi di nulla gravati restassero a discrezione della Repubblica.[75]
In seguito vennero fatti di popolo molti di famiglie grandi, ma che
attenevano personalmente ai nuovi ottimati; tra’ quali Bettino da
Ricasoli, che nel 78 si era mostrato nell’ammonire così ostinato e poi
era stato uno dei ribelli: molti del popolo vennero fatti grandi, ed
altri banditi o dannati a carcere perpetua, e uccisi taluni. Ma quello
che fu poi tutto il nerbo di quello Stato il quale pigliava allora
solido fondamento, fecero il Comune soldasse trecento fanti e dugento
balestrieri genovesi, i quali abitassero vicini alla piazza e di quella
stessero alla guardia: scrissero poi due mila cittadini atti nell’arme
e dei loro più confidenti, ai quali diedero una sopravesta con
l’insegna della Parte guelfa; questi divisi per gonfaloni aveano loggie
dove al bisogno si radunasse ciascun gonfalone, ed ai non iscritti in
quella milizia era vietato portare armi, pena la testa.[76] A benefizio
ed a richiesta dell’Arte della lana, ch’ebbe gran mano in questi
fatti,[77] e nella quale erano gli Albizzi potentissimi, si decretò che
per cinque anni fosse proibita l’entrata dei panni forestieri, eccetto
d’alcuni pochi luoghi designati.
Mentre si facevano tali cose e in mezzo al rumore durato più giorni,
una parte degli artefici ch’erano armati in sulla piazza piena di gente
andarono a casa del Capitano del popolo, e tolto il pennone tornarono
in piazza gridando «Viva il Popolo e le Arti:» ma gli altri, corsi loro
addosso, fecero ad essi gridare «Viva il Popolo e Parte guelfa;» al
che negandosi due di quelli, furono morti; e nella piazza più non s’udì
altro che una voce. I Priori per la meglio avevano dato l’insegna dei
Guelfi e quella del Popolo a due molto cari ed autorevoli cittadini,
Donato Acciaioli e Rinaldo Gianfigliazzi, i quali non erano interamente
di parte loro, ma si tenevano di mezzo e non volevano ricadere nelle
Arti minute. Allora di queste andarono molti a Vieri de’ Medici, che
rimaneva con un Michele de’ parenti di Salvestro; volevano togliesse
l’insegna del Popolo, che tutti sarebbero andati con lui, dicendo
che meglio d’ogni altro cittadino la doveano aver loro due: ma benchè
molti si adoprassero a questo effetto, ed in più modi, ricusò Vieri
e stette a casa, o fosse in lui poca ambizione o bontà o prudenza.
Ma fu tenuto che se i Medici avessero allora voluto essere cogli
artefici, molti scoprendosi che non si ardivano, era gran pericolo che
la città non rimanesse _sotto le branche di quella famiglia_: parole
quasi divinatrici in bocca di tale il quale non vidde dipoi quelle
branche davvero stringere la Repubblica.[78] Così finivano i due mesi
memorabili del gonfalonierato di Maso degli Albizi; e pe’ due che furon
ultimi dell’anno 1393 veniva tratto gonfaloniere, o piuttosto scelto,
Niccolò da Uzzano, grande cittadino, il quale vedremo per molti anni
insieme con Maso governare quello Stato che a senno di pochi reggeva
dipoi, non senza gloria, la Repubblica.
Rimanevano da umiliare o da percotere due soli, Donato Acciaioli e
Rinaldo Gianfigliazzi, che da principio diedero mano a quello Stato,
ma pure voleano governo più largo, e a quella setta non aderivano la
quale infine era venuta ad occuparlo. Il Gianfigliazzi, perchè era
uomo che si contentava tenersi di mezzo, avea promesso ad un Alberti
una sua figlia; del che adombrandosi quei dello Stato, gli Otto di
guardia gli comandarono con gravi minaccie disfacesse il parentado,
ed egli ubbidiva: ma la fanciulla amava il giovane ed altri non
volle: talchè abbassato messer Rinaldo ch’ebbe gran biasimo della
rotta fede, ed egli essendo poi negli uffici anche adoperato da chi
reggeva, diedero questi consentimento che il matrimonio si facesse.
Ma di altra tempra e di ben altra autorità era Donato Acciaioli, il
più eminente cittadino che avesse Firenze sì per la famiglia che
il gran Siniscalco aveva levata sopra alle private condizioni, e
sì per il grado che tenea Donato nella Repubblica, dove le maggiori
ambascerie o commissariati ed i negozi di più rilievo a lui venivano
confidati; l’acquisto d’Arezzo teneano che fosse opera sua. Franco ne’
consigli, severo ed anche aspro talvolta riprenditore, non temeva egli
l’egualità perchè sicuro in sè medesimo, che tra gli eguali sarebbe
primo: i suoi contrari invidiosamente lui chiamavano duca e principe.
Nei primi tempi si teneva egli non alieno dallo Stato, e fu anche nel
1395 Gonfaloniere, e andò a Milano ambasciatore. Ma sul principio
del 96 veduta la setta vie più ristringersi con la esclusione dei
meno amici o confidenti, e accadendo quella volta essere tratta una
Signoria dov’erano tali cui l’Acciaioli credeva potersi fidare, a lui
parve essere momento da riformare lo Stato ampliando le borse con la
restituzione di coloro che n’erano stati di recente tolti via, sebbene
fossero meritevoli. Si apriva di questo con taluni de’ Priori e con
un figlio del Gonfaloniere di casa Ricoveri; ma quelli risposero, come
spauriti, non essere cose le quali fossero da toccare; e il giovine al
padre riferì il tutto. Al Gonfaloniere e agli altri parve che il caso
volesse rimedio, ed ai capi della setta parve da cogliere l’occasione.
Fu eletta una pratica di Dodici cittadini, ed uno era (consueta astuzia
in questi casi) Donato stesso; il quale chiamato con gli altri in
Palagio, vi andò; ma tutti presente lui si riguardavano come da uomo
di già sospetto, e uno disse apertamente che il male era dentro e che
doveasi prima tôrre. Fu quindi rinchiuso nella camera del Frate, e
gli altri andavano e venivano, e chi in un modo e chi nell’altro lo
consigliavano; amici falsi lui stringevano a confessare la colpa. Qui
varie e dubbie relazioni lasciano incertezze intorno a quel fatto,
e non mancò chi la disse guerra incontro mossagli per invidia.[79]
Donato istesso, in una lettera che dipoi scrisse alla Signoria, non
bene si vede se non potesse dei fatti suoi dire ogni cosa, o non
volesse troppo allargarsi nell’accusare i potenti che l’oppressero,
o quei più bassi che lo tradirono: forse irritato e messo al punto,
aveva egli minacciato venire alle armi; forse i paurosi a lui devoti e
i più avventati gli consigliavano di munirsi, e intanto andavano per
città spargendo voci di sedizione. Tra’ suoi contrari, i più feroci
voleano fosse dannato a morte; e vi ha chi dice avere egli scampato la
vita col rendersi in colpa e domandare perdonanza in ginocchioni senza
cappuccio davanti a’ Signori. Ebbe egli invece confine a Barletta per
venti anni; e la Signoria scriveva pubbliche lettere al fratello di
lui Agnolo Acciaioli, ch’era Cardinale, escusandosi della necessità in
che era stata di dare bando al principale suo cittadino, per avere egli
cercato, e (quando in altro modo non si potesse) per via della forza,
mutare lo Stato e gli ordini della Repubblica. Con l’Acciaioli furono
condannati Alamanno di Salvestro ed altri dei Medici, ed artefici di
minor conto.[80]
Tra gli sbanditi erano molti rotti alle zuffe cittadinesche,
dall’esiglio inferociti, e pronti ad ogni temerità. La Lombardia n’era
piena, e molti spiavano in Bologna le occasioni; otto dei quali (v’era
un Adimari dei Cavicciuli, un Ricci, un Medici, un Girolami) chiamati
da uno dei Cavicciuli di dentro, dopo essere due dì stati occulti
in Firenze, uscirono insieme per uccidere Maso degli Albizzi, la cui
morte si credevano bastasse a mettere la città in arme. Avevano spie,
dalle quali udito che Maso era entrato da San Piero nella bottega d’uno
speziale, corsero quivi; ma non trovatolo, e per la via stessa tornando
indietro in Mercato Vecchio, uccisero due giovani figli di cittadini
a loro nemici; e ritrattisi di quivi pure, per la grande calca si
fermarono nella Loggia degli Adimari che aveva nome la Neghittosa,
gridando al popolo che gli attorniava: «Serrate le botteghe, e
seguitateci; chè non pagherete più prestanze e non avrete più guerra.»
Non bastò; ed essi ch’erano andati giù per la via de’ Servi, quando
ebbero avviso di gente armata che là muoveva, si rifuggirono in Santa
Maria del Fiore, quivi entrati per le tetta delle nuove costruzioni; e
là rinchiusi ed assediati, furono presi la sera, e tosto decapitati a
piè dei loro palagi stessi.
Qui ai tempi precorrendo per non dividere la materia, narreremo come
in appresso avendo un altro dei Cavicciuli rivelato avere saputo
da un altro dei Ricci d’una più vasta congiura che s’ordiva con gli
usciti, furono presi gli accusati, dai quali si seppe come dovessero
molti rientrare in Toscana segretamente e pel greto d’Arno invadere
la città; dove uccidendo i fanti che stavano a provvigione della
Repubblica, avriano comodo d’ammazzare i reggitori, ed a foggia loro
mutare lo Stato. Su di che essendo gli accusati presi, ebbero mozza
la testa, salvo uno cui fu perdonato alle lacrime del padre, onorato
cittadino che da Venezia corse a pregarne in ginocchioni la Signoria.
Dipoi uno degli Alberti che si tenea quieto, ma fu denunziato da un
monaco il quale diceva avergli tenuto mano, ebbe condanna ma non della
testa perch’egli negava, sebbene il monaco molto lo aggravasse. Allora
volendo a tali pratiche porre un termine, fecero balía di novanta
cittadini, quindi altra balía, per le quali ebbero bando sei degli
Alberti e sei dei Ricci e due dei Medici, tre degli Scali, due degli
Strozzi, Bindo Altoviti, un Adimari e molti di plebe: con essi anche
furono chiamati ribelli i Conti di Bagno e quei di Modigliana e gli
Ubertini, i quali s’erano un’altra volta levati contro alla Repubblica.
Dipoi furono messi a sedere tutti i Medici, tranne pochi, e tutti i
Ricci, e più Alberti confinati.[81] Ma contro a questa famiglia si
trovano pel corso di più anni estese o aggravate le condanne, poi fatte
comuni a quanti portassero quel nome, del quale nessuno infine poteva,
senza essere ucciso per taglia di mille o più fiorini, farsi trovare
dentro alle dugento miglia dalla città di Firenze; aggiungendo che
nessuno di questa famiglia il quale fosse in età di sedici anni o che
in avvenire a quella giugnesse, potesse in Firenze rimanere. Tutte le
case degli Alberti si vendessero, togliendo da quelle le armi della
famiglia, e la loro loggia fosse rasata a terra: chi togliesse donna
degli Alberti o in quella casa ponesse una figlia, pagasse di pena
mille fiorini d’oro: niun cittadino o suddito della Repubblica potesse
nel raggio di dugento miglia farsi loro socio di commercio o fattore;
e quando fosse, dovesse ritirarsi dentro a sei mesi. Continuava quella
persecuzione per tutta intera un’età d’uomo: quando poi furono morti
quei vecchi nei quali vivevano più fieri gli odii della parte loro,
e quando gli Alberti non più si temevano, vennero questi gradatamente
riabilitati.[82] Ora è da tornare ai fatti esterni della Repubblica.
Era morto sul principio del 1394 presso Firenze in Polverosa Giovanni
Aguto, molto onorato dalla Repubblica:[83] la quale vedeva i migliori
capitani tutti stare col Visconti, e fra tutti erano i più insigni
Alberico e Giovanni da Barbiano. Guerreggiava questi su quel di
Ferrara con Azzo da Este contro al marchese Niccolò, al quale avevano i
Fiorentini mandato soccorso d’oltre quattrocento lance; le quali unite
alle forze del signor di Faenza Astorre Manfredi, ponevano assedio
al castello di Barbiano, lungamente prolungandosi in quelle parti la
guerra. Da un’altra banda, alcune compagnie di fuorusciti Perugini
entrate in Toscana si erano messe intorno a Gargonza, e con l’appoggio
dei Senesi, molto infestavano Val di Chiana: in Pisa l’Appiano
fortificatosi con aiuti più o meno palesi di Giovan Galeazzo minacciava
Lucca, la quale si venne più a ristringere co’ Fiorentini. Per le quali
cose bene era guerra tra le due parti, ma perchè a Firenze giovava
stare sulle difese, ed al Visconti l’occulta guerra soleva fruttare
assai meglio della campeggiata, gli ambasciatori andavano e venivano
scambiando le accuse, ma senza cessare le professioni della amicizia;
tantochè infine si foggiò anche un simulacro di lega, con la solita
bugia d’opporsi alle bande dei venturieri, quasichè fossero essi soli
la cagione per cui la pace veniva turbata. Frattanto Giovan Galeazzo
s’era fatto duca di Milano, avendo comprato cotesto titolo per moneta
dall’abietto imperatore Vinceslao, che da principio aveva offerto ai
nemici del Visconti il poco valido suo aiuto.
La Repubblica, mentre onorava per ambasciatori il nuovo Duca nelle
magnificenze di Milano, più era sollecita a cercargli nimicizie;
frequenti andavano gli oratori nei vari Stati anche d’oltremonti,
e Coluccio Salutati scriveva lettere infiammate, sì che il Visconti
soleva dire che la penna di Coluccio era a lui peggio che una spada:
i mercanti fiorentini sparsi pel mondo attizzavano odii contro al
tiranno di Lombardia. Ma nell’Italia non erano forze bastanti ad
essergli contrappeso, e quindi Firenze dovette sè fare centro di ogni
cosa, usando le industrie e l’acutezze degli ingegni, e confortata
dall’antiveggenza di quei mancamenti che la gran possa del suo
nemico in sè medesima troverebbe.[84] In Puglia il giovane Ladislao,
figlio rimasto del re Carlo di Durazzo sotto la tutela di Margherita
sua madre, avea da combattere la sparsa guerra dei Baroni di parte
contraria; e i Fiorentini, ai quali premeva fortificare quel Regno,
a lui cercavano l’amicizia del Papa, levando via certi scandali e
salvatichezze ch’erano nate tra loro, e procurando il maritaggio
di Giovanna sorella di lui con Sigismondo novello re d’Ungheria,
perchè ricongiunte insieme le forze di quei due Regni, assicurassero
lo Stato di Napoli contro alla parte che favoriva gli Angiovini di
Provenza. Andarono a questo fine ambasciate a Roma, e a Gaeta dove
era Ladislao, o a Buda dell’Ungheria: dal Papa nemmeno ebbero il
soccorso che Bonifazio poteva dare, essendo gran parte delle terre
della Chiesa ribelli, da poi che gli stessi Fiorentini le avean
chiamate venti anni prima a libertà; e ora prestavano questi mano
contro al Papa ai Perugini, mentre che Roma tumultuando si governava
pei suoi Banderesi.[85] Cercato avrebbe Bonifazio a sè difesa contro
al Visconti da una lega che a lui sarebbe parsa potente abbastanza,
qualora Venezia in quella fosse intervenuta; e i Fiorentini in
questo mezzo a lui dispiacevano chiamando aiuti dai Re francesi che
mantenevano l’osservanza dello scismatico d’Avignone e lui studiavansi
di promuovere. La Repubblica inviava quell’anno 1396 ambasciatore a
Parigi Maso degli Albizzi, cui si aggiunse poco di poi Buonaccorso
Pitti; dopo lunghi negoziati a’ 29 settembre strinsero lega, che fu di
nome, col re Carlo VI alienato della mente: ma di Francia non veniva
pure un soldato,[86] ed i Fiorentini doveano scusarsi appresso al
Papa ed a Ladislao col dire che, aveano in tutto salvato le ragioni
loro nelle condizioni dell’accordo; e mandarono a Venezia Niccolò da
Uzzano perchè dichiarasse che nella lega con Francia non voleano fare
nè per l’Antipapa nè per il Duca d’Angiò, _nè contro alla libertà_
d’Italia.[87] Bene il Visconti opponeva ai Fiorentini _meglio essere
che gli Italiani si tengano Italia, che lasciarci pigliare piede ai
Francesi_;[88] ma egli frattanto cercava condurre il Re dei Romani ed
altri principi Alemanni contro a’ Francesi,[89] che nell’Italia di già
avevano messo piede per altra via; imperocchè Genova, cui tanto mare
ubbidiva ma che di sè stessa non bene tenne la padronanza, temendo
cadere un’altra volta sotto al Visconti, s’era data al Re di Francia.
Il Duca frattanto, il quale teneva in Toscana piede fermo a Siena ed
a Pisa, fatte oramai sue dipendenti, aveva mandato in quest’ultima
città i due Conti da Barbiano con cinquemila soldati ad infestare
i Lucchesi, i quali vivevano sotto Lazzaro Guinigi in amistà con la
Repubblica di Firenze; e questa avendo a soccorso loro inviato sue
genti e sprovveduto San Miniato, uno dei Mangiadori fuorusciti, di
furto entratovi, uccideva il Commissario fiorentino, ma era dal popolo
ricacciato;[90] e il conte Alberico scorreva da Siena fin sotto le
mura di Firenze a Pozzolatico ed a Signa, guastando il contado. Era
la guerra già denunziata, sebbene anche prima e fin dall’ottobre 1395
per un consiglio di Richiesti fosse fatta deliberazione di opporsi al
Visconti, e creati i Dieci di balía e condotto gente d’arme e chiesto
l’aiuto de’ Bolognesi e degli altri collegati di Romagna. Imperocchè il
nodo di tutta la guerra già era in Mantova assalita con grande sforzo
dal Duca, il quale da prima con gravi barconi ed artiglierie fatte
scendere giù per il Mincio, avea rotto i ponti ed i serragli della
fortezza; la quale tuttavia resistendo per la difesa delle lagune,
e i Fiorentini avendovi in più tempi mandato fino a millesettecento
lancie sotto Carlo Malatesta, mentre all’incontro molto ingrossavano
le genti del Duca, fu a Governolo grande battaglia e gran rotta dei
Ducheschi, ma scarso il frutto pei collegati, il Malatesti avendo
ricusato spingere innanzi la guerra. Venezia allora la prima volta
entrava in lega, ma con l’intendimento di farsi arbitra della pace,
siccome colei che fino a quel tempo, o nulla ambiva in terraferma, o
solamente la ruina dei Carraresi, intanto piacendole si logorassero le
due parti.[91] Aveva cercato che in lei facessero compromesso; al che
negandosi il Visconti, fu stretta la lega, con questo però, che da sè
soli i Veneziani potessero fare pace o tregua anche pei collegati, i
quali dovessero il fatto loro ratificare: imposero quindi nel maggio
del 1398, e innanzi d’averla con gli altri convenuta, una tregua per
dieci anni; tanta era in Italia già da quel tempo l’autorità della
Repubblica di Venezia.[92] In Pisa era morto Iacopo d’Appiano, avendo
sepolto pochi mesi prima il figlio Giovanni capace a reggere quello
Stato, il quale cadeva nell’altro suo figlio di nome Gherardo, uomo
da poco; e già il Visconti con la frode e con le armi aveva tentato
occupare le fortezze; laonde Gherardo, perchè alla casa degli Appiani
nessuna infamia mancasse, vendeva al Duca Pisa per duecento mila
fiorini d’oro, col riservarsi la signoria di Piombino, che indi
rimase nei discendenti di lui: indarno i miseri Pisani avevano offerto
pagare essi la moneta e riscattarsi a libertà. Peggio fece Siena, che
di proprio moto si diede al Duca in servitù; il che era già stato
deliberato fino dall’anno 1391, ma non ebbe esecuzione, sinchè ora
fu vinto nel Consiglio generale; le guerre avevano e le contenzioni
ridotta in miseria quella nobile città, diserto lo Stato e quasi
vuoto d’abitatori.[93] A quel tempo stesso Perugia e Assisi erano
venute sotto il dominio del Duca, invano il Papa ed i Fiorentini a ciò
essendosi contrapposti; Lazzaro Guinigi signore di Lucca era ucciso
a tradimento da un suo proprio fratello ad istigazione del Vicario in
Pisa del Duca, il quale dava indi mano a Paolo della famiglia stessa
che pigliò la signoria, e lunghi anni poi la tenne: il Conte di Poppi,
quello di Bagno, gli Ubertini si diedero al Duca; il Signor di Cortona
s’accordò con lui: guerra minuta di correrie da questi facevasi in
Casentino e nel Chianti; e gli sbanditi del 93, cui piaceva scaldarsi a
quel fuoco, lo attizzavano più che mai.[94] Allora una pace in Pavia fu
conchiusa dai Veneziani, a questa obbligando anche gli altri collegati
secondo il patto che aveano posto; del che i Fiorentini si dolsero
assai:[95] ma pace non fu, siccome tregua non era stata, e sempre i
danni continuavano. Anche la peste era venuta fieramente a percuotere
la città, da quella fuggendosi grande numero di cittadini; infuriò in
Roma nei mesi del giubbileo di quell’anno 1400, e dipoi corse tutta
Italia.
Qui è luogo a dire di quella devozione dei Bianchi penitenti, la quale
venuta d’oltr’Alpe, era entrata per Genova e Lucca in Toscana l’anno
precedente: Compagnie d’uomini e di donne, fanciulle e fanciulli,
coperti di panni lini bianchi, andavano a molte migliaia nove dì
processionando con l’insegna del Crocifisso innanzi; cantavano laudi,
chiamavano pace e misericordia, facevano rappacificare le genti tra
loro: sicure le andate anche nelle terre le quali soleano tenersi
nemiche: pareva proprio cosa di Dio. Venute in Firenze di tali
Compagnie da’ luoghi vicini, ebbero il vitto dalla Repubblica e molte
limosine: e quando forse quaranta mila dei Fiorentini vollero fare lo
stesso, provvidde la Signoria che oltre al Vescovo, il quale andava con
loro, avessero guide che gli ordinassero per contrade e regolassero
ogni cosa affinchè scandalo non nascesse; e a loro non permisero
dilungarsi molto fuori di città, dentro alla quale doveano ogni sera
tornare ad albergo. Usciva bensì con altri il Vescovo di Fiesole; ai
quali aggiugnendosi per la via molti del contado, si radunavano in
Figline venti mila persone o più; i quali andati fino ad Arezzo, di là
tornarono, dentro i nove dì: era due mesi continuata in Toscana quella
devozione.[96]
Nell’anno 1401 la Repubblica, via più sentendo intorno a sè crescere
i pericoli da ogni parte, dappoichè i Signori di Mantova[97] e di
Ferrara segretamente si erano accordati col Visconti, ed in Pistoia
i Cancellieri aveano cercato fare mutazione dello Stato, si volse al
nuovo Imperatore: questi era Roberto conte Palatino di Baviera, creato
nel luogo del deposto Vinceslao. E lui sapendo essere voglioso di
avere dal Papa confermazione del grado, mandatogli Buonaccorso Pitti
ambasciatore, praticarono affinchè scendesse contro al Visconti in
Italia, con la promessa di cento mila fiorini subito ed altri novanta
mila durante la guerra: prometteano anche un’altra egual somma in
prestanza; e Roberto confermava i privilegi alla Repubblica prima
concessi da Carlo IV, ma con maggiore ampiezza, e quella volta senza
trattare di censo. Scendeva egli dunque a Trento, e presso Brescia
avendo avuto piccolo scontro ed infelice con le milizie del Visconti,
perchè il Duca d’Austria e l’Arcivescovo di Colonia subitamente lo
abbandonarono, venne a Padova con poche genti, indi a Venezia. Qui
pretendeva il pagamento dei novanta mila fiorini che rimanevano;
alla fine, contentatosi d’averne sessantacinque mila (a lui recati da
Giovanni de’ Medici, ch’era mercante ricchissimo), tornò a Padova e ivi
si fermò, finchè veduto che altre genti non gli venivano nè danari, si
ricondusse in Alemagna: questo fine ebbe la discesa dell’imperatore
Roberto in Italia.[98] Ma già era prossima a cadere in mano del Duca
l’ultima e la maggiore amica dei Fiorentini, Bologna. L’anno innanzi
era divenuto di questa signore Giovanni Bentivoglio, avendo cacciata
la parte dei Gozzadini; il quale a malgrado le lusinghe del Visconti
s’era collegato ai Fiorentini, persuadendosi che appresso al popolo ne
acquisterebbe favore. E da principio gli tornò bene; ma non sì tosto
l’Imperatore ebbe sgombrato l’Italia, Giovan Galeazzo facea radunare
sotto Bologna il maggior nerbo delle forze sue con otto mila cavalli,
dov’erano molti dei più riputati italiani condottieri, e a capo di
tutti Alberico da Barbiano: guidava le genti fiorentine e bolognesi un
Bernardo delle Serre guascone, che i nostri familiarmente appellavano
Bernardone. Fu grande battaglia e memorabile per quei tempi presso
Bologna a Casalecchio, dove i collegati essendo rotti ed il Capitano
preso, i soldati vincitori e i fuorusciti con essi insieme si sparsero
nella città: quivi molta e sanguinosa fu la zuffa cittadina, infin
che ucciso il Bentivoglio, il Duca pigliava la signoria libera di
Bologna, contro al volere dei fuorusciti ai quali aveva altro promesso.
Dei commissari fiorentini che erano al campo, uno per ferite moriva;
l’altro, Niccolò da Uzzano, prigione del Duca fu quindi a spese della
Repubblica riscattato per cinque mila fiorini.
Prima d’allora non mai Firenze si vidde condotta in pericolo così
vicino: lo Stato è vero non era tocco, ma da ogni parte chiuse le
vie alle amicizie ed ai commerci, le città suddite minacciavano fare
sommossa; il contado stracco per le gravezze, e nel Mugello i contadini
davano mano a quei dell’Alpe, dove gli Ubaldini nemmeno allora affatto
spenti, anch’essi levavano la cresta insieme a quanti fossero male
contenti della Repubblica; le ricolte tutte fuori senza difesa pei
campi, e nella città non era roba per due mesi: temevasi anche di quei
di dentro, e due mila Ciompi dai Dieci furono assoldati, più per trarli
fuori che per fiducia che in loro avessero, e mandati a guernire le
castella.[99] In su quei primi non fu la guerra con vigore proseguita
da quei del Duca, e rimediossi pure in qualche modo; ma credeva egli
di affamare la città e così averla a discrezione: si diceva ch’egli
volesse in Firenze farsi coronare re d’Italia. Quand’ecco di subito
mutare le sorti per un evento cui la sagacità di lui non fu capace a
provvedere. Giovan Galeazzo fuggendo la peste, ne fu colto in Marignano
dove morì a’ 3 di settembre 1402, quando era signore del più grande
Stato che fino ai dì nostri fosse in Italia. Fu egli però oltre al
dovere magnificato, siccome colui che tutti vinceva nelle arti comuni,
ma da quelle non si discostava, più atto ad usare le forze altrui che
a farsi padrone degli animi, senza virtù di soldato nè armi proprie
e paesane, uomo da pigliarsi a brani l’Italia ma non da tenerla nè
insieme comporla: regolato nell’amministrazione quanto magnifico nelle
opere, lasciava di sè due molto splendidi monumenti, il Duomo di Milano
e la Certosa presso Pavia.[100]


CAPITOLO IV.
ACQUISTO DI PISA. [AN. 1402-1406.]

Per il testamento di Giovan Galeazzo andava lo Stato diviso tra
due figli, dei quali il primogenito Giovanni Maria, ch’era in età
di tredici anni, ebbe il Ducato di Milano con le città poste tra
’l Mincio e il Ticino, e inoltre Piacenza, Parma, Bologna, Siena,
Assisi, Perugia. Pavia rimaneva come sede e come titolo al secondo
nato Filippo Maria, con quelle città le quali stanno ai due fianchi
della Lombardia verso il Piemonte e la Venezia. Un terzo figlio,
ma non legittimo, Gabriele Maria ebbe Pisa in successione, e Crema,
la quale il Duca potesse riscattare per moneta. Sebbene usanza del
Visconti fosse dividere le città considerandole nella successione come
tanti patrimoni ciascuna per sè, provvidde Giovan Galeazzo a mantenere
quanto per lui si potesse unito lo Stato, avendo anche fatto che i
due minori fratelli tenessero in feudo le città loro siccome parte del
Ducato di Milano. Ma era lo Stato senza armi proprie, i popoli stanchi
dalle gravezze; nelle città, le antiche parti risuscitavano, mosse dai
nobili che in ciascuna erano soliti dominare, e che ora oppressi dai
Visconti mettevano innanzi il nome guelfo: così aveano levato il capo
i Rossi a Parma, i Fogliani a Reggio, ed a Bergamo i Suardi, i Benzoni
a Crema, gli Scotti a Piacenza; Ugolino dei Cavalcabò, rioccupando
la signoria di Cremona e avuto rinforzo d’armi fiorentine, pigliava
Lodi, di là scorrendo fin sotto alle mura di Milano; intanto che i
Rusca ed il popolo con essi muovevano Como a feroce ribellione, che
le armi vennero ad estinguere. Ciascuna città faceva per sè, ma in
sè divisa: sul capo a tutte stava un’altra forza dispersa, vagante,
divisa anch’essa ma sola valida, i condottieri delle armi mercenarie,
i quali levati da Giovan Galeazzo a grande stato, perdevano ora la
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