Fra Tommaso Campanella, Vol. 1 - 32
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i medesimi segnali, confermando che erano venute per la detta causa e
mostrando che facevano le ricerche medesime delle due galeotte apparse
il venerdì 10; ed infine, non avendo potuto ricevere segnali da terra
nè prendere alcuno, le dette quattro galere erano andate ad unirsi alle
altre che stavano aspettando al capo del Bianco, prendendo poi subito
la direzione di Ragusa. Queste cose scriveva lo Spinelli al Vicerè, e
senza dubbio la preoccupazione di un concerto tra l'armata e la costa
avea potuto fargli travedere molte cose, ma anche soltanto l'essersi
l'armata diretta dapprima alla marina di Stilo riusciva pur sempre
assai notevole, benchè non fosse cosa nuova; ed egli non mancò di farne
costare legalmente le mosse e i segnali, procurando dichiarazioni e
deposizioni, che fin d'allora potè annunziare al Vicerè e che tutto
induce a credere essere state quelle di Gio. Antonio Mesuraca, Paris
Manfrè, Gio. Vittorio Nicosia e Vittorio Giacco, inserte poi nel 1.º
volume del processo[403]. Faceva contemporaneamente sapere che si
andava tuttavia prendendo molta gente, e che oltre quelli de' quali
avea mandata la lista ne' giorni passati, teneva presi altri 25
individui (sicchè in data del 17 c'erano già 59 carcerati). Infine
diceva volersi rimanere in Castelvetere, essendo quel luogo sulla
marina ove il più delle volte l'armata solea venire a far acqua, e
lontano da Stilo otto miglia, mentre per la costa di Reggio si era
provveduto in maniera che, oltre a quanto avea ordinato a D. Diego de
Ayala, vi avrebbe atteso anche il Principe di Scilla suo parente, il
quale sarebbe stato un soccorso molto buono.
L'armata pertanto, giusta la sua abitudine, il 14 settembre andava
a dar fondo alla fossa di S. Giovanni; D. Diego de Ayala ne inviava
subito avviso al Vicerè, e il 16 poi gli riferiva l'accaduto[404].
Entrò nella fossa con 26 galere Reali, rimorchiando due navi Ragusee
che avea prese all'uscita del canale e che andavano in levante con
passaporto, e accordò riscatto di quattro mila ducati alla più grande
restituendola come l'avea presa. Il 15, nel mattino, si spiccarono da
essa due galere di fanale, con disegno di fare una ricognizione della
muraglia di Reggio e mandare qualche spia a terra; venendo presso la
muraglia, furono dal Castello tirati quattro colpi con un cannone ed un
altro pezzo di rinforzo che là si aveva, e i colpi giunsero in molta
vicinanza di esse, onde si posero bene al largo e si diressero verso
la Madonna di Piedigrotta di Messina, dove, essendo al sicuro dalle
galere di Spagna, presero una piccola nave carica di grano che stava
in ormeggio, salvandosi a terra tutta la sua ciurma. Con questa preda
tornarono all'armata, e subito, a 22 ore, giunsero altre quattro galere
di più, essendo al numero di trenta; conchiusero poi anche il riscatto
di questa nave, dandola per due mila ducati (così la Spagna proteggeva
i suoi sudditi da' quali pure traeva somme incredibili). Ma due
prigioni cristiani fuggirono dall'armata e palesarono a D. Diego molte
cose. Uno di loro, molto esperto, disse che con l'armata erano venuti
il Cicala, suo figlio ed Arnaut Memi, e che portavano cento pezzi co'
loro carretti per menarli a terra, e molte scale ed altri arnesi, e che
avevano in mente di prender Lipari o un luogo presso Cotrone denominato
l'Isola, sebbene non si fosse tenuto consiglio fin dall'uscita da
Costantinopoli; che si erano staccate da quell'armata nove galere,
giacchè erano 39, con ordine di andare in cerca di quelle di Toscana
per prenderle. L'altro prigione disse che l'armata non aspettava più
il riscatto di quelle navi per uscire dalla fossa di S. Giovanni: ma
non per questo il D'Ayala si teneva sicuro che non vi fosse il disegno
di venire a Reggio, e diceva che sebbene fosse tanto scaduto e male
andato per malattia, avea in questa occasione ricuperato tanto animo
da poter attendere di persona a ciò che occorreva per la difesa di
quella terra, in modo che s'imprometteva felice successo. Aggiungeva
che nella marina si erano presi assai buoni provvedimenti, tanto da
aver riuniti 400 cavalli con quelli della Compagnia del Principe di
Scalèa, i quali scorrevano la terra giorno e notte con molta vigilanza,
e c'erano 200 fanti, buona gente, in imboscata, acciò i turchi non
si addentrassero nella terra fino a' poderi ed a' casali, perchè era
impossibile impedire la loro discesa a terra per fare acqua, avendola
a un palmo dal mare in tutta quella marina, ed usando tenere le prode
rivolte a terra e trarre continuamente cannonate. Aggiungeva ancora che
il più gran numero di turchi spiccati a terra era stato di 500, e che
gli dicevano tutti gl'individui di combattimento poter essere tremila
e seicento, le quali cose egli andava a comunicare a Carlo Spinelli.
— Certamente tutte le notizie date da que' prigioni Cristiani non
potevano esser prese sul serio, tanto più che non una volta i Turchi si
erano serviti di questo mezzo, per dare false indicazioni: il disegno
d'impossessarsi di Lipari, ovvero dell'Isola, due punti opposti, era
una indicazione per lo meno estremamente vaga, e sarebbe riuscito
del tutto strano che lo scopo della spedizione fosse a conoscenza di
chiunque si trovava a bordo; rimaneva quindi meno soggetta ad inganni
soltanto la notizia palpabile e non indifferente del trovarsi sulla
flotta molta artiglieria da campo e un buon numero di uomini destinati
a combattere. Ma un'altra relazione di D. Diego de Ayala, dello stesso
giorno, veniva a dar conto di una scaramuccia che si era avuta a
terra tra 500 turchi e una truppa di soldati spagnuoli, tanto contesa
da esservi stato bisogno di molti colpi di cannone delle galere per
favorire la gente che si era partita da esse, onde si ebbero quattro
turchi morti e molti feriti, un solo degli spagnuoli, e secondo la
resistenza che loro si fece, D. Diego riteneva che si sarebbero tenute
poche scaramucce. Egli faceva pure sapere che il Principe di Scilla era
allora allora giunto in quel luogo con 600 uomini di soccorso tra fanti
e cavalli, essendo tanto servitore di S. M.^tà che in tutti gli anni
in cui veniva l'armata egli dava soccorso alle terre senza recar loro
spese, perchè arrivava in una giornata da Scilla a Reggio, e comunque
si trovasse in Sinopoli allorchè tenne avviso dell'armata, venne con
grande diligenza; si profondeva quindi in elogi verso di lui. Da ultimo
diceva che si era sempre più accertato, per mezzo di un altro cristiano
allora venuto e fuggito dalle galere, esser vera la notizia già
trasmessa a S. E. che l'armata portava cento cannoni co' carretti per
menarli a terra, con scale e macchine, e di tutto andava a dare avviso
a Carlo Spinelli.
Da parte sua lo Spinelli quattro giorni dopo, il 20 settembre,
compiva le notizie dell'armata e ne significava le ulteriori mosse
e la definitiva partenza[405]. Le 30 galere, apparse il 13 al capo
di Stilo, dalla costa di Bianco se n'andarono il 15 alla fossa di
S. Giovanni, e furono allora viste da Reggio: i Sindaci gli diedero
avviso che sull'annottare del 15 due feluche furono viste venire da
Messina o da qualche luogo circonvicino ed unirsi con l'armata, senza
sapersi da chi e per che causa erano state inviate (forse erano le
solite corrispondenze che venivano al Cicala dalla sua casa paterna
in Messina). La detta armata era stata sempre nella fossa, senza
aver preso terra in nessun'altra parte; ed essendo i turchi usciti a
far acqua, gli spagnuoli si pararono loro dinanzi, li maltrattarono
facendoli ritirare, e presero un rinnegato, il quale confessò che
il Cicala trasportava cento pezzi di artiglieria di ruota, tutti
falconetti e con tutta la munizione di guerra, che gli esami e
dichiarazioni di molti congiurati stati già presi confermavano doversi
ripartire in que' castelli i quali essi doveano prendere e tenere.
Secondo gli ordini dati alle torri e guardie della marina, a mezzanotte
del 18 trasmisero avviso e ne fecero segnali per tutta la costa, che
l'armata era partita dalla fossa e veniva verso la parte sua; per
tale motivo egli montò a cavallo co' Principi di Scalèa e di Roccella
suoi nipoti e si recò alla marina, dove avea fatto scendere sessanta
cavalleggieri di D. Cesare d'Avalos e la Compagnia di Sulmona armata
alla leggiera, e mettendoli in imboscata dietro certe siepi, stando al
fiume Alaro dove molte volte l'armata era stata solita di far acqua,
comparve la detta armata che veniva a terra, e come giunse proprio al
fiume, tenendo vento favorevole, fece trinchetto e si spinse verso
l'alto mare. Così egli uscì con tutta la cavalleria alla spiaggia,
seguendola fino al capo di Stilo, e vedendo che tanto più avea presa
la rotta di levante e mostrava di ritirarsi, ordinò a' 60 cavalleggieri
di D. Cesare e alla Compagnia di Sulmona che andassero seguendola fino
alla costa di Squillace, attesochè nella costa di Catanzaro, in Cutri,
stava la Compagnia di Bisignano; ed oltracciò fece munire l'Isola co'
soldati del Battaglione, che se per caso all'annottare chinasse al capo
delle colonne, si trovasse gente da farle opposizione. Ma a suo parere,
essendo stato a guardarla da una rupe fino alle 24 ore, egli considerò
che si era ritirata in tutto e per tutto, giacchè la via da essa presa
era quella di Cefalonia; e quando poi facesse cambiamento di rotta,
egli teneva già i provvedimenti e dati gli ordini necessarii.
Per finirla intorno a quest'incidente dell'armata turca, aggiungiamo
essere in sèguito pervenuto al Viceré avviso da Corfù[406], che il
giorno 21 l'armata trovavasi di ritorno in Turchia a 30 miglia da
quell'isola, e poi ancora un nuovo avviso[407] che il 24 se ne trovava
a 6 miglia, ed avendo là riscosso il donativo solito a darlesi si
era diretta a Costantinopoli, dicendogli pure che il Cicala stava
molto confuso del poco effetto avuto in Calabria e dell'essere stato
trattato tanto male nella fossa di S. Giovanni. — Ma lasciando da
parte questa pretesa confusione per una scaramuccia cui la vanità
spagnuola dava tanta importanza, gioverà piuttosto cercare d'intendere
come mai il Cicala avesse abbandonata così presto la partita in
Calabria. Forse egli potè dapprima sospettare qualche inganno, non
vedendo dalla costa alcuna corrispondenza a' segnali fatti quando
giunse alla marina di Stilo; ma con la venuta delle due feluche alla
fossa di S. Giovanni dovè conoscere il vero stato delle cose, la
congiura scoverta, i congiurati presi o fuggiaschi, tutta la costa
guernita di milizie, come ebbe pure a sperimentare con la scaramuccia
avvenuta; ed allora dovè riflettere che l'opera sua sarebbe stata
oramai non soltanto inutile ma dannosa, non potendo riuscire che ad
una strage massimamente degl'infelici già presi. Il Campanella, nella
sua Narrazione, dichiarando falsissima la venuta de' turchi d'accordo
co' congiurati, mentre nella Dichiarazione avea pur troppo manifestato
il contrario, scrisse che «ogni anno solean venir a far preda con
l'armata e quell'anno non vennero, o non sbarcaro, come doveano s'era
vero; e fu miracolo divino, perchè haveano ordinato in Squillaci di
strangular tutti li carcerati se li Turchi sbarcavano in terra». Non
sappiamo veramente che quest'ordine vi sia stato, ma siamo inclinati
a crederlo; solamente, senza fare intervenire il miracolo divino, ci
pare che si possa bene ammettere la previdenza del Cicala. E vogliamo
anche rettificare qui ciò che fu scritto dal Sagredo, il quale, oltre
all'aver riferito inesattamente le trattative fatte da' congiurati
co' turchi e la feroce repressione della congiura secondo le voci
erronee che ne corsero a quel tempo, lasciandosi benanche trasportare
da una certa antipatia verso il Cicala perchè nemico di Venezia,
asserì che costui «sotto pretesto d'haver trovato ben munite le marine
negò l'appoggio a' ribelli... e fu al suo ritorno a Costantinopoli
di ciò aggravato». Le nostre ricerche nell'Archivio Veneto ci hanno
invece fatto vedere che la Porta non seppe nulla della congiura e
dell'appoggio che il Cicala avrebbe dovuto darle, onde non gli si
ebbe a movere alcun rimprovero per la sua condotta verso i congiurati
calabresi; ma che veramente egli non avea recata «nessuna sodisfattione
con la sua uscita di quest'anno», onde si sparse la voce che gli
sarebbe stato tolto l'ufficio di Capitano del mare, la qual cosa poi
non si verificò[408].
Ma è tempo oramai di vedere l'atteggiamento del Vicerè dietro le
relazioni successivamente avute. Non appena gli fu partecipato che il
Campanella era prigione, con la circostanza che nella sua fuga non avea
presa la via di Roma, egli ne mandò subito la notizia a Madrid, insieme
con la lettera dello Spinelli e la lista degl'individui catturati
fino a quel momento[409]. Compiaciuto che tra costoro vi fosse il
Campanella «principale promotore di quella rivolta», con un compagno
suo e dippiù con due altri frati dello stesso ordine, diceva essere
stata gran fortuna l'aver preso il «capo di quella macchinazione»
il quale l'avrebbe fatta conoscere interamente; e mostravasi egli
pure persuaso, che dalla via nella quale si era messo il Campanella
con la sua compagnia si scorgeva «quanto grande vigliaccheria era
stata il mettere il Papa in quel ballo», poichè se ci avesse avuta
qualche cosa, sarebbe andato a Roma e non già in Turchia, dove gli
dicevano che si era diretto. Ma non ci è noto che avesse adottato il
consiglio dello Spinelli di far carcerare in Napoli Mario del Tufo
e di richiedere a Roma il Marchese di S.^to Lucido; abbiamo invece
ogni motivo di ritenere che non se ne fosse curato, giacchè per lo
meno il Residente Veneto non avrebbe mancato di darne notizia. In
sèguito, avendogli lo Spinelli mandato copia della Dichiarazione di
fra Tommaso, col parere che si venisse subito a tortura ne' frati in
Calabria, siccome altra volta si era fatto in materia di eresia, il
Vicerè ne scrisse subito al Duca di Sessa e a D. Alonso Manrrique e
partecipò tutto, comprese la copia della Dichiarazione del Campanella
e la lettera dello Spinelli, a Madrid[410]. Ordinò di procurare da
S. S.^tà che rimettesse a lui il gastigo de' frati di Calabria, «i
quali non solo erano traditori, sibbene anche i maggiori eretici
che si fossero mai visti»; e bisogna dire che egli si lusingasse
troppo di avere ammaliata la Curia Pontificia con le sue proteste di
devozione e di tenerezza, per poterle dirigere una dimanda simile.
Inviando poi la Dichiarazione del Campanella a Madrid, mostrava di
credere aversi proprio per quella a vedere come, nel modo che teneva,
rivelasse con parole equivoche di essere eretico! E aggiungeva che
«gli dicevano esser cosa orrenda le eresie le quali gli si provavano in
un'Informazione presa _coll'intervento_ del Visitatore del suo ordine»,
e che «grazie a Dio era stato impedito a tempo». Infine esprimeva il
suo parere che il Cicala per questa volta se ne tornerebbe con la gola
al posto suo, senza essere signore di Calabria come si pensava, se pure
non cercasse d'investire qualche terra marittima, ciò che intendeva
poter recare poco danno secondochè Carlo Spinelli gli avea scritto.
Contemporaneamente, mercè un'altra lettera della stessa data, si faceva
a raccomandare Lauro e Biblia, i quali continuavano a reclamare la
ricompensa, e, come ci mostra il Carteggio Veneto, qualche settimana
dopo si ricoverarono in Napoli[411]. Egli avea loro assicurato che S.
M.^tà avrebbe data una ricompensa corrispondente al servizio fatto, ed
essi allora gli scrivevano di supplicare S. M.^tà che deliberasse di
dar loro la ricompensa, giacchè per suo Real servizio aveano rinnegato
i loro parenti ed amici, e si vedevano nella impossibilità di vivere
in quella terra; e così egli supplicava S. M.^tà dicendo che per
certo meritavano una ricompensa, ma aggiungendo che avrebbe cercato
di sapere da loro cosa pretendessero e ne avrebbe dato conto (ottimo
modo per pigliar tempo e mostrarsi zelante così con quegli scellerati
come con S. M.^tà). Ancora, allorchè gli giunsero le lettere del
Capitano De Ayala e dello stesso Spinelli sull'arrivo e sulle mosse
dell'armata turca, le inviava senz'altro a Madrid[412]; e supplicava
S. M.^tà di ordinare che si scrivesse al Principe di Scilla, che aveva
atteso subito a soccorrere co' 600 uomini di fanteria e cavalleria,
e così pure al Principe di Scalèa, riconoscendo il loro ben servito
in quella occasione. E finalmente, con un'altra sua lettera[413],
inviava la relazione dello Spinelli intorno alla partenza dell'armata
turca, con una seconda relazione della quale parleremo tra poco,
notando come al nemico fosse accaduto il rovescio de' disegni che avea
concepiti, mentre si restituiva a casa sua con tanto poca riputazione,
ed aggiungendo di avere pur allora avuto avviso da Corfù che il 21
settembre il Cicala era comparso con la sua armata a 30 miglia da
quell'isola in ritorno alle sue coste. Partecipava inoltre che S.
S.^tà gli avea concesso di «poter dare la corda a' frati e clerici
catturati per quella rivoluzione, con l'intervento del Nunzio», e
però egli avea subito spedito un corriere a Carlo Spinelli, perchè li
mandasse a Napoli con persona prudente e di confidenza. — Ben si vede
come fin d'allora fosse stato dato ordine che i prigioni ecclesiastici
venissero spediti a Napoli; ma per loro disgrazia l'ordine non potè
essere eseguito così presto, poichè, come vedremo, non si credè
opportuno servirsi della via di terra e dovè aspettarsi che le galere
fossero disponibili per servirsi della via di mare: quanto poi alla
licenza avuta dal Papa di dar la corda a quegli ecclesiastici, bisogna
in siffatte parole riconoscere un'altra di quelle piccole vanterie
delle quali gli spagnuoli si dilettavano molto. La lettera del Card.^l
S. Giorgio al Nunzio, la quale tratta dell'incidente[414], mostra
che il Vicerè, adottando precisamente il parere dello Spinelli, avea
dimandato che s'inviasse un Commissario per conto della Chiesa al luogo
in cui gli ecclesiastici prigioni erano custoditi, perchè intervenisse
«agli essamini et à tutti gli atti» che si farebbero, e per rendere
meno ingrata la domanda avea detto che quel Commissario poteva essere
spedito dal Nunzio e rappresentare il Nunzio: ma S. S.^tà avea fatto
sentire all'Agente di S. E. che i prigioni ecclesiastici doveano
condursi a Napoli, essendo parso che per rispetti gravi la causa si
facesse piuttosto in Napoli con la presenza del Nunzio addirittura;
e comandava al Nunzio di ricevere i prigioni, quando verrebbero a
Napoli, come prigioni suoi, e di attendere alla causa con tutta la
diligenza necessaria, mentre d'altro lato i Ministri del S.^to Officio
interverrebbero nella parte dell'esame concernente l'eresia. La stessa
lettera ci mostra pure che il Vicerè, al tempo medesimo, si era doluto
con S. S.^tà del Vescovo di Mileto perchè proteggeva i fuorusciti e
si comportava poco bene con parole e con fatti; inoltre avea dimandata
l'assoluzione dalla scomunica che quel Vescovo avea lanciata contro il
Principe di Scilla ed altri (vale a dire D. Fabrizio Poerio e D. Luise
Xarava), essendo stato restituito alla Chiesa quel Marcantonio Capito
che avea dato occasione alla scomunica, ed il Papa comandava al Nunzio
di far venire il Vescovo in Napoli, prendere informazioni e riferire,
poichè intendeva soddisfare S. E. su questi due punti[415].
Avendo il Vicerè mandate non poche lettere e relazioni a Madrid,
potrebbe credersi che di là fossero venuti a quest'ora ordini e
provvedimenti: nulla di tutto ciò; appena nel mese successivo venne
una lettera di S. M.^tà in risposta a quante ne erano state fin
allora mandate, e però non accade dovercene pel momento occupare.
Frattanto in Napoli si erano già cominciate a divulgare le notizie
di Calabria; il Vicerè medesimo, smesso il segreto, ne avea discorso
con gli Agenti degli altri Stati accreditati presso la sua persona,
come sappiamo da' Carteggi dell'Agente di Toscana e del Residente di
Venezia. Abbiamo già avuta occasione di parlare di Giulio Battaglino
Agente di Toscana, napoletano e prete, attaccatissimo al Gran Duca
per servitù di vecchia data. Egli trovavasi in cordiali relazioni col
Vicerè e con la Viceregina, avendoli accompagnati nella loro venuta
da Spagna, dove si era temporaneamente ma inutilmente portato dietro
ordine del Gran Duca, per cercare di ottenergli dal nuovo Sovrano
Filippo III un miglioramento di titolo per parte de' Ministri Regii,
che gli davano semplicemente l'Eccellenza: specialmente era ben visto
dalla Viceregina, per la quale, già da che stava in Ispagna, avea
fatto venire dal Gran Duca una delle solite cassette degli olii ed
un quadretto, nè cessò mai più dal far venire e vetri e bambocci di
Lucca, e poi cappelli di paglia, e poi un fucile, poichè la Viceregina
si dilettava pure di caccia, e tra le ville, che insieme col Vicerè
onorava, c'era anche quella del Battaglino posta sull'alto di Posilipo.
Basterà dire che potè scrivere al Gran Duca: «queste Ecc.^ze mi amano
et mi tengono in assai buona opinione, confidano loro negotii, et
mi ammette la Sig.^ra Contessa particolarmente _padrona del marito_
(scritto in cifra) a' trattenimenti del giocar seco alla primiera»;
inoltre, «la Sig.^ra Vice Reina mi chiama come creato di casa etiandio
mentre la stà a letto»[416]. Con una simile qualità egli nelle sue
lettere riesce molto esatto, ma è più che sobrio ed aggiunge poco o
nulla alle cose che conosciamo mediante il Carteggio Vicereale; con
la qualità di prete poi egli dà prova perfino di lepidezza, quando
fa intravvedere che il Campanella sarà bruciato vivo come eretico.
Il 21 settembre egli ebbe dal Vicerè «pieno ragguaglio delle cose
di Calabria», e non mancò di far venire dal Gran Duca lettere di
congratulazione per la «scoverta et insieme oppressa congiura».
Quanto al Residente di Venezia, occupava allora tale ufficio Gio.
Carlo Scaramelli, venuto in Napoli nel luglio 1597, già vecchio in
diplomazia avendo funzionato da Segretario pure in Costantinopoli,
e quindi da lungo tempo consapevole de' malanni e delle miserie de'
calabresi, de' quali in Costantinopoli si trovava una colonia[417].
Assai più diffuso del Battaglino, nelle sue lettere egli scriveva
quanto poteva raccogliere da ogni parte, e quindi scriveva anche
parecchie frottole le quali dovevano allora aver corso nella città,
ciò che ha pure il suo lato importante. Così rilevasi che fin dalla
2ª settimana di settembre già era penetrata in Napoli la notizia della
scoperta della congiura, la quale riferivasi a Catanzaro, promossa dal
Campanella, in relazione col Turco che avrebbe dovuto occupare Stilo!
Ma il 21 settembre veramente il Vicerè gli comunicò varii particolari,
in ispecie quelli relativi alle mosse dell'armata turca, ed egli non
mancò mai d'innestare alle notizie autentiche quelle di piazza, come
l'essere stato il Campanella preso in abito militare etc. etc. Noi non
intendiamo qui fermarci sulle lettere del Residente per ismentire le
voci inesatte che vi si trovano raccolte: ci basterà avervi notato il
curioso miscuglio delle notizie di piazza e delle notizie di Corte,
miscuglio che si vedrà continuato anche in sèguito, nello svolgimento
de' processi e nelle rassegne delle esecuzioni. Ma dobbiamo per ora
far avvertire questo fatto, che sebbene, da buon veneziano, dovesse
essere inclinato a ritenere la Spagna maestra di artificii ed inganni
anche ferocissimi, così all'estero come all'interno, egli non pose mai
in dubbio la congiura, nè allora nè in sèguito; solamente più tardi
raccolse anche l'opinione manifestata da molti, che coloro i quali
aveano da principio maneggiato tale negozio, l'avessero aggrandito
in voce per aggrandire loro stessi in effetti, ciò che è avvenuto
realmente sempre in ogni negozio di questo genere e non vale ad
infermarne l'essenza. Aggiungiamo che le date e le notizie medesime,
con poche varianti, si riscontrano anche negli Avvisi del tempo, che
i lettori potranno consultare tra' nostri Documenti; vogliamo soltanto
notarvi, che al pari delle lettere del Residente Veneto, essi diedero
anche i nomi di taluni congiurati perfino di secondo rango. Oltre fra
Dionisio Ponzio e Maurizio de Rinaldis, le lettere del Residente fecero
conoscere Claudio Crispo di Pizzoni e Cesare Mileri di Nicastro; e
gli Avvisi fecero conoscere il Barone di Cropani e Muzio Susanna di
Catanzaro. Ma ci conviene tornare oramai a Carlo Spinelli, allo Xarava
e agl'infelici prigioni calabresi.
Stava ancora lo Spinelli in Castelvetere, quando furono presi in Stilo
e condotti a lui Giulio Contestabile ed un altro (certamente Geronimo
di Francesco); immediatamente, il 28 settembre, egli ne fece relazione
al Vicerè[418]. In questa seconda relazione, scritta da Castelvetere,
rammentava che per altre cause avea inviato in alloggiamento a Stilo
la Compagnia di D. Antonio Manrrique, e faceva sapere di aver data
a costui una nota di alcune persone che con dissimulazione e tempo
avrebbe dovuto catturare, particolarmente un Giulio Contestabile
clerico ne' quattr'ordini sacri, intorno al quale diceva: «mi sarei
recato fino a Costantinopoli per prenderlo, se avessi saputo di certo
che là si fosse trovato» (onde si vede che alle così dette spagnolate
partecipavano già molto bene anche i napoletani), «essendo questo
clerico uno de' più vigliacchi e de' principali nella congiura, così
come fra Tommaso Campanella, per quello che tengo provato contro di
lui, come pure per avere questo vigliacco preso il ritratto del Re
Nostro Signore e postolo sotto i suoi piedi, dicendogli mille ingiurie
come sta provato». Ora D. Antonio avea colto ad un tempo costui ed
anche l'altro parimente congiurato, e trovandosi il Contestabile
clerico e soggetto del Vescovo di Squillace, egli aspettava l'ordine
di S. E., per sapere cosa avesse a fare di lui, e se S. E. comandasse
d'inviarlo insieme co' frati, perchè così avrebbe eseguito; e frattanto
faceva sapere che avrebbe tradotto que' prigioni a Squillace con gli
altri, recandosi là tra giorni. Aggiungeva che in conformità degli
ordini avuti per far prendere i clerici di Seminara, colpevoli di
resistenza alla giustizia e di ripresa di carcerati dalle mani di
essa, avea provveduto in guisa che, essendo presi, li consegnerebbe
in nome di S. E. al Vescovo di Mileto; e a tale proposito diceva,
«questi clerici vanno armati di ogni specie d'armi, e sempre stanno
nelle Chiese con altri fuorusciti favorendosi vicendevolmente, ciò
che questi Vescovi permettono, e temo che la maggior parte delle
vigliaccherie che si fanno sieno imputabili a' clerici, propriamente
perchè non vengono gastigati e sono di esempio agli altri». — Ma
come mai era avvenuto un simile cambiamento verso il Contestabile
e il Di Francesco? Il Campanella non ne parlò nella sua Narrazione,
tuttavia ne abbiamo notizie sufficienti negli Atti giudiziarii che
si conservano in Firenze[419], e non ne manca qualche cenno anche nel
processo di eresia. Sappiamo che dopo la denunzia del Contestabile e
la richiesta di una Commissione al Di Francesco contro il Campanella
e complici, la Commissione fu accordata: entrambi si diedero alla
ricerca degl'incolpati, e come assai più tardi ebbe a dire fra Pietro
di Stilo nel processo di eresia, entrambi cercarono di far pigliare
Gio. Geronimo Prestinace morto o vivo[420]; quanto poi al Campanella,
come ci mostrano gli Atti di Firenze, essendo stato lui già preso,
ne furono dal Di Francesco carcerati i parenti. Abbiamo visto che il
Campanella si mostrò esasperato contro di loro fin dal momento della
sua cattura, e che nello scrivere la sua Dichiarazione calcò la mano
particolarmente sul Contestabile e il Di Francesco, esponendo fra
le altre cose l'oltraggio fatto da Giulio al ritratto del Re; ma in
sèguito, e forse nel sapere che il suo vecchio padre e il suo fratello
Gio. Pietro erano venuti nelle stesse carceri di Squillace per mano di
que' ribaldi, egli diede contro il Contestabile una formale denunzia o
«capi _in scriptis_» come allora si diceva; ed anche il Petrolo diede
una Dichiarazione scritta nello stesso senso, che trovasi integralmente
inserta nella Difesa del Contestabile, e che poi in Napoli disse
di avere scritta ad istigazione del Campanella. Si trattava sempre
dell'oltraggio fatto dal Contestabile al ritratto del Re Filippo nella
camera di fra Tommaso, e non vi fu nemmeno una completa uniformità
nella esposizione delle circostanze occorse da parte di entrambi i
rivelanti, senza dubbio perchè non ebbero agio di ridursele bene a
mostrando che facevano le ricerche medesime delle due galeotte apparse
il venerdì 10; ed infine, non avendo potuto ricevere segnali da terra
nè prendere alcuno, le dette quattro galere erano andate ad unirsi alle
altre che stavano aspettando al capo del Bianco, prendendo poi subito
la direzione di Ragusa. Queste cose scriveva lo Spinelli al Vicerè, e
senza dubbio la preoccupazione di un concerto tra l'armata e la costa
avea potuto fargli travedere molte cose, ma anche soltanto l'essersi
l'armata diretta dapprima alla marina di Stilo riusciva pur sempre
assai notevole, benchè non fosse cosa nuova; ed egli non mancò di farne
costare legalmente le mosse e i segnali, procurando dichiarazioni e
deposizioni, che fin d'allora potè annunziare al Vicerè e che tutto
induce a credere essere state quelle di Gio. Antonio Mesuraca, Paris
Manfrè, Gio. Vittorio Nicosia e Vittorio Giacco, inserte poi nel 1.º
volume del processo[403]. Faceva contemporaneamente sapere che si
andava tuttavia prendendo molta gente, e che oltre quelli de' quali
avea mandata la lista ne' giorni passati, teneva presi altri 25
individui (sicchè in data del 17 c'erano già 59 carcerati). Infine
diceva volersi rimanere in Castelvetere, essendo quel luogo sulla
marina ove il più delle volte l'armata solea venire a far acqua, e
lontano da Stilo otto miglia, mentre per la costa di Reggio si era
provveduto in maniera che, oltre a quanto avea ordinato a D. Diego de
Ayala, vi avrebbe atteso anche il Principe di Scilla suo parente, il
quale sarebbe stato un soccorso molto buono.
L'armata pertanto, giusta la sua abitudine, il 14 settembre andava
a dar fondo alla fossa di S. Giovanni; D. Diego de Ayala ne inviava
subito avviso al Vicerè, e il 16 poi gli riferiva l'accaduto[404].
Entrò nella fossa con 26 galere Reali, rimorchiando due navi Ragusee
che avea prese all'uscita del canale e che andavano in levante con
passaporto, e accordò riscatto di quattro mila ducati alla più grande
restituendola come l'avea presa. Il 15, nel mattino, si spiccarono da
essa due galere di fanale, con disegno di fare una ricognizione della
muraglia di Reggio e mandare qualche spia a terra; venendo presso la
muraglia, furono dal Castello tirati quattro colpi con un cannone ed un
altro pezzo di rinforzo che là si aveva, e i colpi giunsero in molta
vicinanza di esse, onde si posero bene al largo e si diressero verso
la Madonna di Piedigrotta di Messina, dove, essendo al sicuro dalle
galere di Spagna, presero una piccola nave carica di grano che stava
in ormeggio, salvandosi a terra tutta la sua ciurma. Con questa preda
tornarono all'armata, e subito, a 22 ore, giunsero altre quattro galere
di più, essendo al numero di trenta; conchiusero poi anche il riscatto
di questa nave, dandola per due mila ducati (così la Spagna proteggeva
i suoi sudditi da' quali pure traeva somme incredibili). Ma due
prigioni cristiani fuggirono dall'armata e palesarono a D. Diego molte
cose. Uno di loro, molto esperto, disse che con l'armata erano venuti
il Cicala, suo figlio ed Arnaut Memi, e che portavano cento pezzi co'
loro carretti per menarli a terra, e molte scale ed altri arnesi, e che
avevano in mente di prender Lipari o un luogo presso Cotrone denominato
l'Isola, sebbene non si fosse tenuto consiglio fin dall'uscita da
Costantinopoli; che si erano staccate da quell'armata nove galere,
giacchè erano 39, con ordine di andare in cerca di quelle di Toscana
per prenderle. L'altro prigione disse che l'armata non aspettava più
il riscatto di quelle navi per uscire dalla fossa di S. Giovanni: ma
non per questo il D'Ayala si teneva sicuro che non vi fosse il disegno
di venire a Reggio, e diceva che sebbene fosse tanto scaduto e male
andato per malattia, avea in questa occasione ricuperato tanto animo
da poter attendere di persona a ciò che occorreva per la difesa di
quella terra, in modo che s'imprometteva felice successo. Aggiungeva
che nella marina si erano presi assai buoni provvedimenti, tanto da
aver riuniti 400 cavalli con quelli della Compagnia del Principe di
Scalèa, i quali scorrevano la terra giorno e notte con molta vigilanza,
e c'erano 200 fanti, buona gente, in imboscata, acciò i turchi non
si addentrassero nella terra fino a' poderi ed a' casali, perchè era
impossibile impedire la loro discesa a terra per fare acqua, avendola
a un palmo dal mare in tutta quella marina, ed usando tenere le prode
rivolte a terra e trarre continuamente cannonate. Aggiungeva ancora che
il più gran numero di turchi spiccati a terra era stato di 500, e che
gli dicevano tutti gl'individui di combattimento poter essere tremila
e seicento, le quali cose egli andava a comunicare a Carlo Spinelli.
— Certamente tutte le notizie date da que' prigioni Cristiani non
potevano esser prese sul serio, tanto più che non una volta i Turchi si
erano serviti di questo mezzo, per dare false indicazioni: il disegno
d'impossessarsi di Lipari, ovvero dell'Isola, due punti opposti, era
una indicazione per lo meno estremamente vaga, e sarebbe riuscito
del tutto strano che lo scopo della spedizione fosse a conoscenza di
chiunque si trovava a bordo; rimaneva quindi meno soggetta ad inganni
soltanto la notizia palpabile e non indifferente del trovarsi sulla
flotta molta artiglieria da campo e un buon numero di uomini destinati
a combattere. Ma un'altra relazione di D. Diego de Ayala, dello stesso
giorno, veniva a dar conto di una scaramuccia che si era avuta a
terra tra 500 turchi e una truppa di soldati spagnuoli, tanto contesa
da esservi stato bisogno di molti colpi di cannone delle galere per
favorire la gente che si era partita da esse, onde si ebbero quattro
turchi morti e molti feriti, un solo degli spagnuoli, e secondo la
resistenza che loro si fece, D. Diego riteneva che si sarebbero tenute
poche scaramucce. Egli faceva pure sapere che il Principe di Scilla era
allora allora giunto in quel luogo con 600 uomini di soccorso tra fanti
e cavalli, essendo tanto servitore di S. M.^tà che in tutti gli anni
in cui veniva l'armata egli dava soccorso alle terre senza recar loro
spese, perchè arrivava in una giornata da Scilla a Reggio, e comunque
si trovasse in Sinopoli allorchè tenne avviso dell'armata, venne con
grande diligenza; si profondeva quindi in elogi verso di lui. Da ultimo
diceva che si era sempre più accertato, per mezzo di un altro cristiano
allora venuto e fuggito dalle galere, esser vera la notizia già
trasmessa a S. E. che l'armata portava cento cannoni co' carretti per
menarli a terra, con scale e macchine, e di tutto andava a dare avviso
a Carlo Spinelli.
Da parte sua lo Spinelli quattro giorni dopo, il 20 settembre,
compiva le notizie dell'armata e ne significava le ulteriori mosse
e la definitiva partenza[405]. Le 30 galere, apparse il 13 al capo
di Stilo, dalla costa di Bianco se n'andarono il 15 alla fossa di
S. Giovanni, e furono allora viste da Reggio: i Sindaci gli diedero
avviso che sull'annottare del 15 due feluche furono viste venire da
Messina o da qualche luogo circonvicino ed unirsi con l'armata, senza
sapersi da chi e per che causa erano state inviate (forse erano le
solite corrispondenze che venivano al Cicala dalla sua casa paterna
in Messina). La detta armata era stata sempre nella fossa, senza
aver preso terra in nessun'altra parte; ed essendo i turchi usciti a
far acqua, gli spagnuoli si pararono loro dinanzi, li maltrattarono
facendoli ritirare, e presero un rinnegato, il quale confessò che
il Cicala trasportava cento pezzi di artiglieria di ruota, tutti
falconetti e con tutta la munizione di guerra, che gli esami e
dichiarazioni di molti congiurati stati già presi confermavano doversi
ripartire in que' castelli i quali essi doveano prendere e tenere.
Secondo gli ordini dati alle torri e guardie della marina, a mezzanotte
del 18 trasmisero avviso e ne fecero segnali per tutta la costa, che
l'armata era partita dalla fossa e veniva verso la parte sua; per
tale motivo egli montò a cavallo co' Principi di Scalèa e di Roccella
suoi nipoti e si recò alla marina, dove avea fatto scendere sessanta
cavalleggieri di D. Cesare d'Avalos e la Compagnia di Sulmona armata
alla leggiera, e mettendoli in imboscata dietro certe siepi, stando al
fiume Alaro dove molte volte l'armata era stata solita di far acqua,
comparve la detta armata che veniva a terra, e come giunse proprio al
fiume, tenendo vento favorevole, fece trinchetto e si spinse verso
l'alto mare. Così egli uscì con tutta la cavalleria alla spiaggia,
seguendola fino al capo di Stilo, e vedendo che tanto più avea presa
la rotta di levante e mostrava di ritirarsi, ordinò a' 60 cavalleggieri
di D. Cesare e alla Compagnia di Sulmona che andassero seguendola fino
alla costa di Squillace, attesochè nella costa di Catanzaro, in Cutri,
stava la Compagnia di Bisignano; ed oltracciò fece munire l'Isola co'
soldati del Battaglione, che se per caso all'annottare chinasse al capo
delle colonne, si trovasse gente da farle opposizione. Ma a suo parere,
essendo stato a guardarla da una rupe fino alle 24 ore, egli considerò
che si era ritirata in tutto e per tutto, giacchè la via da essa presa
era quella di Cefalonia; e quando poi facesse cambiamento di rotta,
egli teneva già i provvedimenti e dati gli ordini necessarii.
Per finirla intorno a quest'incidente dell'armata turca, aggiungiamo
essere in sèguito pervenuto al Viceré avviso da Corfù[406], che il
giorno 21 l'armata trovavasi di ritorno in Turchia a 30 miglia da
quell'isola, e poi ancora un nuovo avviso[407] che il 24 se ne trovava
a 6 miglia, ed avendo là riscosso il donativo solito a darlesi si
era diretta a Costantinopoli, dicendogli pure che il Cicala stava
molto confuso del poco effetto avuto in Calabria e dell'essere stato
trattato tanto male nella fossa di S. Giovanni. — Ma lasciando da
parte questa pretesa confusione per una scaramuccia cui la vanità
spagnuola dava tanta importanza, gioverà piuttosto cercare d'intendere
come mai il Cicala avesse abbandonata così presto la partita in
Calabria. Forse egli potè dapprima sospettare qualche inganno, non
vedendo dalla costa alcuna corrispondenza a' segnali fatti quando
giunse alla marina di Stilo; ma con la venuta delle due feluche alla
fossa di S. Giovanni dovè conoscere il vero stato delle cose, la
congiura scoverta, i congiurati presi o fuggiaschi, tutta la costa
guernita di milizie, come ebbe pure a sperimentare con la scaramuccia
avvenuta; ed allora dovè riflettere che l'opera sua sarebbe stata
oramai non soltanto inutile ma dannosa, non potendo riuscire che ad
una strage massimamente degl'infelici già presi. Il Campanella, nella
sua Narrazione, dichiarando falsissima la venuta de' turchi d'accordo
co' congiurati, mentre nella Dichiarazione avea pur troppo manifestato
il contrario, scrisse che «ogni anno solean venir a far preda con
l'armata e quell'anno non vennero, o non sbarcaro, come doveano s'era
vero; e fu miracolo divino, perchè haveano ordinato in Squillaci di
strangular tutti li carcerati se li Turchi sbarcavano in terra». Non
sappiamo veramente che quest'ordine vi sia stato, ma siamo inclinati
a crederlo; solamente, senza fare intervenire il miracolo divino, ci
pare che si possa bene ammettere la previdenza del Cicala. E vogliamo
anche rettificare qui ciò che fu scritto dal Sagredo, il quale, oltre
all'aver riferito inesattamente le trattative fatte da' congiurati
co' turchi e la feroce repressione della congiura secondo le voci
erronee che ne corsero a quel tempo, lasciandosi benanche trasportare
da una certa antipatia verso il Cicala perchè nemico di Venezia,
asserì che costui «sotto pretesto d'haver trovato ben munite le marine
negò l'appoggio a' ribelli... e fu al suo ritorno a Costantinopoli
di ciò aggravato». Le nostre ricerche nell'Archivio Veneto ci hanno
invece fatto vedere che la Porta non seppe nulla della congiura e
dell'appoggio che il Cicala avrebbe dovuto darle, onde non gli si
ebbe a movere alcun rimprovero per la sua condotta verso i congiurati
calabresi; ma che veramente egli non avea recata «nessuna sodisfattione
con la sua uscita di quest'anno», onde si sparse la voce che gli
sarebbe stato tolto l'ufficio di Capitano del mare, la qual cosa poi
non si verificò[408].
Ma è tempo oramai di vedere l'atteggiamento del Vicerè dietro le
relazioni successivamente avute. Non appena gli fu partecipato che il
Campanella era prigione, con la circostanza che nella sua fuga non avea
presa la via di Roma, egli ne mandò subito la notizia a Madrid, insieme
con la lettera dello Spinelli e la lista degl'individui catturati
fino a quel momento[409]. Compiaciuto che tra costoro vi fosse il
Campanella «principale promotore di quella rivolta», con un compagno
suo e dippiù con due altri frati dello stesso ordine, diceva essere
stata gran fortuna l'aver preso il «capo di quella macchinazione»
il quale l'avrebbe fatta conoscere interamente; e mostravasi egli
pure persuaso, che dalla via nella quale si era messo il Campanella
con la sua compagnia si scorgeva «quanto grande vigliaccheria era
stata il mettere il Papa in quel ballo», poichè se ci avesse avuta
qualche cosa, sarebbe andato a Roma e non già in Turchia, dove gli
dicevano che si era diretto. Ma non ci è noto che avesse adottato il
consiglio dello Spinelli di far carcerare in Napoli Mario del Tufo
e di richiedere a Roma il Marchese di S.^to Lucido; abbiamo invece
ogni motivo di ritenere che non se ne fosse curato, giacchè per lo
meno il Residente Veneto non avrebbe mancato di darne notizia. In
sèguito, avendogli lo Spinelli mandato copia della Dichiarazione di
fra Tommaso, col parere che si venisse subito a tortura ne' frati in
Calabria, siccome altra volta si era fatto in materia di eresia, il
Vicerè ne scrisse subito al Duca di Sessa e a D. Alonso Manrrique e
partecipò tutto, comprese la copia della Dichiarazione del Campanella
e la lettera dello Spinelli, a Madrid[410]. Ordinò di procurare da
S. S.^tà che rimettesse a lui il gastigo de' frati di Calabria, «i
quali non solo erano traditori, sibbene anche i maggiori eretici
che si fossero mai visti»; e bisogna dire che egli si lusingasse
troppo di avere ammaliata la Curia Pontificia con le sue proteste di
devozione e di tenerezza, per poterle dirigere una dimanda simile.
Inviando poi la Dichiarazione del Campanella a Madrid, mostrava di
credere aversi proprio per quella a vedere come, nel modo che teneva,
rivelasse con parole equivoche di essere eretico! E aggiungeva che
«gli dicevano esser cosa orrenda le eresie le quali gli si provavano in
un'Informazione presa _coll'intervento_ del Visitatore del suo ordine»,
e che «grazie a Dio era stato impedito a tempo». Infine esprimeva il
suo parere che il Cicala per questa volta se ne tornerebbe con la gola
al posto suo, senza essere signore di Calabria come si pensava, se pure
non cercasse d'investire qualche terra marittima, ciò che intendeva
poter recare poco danno secondochè Carlo Spinelli gli avea scritto.
Contemporaneamente, mercè un'altra lettera della stessa data, si faceva
a raccomandare Lauro e Biblia, i quali continuavano a reclamare la
ricompensa, e, come ci mostra il Carteggio Veneto, qualche settimana
dopo si ricoverarono in Napoli[411]. Egli avea loro assicurato che S.
M.^tà avrebbe data una ricompensa corrispondente al servizio fatto, ed
essi allora gli scrivevano di supplicare S. M.^tà che deliberasse di
dar loro la ricompensa, giacchè per suo Real servizio aveano rinnegato
i loro parenti ed amici, e si vedevano nella impossibilità di vivere
in quella terra; e così egli supplicava S. M.^tà dicendo che per
certo meritavano una ricompensa, ma aggiungendo che avrebbe cercato
di sapere da loro cosa pretendessero e ne avrebbe dato conto (ottimo
modo per pigliar tempo e mostrarsi zelante così con quegli scellerati
come con S. M.^tà). Ancora, allorchè gli giunsero le lettere del
Capitano De Ayala e dello stesso Spinelli sull'arrivo e sulle mosse
dell'armata turca, le inviava senz'altro a Madrid[412]; e supplicava
S. M.^tà di ordinare che si scrivesse al Principe di Scilla, che aveva
atteso subito a soccorrere co' 600 uomini di fanteria e cavalleria,
e così pure al Principe di Scalèa, riconoscendo il loro ben servito
in quella occasione. E finalmente, con un'altra sua lettera[413],
inviava la relazione dello Spinelli intorno alla partenza dell'armata
turca, con una seconda relazione della quale parleremo tra poco,
notando come al nemico fosse accaduto il rovescio de' disegni che avea
concepiti, mentre si restituiva a casa sua con tanto poca riputazione,
ed aggiungendo di avere pur allora avuto avviso da Corfù che il 21
settembre il Cicala era comparso con la sua armata a 30 miglia da
quell'isola in ritorno alle sue coste. Partecipava inoltre che S.
S.^tà gli avea concesso di «poter dare la corda a' frati e clerici
catturati per quella rivoluzione, con l'intervento del Nunzio», e
però egli avea subito spedito un corriere a Carlo Spinelli, perchè li
mandasse a Napoli con persona prudente e di confidenza. — Ben si vede
come fin d'allora fosse stato dato ordine che i prigioni ecclesiastici
venissero spediti a Napoli; ma per loro disgrazia l'ordine non potè
essere eseguito così presto, poichè, come vedremo, non si credè
opportuno servirsi della via di terra e dovè aspettarsi che le galere
fossero disponibili per servirsi della via di mare: quanto poi alla
licenza avuta dal Papa di dar la corda a quegli ecclesiastici, bisogna
in siffatte parole riconoscere un'altra di quelle piccole vanterie
delle quali gli spagnuoli si dilettavano molto. La lettera del Card.^l
S. Giorgio al Nunzio, la quale tratta dell'incidente[414], mostra
che il Vicerè, adottando precisamente il parere dello Spinelli, avea
dimandato che s'inviasse un Commissario per conto della Chiesa al luogo
in cui gli ecclesiastici prigioni erano custoditi, perchè intervenisse
«agli essamini et à tutti gli atti» che si farebbero, e per rendere
meno ingrata la domanda avea detto che quel Commissario poteva essere
spedito dal Nunzio e rappresentare il Nunzio: ma S. S.^tà avea fatto
sentire all'Agente di S. E. che i prigioni ecclesiastici doveano
condursi a Napoli, essendo parso che per rispetti gravi la causa si
facesse piuttosto in Napoli con la presenza del Nunzio addirittura;
e comandava al Nunzio di ricevere i prigioni, quando verrebbero a
Napoli, come prigioni suoi, e di attendere alla causa con tutta la
diligenza necessaria, mentre d'altro lato i Ministri del S.^to Officio
interverrebbero nella parte dell'esame concernente l'eresia. La stessa
lettera ci mostra pure che il Vicerè, al tempo medesimo, si era doluto
con S. S.^tà del Vescovo di Mileto perchè proteggeva i fuorusciti e
si comportava poco bene con parole e con fatti; inoltre avea dimandata
l'assoluzione dalla scomunica che quel Vescovo avea lanciata contro il
Principe di Scilla ed altri (vale a dire D. Fabrizio Poerio e D. Luise
Xarava), essendo stato restituito alla Chiesa quel Marcantonio Capito
che avea dato occasione alla scomunica, ed il Papa comandava al Nunzio
di far venire il Vescovo in Napoli, prendere informazioni e riferire,
poichè intendeva soddisfare S. E. su questi due punti[415].
Avendo il Vicerè mandate non poche lettere e relazioni a Madrid,
potrebbe credersi che di là fossero venuti a quest'ora ordini e
provvedimenti: nulla di tutto ciò; appena nel mese successivo venne
una lettera di S. M.^tà in risposta a quante ne erano state fin
allora mandate, e però non accade dovercene pel momento occupare.
Frattanto in Napoli si erano già cominciate a divulgare le notizie
di Calabria; il Vicerè medesimo, smesso il segreto, ne avea discorso
con gli Agenti degli altri Stati accreditati presso la sua persona,
come sappiamo da' Carteggi dell'Agente di Toscana e del Residente di
Venezia. Abbiamo già avuta occasione di parlare di Giulio Battaglino
Agente di Toscana, napoletano e prete, attaccatissimo al Gran Duca
per servitù di vecchia data. Egli trovavasi in cordiali relazioni col
Vicerè e con la Viceregina, avendoli accompagnati nella loro venuta
da Spagna, dove si era temporaneamente ma inutilmente portato dietro
ordine del Gran Duca, per cercare di ottenergli dal nuovo Sovrano
Filippo III un miglioramento di titolo per parte de' Ministri Regii,
che gli davano semplicemente l'Eccellenza: specialmente era ben visto
dalla Viceregina, per la quale, già da che stava in Ispagna, avea
fatto venire dal Gran Duca una delle solite cassette degli olii ed
un quadretto, nè cessò mai più dal far venire e vetri e bambocci di
Lucca, e poi cappelli di paglia, e poi un fucile, poichè la Viceregina
si dilettava pure di caccia, e tra le ville, che insieme col Vicerè
onorava, c'era anche quella del Battaglino posta sull'alto di Posilipo.
Basterà dire che potè scrivere al Gran Duca: «queste Ecc.^ze mi amano
et mi tengono in assai buona opinione, confidano loro negotii, et
mi ammette la Sig.^ra Contessa particolarmente _padrona del marito_
(scritto in cifra) a' trattenimenti del giocar seco alla primiera»;
inoltre, «la Sig.^ra Vice Reina mi chiama come creato di casa etiandio
mentre la stà a letto»[416]. Con una simile qualità egli nelle sue
lettere riesce molto esatto, ma è più che sobrio ed aggiunge poco o
nulla alle cose che conosciamo mediante il Carteggio Vicereale; con
la qualità di prete poi egli dà prova perfino di lepidezza, quando
fa intravvedere che il Campanella sarà bruciato vivo come eretico.
Il 21 settembre egli ebbe dal Vicerè «pieno ragguaglio delle cose
di Calabria», e non mancò di far venire dal Gran Duca lettere di
congratulazione per la «scoverta et insieme oppressa congiura».
Quanto al Residente di Venezia, occupava allora tale ufficio Gio.
Carlo Scaramelli, venuto in Napoli nel luglio 1597, già vecchio in
diplomazia avendo funzionato da Segretario pure in Costantinopoli,
e quindi da lungo tempo consapevole de' malanni e delle miserie de'
calabresi, de' quali in Costantinopoli si trovava una colonia[417].
Assai più diffuso del Battaglino, nelle sue lettere egli scriveva
quanto poteva raccogliere da ogni parte, e quindi scriveva anche
parecchie frottole le quali dovevano allora aver corso nella città,
ciò che ha pure il suo lato importante. Così rilevasi che fin dalla
2ª settimana di settembre già era penetrata in Napoli la notizia della
scoperta della congiura, la quale riferivasi a Catanzaro, promossa dal
Campanella, in relazione col Turco che avrebbe dovuto occupare Stilo!
Ma il 21 settembre veramente il Vicerè gli comunicò varii particolari,
in ispecie quelli relativi alle mosse dell'armata turca, ed egli non
mancò mai d'innestare alle notizie autentiche quelle di piazza, come
l'essere stato il Campanella preso in abito militare etc. etc. Noi non
intendiamo qui fermarci sulle lettere del Residente per ismentire le
voci inesatte che vi si trovano raccolte: ci basterà avervi notato il
curioso miscuglio delle notizie di piazza e delle notizie di Corte,
miscuglio che si vedrà continuato anche in sèguito, nello svolgimento
de' processi e nelle rassegne delle esecuzioni. Ma dobbiamo per ora
far avvertire questo fatto, che sebbene, da buon veneziano, dovesse
essere inclinato a ritenere la Spagna maestra di artificii ed inganni
anche ferocissimi, così all'estero come all'interno, egli non pose mai
in dubbio la congiura, nè allora nè in sèguito; solamente più tardi
raccolse anche l'opinione manifestata da molti, che coloro i quali
aveano da principio maneggiato tale negozio, l'avessero aggrandito
in voce per aggrandire loro stessi in effetti, ciò che è avvenuto
realmente sempre in ogni negozio di questo genere e non vale ad
infermarne l'essenza. Aggiungiamo che le date e le notizie medesime,
con poche varianti, si riscontrano anche negli Avvisi del tempo, che
i lettori potranno consultare tra' nostri Documenti; vogliamo soltanto
notarvi, che al pari delle lettere del Residente Veneto, essi diedero
anche i nomi di taluni congiurati perfino di secondo rango. Oltre fra
Dionisio Ponzio e Maurizio de Rinaldis, le lettere del Residente fecero
conoscere Claudio Crispo di Pizzoni e Cesare Mileri di Nicastro; e
gli Avvisi fecero conoscere il Barone di Cropani e Muzio Susanna di
Catanzaro. Ma ci conviene tornare oramai a Carlo Spinelli, allo Xarava
e agl'infelici prigioni calabresi.
Stava ancora lo Spinelli in Castelvetere, quando furono presi in Stilo
e condotti a lui Giulio Contestabile ed un altro (certamente Geronimo
di Francesco); immediatamente, il 28 settembre, egli ne fece relazione
al Vicerè[418]. In questa seconda relazione, scritta da Castelvetere,
rammentava che per altre cause avea inviato in alloggiamento a Stilo
la Compagnia di D. Antonio Manrrique, e faceva sapere di aver data
a costui una nota di alcune persone che con dissimulazione e tempo
avrebbe dovuto catturare, particolarmente un Giulio Contestabile
clerico ne' quattr'ordini sacri, intorno al quale diceva: «mi sarei
recato fino a Costantinopoli per prenderlo, se avessi saputo di certo
che là si fosse trovato» (onde si vede che alle così dette spagnolate
partecipavano già molto bene anche i napoletani), «essendo questo
clerico uno de' più vigliacchi e de' principali nella congiura, così
come fra Tommaso Campanella, per quello che tengo provato contro di
lui, come pure per avere questo vigliacco preso il ritratto del Re
Nostro Signore e postolo sotto i suoi piedi, dicendogli mille ingiurie
come sta provato». Ora D. Antonio avea colto ad un tempo costui ed
anche l'altro parimente congiurato, e trovandosi il Contestabile
clerico e soggetto del Vescovo di Squillace, egli aspettava l'ordine
di S. E., per sapere cosa avesse a fare di lui, e se S. E. comandasse
d'inviarlo insieme co' frati, perchè così avrebbe eseguito; e frattanto
faceva sapere che avrebbe tradotto que' prigioni a Squillace con gli
altri, recandosi là tra giorni. Aggiungeva che in conformità degli
ordini avuti per far prendere i clerici di Seminara, colpevoli di
resistenza alla giustizia e di ripresa di carcerati dalle mani di
essa, avea provveduto in guisa che, essendo presi, li consegnerebbe
in nome di S. E. al Vescovo di Mileto; e a tale proposito diceva,
«questi clerici vanno armati di ogni specie d'armi, e sempre stanno
nelle Chiese con altri fuorusciti favorendosi vicendevolmente, ciò
che questi Vescovi permettono, e temo che la maggior parte delle
vigliaccherie che si fanno sieno imputabili a' clerici, propriamente
perchè non vengono gastigati e sono di esempio agli altri». — Ma
come mai era avvenuto un simile cambiamento verso il Contestabile
e il Di Francesco? Il Campanella non ne parlò nella sua Narrazione,
tuttavia ne abbiamo notizie sufficienti negli Atti giudiziarii che
si conservano in Firenze[419], e non ne manca qualche cenno anche nel
processo di eresia. Sappiamo che dopo la denunzia del Contestabile e
la richiesta di una Commissione al Di Francesco contro il Campanella
e complici, la Commissione fu accordata: entrambi si diedero alla
ricerca degl'incolpati, e come assai più tardi ebbe a dire fra Pietro
di Stilo nel processo di eresia, entrambi cercarono di far pigliare
Gio. Geronimo Prestinace morto o vivo[420]; quanto poi al Campanella,
come ci mostrano gli Atti di Firenze, essendo stato lui già preso,
ne furono dal Di Francesco carcerati i parenti. Abbiamo visto che il
Campanella si mostrò esasperato contro di loro fin dal momento della
sua cattura, e che nello scrivere la sua Dichiarazione calcò la mano
particolarmente sul Contestabile e il Di Francesco, esponendo fra
le altre cose l'oltraggio fatto da Giulio al ritratto del Re; ma in
sèguito, e forse nel sapere che il suo vecchio padre e il suo fratello
Gio. Pietro erano venuti nelle stesse carceri di Squillace per mano di
que' ribaldi, egli diede contro il Contestabile una formale denunzia o
«capi _in scriptis_» come allora si diceva; ed anche il Petrolo diede
una Dichiarazione scritta nello stesso senso, che trovasi integralmente
inserta nella Difesa del Contestabile, e che poi in Napoli disse
di avere scritta ad istigazione del Campanella. Si trattava sempre
dell'oltraggio fatto dal Contestabile al ritratto del Re Filippo nella
camera di fra Tommaso, e non vi fu nemmeno una completa uniformità
nella esposizione delle circostanze occorse da parte di entrambi i
rivelanti, senza dubbio perchè non ebbero agio di ridursele bene a
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