Storia della Repubblica di Firenze v. 2/3 - 08

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sicurezza delle paghe e la fiducia delle imprese; mandati essi a
comprimere le ribellioni, di queste facevano il loro pro: ed in tale
modo ebbe occupata Facino Cane la signoria d’Alessandria; ed Ottobuon
Terzo prima facendo coi Rossi a mezzo, poscia ingannandoli, riduceva
Parma tutta a sua propria devozione: Brescia, dopo essersi prima data
al Carrarese, venne alle mani di Pandolfo Malatesta. I Fiorentini
ch’erano giunti per molte lunghezze a stringere lega col Papa nei
giorni quando morì Giovan Galeazzo, continuavano guerra stracca intorno
a Perugia e intorno a Siena ed in Romagna. Aveano condotto Alberico da
Barbiano, al quale si univa con le genti pontificie il troppo famoso
cardinale Baldassarre Cossa; e insieme avendo portata la guerra fin
sulle rive del Po, ecco giugnere a Firenze la mala novella che il
Cardinale si era accordato coi Visconti, avutone in prezzo l’abbandono
di Bologna, che subito venne a lui dal popolo consegnata: Perugia ed
Assisi tornarono anch’esse alla devozione del Pontefice. Aveano cercato
i Fiorentini che Bonifazio non ratificasse quell’accordo; indugiò il
Papa, e quindi offerse di rintegrare la prima lega e l’amicizia con la
Repubblica.[101] La quale intanto pigliava vendetta di quei signorotti
che a lei si erano ribellati, ampliando il dominio con la distruzione
dei Conti di Bagno, e avendo acquistato da quel lato degli Appennini
anche Castrocaro, e nelle Maremme Castiglione della Pescaia, importante
sito da stare a guardia contro a’ Senesi. Nè questi mantennero al nuovo
Duca la soggezione, ma raccostando il governo agli ordini popolari, ed
avendo richiamato i fuorusciti, fecero pace (sebbene ciò fosse a mala
voglia) co’ Fiorentini.[102] E in questo mezzo Francesco da Carrara,
uscito di Padova occupava con le armi Verona, dicendo tenerla per conto
d’un ultimo bastardo di casa Scaligera; ma questi però da indi a poco
venne a morte, non senza infamia del Carrarese; contro del quale i
Veneziani movendo allora una grande guerra, ebbero infine Padova e lui
a discrezione, e per iniqua ragione di Stato avendo nel carcere ucciso
Francesco e due suoi figli, a sè aprirono così la strada alle conquiste
ed alle guerre in terraferma. Pareva frattanto la signoria dei Visconti
al tutto disfarsi per interne commozioni mosse dai nobili malcontenti;
quindi in Milano lunga sequela di fatti atrocissimi, i quali mi piace
non avere obbligo di narrare; e infine la vedova Duchessa, reggente pe’
figli, chiusa in castello e messa a morte: era essa nata di Bernabò,
e dopo regnato diciassette anni con l’uccisore del padre suo, venne al
fine stesso.[103]
Nel mese di novembre 1403 giungeva in Pisa il nuovo signore Gabriele
Maria Visconti, e seco la madre Agnese Mantegazza. Cominciò male,
essendo accolto con poca festa nella città, la quale era esausta
dalle guerre precedenti, nè poteva egli trarne danaro a volontà sua;
cosicchè in capo a pochi giorni fatti pigliare alcuni cittadini più
facoltosi sotto colore che a lui volessero tôrre la città, ad un
Agliata e a due altri fece tagliare la testa, altri condannando in più
migliaia di fiorini, pena la vita se dentro un mese non gli avessero
messi fuori;[104] altri, dopo averli bene smunti, mandò a confine:
talchè i Pisani cercavano modo come liberarsi d’un tale signore, il
quale vedeano essere uomo di poco senno e poche forze nè da potere
avere aiuti di Lombardia. I Fiorentini teneano l’occhio a queste
cose; e da un uscito di Pisa avendo i Dieci di balìa avuto avviso come
agevolmente si potesse entrare in città per una porta murata, ma il
muro era debole e sottile, mandarono genti segretamente nel mese di
gennaio con isperanza di occupare la terra; se non che la trovarono ben
guardata e il popolo in arme, perchè il traditore si venne a pentire
e increbbegli della sua patria e disse ogni cosa; talchè per allora
falliva il disegno: ma bene pareva a Gabriele Maria stare troppo male
tra’ Pisani, che a morte l’odiavano, e i Fiorentini, contro ai quali
non bastava egli alla difesa di quel suo stato pericolante. Era in
Genova governatore pel Re di Francia il maresciallo Giovanni Le Maingre
detto Bouciquaut, e i nostri lo chiamavano Bucicaldo: ignoro se primo
a lui si volgesse Gabriele Maria per darsi a Francia in protezione, o
se il Francese molto ambizioso di più distendere le radici nel cuore
d’Italia avviasse pratiche a tal fine, eccitato anche dai Genovesi, i
quali temevano se Pisa cadesse in mano dei Fiorentini, averne perdita
pe’ commerci loro. Fatto è che il Visconti si rendè vassallo al Re
di Francia, cui doveva in segno d’omaggio presentare ogni anno un
destriere e un falcone pellegrino; ma quel che più era, gli diede
in possesso i castelli di Livorno, di gran momento dappoichè il mare
col discostarsi lasciava in secco il Porto antico dei Pisani. Mandava
pertanto Bucicaldo a Firenze intimazione di cessare ogni offesa contro
alla città di Pisa, la quale era divenuta cosa del Re. Di ciò si
turbarono molto gli animi dei Fiorentini; vedevansi tôrre Pisa di bocca
e venire addosso la potenza de’ Francesi. Quindi per allora chiamandosi
offesi, e pigliando tempo, mandarono a Genova ambasciatori a Bucicaldo;
mandarono in Francia a richiamarsene al Re stesso. Ma quegli frattanto,
vie più sdegnato per quel ricorso, facea sequestrare le robe in Genova
dei Fiorentini, per oltre a centomila fiorini d’oro, e ad essi vietava
usare il porto di Talamone perchè fossero costretti valersi di Genova o
d’altri scali in suo dominio. Vennero infine le mercanzie rese e tolto
il divieto; ma la Repubblica fu costretta fare tregua coi Pisani per
quattro anni, che a Firenze parve durissima condizione.[105]
Durava lo scisma nella Chiesa: in Avignone all’antipapa Clemente VII
era succeduto infino dall’anno 1394 uno spagnuolo, Pietro da Luna,
che prese nome di Benedetto XIII; e poichè le armi dei Francesi erano
entrate in Italia, ed in Genova il governatore gli mostrava una fede
da soldato,[106] si confidò Benedetto a vantaggiare la parte sua:
quindi spediva suoi Legati infino a Roma; dove accolti male, com’era da
credere, vennero chiusi nella fortezza di Castel Sant’Angelo. Intanto
moriva papa Bonifazio, e in mezzo alle gravi perturbazioni della città
di Roma gli fu eletto successore il cardinale Cosimo Migliorati col
nome d’Innocenzio VII, e con la promessa solenne di fare ogni cosa per
la cessazione dello scisma, fino a deporre la tiara i due contendenti,
se a tal fine s’accordassero. E Benedetto era venuto per Marsiglia
e Nizza infino a Genova, che Bucicaldo riceveva in ubbienza, a ciò
abbassandosi un Cardinale di casa Fieschi ed il Vescovo della città:
quindi usando la debolezza di Gabriele Maria, ottenne che in Pisa
questi comandasse il riconoscimento di Benedetto, il quale aveva fatto
anche disegno venirvi della persona sua; ma voleva le castella, egli
insieme e Bucicaldo avendo disegni, comunque vari e mal fermi, sulle
cose di Toscana. Ambiva questi che il Re suo acquistasse anche la
signoria di Pisa, incitato come sembra dal duca d’Orléans, il quale era
allora quasi che reggente del regno di Parigi, e forse cercava con la
Valentina, moglie sua, fare in Italia a sè uno stato. Ma Bucicaldo, non
credendosi avere forze a ciò sufficienti, e temendo per l’unione con la
ghibellina Pisa non venisse questa parte a farsi in Genova prevalente,
volgeva l’animo ad una qualche sorta di componimento con la Repubblica
di Firenze; al che spingevalo Benedetto nella speranza di trarre questa
a porsi sotto all’ubbidienza sua con l’esca di Pisa. Si aggiugneva che
Francesco da Carrara trovandosi allora a dure strette, molto avrebbono
i Genovesi e Bucicaldo avuto caro di procacciargli soccorso; e questo
voleano fosse un altro prezzo da imporre alla cupidità della Repubblica
di Firenze. Ondeggiava Bucicaldo variamente in questi pensieri,
temendo l’odiosità dell’opprimere una città ed un signore che a lui
erano confidati; dal che odio gli verrebbe nella Corte di Parigi da
quella parte la quale stava contro all’Orléans ed a lui. I Fiorentini,
tra ’l Re di Francia e il duca d’Orléans e Bucicaldo ed i Pisani e
Gabbriello e Benedetto, cercavano fare segretamente i fatti loro, o
almanco svilupparsi dell’impedimento della tregua che a forza avevano
consentito.[107]
La prima apertura del pensiero che Bucicaldo e Benedetto avrebbono
avuto della vendita di Pisa venne in Firenze per una lettera che
Buonaccorso degli Alderotti mercante in Genova scriveva privatamente
a Gino Capponi correndo il giugno 1405. La quale essendo subito
comunicata da questo ai Signori ed a pochissimi cittadini, fu preso
partito che Gino andasse a Genova come per altre faccende, e lì
vedesse qual fondamento avesse la cosa. Andava Gino, e fu a discorso
con l’Alderotti, poi con Bucicaldo, il quale chiedeva dapprima
quattrocentomila fiorini d’oro, che la metà fosse spesa nel soccorrere
a Francesco da Carrara; chiedeva inoltre che la Repubblica ubbidisse
a Benedetto; e interrogato da Gino qual modo terrebbe per avere Pisa
e quindi poterne fare cessione, disse l’avrebbe prestamente nelle mani
col favore del suo Papa. Rimasero, cercasse quegli di avere Pisa e poi
del resto si aggiusterebbero: con queste parole tornò a Firenze Gino
Capponi. Nel tempo stesso parendo a Gabriele Maria d’essere appiccato
con la cera nella signoria di Pisa, mandò a dire a Maso degli Albizzi
che avrebbe con lui voluto parlare segretamente; per il che Maso andato
un giorno come a diporto alla sua villa di Montefalcone, si condusse
con apparenza di pesca per Arno infino a Vico Pisano; dove abboccatosi
col Visconti non vennero a nulla, perchè Maso metteva innanzi discorsi
di vendita, e quegli di lega che lo rinforzasse nello Stato.[108]
Ma non così tosto il popolo di Pisa ebbe sentore di queste cose, bene
accorgendosi che il fine sarebbe cadere per ogni modo in servitù,
si levò in arme ai 21 luglio sotto la condotta di un Ranieri Zacci e
venne in piazza, dove ebbe lunga battaglia con le genti del Signore, le
quali infine si dovettono ritrarre in cittadella, quivi assediate dal
popolo e chiuse con fossi e steccati; intantochè altre uscite fuori ed
accogliendosi in Ripafratta, di là correvano il contado ed infestavano
la città con isperanza di racquistarla. Gabriele Maria si era condotto
in Sarzana, città sua; e la madre andata in Genova a trattare per la
cessione col Maresciallo, e di là tornata in cittadella, qui venne
a morte d’una caduta. Cotesto levarsi del popolo aveva storpiato
i disegni dei Fiorentini e di Bucicaldo, il quale metteva nella
cittadella un centinaio di genti d’arme francesi prima che i Pisani
chiudessero il fosso, e cercò pure mandare in Pisa altri soldati e
vettovaglie e fornimenti sopra una nave che dai Pisani fu combattuta
in foce d’Arno e presa, e le genti francesi rotte, e fatto prigione
un nipote dello stesso Maresciallo. Del che pigliava egli grande
sdegno, e si rendè facile prima agli accordi con Gino in Livorno,
indi alla finale conclusione con Gabriele Maria in Sarzana, dov’erano
andati da Firenze altri ambasciatori, e due Genovesi pure intervennero
commissari. Il domestico scrittore delle memorie di Bouciquaut molto
si adira co’ Pisani per la ribellione che aveano fatta contro al
legittimo Signore loro, che gli trattava, secondo lui, amorosamente;
notando com’era vizio delle genti d’Italia mutare spesso signoria; e
dice essere dal tradimento loro, quando rubata la nave a lui presero
il nipote, stato condotto il Maresciallo a fare la vendita. Della quale
ben si vede come avesse grande bisogno egli di scusarsi per l’odiosità
del fatto, e dissimula i discorsi che n’erano prima stati tenuti, e
vuole poi dare ad intendere come nel trattato fossero clausule per
le quali veniva la stessa Repubblica di Firenze a mettersi sotto la
protezione dei Re francesi. Il che non era nè poteva essere com’egli
vanta; ma io credo gli scrittori fiorentini nemmeno dicessero ogni
cosa di quel fatto. Ebbero questi la cittadella e le altre fortezze,
pagando dugentomila fiorini a Gabriele Maria Visconti che riteneva
Sarzana, ed a Bucicaldo rimaneva in possessione Livorno: promettevano
poi di soccorrere Padova; e fu la ruina ultima del Carrarese questa
fiducia che lo rattenne dal fare accordo co’ Veneziani: alcune cose
anche promisero intorno a papa Benedetto. A’ 31 agosto 1405 pigliava
Gino la tenuta della cittadella per carta segnata da un commissario di
Bucicaldo.[109]
Le più sostanziali differenze tra ’l racconto di Bucicaldo e quello
di Gino, consistono in ciò: che il Maresciallo dopo avere esposto
come avesse egli molto esortato i Pisani perchè tornassero in fede
al legittimo Signore loro, aggiugne questi essersi dati al Re di
Francia direttamente come avean fatto i Genovesi, ed egli essere alla
perfine nè senza molta esitazione condisceso ai desiderii loro, a
ciò consentendo Gabriele Maria con promissione di altri compensi dal
Re di Francia: il Maresciallo essere andato a ricevere in Livorno la
sommissione dei Pisani, e questi avere con insigne tradimento ucciso
sue genti, delle quali poche si condussero nella fortezza di Pisa;
e quindi assalita in foce d’Arno la nave con tutte le robe che il
Maresciallo avea spedite per fare in Pisa l’entrata sua. Continua
mostrando la perfidia dei Pisani, i quali trattavano tuttavia sempre
darsi al Re; e al tempo stesso ai Fiorentini ed ai Genovesi proponevano
di unirsi tutti contro a’ Francesi, ed uccidere quanti ve n’era in
Pisa e in Genova e in Livorno. Dopo di che avendo Gabriele Maria
fatto l’accordo co’ Fiorentini, al quale voleva che il Maresciallo
consentisse, questo lo comunicava tosto ai Pisani, e intimava loro si
dessero a lui dentro due giorni, se non volevano andare in mano de’
Fiorentini. Negarono essi, ed il Maresciallo patteggiò allora con gli
inviati dalla Repubblica di Firenze: avesse questa la Signoria di Pisa
facendone omaggio al Re di Francia, dichiarandosi uomini ligi della
Corona; rimanesse Livorno in piena signoria del Re; ubbidissero i
Fiorentini a Benedetto, promettendo sotto certe condizioni combattere
anche il Papa di Roma, se dentro sei mesi non fosse accordo tra i
contendenti. Il quale trattato ebbe ratificazione solenne dal Re,
ma eseguito non fu mai, perchè i Pisani con le armi si opposero, e
la Repubblica di Firenze dopo la perdita della cittadella si tenne
sciolta: il che afferma Gino espressamente, ed il Maresciallo non
contradice, nè muove accuse alla Repubblica fiorentina di fede mancata:
tace bensì affatto la ripresa della cittadella che aveano fatta i
Pisani, come tace i negoziati avuti in principio per la vendita a’
Fiorentini, e per l’aiuto a Francesco da Carrara; delle quali cose ben
poteano essere stati discorsi più o meno espressi, ma pur vi furono. I
Fiorentini dal canto loro credo tacessero le parole corse circa a una
sorta di vassallaggio verso il Re di Francia per la signoria di Pisa;
e in quanto risguarda alle cose dello scisma, Gino confessa «certa
intenzione di dare la ubbidienza a papa Benedetto; il che e come non
bisogna qui altrimenti specificare, perchè poi si perdè la cittadella e
vennero a variare i tempi.»
Sei giorni dopo aveva il popolo dei Pisani racquistata la cittadella,
che per essere abbastanza forte di mura e di torri e per la guardia
che v’era dentro, non fosse stata trascurataggine dei capitani, poteva
reggere all’assalto di genti d’arme pratiche e valenti, non che d’un
popolo.[110] Ma forzata appena certa postierla in sito debole, i Pisani
con le scale su per le mura tumultuariamente v’entrarono dentro, e
tutta l’arsero e guastarono, eccetto le torri le quali poteano fare
custodia alla città. In Firenze, come giunse la novella, fu grande
sgomento; ai cittadini pareva fosse ad un tratto caduto un velo sugli
occhi; guardavansi muti, a ognuno pareva tutta sua propria la sciagura,
tanta era la passione d’aver Pisa. Un Raffacani, che avea la guardia
della cittadella, ebbe gastigo; Andrea Vettori, che fuori di Pisa
teneva il campo ma non potè giugnere a tempo, fu assoluto.[111] Una
troppo baldanzosa ambasceria de’ Pisani venuta a Firenze raccendeva
gli animi, e quindi con frettolosi provvedimenti s’attese alla guerra.
In Pisa, da che fu morto Piero de’ Gambacorti, dominava la parte
contraria, detta dei Raspanti; di buono animo richiamarono un Giovanni
Gambacorti co’ Bergolini; le due parti fecero insieme gran sacramento,
baciaronsi in bocca; ma durò poco. Giovanni tolse in pochi giorni
la signoria per sè e pe’ suoi, uccisi i capi dei Raspanti; un Piero
Gaetani di quella setta, il quale avea Laiatico ed altre castella,
cedeva queste per danari alla Repubblica di Firenze, della quale
divenne soldato, nè restava dal fare ai Pisani danni in Val d’Era e
nelle colline. Al Gambacorti aveva dato presso taluni favore l’essere
quella casa in amicizia coi Fiorentini, dai quali speravano più agevole
componimento: a tale effetto il Gambacorti scriveva lettere in Firenze
chiedendo salvocondotto per gli oratori di Pisa, i quali aveano da
trattare di certe cose: fugli risposto specificasse le condizioni;
e nulla si fece perchè la Repubblica teneva già Pisa come cosa
legittimamente sua, poichè l’avevano comperata, e sempre poneva nelle
soprascritte: «Al Capitano e Anziani della nostra città di Pisa.[112]»
Era cresciuta la Repubblica di Firenze francando gli uomini attorno
a sè da ogni legame di vassallaggio; ora ammetteva che un signore
vendesse un popolo, e di tal mercato faceasi titolo alla possessione
di città libera e gloriosa: cotesto titolo ai Pisani non parve buono e
resisterono.
Quindi attendevano a fare genti; ma pure temendo soli non reggere
quella guerra, mandarono chetamente sopra una loro galea quattro
ambasciatori al re Ladislao, chiedendo pigliasse la città loro in
protezione; e sulla galea erano molte robe di grande valuta, che i
cittadini di Pisa metteano in Napoli a salvamento:[113] ma il Re aveva
fatto promessa ai Fiorentini di non impacciarsi nelle cose di Toscana,
e che essi lui non impedissero de’ fatti di Roma, nei quali aveva
grandi disegni, che in altro luogo dovremo esporre. Così andò a vuoto
quella speranza: e pure falliva quella che i Pisani avevano posta in
Agnolo della Pergola soldato da essi, e dovea menare seicento cavalli;
ma i Fiorentini co’ danari fecero tanto, che Lodovico Migliorati nipote
del Papa, il quale si trovava nelle terre di Siena, quivi assalisse
alla sprovveduta quelli che si erano fatti innanzi; ai quali rubando
armi e cavalli gli lasciò andare, egli pago della preda, e i Fiorentini
d’avere tolto a’ Pisani quel soccorso. Un altro menavane Gaspare
dei Pazzi, il quale veniva da Perugia con cent’ottanta lance, ma i
Fiorentini avutone spia mandarono buon polso di genti in Volterra sotto
la condotta di Sforza Attendolo da Cotignola, perchè al passare gli
sorprendesse; e questi avendoli côlti in Maremma vicino a Massa, gli
pose in rotta, cosicchè vennero in sua balía cinquecento dei cavalli
dei nemici; scamparono il Pazzi e l’Abate di san Paolo di Pisa ed il
Vescovo de’ Gambacorti, ch’erano insieme con quelle genti. Ma i Pisani
la difesa loro contavano stesse nell’aver tempo lungo a sostenere
l’assedio, perchè gli assalti poco temevano, la città essendo forte
di mura, e unito il popolo a non volere la signoria dei Fiorentini.
Premeva loro a questo effetto sopra ogni cosa il provvedersi di
vettovaglie, ed ebbero danno fra tutti gravissimo allora quando una
galera che aveano mandata a recarne di Sicilia, tornando carica, ed
avuta caccia dalle galere dei Fiorentini, sotto la torre di Vada fu
presa ed arsa, rendendo insigne la virtù di un Piero Maringhi, il
quale esule da Firenze e proponendosi col valore suo di racquistare
la patria, si gettò a noto così armato com’egli era, nè per ferite si
ritraeva finchè non la vidde in fiamme tutta: a lui fu tolto il bando,
e n’ebbe premi e lode. In questo mentre Peccioli ed altre terre di Val
d’Era vennero in mano dei Fiorentini, e la Verrucola fu espugnata per
subito assalto, e Vico Pisano cinto d’assedio che poi sostenne con
molte battaglie fin quasi al fine di quella guerra. Nelle Maremme i
conti Gherardesca di Montescudaio, ed in Lunigiana alcuni dei Malaspina
si erano dati alla Repubblica di Firenze; la quale teneva pure in
tutela il giovane figlio del morto Signore di Piombino, avendo mandato
Filippo Magalotti a governare quello Stato e l’isola dell’Elba che ne
dipendeva.
A mezzo il gennaio, che per noi si conta 1406, furono creati nuovi
Dieci di balía, tra’ quali erano dei più eminenti cittadini di Firenze.
Maso degli Albizzi e Gino Capponi andarono al campo, dov’erano a
soldo mille cinquecento lance (cavalli quattromila cinquecento) e
mille trecento fanti e balestrieri genovesi, e marrajoli e palajoli
in grande numero, e mulattieri e buoi per trascinare legname, e
maestri d’ogni ragione. Fu prima cura dei Commissari assicurare le
vettovaglie a sè, togliendole ai Pisani: male s’era provveduto infino
allora, e si credettero quasi costretti a levare di là l’esercito
per il mancamento della panatica, non ostante che molto danaro fosse
andato per le incette; ma nulla poi vi si trovò. Laonde senz’altro
e con migliore partito mandarono voce per la riviera e per le terre
circostanti, essere il campo del Comune di Firenze sotto alle mura
di Pisa, al quale ciascuno che mandasse roba fosse sicuro e libero,
e potesse quella vendere come a lui pareva e piaceva senza decima o
gabella. A questo modo abbondò il pane, del quale fu in pochi giorni
grandissima la dovizia. Si aggiungevano le prede che ogni giorno
facevano le galere dai Fiorentini soldate a Genova ed in Provenza:
tenevan essi ben guardate le foci dell’Arno con grosse bombarde su per
il filo dell’acqua; cosicchè di ventidue navi le quali andavano cariche
a Pisa, non poche furono prese e le altre si dispersero qua e là, i
padroni essendosi partiti con le loro fuste, cosicchè a Pisa nulla ne
venne. I Fiorentini aveano posto il campo sotto a San Piero in Grado,
e prima cercarono se qualche modo vi fosse di abbarrare l’Arno così
da impedire l’acqua che non iscorresse, il che era allagare la città
di Pisa; ma per consiglio degli ingegneri, a’ quali parve la riuscita
essere incerta e la spesa troppa, abbandonarono quel pensiero. Aveano
sull’Arno due forti bastìe legate da un ponte, il quale prima d’essere
ultimato, da una grossa piena venuta nel maggio fu portato via. Al che
i Pisani essendo accorsi popolarmente con grande furia, diedero assalto
alla bastìa ch’era della parte loro e nemmeno essa bene armata. Nè a
soccorrerla era modo, il fiume correndo grosso e precipitoso per la
piena, se lo Sforza, egli della persona sua con memorabile ardimento
(ed uno simile gli dovea più tardi costare la vita) non si gettava nel
fiume con due soli famigliari su piccola barca, e riscaldando la pugna
e poi da altri seguito, non avesse dato grande terrore ai Pisani. Nè
però cessava la battaglia fino alle mura di Pisa, in cima alle quali
saliva parte degli aggressori: ed uno sbandito di Firenze, il quale
serviva pure nel campo, scalava tra’ primi le mura; e lì azzuffandosi
con uno di quelli di dentro e insieme abbracciatisi, poichè dibattuti
si furono assai, amendue caddero a terra dalla parte di dentro: ma più
infelice egli del Maringhi, cadeva morto col suo nemico. Allora essendo
Maso e Gino tornati in Firenze, nel campo erano Matteo dei Castellani,
Vieri Guadagni, Niccolò Davanzati, e Iacopo Gianfigliazzi: Iacopo
Salviati guidava le genti le quali attendevano ad impedire che in Pisa
non entrasse roba, massimamente di verso Lucca, dove il signore, Paolo
Guinigi, poco aggradiva che i Fiorentini tanto ingrossassero a’ suoi
fianchi.[114] Avvenne dipoi che tra lo Sforza ed il Tartaglia, primi e
più insigni tra’ condottieri, nascesse dissidio, tale che a Firenze non
credeano i cittadini potersi comporre, temendo che uno dei due, secondo
la fede usata dei soldati di ventura, mutasse a un tratto bandiera
e soldo. Fu mandato Gino, amicissimo ad ambedue; il quale partito di
Firenze la mattina dei 21 giugno di buon’ora, si condusse in campo la
sera stessa; e nel giorno dopo composte le cose, venne all’offerta di
San Giovanni ai 23, che è la vigilia del dì solenne. Udito l’accordo e
in quale modo s’era fatto, ciascuno andò con gran piacere all’offerta,
credendosi aver Pisa nelle mani. Il modo fu questo; che lo Sforza,
disgiunto dall’altro, ponesse il campo di qua da Pisa in sulla riva
destra dell’Arno, dando mano a quelle genti le quali erano sotto
a Vico, e meglio stringendo così la città, contro alla quale stava
un’altra brigata di genti in sulla riva sinistra; e i due campi erano
congiunti da un ponte di legname in sulle barche, venendo così la città
ad essere chiusa d’ogni parte, e impedito che v’entrasse nè roba nè
gente.
Al Gambacorti parendo avere perduta ogni speranza di soccorso per
terra o per mare, e solamente essere ridotto in sulla fede del suo
popolo e in sulla fortezza delle mura, cominciò a volere scemare nella
città le bocche inutili della gente non atta alla guardia, perchè la
vivanda alle braccia utili più bastasse, e più si venisse a prolungare
la guerra sì che a Firenze ne increscesse. Ma i Commissari ordinarono
per pubblici bandi, che qualunque uscendo di Pisa venisse nelle forze
degli assediatori fosse impiccato: si contentavano da principio di fare
scorciare i panni alle donne, e suggellate con la bolla del giglio in
sulle gote, per forza farle tornare in Pisa. Dipoi non giovando questo,
s’aggiunse fare tagliare loro il naso, ed appiccare qualche uomo in
luogo che quelli della città lo potessono vedere.[115] «Molti (uomini
e femmine e fanciulli), perocchè quelli di dentro non gli volevano
lasciare dentro tornare, si stavano allato alle mura, ed erano morti;
e le femmine che uscivano erano ancora dentro ripinte, suggellate
nella testa con ferri affocati; e gridando e chiamando misericordia
non erano intesi, nè voluti nè dentro nè di fuori; e così standosi tra
le mura della città e il campo, mangiavano delle erbe come le bestie,
e moriano di fame:[116]» crudeli opere e nefande; ma così tra loro
si odiavano i popoli. Mentre attendevano i Pisani a consumare quello
ch’era dentro, il Gambacorti scese a pensare a’ suoi vantaggi. Prima
erano venuti due de’ Gambacorti a trattare con Matteo dei Castellani,
ch’era nel campo; dipoi veniva ai Commissari un Gasparre da Lavaiano,
col quale accozzatisi più volte, erano quasi che rimasti d’accordo
dei patti, quando una sera dal campo viddero in Pisa fare gran festa
e falò, tantochè dubitarono che vi fosse entrata gente: poi fatto
giorno vidersi le insegne del Duca di Borgogna poste in sulle torri di
Pisa, e l’arme sua dipinta alle porte; ed un araldo venne nel campo a
notificare come Pisa era del Duca, ed a comandare che ciascuno dovesse
partirsi. Il quale araldo fu con le mani legate gettato in Arno; ma
o non lo avessero legato bene o ch’egli co’ piedi sapesse notare,
il poveretto scampò, e andato a compiere l’ufficio suo in Firenze e
a dolersi dell’ingiuria, fu mandato via. A Bucicaldo aveano scritto
di Francia rompesse co’ Fiorentini, ed operasse con la forza perchè
l’assedio fosse tolto. Ma quegli rispose che ciò non potrebbe senza
disonore di spergiuro, e che inoltre la potenza dei Fiorentini era
tale che ci vorrebbe assai grande numero di genti d’arme, e pecunia
molta; delle quali cose difettava. Così all’infuori di lettere e di
messi, dei quali in Firenze non tennero conto, altro non fu: e Gino
Capponi scrive, che dubitando il Maresciallo non gli venisse ordine di
levare dal soldo dei Fiorentini quanti erano uomini a lui sottoposti,
avvisò fossero questi ricondotti con giuramento di non partirsi
per comandamento che ne avessero; il che si fece tosto per pubblico
consentimento del Maresciallo: ma questi afferma che dei Francesi molti
si partirono per non cadere nella disgrazia del Duca e dei signori di
quella Corte. Dichiara inoltre, che il Re avendo rotto l’accordo fatto
prima coi Fiorentini, erano questi verso lui disciolti da qualunque
obbligo o promessa. Gli ambasciatori mandati in Francia furono ivi
ritenuti, ma più mesi dopo senz’altro aggravio liberati.[117]
A questo modo era passata la cosa infino a mezzo settembre: allora
Giovanni Gambacorti essendo tornato al pensiero dell’accordo, mandava
nel campo un altro suo uomo, Bindo delle Brache, il quale di notte
segretamente era ammesso nella casa dove alloggiavano i Commissari
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