Fra Tommaso Campanella, Vol. 1 - 11
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andare a Roma, ed anche ad occasione del suo primo trasferimento da
Napoli ci abbia fatto leggere nel _Syntagma_ «Romam perrexi», questa
volta ci fa leggere il trasferimento da Padova con le parole «Romam
perductus»: il D'Ancona, nel recarle in italiano, ha adoperata la
frase «portandomi a Roma», ma noi vi abbiamo scorto un senso passivo
e non attivo, ed abbiamo perciò adoperata la frase «tradotto a Roma».
D'altronde bisogna tener presenti le circostanze di tale andata a
Roma, la perdita che vi fece di diverse opere scritte in Padova (la
_Filosofia di Empedocle_, la nuova _Fisiologia_, l'_Apologetico del
Telesio_ contro il Chiocco e la _Rettorica_, le sole opere che, o in
originale o in copia, esistevano presso di lui) e il rinvenimento nel
S.^to Officio di tutte le altre opere che avea già precedentemente
perdute in Bologna (ved. qui pag. 62): questo ci pare che indichi
senz'altro essere stato il Campanella strappato bruscamente dal luogo
della sua dimora in Padova, poi tradotto a Roma e consegnato nelle
carceri del S.^to Officio, dove ebbe anche a trovarsi in presenza delle
opere toltegli in Bologna, e a doverne rispondere.
Le principali imputazioni, dalle quali dovè difendersi, furono
certamente sempre il non aver denunziato l'ebraizzante e l'essersi
reso colpevole di eretica pravità. Ma a queste se ne aggiunsero ancora
altre, alcune delle quali vennero senza dubbio messe innanzi nel
tempo in cui il processo si svolgeva in Padova: esse furono, l'aver
composto un empio Sonetto contro Cristo, l'aver manifestato eresie
in Calabria, come risultava dalla deposizione di un suo conterraneo
accusato egualmente di eresia nel tribunale del Vescovo di Squillace,
l'essere stato trovato in possesso di un libro di Geomanzia senza il
debito permesso, l'avere enunciate proposizioni censurabili nell'opera
_De sensu rerum_ toltagli in Bologna. La 1ª e 2ª di tali imputazioni
aggiunte trovansi registrate nella lettera al Papa ed a' Cardinali
pubblicata dal Centofanti, ma vedremo anche nel 5º processo sostenuto
in Napoli la deposizione di un suo intimo amico (fra Dionisio Ponzio),
nella quale è detto che il Campanella medesimo gli aveva parlato di
un Sonetto bruttissimo contro Cristo, e glie lo aveva anche recitato,
per lo quale era stato innocentemente inquisito in Roma[121]. La 3ª
imputazione, quella di essere stato trovato in possesso di un libro
di Geomanzia, ciò che ci sembra aver dovuto accadere in Padova nel
momento della cattura, trovasi registrata nella Informazione pubblicata
dal Capialbi[122]. L'ultima, quella delle opinioni censurabili emesse
nell'opera _De sensu rerum_, trovasi registrata con varie particolarità
nell'opera medesima rifatta dall'autore in italiano più tardi e poi
pubblicata in latino nel 1620, come anche nella Difesa dell'opera
premessa alla 2ª edizione di Parigi 1637: in quest'ultimo documento è
detto che la risposta agli argomenti degl'Inquisitori fu data nel 1598,
e son citati gli Atti del 1598, ma abbiamo ragione di credere che vi
sia incorso un errore di data, dovendosi leggere 1595, tanto più che a
pochi versi di distanza si ha un altro errore di data manifestissimo,
trovandosi detto che la 1ª edizione dell'opera fu fatta nel 1617,
mentre si sa che fu fatta nel 1620. — Non conosciamo la serie degli
argomenti addotti dal Campanella contro ciascuna imputazione, ma non ci
manca per taluna di esse qualche indizio e per le altre qualche notizia
positiva, che il Campanella medesimo ha avuto cura di fornire. Abbiamo
già detto che per la faccenda dell'ebraizzante ci sarebbe qualche
indizio dell'essersi il Campanella difeso adducendo che si trattava
di un teste unico; ma doverono esservi ancora altri argomenti che non
conosciamo. Quanto al Sonetto, egli giunse a dimostrare che apparteneva
all'Aretino; quanto all'eresia che si pretendeva aver manifestata
in Calabria, lo stesso denunziante si ritrattò, confessando avere
inventato il fatto per salvarsi da' pericoli che correva; quanto al
libro di Geomanzia, affermò che gli fu preso mentre intendeva portarlo
all'Inquisitore per la licenza; quanto alle proposizioni censurabili
emesse nell'opera _De sensu rerum_, ecco in quali termini il Campanella
ce ne lasciò il ricordo nell'opera rifatta, e poi anche nella Difesa
di essa allegata all'edizione di Parigi. Nell'opera (ms. napoletano)
al lib. 2.º cap. 32 scrisse: «L'argomento che mi fece l'Inquisitione
contra, et poi restò da me sodisfatto fu questo. Che sequirebbe, che
pure i Vermi, et le bestie di questa beata mente fossero informati,
et capaci di beatitudine humana; io risposi che non sequita, poichè
veggiamo tanti pidocchi et vermi generarsi nella testa dell'huomo, et
tanti altri vermi dentro il ventre, et in varii membri et visceri,
ne per questo tali bestiole hanno la mente rationale dell'huomo, ma
solo il senso breve, et corto dell'altre Belve, cossì dentro al mondo
senza quell'anima beata ma non (_int_. con) sensi partiali, et questa
risposta per contrario e certo essempio provata non hanno potuto
impugnare gli contradittori». Nella Difesa poi del libro, allegata
all'edizione fattane in Parigi nel 1637 (pag. 90) la cosa medesima è
espressa ne' seguenti termini; ne diamo tradotto il brano relativo.
«Esaminando i Padri i 4 libri nostri manoscritti _De sensu rerum_
non apposero nulla contro il senso naturale delle cose, nè che abbia
ammesso l'anima del mondo assistente con Agostino, Basilio, il Niceno,
il Ficino, e Platone, ma solamente questo: se c'è un'anima del mondo,
essa di conseguenza è beatificabile o beata, e però lo sono anche
le anime de' bruti e tutte le parti del mondo. Risposi, come si vede
negli Atti dell'anno 1598 (ciò che narrai pure nel mio libro De Sensu
rerum stampato nell'anno 1617) che se si ammetta un'anima del mondo
assistente e reggente con intelligenza beata, che può essere una delle
Dominazioni, non per questo le anime de' bruti e le cose naturali
senzienti sarebbero del pari beatificabili, poichè non sono della
sostanza e derivazioni di quell'anima partecipanti del comune senso
naturale; come non vi sarebbero nè potenze nè appetito delle cose,
se non per partecipazione innata delle primalità. Poichè così pure i
vermi nati nel ventre e i pidocchi nati nel capo dell'uomo non sono
razionali a causa dell'anima razionale dell'uomo, ma solo sensuali
a causa del loro partecipare del comune senso, nascendo similmente
dalle fecce dell'uomo e da' cadaveri; nè conoscono l'anima dell'uomo,
come neanche noi conosciamo l'anima del mondo pel senso ma dopo lunghi
sillogismi. La risposta medesima dànno S. Gregorio Niceno e S. Agostino
sopra citati, che accordano al mondo una virtù razionale quasi anima,
poichè ammettono in ciascun ente un'anima propria, emanante o da Dio,
come nell'uomo, o dagli elementi, come ne' bruti, nelle piante ecc., o
dalla luce sensuale comune a tutti secondochè si è detto nella serie 3ª
e 4ª; ed avendo così risposto, pregai i Governatori del S.^to Officio
che mi legassero o con ragioni o con precetto, se non dovessi tenere
tale opinione; e non vollero, ma concessero la facoltà di tenerla, e i
Sig.^ri Cardinali Ascolano, Santorio e Sarnano, dottissimi Inquisitori,
dissero che io combatteva bene con questa opinione contro gli Atei e in
difesa de' Padri».
Così il Campanella giunse a liberarsi da questo processo che poteva
riuscirgli fatale, segnatamente per la 1.ª e 2.ª imputazione, per le
quali non conosciamo veramente il suo sistema di difesa, mentre per
esse non c'era altro esito possibile che o la liberazione o l'estremo
supplizio. Vedremo che quando poi se ne andò in Calabria, parlando
col suo amico fra Dionisio del Sonetto malamente attribuitogli, disse
che il denunziante era stato condannato alla galera in vita: ma questo
riesce poco credibile, poichè uno de' lati deboli del S.^to Officio era
il non dar travagli a' testimoni o denunzianti, quando le colpe da essi
poste innanzi si trovassero insussistenti, e ciò per non intiepidire
nel pubblico l'accorrere al suo tribunale; bisognava che vi fosse
indizio d'insigne mala fede per deciderlo a colpire i testimoni falsi,
ed allora li colpiva con vigore secondo il suo costume. Ad un altro
amico (fra Domenico Petrolo) egli disse che era stato rilasciato _ac si
non fuisset captus_: questo ci riesce veramente credibile, ma nemmeno
al punto da non ammettere che sia stato obbligato a rimanere in un
convento determinato, e propriamente in quello di S.^ta Sabina come se
n'ha qualche indizio; il foro ecclesiastico, egualmente che il laico,
non soleva facilmente abbandonare del tutto chi avea dato motivo di
far trattare qualche sua causa, ma lo voleva sotto la mano per qualche
tempo. Da ultimo dobbiamo ricordare che parlandosi delle opere presegli
in Bologna e trovate presso il S.^to Officio, nel _Syntagma_ si legge
che non le richiese, essendo sul punto di rifarle migliori: e dobbiamo
dire che questo non si comprende agevolmente, poichè quelle opere
si trovavano come allegate ad un processo, e in simili condizioni il
riaverle non era consentito.
Certo è che molto dovè costare al Campanella il liberarsi da questo
processo, e vi fu bisogno di potenti raccomandazioni. Anche per
esso, e principalmente per esso, dovè trovare un potente aiuto in D.
Lelio Orsini, il quale, come abbiamo già detto, era in buonissimi
termini con la Curia Romana e con lo stesso Papa. Un altro aiuto
valevolissimo dovè trovare nel Commissario generale del S.^to Officio
fra Alberto Tragagliolo, che secondo l'uso attendeva alla redazione
degli Atti, e poi, sedendo _pro Tribunali_, emetteva la sentenza data
dalla Sacra Congregazione Cardinalizia, alla quale era devoluta la
trattazione della causa e la sua decisione: avremo tra poco a parlare
di una lettera del Campanella al Tragagliolo, nella quale si vede
che il filosofo rimase in corrispondenza col degno frate, e si trova
menzionata «la misericordiosa giustizia» di lui, «il grand'obbligo»
che il filosofo gli ha, «l'ufficio di pietosa madre» che avea fatto,
l'essersi «promesso di conformarsi al senno di lui», il volere «da lui
dipendere meritamente»; le quali espressioni verso il Tragagliolo,
e l'interesse da costui spiegato di poi anche in Napoli verso il
Campanella, mostrano che il Commissario del S.^to Officio dovè sentire
una grande simpatia pel povero prigioniero, così giovane, così dotto
e così disgraziato. Forse egli conobbe le opere della _Monarchia de'
Cristiani_ e _Del Regime della Chiesa_, che certamente non furono
presentate in giudizio e non è difficile intenderne le ragioni:
così anche conobbe forse il _Compendio di Fisiologia_ e i _Discorsi
politici_, in particolare quelli a' Principi d'Italia, che al pari
di talune poesie vedremo essere stati composti nel carcere. Infine
il Campanella potè avere l'aiuto anche di personaggi altissimi,
dell'Arciduca Massimiliano e dell'Imperatore, i quali scrissero in
favore di lui e di Gio. Battista Clario egualmente carcerato, pel cui
mezzo egli fece pervenire all'Imperatore una copia de' suoi _Discorsi
a' Principi d'Italia_: questo fatto venne da lui affermato nelle Difese
che scrisse ad occasione del processo della congiura avuto in Napoli,
nè v'è ragione di dubitarne[123]. Ed ecco dove mette capo una certa
relazione del Campanella con gli Arciduchi e con l'Imperatore, onde
vedremo che egli si rivolse anche a costoro durante il lungo martirio
di Napoli. Nello stesso documento è detto avere inoltre inviato
all'Arciduca Massimiliano il _Dialogo contro i Luterani_; ma tale invio
potè verificarsi dopo l'uscita dal carcere, giacchè il _Dialogo_ non
fu composto prima, e ben si vede che il Campanella ebbe cura di farsi
conoscere dall'Arciduca anche posteriormente.
Questo intanto ci conduce a parlare delle opere composte dal Campanella
in Roma, de' suoi compagni di carcere, delle poesie che quivi dettò.
Nel _Syntagma_, a proposito de' libri perduti in Padova, si legge:
«In Roma dunque dettai di nuovo un piccolo _Compendio di Fisiologia_,
nè di esso mi avea dato mai più alcun pensiero, ma l'anno 1611 Tobia
Adami l'ebbe da non so chi in Padova e lo pubblicò sotto il titolo
di _Prodromo di tutta la filosofia del Campanella_. Inoltre cominciai
un _Compendio di Fisiologia_, sperando di risarcire la perdita di un
grosso volume; ed in esso proponeva le opinioni di tutti gli antichi
e le comparava con le nostre, il quale libro mandai poi a Mario Tufo.
Al medesimo Mario scrissi un trattato _Della prestanza dell'arte
cavalleresca_». Poi, venendosi a parlare non più per incidente delle
opere scritte in Roma, si legge ancora: «In Roma avea parimente scritto
in versi toscani _Sul modo di sapere_ e _su cose fisiologiche_,
e perdei l'uno e l'altro libro in Napoli; scrissi anche in Roma
una _Poetica secondo i proprii principii_, la quale diedi a Cinzio
Albobrandini Card.^l S. Giorgio, e trovasi nelle mani di molti, benchè
uno spagnuolo l'abbia tradotta nella lingua sua e vi abbia apposto il
suo nome: la qual cosa, allorchè ebbi a vederla in Napoli nel Regio
Castello, l'anno 1618, mi mosse ad un riso veramente grandissimo;
ma dovunque i nostri esemplari testificano contro il plagiario, e
lo stesso ladro, allo scopo di covrire un po' meglio il furto, in
fine si scusa perchè, quantunque sia spagnuolo, sovente cita poeti
italiani come l'Ariosto, il Tasso, il Guarini. Scrissi pure in Roma un
_Dialogo_ in lingua volgare, _del modo di convincere gli eretici del
nostro tempo e tutti i settarii insorgenti contro la Chiesa Romana_,
buono per qualunque mediocre ingegno, e alla sola prima disputa;
lo diedi prima a Michele Bonello Card.^le Alessandrino e ad Antonio
Persio, ed anche a te non così per tempo io lo concessi, o amicissimo
Naudeo, comunque non perchè abbi a darlo in luce, mentre da lunga pezza
oramai avea trasfuso questo dialogo nella _Lettera anti-Luterana_
a' filosofi e principi oltramontani per instaurare la religione.
Inoltre egualmente trovandomi in Roma, diedi agli amici Orazioni,
parecchi _Discorsi politici_, molte _Poesie toscane e latine_ anche
da diffondersi col nome loro. Qui pure cominciai a comporre _Versi
toscani con metro latino_, come si veggono nelle nostre Cantiche, e
l'_Arte metrica della lingua volgare in tutto simile alla latina_, con
regole sicure onde poter conoscere ed osservare la quantità di ciascuna
sillaba, e diedi questa a Gio. Battista Clario medico dell'Arciduca
Carlo in Roma e a due giovani Ascolani»[124]. Tale è la serie delle
opere composte in Roma nella fine del 1594, nel 1595, 1596 e quasi
tutto il 1597, nuovo gruppo che viene ad aggiungersi a quelli delle
opere precedenti e ad ingrossare di molto il Catalogo: ma gioverebbe
conoscere quali di esse siano state scritte nel carcere e quali
fuori, come pure con quale ordine di successione; e il _Syntagma_
non ci dà lumi sufficienti per conoscerlo, che anzi ci apparisce
sempre più un'esposizione non solo disordinata ma anche assai oscura
in qualche punto di molta importanza. Trovando registrato in primo
luogo il piccolo _Compendio di Fisiologia_, che venne pubblicato poi
dall'Adami in Frankfort nel 1617 col titolo di _Prodromus Philosophiae
instaurandae_, si sarebbe autorizzati a classificarlo prima di ogni
altra opera di questo gruppo; tuttavia, guardando bene al _Syntagma_,
si rileva che esso trovasi registrato in primo luogo per incidente.
D'altro lato abbiamo nella Bibl. Magliabechiana (XII, 5) un Codice
intitolato _Compendium Ph.iae (sic) Campanellae ad Paulum Attilium,
Romae 1595_, e, come il prof.^r Fiorentino ha fatto notare, esso
corrisponde esattamente al _Prodromus_[125]; possediamo quindi una data
certa, la quale autorizza ad ammettere che la detta opera abbia dovuto
essere composta nel carcere, ma non necessariamente in primo luogo. E
bisogna aggiungere che non manca un fortissimo indizio, da noi trovato
in un'opera appartenente ad un compagno di carcere del Campanella di
cui si discorrerà tra poco, per lo quale si è autorizzati a dire che
questo libro fu «il secondo» tra' libri da lui composti nel carcere;
nè abbiamo bisogno di far notare, che avendo esso la data certa del
1595, e non essendo stato il primo tra' libri composti in Roma, si
può tanto meglio affermare che il trasferimento del Campanella alle
carceri di questa città sia avvenuto nella fine del 1594. Ciò posto,
deve dirsi che in tale periodo egli abbia «cominciato» a scrivere
l'altro _Compendio di Fisiologia_, diverso da quello ora contemplato,
in risarcimento di un grosso volume perduto che comparava le opinioni
degli antichi alle proprie, la quale circostanza autorizzerebbe a dire
che egli avesse avuta l'intenzione di risarcire la perdita del libro di
_Fisiologia_ sottrattogli a Bologna, composto di «dispute contro tutte
le sètte» o veramente del libro _De Rerum universitate_ (confr. pag.
53 in nota). Di certo ne venne fuori l'inizio di ciò che fu poi detto
l'«Epilogo» o «Epilogo magno di Filosofia», essendo state le dispute
contro le sètte riserbate per un'appendice che fu composta più tardi
col titolo di Quistioni; e vedremo che l'opera fu cominciata e poi
proseguita in italiano, la quale novità, imitata in sèguito per lungo
tempo, merita di essere additata. Ma il lavoro fu presto interrotto
per comporre il _Compendium Phisiologiae_ in latino, verosimilmente
anche questa volta per dettarne lezioni, e forse a quel Paolo Attilio,
che potè essere uno de' due giovani Ascolani sopra menzionati. Seguì
poi, con ogni probabilità egualmente nel carcere, la composizione così
del trattato della _Prestanza dell'arte cavalleresca_, come de' _Versi
toscani sul modo di sapere o su cose fisiologiche_, primi tentativi
delle poesie filosofiche alle quali il Campanella attese di poi, alcuni
anni più tardi: ma dobbiamo assolutamente rimandare all'ultimo luogo
la composizione della _Poetica_, al periodo in cui il Campanella già
stava fuori carcere, e si agitava presso il Card.^l S. Giorgio per
poter tornare in Calabria, cioè nel 1596, come egli stesso dice in
un'altra opera analoga[126]; dobbiamo inoltre rimandare egualmente al
periodo in cui già stava fuori carcere, ma a' primi tempi di questo
periodo, la composizione del _Dialogo del modo di convincere gli
eretici_, pel quale vedremo esservi una data e una dimora certa, lo
scorcio del 1595 nel convento di S.^ta Sabina. Invece gl'importanti
_Discorsi politici_, che il _Syntagma_ non specifica e che sappiamo
essere stati inviati all'Arciduca Massimiliano e all'Imperatore, come
anche molte _Poesie italiane e latine_, i _Versi toscani con metro
latino_, e l'_Arte metrica_ corrispondente che fu donata al Clario, si
debbono assegnare al periodo trascorso nel carcere, visto che ne fu
fatto dono al Clario il quale fu compagno di carcere del Campanella,
come diremo tra poco. Tutto considerato, bisogna riconoscere che
il Campanella in Roma, lavorando assai più nel carcere che fuori,
abbia atteso massimamente a procurarsi distrazioni, dapprima con la
filosofia e di poi con la poesia; che abbia posto da parte gli sfoggi
di teocrazia e di fervore religioso, mentre non gli era stato possibile
utilizzare la _Monarchia de' Cristiani_ e _il Regime della Chiesa_,
ripigliando di poi il fervore pel cattolicismo nel suo _Dialogo_,
quando gli fu necessario conciliarsi la benevolenza della Curia, per
essere liberato dall'obbligo di risedere nel convento di S.^ta Sabina e
di non allontanarsi da Roma; che invece abbia posto mano alla politica
e ad una specie notevole di politica ne' suoi _Discorsi_, quando gli
fu necessario conciliarsi la benevolenza de' potenti del Nord ed averne
lettere commendatizie. — Ci corre intanto l'obbligo di fermarci ancora
un poco su questi Discorsi politici composti in Roma. Essi sarebbero
i seguenti, e il titolo li qualifica abbastanza: _Discorsi a' Principi
d'Italia che per bene loro e del cristianesimo non debbono contradire
alla Monarchia di Spagna ma favorirla, e come dal sospetto di quella
si ponno guardare nel Papato e per quella contra infedeli, con modi
veri e mirabili_; ad essi venne forse aggiunto pure l'altro assai
più brutto, che conservasi ms. nella Biblioteca naz. di Parigi e che
7 anni dopo, se non siamo male informati, venne tradotto in latino e
dato alle stampe dal Mylius, _Discorso circa il modo col quale i Paesi
Bassi, volgarmente di Fiandra, si possino ridurre sotto l'obbedienza
del Re Cattolico_[127]. Possiamo dire con certezza che i «Discorsi a'
Principi d'Italia» non doverono essere scritti in quella forma che
ce n'è rimasta: il Campanella ebbe in sèguito a ritoccarli ed anche
ad accrescerli notevolmente, come si rileva dalla maniera che tenne
nel farne menzione in varie circostanze, ed oltracciò dalle opere
che vi si veggono citate e che furono certamente composte più tardi;
così ne avremo ancora a parlare nel corso di questa narrazione, e ci
riserbiamo di dirne qualche cosa di più a miglior tempo. Ma avendo
qui riferite le parole del _Syntagma_ che ad essi alludono, vogliamo
richiamare l'attenzione sul fatto singolare, che mentre nel _Syntagma_
si trova registrato sempre il titolo di ogni più umile lavoro, non si
trovano invece i titoli de' detti Discorsi e specialmente di quelli a'
Principi, che per moltissimi anni, insieme co' Discorsi sulla Monarchia
di Spagna dei quali avremo a parlare più in là, furono tra le più
stimate opere del Campanella, tanto che se ne trovano ancora molto
sparse le copie manoscritte. Siamo nondimeno in grado di spiegarci il
fatto, considerando che al _Syntagma_ fu posto mano dal Campanella e
dal Naudeo il 1631 in Roma, quando il filosofo godeva la protezione di
Papa Urbano VIII, nemicissimo degli spagnuoli ed affettato protettore
del Campanella principalmente per fare una dimostrazione di dispetto
agli spagnuoli, da' quali il Campanella era stato tenuto tanti anni
in carcere e da' quali era in ultima analisi fuggito. La comparsa nel
_Syntagma_ di quel titolo de' _Discorsi a' Principi_, che abbiamo sopra
riportato, sarebbe stata una dissonanza enorme coi tempi, co' luoghi,
con le circostanze, ciò che non avveniva pe' Discorsi sulla Monarchia
di Spagna, dal quale semplice titolo non traspariva se se ne fosse
detto bene o male. Dobbiamo poi anche notare, che nell'Informazione
pubblicata dal Capialbi lo stesso Campanella fa intendere di avere
scritti i Discorsi a' Principi in Padova, «mosso dall'opposizion che li
facean li Venetiani»: ma forse, così dicendo, ebbe allora in animo di
mascherare il ricordo delle peripezie di Roma; e poichè nel _Syntagma_
non si trovano menzionati Discorsi politici composti in Padova, ma se
ne trova invece fatta menzione al tempo della dimora in Roma, mentre
d'altra parte qui veramente si offrì una buona occasione per comporli,
noi ci siamo attenuti alla notizia comunque vaga del _Syntagma_,
accettando quella dell'Informazione nel senso di stabilire, che i
Discorsi a' Principi furono scritti prima di quelli sulla Monarchia di
Spagna e in un periodo che del resto sarebbe circoscitto tra il 1593 e
il 1595[128].
Ci faremo ora a vedere i compagni di carcere del Campanella, e le
Poesie da lui composte nel carcere per quanto sarà possibile rinvenirne
le tracce. Sicuramente fu con lui carcerato Gio. Battista Clario, che
nel _Syntagma_ è detto medico dell'Arciduca Carlo; verosimilmente
lo furono anche i due giovani Ascolani, de' quali si ha notizia
contemporaneamente al Clario, e forse uno di loro ha potuto essere
il Paolo Attilio cui venne indirizzato il Compendio di Fisiologia.
Non diremo essere stato compagno di carcere anche Giordano Bruno,
comunque sia noto che nel tempo medesimo egli penava nel carcere
dell'Inquisizione: tutto induce a credere che la sorte del Bruno
fosse stata già definita, ed essendo destinato all'estremo supplizio,
e dovendo esser tenuto in un carcere più sicuro giusta le regole del
S.^to Officio, egli si trovava forse nelle carceri di Tor di Nona, come
ci è accaduto di rilevare per taluno colpito da gravissime imputazioni,
la cui storia si legge nella Raccolta di scritture di S.^to Officio
esistente nel Trinity-College di Dublino. Ma con ogni probabilità,
negli ultimi mesi della sua dimora nel carcere, il Campanella vide
entrarvi anche un dotto napoletano, Colantonio Stigliola, che senza
dubbio avea già conosciuto presso Gio. Battista Della Porta: ci è
infatti venuto tra mano un processo di S.^to Officio sinora ignoto
contro lo Stigliola, dal quale apparisce che costui trovavasi già
carcerato in Roma nel luglio 1595 e rimase carcerato fin dopo l'aprile
1596. Avremo più in là occasione di parlare dello Stigliola e di
questo suo processo; per ora basti averlo menzionato quale probabile
compagno di carcere del Campanella, importandoci molto di dire invece
qualche cosa del Clario compagno di carcere certo. Le nostre ricerche
intorno a costui ci menano a ritenere che egli sia stato appunto
quel Gio. Battista Clario, di cui si hanno alcuni Dialoghi editi nel
1608, dove trovasi qualificato Protomedico della Stiria, mentre nel
_Syntagma_ è detto medico dell'Arciduca Carlo. Egli parrebbe Forlivese
di origine, giacchè si ha pure un Francesco Clario appunto di Forlì,
che nel 1585 diè alle stampe un Panegirico sull'umanità dell'Arciduca
Carlo, dal quale era tenuto a studiare in Padova[129]: ad ogni modo
gioverà fermarci un poco su' Dialoghi di Gio. Battista Clario[130].
Fin dalla Dedica di questi Dialoghi trovasi ricordato che essi vennero
composti in Roma essendo l'autore molto giovane, ed è notevole che i
tre primi hanno per interlocutori un Panfilo ed un Armenio entrambi
carcerati. Panfilo vi si rileva giovane di forti studii, colmo di
tutti i beni tanto da esserne invidiato, ed allora carcerato da tre
anni per un solo e falso calunniatore, dolente di trovarsi in quelle
«strane prigioni», accorato della mala opinione che da molti si sarebbe
avuta di lui; Armenio vi si rileva già «altre volte trovatosi in
simili conflitti», consolatore di Panfilo invitandolo a tener presente
tra le altre cose, la bontà di quelli che dovranno giudicarlo; senza
essere visionarii, ci pare di poter dire fin d'ora che si tratti qui
delle prigioni di S.^to Officio, le quali appunto compromettevano
assai la riputazione, del Clario scoraggiato, del Campanella avvezzo
a quel trattamento e fiducioso in fra Alberto Tragagliolo. Ancora
Panfilo, molto erudito, disputa in filosofia mostrandosi più sovente
peripatetico, ed Armenio, tanto più erudito, abbondantissimo in
citazioni, parla anche di astrologia e menziona S. Bernardo, S. Gio.
Crisostomo, Lattanzio, e «il secondo libro de' principii delle cose
da lui composto in quella prigione in lingua latina»[131]; non ci par
dubbio che si alluda qui abbastanza chiaramente al secondo _Compendio
di Fisiologia_, a quello composto in lingua latina dopo che n'era stato
già cominciato un altro (scritto invece in italiano), al Compendio che
tanti anni dopo fu pubblicato dall'Adami col titolo di _Prodromus_;
ed ecco perchè abbiamo detto più sopra aversi fortissimo indizio che
prima sia stato cominciato il Compendio in italiano che divenne poi
«l'Epilogo di Filosofia», e sempre nel carcere di Roma. Oltre a tutto
ciò, nel Dialogo 7º del Clario, un altro interlocutore dice di avere
avuto il giorno innanzi una disputa con un Telesiano, e fa sapere che
il Telesio vuole estirpare la filosofia di Aristotile e difendere
quella di Parmenide e Melisso, che la sua dottrina particolarmente
nel Regno di Napoli è stata accettata, accresciuta, ampliata,
«frà gl'altri da Tommaso Campanella, huomo in vero nato a tutte le
scienze, il quale e con la voce e con gli scritti ha procurato di
darle riputatione grandissima»[132]. Dobbiamo poi aggiungere ancora
un'altra circostanza tratta da altro fonte, che crediamo doversi
riferire al Clario. Vedremo che durante l'ultimo processo patito dal
Campanella, uno de' più cari amici suoi è carcerato egualmente (fra
Pietro Presterà di Stilo) ebbe a dire di aver saputo dallo stesso
Campanella che un astronomo «delle parti di Germania», carcerato con
lui nella S.^ta Inquisizione, gli aveva presagito la Monarchia del
mondo, perocchè aveva sette pianeti ascendenti favorevoli[133]: senza
entrare ne' particolari della notizia, che saranno chiariti a miglior
tempo, diciamo qui che l'astrologo in parola dovè essere appunto il
Clario, sapendosi che era medico, e quindi, secondo il gusto del tempo,
facile cultore di astrologia, oltrechè medico di Corte nella Stiria.
Così il germe inoculato al Campanella in Cosenza ed Altomonte veniva
Napoli ci abbia fatto leggere nel _Syntagma_ «Romam perrexi», questa
volta ci fa leggere il trasferimento da Padova con le parole «Romam
perductus»: il D'Ancona, nel recarle in italiano, ha adoperata la
frase «portandomi a Roma», ma noi vi abbiamo scorto un senso passivo
e non attivo, ed abbiamo perciò adoperata la frase «tradotto a Roma».
D'altronde bisogna tener presenti le circostanze di tale andata a
Roma, la perdita che vi fece di diverse opere scritte in Padova (la
_Filosofia di Empedocle_, la nuova _Fisiologia_, l'_Apologetico del
Telesio_ contro il Chiocco e la _Rettorica_, le sole opere che, o in
originale o in copia, esistevano presso di lui) e il rinvenimento nel
S.^to Officio di tutte le altre opere che avea già precedentemente
perdute in Bologna (ved. qui pag. 62): questo ci pare che indichi
senz'altro essere stato il Campanella strappato bruscamente dal luogo
della sua dimora in Padova, poi tradotto a Roma e consegnato nelle
carceri del S.^to Officio, dove ebbe anche a trovarsi in presenza delle
opere toltegli in Bologna, e a doverne rispondere.
Le principali imputazioni, dalle quali dovè difendersi, furono
certamente sempre il non aver denunziato l'ebraizzante e l'essersi
reso colpevole di eretica pravità. Ma a queste se ne aggiunsero ancora
altre, alcune delle quali vennero senza dubbio messe innanzi nel
tempo in cui il processo si svolgeva in Padova: esse furono, l'aver
composto un empio Sonetto contro Cristo, l'aver manifestato eresie
in Calabria, come risultava dalla deposizione di un suo conterraneo
accusato egualmente di eresia nel tribunale del Vescovo di Squillace,
l'essere stato trovato in possesso di un libro di Geomanzia senza il
debito permesso, l'avere enunciate proposizioni censurabili nell'opera
_De sensu rerum_ toltagli in Bologna. La 1ª e 2ª di tali imputazioni
aggiunte trovansi registrate nella lettera al Papa ed a' Cardinali
pubblicata dal Centofanti, ma vedremo anche nel 5º processo sostenuto
in Napoli la deposizione di un suo intimo amico (fra Dionisio Ponzio),
nella quale è detto che il Campanella medesimo gli aveva parlato di
un Sonetto bruttissimo contro Cristo, e glie lo aveva anche recitato,
per lo quale era stato innocentemente inquisito in Roma[121]. La 3ª
imputazione, quella di essere stato trovato in possesso di un libro
di Geomanzia, ciò che ci sembra aver dovuto accadere in Padova nel
momento della cattura, trovasi registrata nella Informazione pubblicata
dal Capialbi[122]. L'ultima, quella delle opinioni censurabili emesse
nell'opera _De sensu rerum_, trovasi registrata con varie particolarità
nell'opera medesima rifatta dall'autore in italiano più tardi e poi
pubblicata in latino nel 1620, come anche nella Difesa dell'opera
premessa alla 2ª edizione di Parigi 1637: in quest'ultimo documento è
detto che la risposta agli argomenti degl'Inquisitori fu data nel 1598,
e son citati gli Atti del 1598, ma abbiamo ragione di credere che vi
sia incorso un errore di data, dovendosi leggere 1595, tanto più che a
pochi versi di distanza si ha un altro errore di data manifestissimo,
trovandosi detto che la 1ª edizione dell'opera fu fatta nel 1617,
mentre si sa che fu fatta nel 1620. — Non conosciamo la serie degli
argomenti addotti dal Campanella contro ciascuna imputazione, ma non ci
manca per taluna di esse qualche indizio e per le altre qualche notizia
positiva, che il Campanella medesimo ha avuto cura di fornire. Abbiamo
già detto che per la faccenda dell'ebraizzante ci sarebbe qualche
indizio dell'essersi il Campanella difeso adducendo che si trattava
di un teste unico; ma doverono esservi ancora altri argomenti che non
conosciamo. Quanto al Sonetto, egli giunse a dimostrare che apparteneva
all'Aretino; quanto all'eresia che si pretendeva aver manifestata
in Calabria, lo stesso denunziante si ritrattò, confessando avere
inventato il fatto per salvarsi da' pericoli che correva; quanto al
libro di Geomanzia, affermò che gli fu preso mentre intendeva portarlo
all'Inquisitore per la licenza; quanto alle proposizioni censurabili
emesse nell'opera _De sensu rerum_, ecco in quali termini il Campanella
ce ne lasciò il ricordo nell'opera rifatta, e poi anche nella Difesa
di essa allegata all'edizione di Parigi. Nell'opera (ms. napoletano)
al lib. 2.º cap. 32 scrisse: «L'argomento che mi fece l'Inquisitione
contra, et poi restò da me sodisfatto fu questo. Che sequirebbe, che
pure i Vermi, et le bestie di questa beata mente fossero informati,
et capaci di beatitudine humana; io risposi che non sequita, poichè
veggiamo tanti pidocchi et vermi generarsi nella testa dell'huomo, et
tanti altri vermi dentro il ventre, et in varii membri et visceri,
ne per questo tali bestiole hanno la mente rationale dell'huomo, ma
solo il senso breve, et corto dell'altre Belve, cossì dentro al mondo
senza quell'anima beata ma non (_int_. con) sensi partiali, et questa
risposta per contrario e certo essempio provata non hanno potuto
impugnare gli contradittori». Nella Difesa poi del libro, allegata
all'edizione fattane in Parigi nel 1637 (pag. 90) la cosa medesima è
espressa ne' seguenti termini; ne diamo tradotto il brano relativo.
«Esaminando i Padri i 4 libri nostri manoscritti _De sensu rerum_
non apposero nulla contro il senso naturale delle cose, nè che abbia
ammesso l'anima del mondo assistente con Agostino, Basilio, il Niceno,
il Ficino, e Platone, ma solamente questo: se c'è un'anima del mondo,
essa di conseguenza è beatificabile o beata, e però lo sono anche
le anime de' bruti e tutte le parti del mondo. Risposi, come si vede
negli Atti dell'anno 1598 (ciò che narrai pure nel mio libro De Sensu
rerum stampato nell'anno 1617) che se si ammetta un'anima del mondo
assistente e reggente con intelligenza beata, che può essere una delle
Dominazioni, non per questo le anime de' bruti e le cose naturali
senzienti sarebbero del pari beatificabili, poichè non sono della
sostanza e derivazioni di quell'anima partecipanti del comune senso
naturale; come non vi sarebbero nè potenze nè appetito delle cose,
se non per partecipazione innata delle primalità. Poichè così pure i
vermi nati nel ventre e i pidocchi nati nel capo dell'uomo non sono
razionali a causa dell'anima razionale dell'uomo, ma solo sensuali
a causa del loro partecipare del comune senso, nascendo similmente
dalle fecce dell'uomo e da' cadaveri; nè conoscono l'anima dell'uomo,
come neanche noi conosciamo l'anima del mondo pel senso ma dopo lunghi
sillogismi. La risposta medesima dànno S. Gregorio Niceno e S. Agostino
sopra citati, che accordano al mondo una virtù razionale quasi anima,
poichè ammettono in ciascun ente un'anima propria, emanante o da Dio,
come nell'uomo, o dagli elementi, come ne' bruti, nelle piante ecc., o
dalla luce sensuale comune a tutti secondochè si è detto nella serie 3ª
e 4ª; ed avendo così risposto, pregai i Governatori del S.^to Officio
che mi legassero o con ragioni o con precetto, se non dovessi tenere
tale opinione; e non vollero, ma concessero la facoltà di tenerla, e i
Sig.^ri Cardinali Ascolano, Santorio e Sarnano, dottissimi Inquisitori,
dissero che io combatteva bene con questa opinione contro gli Atei e in
difesa de' Padri».
Così il Campanella giunse a liberarsi da questo processo che poteva
riuscirgli fatale, segnatamente per la 1.ª e 2.ª imputazione, per le
quali non conosciamo veramente il suo sistema di difesa, mentre per
esse non c'era altro esito possibile che o la liberazione o l'estremo
supplizio. Vedremo che quando poi se ne andò in Calabria, parlando
col suo amico fra Dionisio del Sonetto malamente attribuitogli, disse
che il denunziante era stato condannato alla galera in vita: ma questo
riesce poco credibile, poichè uno de' lati deboli del S.^to Officio era
il non dar travagli a' testimoni o denunzianti, quando le colpe da essi
poste innanzi si trovassero insussistenti, e ciò per non intiepidire
nel pubblico l'accorrere al suo tribunale; bisognava che vi fosse
indizio d'insigne mala fede per deciderlo a colpire i testimoni falsi,
ed allora li colpiva con vigore secondo il suo costume. Ad un altro
amico (fra Domenico Petrolo) egli disse che era stato rilasciato _ac si
non fuisset captus_: questo ci riesce veramente credibile, ma nemmeno
al punto da non ammettere che sia stato obbligato a rimanere in un
convento determinato, e propriamente in quello di S.^ta Sabina come se
n'ha qualche indizio; il foro ecclesiastico, egualmente che il laico,
non soleva facilmente abbandonare del tutto chi avea dato motivo di
far trattare qualche sua causa, ma lo voleva sotto la mano per qualche
tempo. Da ultimo dobbiamo ricordare che parlandosi delle opere presegli
in Bologna e trovate presso il S.^to Officio, nel _Syntagma_ si legge
che non le richiese, essendo sul punto di rifarle migliori: e dobbiamo
dire che questo non si comprende agevolmente, poichè quelle opere
si trovavano come allegate ad un processo, e in simili condizioni il
riaverle non era consentito.
Certo è che molto dovè costare al Campanella il liberarsi da questo
processo, e vi fu bisogno di potenti raccomandazioni. Anche per
esso, e principalmente per esso, dovè trovare un potente aiuto in D.
Lelio Orsini, il quale, come abbiamo già detto, era in buonissimi
termini con la Curia Romana e con lo stesso Papa. Un altro aiuto
valevolissimo dovè trovare nel Commissario generale del S.^to Officio
fra Alberto Tragagliolo, che secondo l'uso attendeva alla redazione
degli Atti, e poi, sedendo _pro Tribunali_, emetteva la sentenza data
dalla Sacra Congregazione Cardinalizia, alla quale era devoluta la
trattazione della causa e la sua decisione: avremo tra poco a parlare
di una lettera del Campanella al Tragagliolo, nella quale si vede
che il filosofo rimase in corrispondenza col degno frate, e si trova
menzionata «la misericordiosa giustizia» di lui, «il grand'obbligo»
che il filosofo gli ha, «l'ufficio di pietosa madre» che avea fatto,
l'essersi «promesso di conformarsi al senno di lui», il volere «da lui
dipendere meritamente»; le quali espressioni verso il Tragagliolo,
e l'interesse da costui spiegato di poi anche in Napoli verso il
Campanella, mostrano che il Commissario del S.^to Officio dovè sentire
una grande simpatia pel povero prigioniero, così giovane, così dotto
e così disgraziato. Forse egli conobbe le opere della _Monarchia de'
Cristiani_ e _Del Regime della Chiesa_, che certamente non furono
presentate in giudizio e non è difficile intenderne le ragioni:
così anche conobbe forse il _Compendio di Fisiologia_ e i _Discorsi
politici_, in particolare quelli a' Principi d'Italia, che al pari
di talune poesie vedremo essere stati composti nel carcere. Infine
il Campanella potè avere l'aiuto anche di personaggi altissimi,
dell'Arciduca Massimiliano e dell'Imperatore, i quali scrissero in
favore di lui e di Gio. Battista Clario egualmente carcerato, pel cui
mezzo egli fece pervenire all'Imperatore una copia de' suoi _Discorsi
a' Principi d'Italia_: questo fatto venne da lui affermato nelle Difese
che scrisse ad occasione del processo della congiura avuto in Napoli,
nè v'è ragione di dubitarne[123]. Ed ecco dove mette capo una certa
relazione del Campanella con gli Arciduchi e con l'Imperatore, onde
vedremo che egli si rivolse anche a costoro durante il lungo martirio
di Napoli. Nello stesso documento è detto avere inoltre inviato
all'Arciduca Massimiliano il _Dialogo contro i Luterani_; ma tale invio
potè verificarsi dopo l'uscita dal carcere, giacchè il _Dialogo_ non
fu composto prima, e ben si vede che il Campanella ebbe cura di farsi
conoscere dall'Arciduca anche posteriormente.
Questo intanto ci conduce a parlare delle opere composte dal Campanella
in Roma, de' suoi compagni di carcere, delle poesie che quivi dettò.
Nel _Syntagma_, a proposito de' libri perduti in Padova, si legge:
«In Roma dunque dettai di nuovo un piccolo _Compendio di Fisiologia_,
nè di esso mi avea dato mai più alcun pensiero, ma l'anno 1611 Tobia
Adami l'ebbe da non so chi in Padova e lo pubblicò sotto il titolo
di _Prodromo di tutta la filosofia del Campanella_. Inoltre cominciai
un _Compendio di Fisiologia_, sperando di risarcire la perdita di un
grosso volume; ed in esso proponeva le opinioni di tutti gli antichi
e le comparava con le nostre, il quale libro mandai poi a Mario Tufo.
Al medesimo Mario scrissi un trattato _Della prestanza dell'arte
cavalleresca_». Poi, venendosi a parlare non più per incidente delle
opere scritte in Roma, si legge ancora: «In Roma avea parimente scritto
in versi toscani _Sul modo di sapere_ e _su cose fisiologiche_,
e perdei l'uno e l'altro libro in Napoli; scrissi anche in Roma
una _Poetica secondo i proprii principii_, la quale diedi a Cinzio
Albobrandini Card.^l S. Giorgio, e trovasi nelle mani di molti, benchè
uno spagnuolo l'abbia tradotta nella lingua sua e vi abbia apposto il
suo nome: la qual cosa, allorchè ebbi a vederla in Napoli nel Regio
Castello, l'anno 1618, mi mosse ad un riso veramente grandissimo;
ma dovunque i nostri esemplari testificano contro il plagiario, e
lo stesso ladro, allo scopo di covrire un po' meglio il furto, in
fine si scusa perchè, quantunque sia spagnuolo, sovente cita poeti
italiani come l'Ariosto, il Tasso, il Guarini. Scrissi pure in Roma un
_Dialogo_ in lingua volgare, _del modo di convincere gli eretici del
nostro tempo e tutti i settarii insorgenti contro la Chiesa Romana_,
buono per qualunque mediocre ingegno, e alla sola prima disputa;
lo diedi prima a Michele Bonello Card.^le Alessandrino e ad Antonio
Persio, ed anche a te non così per tempo io lo concessi, o amicissimo
Naudeo, comunque non perchè abbi a darlo in luce, mentre da lunga pezza
oramai avea trasfuso questo dialogo nella _Lettera anti-Luterana_
a' filosofi e principi oltramontani per instaurare la religione.
Inoltre egualmente trovandomi in Roma, diedi agli amici Orazioni,
parecchi _Discorsi politici_, molte _Poesie toscane e latine_ anche
da diffondersi col nome loro. Qui pure cominciai a comporre _Versi
toscani con metro latino_, come si veggono nelle nostre Cantiche, e
l'_Arte metrica della lingua volgare in tutto simile alla latina_, con
regole sicure onde poter conoscere ed osservare la quantità di ciascuna
sillaba, e diedi questa a Gio. Battista Clario medico dell'Arciduca
Carlo in Roma e a due giovani Ascolani»[124]. Tale è la serie delle
opere composte in Roma nella fine del 1594, nel 1595, 1596 e quasi
tutto il 1597, nuovo gruppo che viene ad aggiungersi a quelli delle
opere precedenti e ad ingrossare di molto il Catalogo: ma gioverebbe
conoscere quali di esse siano state scritte nel carcere e quali
fuori, come pure con quale ordine di successione; e il _Syntagma_
non ci dà lumi sufficienti per conoscerlo, che anzi ci apparisce
sempre più un'esposizione non solo disordinata ma anche assai oscura
in qualche punto di molta importanza. Trovando registrato in primo
luogo il piccolo _Compendio di Fisiologia_, che venne pubblicato poi
dall'Adami in Frankfort nel 1617 col titolo di _Prodromus Philosophiae
instaurandae_, si sarebbe autorizzati a classificarlo prima di ogni
altra opera di questo gruppo; tuttavia, guardando bene al _Syntagma_,
si rileva che esso trovasi registrato in primo luogo per incidente.
D'altro lato abbiamo nella Bibl. Magliabechiana (XII, 5) un Codice
intitolato _Compendium Ph.iae (sic) Campanellae ad Paulum Attilium,
Romae 1595_, e, come il prof.^r Fiorentino ha fatto notare, esso
corrisponde esattamente al _Prodromus_[125]; possediamo quindi una data
certa, la quale autorizza ad ammettere che la detta opera abbia dovuto
essere composta nel carcere, ma non necessariamente in primo luogo. E
bisogna aggiungere che non manca un fortissimo indizio, da noi trovato
in un'opera appartenente ad un compagno di carcere del Campanella di
cui si discorrerà tra poco, per lo quale si è autorizzati a dire che
questo libro fu «il secondo» tra' libri da lui composti nel carcere;
nè abbiamo bisogno di far notare, che avendo esso la data certa del
1595, e non essendo stato il primo tra' libri composti in Roma, si
può tanto meglio affermare che il trasferimento del Campanella alle
carceri di questa città sia avvenuto nella fine del 1594. Ciò posto,
deve dirsi che in tale periodo egli abbia «cominciato» a scrivere
l'altro _Compendio di Fisiologia_, diverso da quello ora contemplato,
in risarcimento di un grosso volume perduto che comparava le opinioni
degli antichi alle proprie, la quale circostanza autorizzerebbe a dire
che egli avesse avuta l'intenzione di risarcire la perdita del libro di
_Fisiologia_ sottrattogli a Bologna, composto di «dispute contro tutte
le sètte» o veramente del libro _De Rerum universitate_ (confr. pag.
53 in nota). Di certo ne venne fuori l'inizio di ciò che fu poi detto
l'«Epilogo» o «Epilogo magno di Filosofia», essendo state le dispute
contro le sètte riserbate per un'appendice che fu composta più tardi
col titolo di Quistioni; e vedremo che l'opera fu cominciata e poi
proseguita in italiano, la quale novità, imitata in sèguito per lungo
tempo, merita di essere additata. Ma il lavoro fu presto interrotto
per comporre il _Compendium Phisiologiae_ in latino, verosimilmente
anche questa volta per dettarne lezioni, e forse a quel Paolo Attilio,
che potè essere uno de' due giovani Ascolani sopra menzionati. Seguì
poi, con ogni probabilità egualmente nel carcere, la composizione così
del trattato della _Prestanza dell'arte cavalleresca_, come de' _Versi
toscani sul modo di sapere o su cose fisiologiche_, primi tentativi
delle poesie filosofiche alle quali il Campanella attese di poi, alcuni
anni più tardi: ma dobbiamo assolutamente rimandare all'ultimo luogo
la composizione della _Poetica_, al periodo in cui il Campanella già
stava fuori carcere, e si agitava presso il Card.^l S. Giorgio per
poter tornare in Calabria, cioè nel 1596, come egli stesso dice in
un'altra opera analoga[126]; dobbiamo inoltre rimandare egualmente al
periodo in cui già stava fuori carcere, ma a' primi tempi di questo
periodo, la composizione del _Dialogo del modo di convincere gli
eretici_, pel quale vedremo esservi una data e una dimora certa, lo
scorcio del 1595 nel convento di S.^ta Sabina. Invece gl'importanti
_Discorsi politici_, che il _Syntagma_ non specifica e che sappiamo
essere stati inviati all'Arciduca Massimiliano e all'Imperatore, come
anche molte _Poesie italiane e latine_, i _Versi toscani con metro
latino_, e l'_Arte metrica_ corrispondente che fu donata al Clario, si
debbono assegnare al periodo trascorso nel carcere, visto che ne fu
fatto dono al Clario il quale fu compagno di carcere del Campanella,
come diremo tra poco. Tutto considerato, bisogna riconoscere che
il Campanella in Roma, lavorando assai più nel carcere che fuori,
abbia atteso massimamente a procurarsi distrazioni, dapprima con la
filosofia e di poi con la poesia; che abbia posto da parte gli sfoggi
di teocrazia e di fervore religioso, mentre non gli era stato possibile
utilizzare la _Monarchia de' Cristiani_ e _il Regime della Chiesa_,
ripigliando di poi il fervore pel cattolicismo nel suo _Dialogo_,
quando gli fu necessario conciliarsi la benevolenza della Curia, per
essere liberato dall'obbligo di risedere nel convento di S.^ta Sabina e
di non allontanarsi da Roma; che invece abbia posto mano alla politica
e ad una specie notevole di politica ne' suoi _Discorsi_, quando gli
fu necessario conciliarsi la benevolenza de' potenti del Nord ed averne
lettere commendatizie. — Ci corre intanto l'obbligo di fermarci ancora
un poco su questi Discorsi politici composti in Roma. Essi sarebbero
i seguenti, e il titolo li qualifica abbastanza: _Discorsi a' Principi
d'Italia che per bene loro e del cristianesimo non debbono contradire
alla Monarchia di Spagna ma favorirla, e come dal sospetto di quella
si ponno guardare nel Papato e per quella contra infedeli, con modi
veri e mirabili_; ad essi venne forse aggiunto pure l'altro assai
più brutto, che conservasi ms. nella Biblioteca naz. di Parigi e che
7 anni dopo, se non siamo male informati, venne tradotto in latino e
dato alle stampe dal Mylius, _Discorso circa il modo col quale i Paesi
Bassi, volgarmente di Fiandra, si possino ridurre sotto l'obbedienza
del Re Cattolico_[127]. Possiamo dire con certezza che i «Discorsi a'
Principi d'Italia» non doverono essere scritti in quella forma che
ce n'è rimasta: il Campanella ebbe in sèguito a ritoccarli ed anche
ad accrescerli notevolmente, come si rileva dalla maniera che tenne
nel farne menzione in varie circostanze, ed oltracciò dalle opere
che vi si veggono citate e che furono certamente composte più tardi;
così ne avremo ancora a parlare nel corso di questa narrazione, e ci
riserbiamo di dirne qualche cosa di più a miglior tempo. Ma avendo
qui riferite le parole del _Syntagma_ che ad essi alludono, vogliamo
richiamare l'attenzione sul fatto singolare, che mentre nel _Syntagma_
si trova registrato sempre il titolo di ogni più umile lavoro, non si
trovano invece i titoli de' detti Discorsi e specialmente di quelli a'
Principi, che per moltissimi anni, insieme co' Discorsi sulla Monarchia
di Spagna dei quali avremo a parlare più in là, furono tra le più
stimate opere del Campanella, tanto che se ne trovano ancora molto
sparse le copie manoscritte. Siamo nondimeno in grado di spiegarci il
fatto, considerando che al _Syntagma_ fu posto mano dal Campanella e
dal Naudeo il 1631 in Roma, quando il filosofo godeva la protezione di
Papa Urbano VIII, nemicissimo degli spagnuoli ed affettato protettore
del Campanella principalmente per fare una dimostrazione di dispetto
agli spagnuoli, da' quali il Campanella era stato tenuto tanti anni
in carcere e da' quali era in ultima analisi fuggito. La comparsa nel
_Syntagma_ di quel titolo de' _Discorsi a' Principi_, che abbiamo sopra
riportato, sarebbe stata una dissonanza enorme coi tempi, co' luoghi,
con le circostanze, ciò che non avveniva pe' Discorsi sulla Monarchia
di Spagna, dal quale semplice titolo non traspariva se se ne fosse
detto bene o male. Dobbiamo poi anche notare, che nell'Informazione
pubblicata dal Capialbi lo stesso Campanella fa intendere di avere
scritti i Discorsi a' Principi in Padova, «mosso dall'opposizion che li
facean li Venetiani»: ma forse, così dicendo, ebbe allora in animo di
mascherare il ricordo delle peripezie di Roma; e poichè nel _Syntagma_
non si trovano menzionati Discorsi politici composti in Padova, ma se
ne trova invece fatta menzione al tempo della dimora in Roma, mentre
d'altra parte qui veramente si offrì una buona occasione per comporli,
noi ci siamo attenuti alla notizia comunque vaga del _Syntagma_,
accettando quella dell'Informazione nel senso di stabilire, che i
Discorsi a' Principi furono scritti prima di quelli sulla Monarchia di
Spagna e in un periodo che del resto sarebbe circoscitto tra il 1593 e
il 1595[128].
Ci faremo ora a vedere i compagni di carcere del Campanella, e le
Poesie da lui composte nel carcere per quanto sarà possibile rinvenirne
le tracce. Sicuramente fu con lui carcerato Gio. Battista Clario, che
nel _Syntagma_ è detto medico dell'Arciduca Carlo; verosimilmente
lo furono anche i due giovani Ascolani, de' quali si ha notizia
contemporaneamente al Clario, e forse uno di loro ha potuto essere
il Paolo Attilio cui venne indirizzato il Compendio di Fisiologia.
Non diremo essere stato compagno di carcere anche Giordano Bruno,
comunque sia noto che nel tempo medesimo egli penava nel carcere
dell'Inquisizione: tutto induce a credere che la sorte del Bruno
fosse stata già definita, ed essendo destinato all'estremo supplizio,
e dovendo esser tenuto in un carcere più sicuro giusta le regole del
S.^to Officio, egli si trovava forse nelle carceri di Tor di Nona, come
ci è accaduto di rilevare per taluno colpito da gravissime imputazioni,
la cui storia si legge nella Raccolta di scritture di S.^to Officio
esistente nel Trinity-College di Dublino. Ma con ogni probabilità,
negli ultimi mesi della sua dimora nel carcere, il Campanella vide
entrarvi anche un dotto napoletano, Colantonio Stigliola, che senza
dubbio avea già conosciuto presso Gio. Battista Della Porta: ci è
infatti venuto tra mano un processo di S.^to Officio sinora ignoto
contro lo Stigliola, dal quale apparisce che costui trovavasi già
carcerato in Roma nel luglio 1595 e rimase carcerato fin dopo l'aprile
1596. Avremo più in là occasione di parlare dello Stigliola e di
questo suo processo; per ora basti averlo menzionato quale probabile
compagno di carcere del Campanella, importandoci molto di dire invece
qualche cosa del Clario compagno di carcere certo. Le nostre ricerche
intorno a costui ci menano a ritenere che egli sia stato appunto
quel Gio. Battista Clario, di cui si hanno alcuni Dialoghi editi nel
1608, dove trovasi qualificato Protomedico della Stiria, mentre nel
_Syntagma_ è detto medico dell'Arciduca Carlo. Egli parrebbe Forlivese
di origine, giacchè si ha pure un Francesco Clario appunto di Forlì,
che nel 1585 diè alle stampe un Panegirico sull'umanità dell'Arciduca
Carlo, dal quale era tenuto a studiare in Padova[129]: ad ogni modo
gioverà fermarci un poco su' Dialoghi di Gio. Battista Clario[130].
Fin dalla Dedica di questi Dialoghi trovasi ricordato che essi vennero
composti in Roma essendo l'autore molto giovane, ed è notevole che i
tre primi hanno per interlocutori un Panfilo ed un Armenio entrambi
carcerati. Panfilo vi si rileva giovane di forti studii, colmo di
tutti i beni tanto da esserne invidiato, ed allora carcerato da tre
anni per un solo e falso calunniatore, dolente di trovarsi in quelle
«strane prigioni», accorato della mala opinione che da molti si sarebbe
avuta di lui; Armenio vi si rileva già «altre volte trovatosi in
simili conflitti», consolatore di Panfilo invitandolo a tener presente
tra le altre cose, la bontà di quelli che dovranno giudicarlo; senza
essere visionarii, ci pare di poter dire fin d'ora che si tratti qui
delle prigioni di S.^to Officio, le quali appunto compromettevano
assai la riputazione, del Clario scoraggiato, del Campanella avvezzo
a quel trattamento e fiducioso in fra Alberto Tragagliolo. Ancora
Panfilo, molto erudito, disputa in filosofia mostrandosi più sovente
peripatetico, ed Armenio, tanto più erudito, abbondantissimo in
citazioni, parla anche di astrologia e menziona S. Bernardo, S. Gio.
Crisostomo, Lattanzio, e «il secondo libro de' principii delle cose
da lui composto in quella prigione in lingua latina»[131]; non ci par
dubbio che si alluda qui abbastanza chiaramente al secondo _Compendio
di Fisiologia_, a quello composto in lingua latina dopo che n'era stato
già cominciato un altro (scritto invece in italiano), al Compendio che
tanti anni dopo fu pubblicato dall'Adami col titolo di _Prodromus_;
ed ecco perchè abbiamo detto più sopra aversi fortissimo indizio che
prima sia stato cominciato il Compendio in italiano che divenne poi
«l'Epilogo di Filosofia», e sempre nel carcere di Roma. Oltre a tutto
ciò, nel Dialogo 7º del Clario, un altro interlocutore dice di avere
avuto il giorno innanzi una disputa con un Telesiano, e fa sapere che
il Telesio vuole estirpare la filosofia di Aristotile e difendere
quella di Parmenide e Melisso, che la sua dottrina particolarmente
nel Regno di Napoli è stata accettata, accresciuta, ampliata,
«frà gl'altri da Tommaso Campanella, huomo in vero nato a tutte le
scienze, il quale e con la voce e con gli scritti ha procurato di
darle riputatione grandissima»[132]. Dobbiamo poi aggiungere ancora
un'altra circostanza tratta da altro fonte, che crediamo doversi
riferire al Clario. Vedremo che durante l'ultimo processo patito dal
Campanella, uno de' più cari amici suoi è carcerato egualmente (fra
Pietro Presterà di Stilo) ebbe a dire di aver saputo dallo stesso
Campanella che un astronomo «delle parti di Germania», carcerato con
lui nella S.^ta Inquisizione, gli aveva presagito la Monarchia del
mondo, perocchè aveva sette pianeti ascendenti favorevoli[133]: senza
entrare ne' particolari della notizia, che saranno chiariti a miglior
tempo, diciamo qui che l'astrologo in parola dovè essere appunto il
Clario, sapendosi che era medico, e quindi, secondo il gusto del tempo,
facile cultore di astrologia, oltrechè medico di Corte nella Stiria.
Così il germe inoculato al Campanella in Cosenza ed Altomonte veniva
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