Fra Tommaso Campanella, Vol. 1 - 04

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critico materia di notevoli considerazioni; laonde abbiamo stimato
opportuno piuttosto limitare il numero de' documenti che mutilarli.
D'altro lato conoscendo che coloro i quali sono avvezzi a farne oggetto
di studio vi leggono molte altre cose al di là delle notizie che essi
contengono, abbiamo stimato indispensabile darli nella precisa lezione
nella quale li abbiamo trovati; e sarebbe assai rincrescevole, se
dopo di aver fatto lungamente i maggiori sforzi per riprodurli con
fedeltà, sino ad aver reso un po' vacillante la propria ortografia,
dovessimo incontrarne biasimo anzichè lode. Aggiungiamo pure che dietro
siffatto principio non ci siamo nemmeno trattenuti dall'adoperare nel
corso della narrazione voci e maniere del tempo, che sappiamo bene non
essere ammesse nel linguaggio purgato; serbare la fisonomia del tempo
ci è sembrato desiderabile sopra ogni altra cosa[18]. E pe' documenti
inserti nel corso della narrazione abbiamo preferito di abbondare, come
abbiamo preferito di abbondare nelle citazioni e nelle ricerche intorno
agl'individui che in qualunque modo abbiamo trovato nominati nelle
cose del Campanella. I nomi e i fatti di altrettali individui possono
sempre dare adito a ritrovamenti ulteriori: le carte di famiglia anche
degl'individui meno elevati, come si è visto p. es. nel caso di Gio.
Battista Sanseverino, tanto più gli Archivi privati delle famiglie
nobili, possono riuscire sorgenti di scritture perfino di primaria
importanza. E però non abbiamo esitato ad addentrarci anche nelle
genealogie e parentele di queste famiglie, convinti che se ne sarebbe
avuto ad un tempo la nozione chiara delle persone ed un possibile fonte
di nuovi documenti.

III.
Ci rimane a dire de' criterii a' quali ci siamo ispirati, e
dell'andamento che abbiamo dato alla nostra narrazione.
I criterii principalissimi sono stati segnatamente due: tener sempre
innanzi agli occhi le condizioni de' tempi, badando di non presentare
e giudicare gli uomini e le cose come se fossero de' tempi attuali;
non perdere mai di vista che trattasi di quistioni estremamente ardue,
badando di venire a qualche affermazione solamente dietro analisi o
critiche minute. Non occorrerebbe dire tutto ciò, ma non è colpa nostra
se ci sentiamo obbligati a ricordarlo, mentre a proposito de' fatti del
Campanella lo vediamo posto in dimenticanza, tanto che ci apparisce
necessario fare alcune considerazioni sull'argomento anche da questo
lato.
Cominciando dalle pratiche della congiura, naturalmente si ha che il
Campanella dovè trovarsi in mezzo a frati sbrigliatissimi, in mezzo
a fuorusciti con le mani lorde di sangue e di rapina; e tale fatto ha
potuto e potrebbe ancora dare a taluni motivo di scandalo. Ma oltrechè
in un disegno d'insurrezione erano in grado d'intervenire soltanto
persone manesche e poco timorate, non deve sfuggire che molto tristi
erano allora generalmente i costumi de' frati, molto tristi i costumi
delle persone che aveano un po' di forza nel braccio, tanto più se
appartenenti a classe elevata e nobile. A noi è sembrato di sognare
quando abbiamo letto nel libro della Colet, che «i conventi erano
allora l'asilo de' più grandi spiriti», e parimente nell'opuscolo
dell'Angeloni Barbiani, che «mentre tutto il laicato cadeva o
infiacchiva... una vita nuova s'agitava nei monasteri e la bianca lana
di S. Domenico era segnale di risorgimento e di moto»[19]. Il laicato
non era tutto fiacco, e se in molta parte era fiacco ed anche tristo,
ciò accadeva per l'influenza predominante de' monasteri; nè i monasteri
vanno giudicati per la presenza in essi di qualche rara individualità,
che d'altronde vi stava assolutamente a gran disagio, come si conosce
appunto in persona del Campanella. Tra le migliaia e migliaia di
persone, che indossavano la cocolla, od anche il ferraiolo nero de'
clerici, per menare vita rispettata e senza stenti, immune da' rigori
delle leggi dello Stato e dal pagamento delle tasse, doveano pure
esservi persone colte e persone amiche di libertà; tuttavia nel caso
nostro se ne ebbero in numero insignificante. Ma conviene persuadersi
che il fra Cristofaro del Manzoni, in tempi non molto lontani da quelli
del Campanella, fu veramente un riflesso della bella anima dello
scrittore, non il ritratto del frate del tempo, considerato anche
il caso raro del frate dabbene; e l'Innominato medesimo fu un tipo
eccezionale sotto il rispetto della sua qualità d'innominato, mentre a'
Signori prepotenti e carichi di delitti non dispiaceva punto di essere
chiamati col proprio nome e cognome, ma solo volevano che il loro nome
e cognome fosse pronunziato con gran timore. Basta percorrere pochi
volumi del Carteggio del Nunzio Aldobrandini, per capacitarsi delle
qualità de' frati in ispecie Domenicani, e pochi volumi de' Registri
_Curiae_, dell'Archivio di Napoli, per capacitarsi delle qualità de'
laici prepotenti in ispecie nobili; se ne avranno alcuni tipi nel corso
della narrazione nostra, e si vedrà che il Campanella venne a trovarsi
in mezzo a persone relativamente assai meno triste, ed anche in mezzo a
persone molto dabbene.
Circa l'essenza stessa della congiura, si sarebbe voluto e si potrebbe
ancora volere la dimostrazione di una vasta trama, forse anche con
depositi bene accertati di fucili e di cannoni, in somma con apparecchi
tali da riuscire a combattere efficacemente un colosso come la Spagna.
Ma nessuna congiura, nessun tentativo di ribellione, ha proceduto mai
in tal guisa; nè la gravità di una congiura, e peggio anche l'esistenza
di essa, va misurata co' grandiosi apparecchi, i quali anzi, se
sono grandiosi, menano a farla sventare con la massima facilità.
Analogamente ha potuto e potrebbe ancora sembrare, che le prediche del
Campanella sulle vicine difficoltà nelle quali si sarebbe trovato il
Governo, le sue sollecitazioni a raccogliersi, ordinarsi ed armarsi,
per profittare di quelle difficoltà e venire ad un diverso ordinamento
dello Stato, fossero sfoghi innocui di un visionario, cose da curarsi
con la noncuranza. Ma anche se il paese avesse allora goduto un regime
di libertà, si può metter pegno che gli alti Ufficiali dello Stato,
i Consiglieri napoletani medesimi non che i Magistrati, conoscendo
il nesso che si stabilisce tra il pensiero e l'azione, valutando le
conseguenze del pervertimento de' giudizii nelle moltitudini, non
si sarebbero mai mostrati fino a tal punto (chiamiamo le cose col
loro nome) scioperati o sleali. Noi che tendiamo a smarrire perfino
la nozione etimologica della parola _Stato_, noi che assistiamo
all'applicazione della teorica che sia lecito l'apostolato contro
la forma di Governo esistente, lecito il prepararsi ad un mutamento
radicale di essa facendone solo quistione di tempo e di opportunità,
noi che professiamo ottimo consiglio sempre il lasciar correre, lasciar
fare, lasciar passare, predicando poi con grande disinvoltura che è
difficile, difficilissimo il governare con la libertà, noi non possiamo
pretendere che il Governo, i Consiglieri e i Magistrati d'allora,
avessero dovuto pensare ed agire come noi. Trattandosi poi di una
dominazione straniera, è naturale attendersi che perfino un tentativo
appena adombrato sia stato ritenuto gravissimo, e subito schiacciato
da una repressione del tutto sproporzionata, con mezzi e modi feroci:
eppure si vedrà che la congiura del Campanella non fu un tentativo
appena adombrato.
Così la congiura come la repressione meritano pure di essere valutate
non solo in rapporto al tempo, ma anche in rapporto ai luoghi ed alle
circostanze. Vi furono trattative col Turco più o meno spinte, non
importa se condotte dall'uno più che dall'altro degl'incriminati; vi
furono al tempo medesimo insinuazioni che il Papa avrebbe aiutato
il movimento, che sollecito del benessere del Regno, feudo della
Chiesa, vi avrebbe messe le mani sue, e ciò mentre i Vescovi,
segnatamente in Calabria, si spingevano con ardore incredibile nelle
lotte giurisdizionali. Ecco più di quanto occorreva perchè non solo
gli spagnuoli ma anche i Consiglieri napoletani si mostrassero senza
pietà, e la gente illuminata come tutto il volgo, per diverse vie,
negasse ogni simpatia a' poveri incriminati, nè solamente a' tempi
della congiura, ma anche molti anni dopo e perfino qualche secolo dopo.
Si potè da parecchi, per commiserazione verso un uomo straordinario,
quando lo si vide caduto in un abisso di miserie, negare che egli
avesse concepito e menato innanzi una congiura, ma non mai scusare
questa congiura e giustificare le circostanze che dicevasi averla
accompagnata. Tali circostanze meritano un'attenta ponderazione;
gioverà quindi fermarci un poco sopra di esse.
Si era ancora ben lontani da' tempi ne' quali abbiamo visto
principalmente i fautori della Curia Romana acquistare e consigliare
l'acquisto de' valori turchi, facendosi sostegno della mezzaluna.
Allora i turchi erano i nemici aborriti del nome cristiano e della
santa fede, da doversi sempre maledire e combattere, nè poteva
perdonarsi a chi avesse solamente pensato a stabilire qualunque maniera
di relazioni intime con loro. Vero è che molti e molti calabresi non
la pensavano addirittura così, ed andavano a rifugiarsi in Turchia per
godervi la pace negata loro in patria, sicchè nella sola Costantinopoli
ve n'era una colonia molto numerosa, la quale in gran parte lavorava
nell'arsenale turco, ed abitava «un grossissimo casale» fabbricato
appunto da Ucciali-Alì presso la casa sua e detto la «Calabria nuova»,
come è attestato anche nella Relazione del Bailo Contarini. Ma tutti
costoro dall'universalità dei calabresi rimasti in patria erano
chiamati maledetti da Dio; e non occorre dire che da qualunque ceto del
rimanente del Regno, più o meno, si professava la medesima opinione,
e che gli spagnuoli la rincalzavano potentemente, contribuendovi del
pari il loro fanatismo religioso ed il loro interesse. Vi fu quindi,
allora e poi, un coro di vituperii sugli sventurati calabresi, che
aveano cercato di far coincidere la loro insurrezione con l'ordinaria
venuta autunnale de' turchi verso le coste di Calabria, e di procedere
d'accordo con essi anche consentendo che occupassero qualche punto
delle coste; ciò fece dire avere i congiurati disegnato di dar la
Calabria in mano de' turchi, i quali, non bisogna dimenticarlo, sino al
principio di questo secolo erano tuttora temuti anche come conculcatori
della fede cristiana, comunque già da un pezzo fossero in tramonto.
Gli esempî storici addotti dal Baldacchini e dal D'Ancona, per provare
che diversi Principi cristiani e il Papa medesimo più di una volta non
si erano peritati di stringere la mano a' turchi, e che quindi non era
stata poi gravissima la colpa del Campanella, se pure la commise, nel
trattare accordi col Cicala, potrebbero servire per uso nostro qualora
noi ne sentissimo il bisogno; ma non potranno mai servire ad attenuare
il fatto che Governo e paese, allora e poi, sentirono assai malamente
gli accordi del Campanella e de' patrioti calabresi co' turchi.
D'altro lato ancora peggiore fu l'impressione de' voluti accordi col
Papa, segnatamente nel ceto più colto, oltrechè negli spagnuoli; e
qui bisogna tener presenti anche le condizioni speciali del Regno
di Napoli. Se è vero che un paese, come un individuo, deve avere un
pensiero, un'aspirazione, uno scopo, senza il quale gli è impossibile
il vivere, l'unico pensiero che sottrasse alla morte le Provincie
napoletane può dirsi essere stato la lotta contro le pretensioni e le
cupidige della Curia Romana, la quale ad ogni menoma occasione ripeteva
essere il Regno di Napoli un feudo della Chiesa, temporaneamente dato
a governare al tale o tal altro col permesso dei superiori, potersi
sempre ripigliare dalla Chiesa quando lo credesse; anche il Carteggio
del Nunzio Aldobrandini, ne' tempi di poco anteriori a quelli de' quali
ci occupiamo, mostra che la Curia si fece un dovere di ricordarlo a
proposito della difficoltà mossa dal Vicerè Conte di Miranda intorno
all'esazione delle decime senza il consenso del Re[20]. Questa lotta
tenne accesa la lampada che per tante ragioni avrebbe dovuto spegnersi;
e non si possono leggere senza commozione i documenti che attestano
gli sforzi de' padri nostri, tanto più meritevoli di ammirazione, in
quanto che i Vicerè spagnuoli, per quell'affettato fervore religioso
che parve gran mezzo di ottima educazione e fu lo spegnitoio di ogni
sublime ideale, li lasciavano sovente scoverti di rimpetto alla Curia;
ed essi con le loro hortatorie affrontavano le scomuniche, le quali
avevano a quei tempi un'efficacia notevole, e potevano anche menare
direttamente a un processo di eresia, per la massima allora in corso
che coloro i quali fanno i sordi nella scomunica dànno a sospettare
di essere eretici. Non si trattava soltanto di custodire le ordinarie
prerogative dello Stato nelle ordinarie quistioni giurisdizionali, in
ciò altri Stati ancora, e massimamente Venezia, non tenevano allora
una condotta meno risentita della nostra; si era ognuno persuaso avere
gli ecclesiastici per divisa «tutto ci si deve e niente dobbiamo»,
ringalluzzendo sempre co' fiacchi e ristando solo co' forti, laonde
a nessuno veniva in mente mai d'«ignorare» ciò che essi facevano, di
«non curare» gli sfregi quotidiani alle leggi dello Stato. Ma qui in
Napoli si trattava di qualche cosa di più, si trattava di preservare
l'esistenza medesima dello Stato, minacciato di disfacimento e di
assorbimento da parte della Curia. Ognuno sapeva bene che due dinastie
da potersi dire proprie, già naturalizzate, aveano soccombuto per
guerre mosse dal Papato; ed erano sempre vive le ricordanze di un
Papa, Paolo IV Carafa, che ci aveva mossa direttamente una guerra
di conquista; laonde la vigilanza e l'oculatezza non parevano mai
sufficienti, si sospettava sempre altissimamente degli ecclesiastici,
si riteneva che essi fossero i veri e proprî nemici della patria.
Si potrebbe perfino dire che questa lotta d'indipendenza dalla Curia
avesse tenuti occupati gli animi in guisa, da attraversare per lungo
tempo i desiderî d'indipendenza dallo straniero, desiderî che non
mancavano punto, come l'attestano i parecchi documenti che ancora ne
rimangono malgrado la cura presa dagli spagnuoli per distruggerli, e
che sarebbe una buona azione evocare dall'oblio nel quale giacciono;
si sentiva la fatale necessità di cercare nelle forze di una grande
potenza quella tutela che le risorse sole del Regno non bastavano a
dare. Ad ogni modo questa lotta senza posa, questa repressione delle
esorbitanze ecclesiastiche, meticolosa, accanita, incessante, merita
di essere meglio conosciuta ed apprezzata, e la narrazione ci darà
campo di mostrarne qualche cosa. Non era un rabbioso pettegolezzo di
avvocati, come talvolta è accaduto di udire da persone pregevolissime
ma non bene informate delle cose napoletane, era il sentimento
pungente della patria in pericolo; e lo scopo fu raggiunto, e potrebbe
sorriderne soltanto chi giudicasse le cose con la scorta delle idee
de' tempi nostri, commettendo un solenne anacronismo. Lo Stato divenne
ciò che doveva essere, la personificazione della patria e il simbolo
della civiltà: a questo principio s'informò una schiera di dotti e
valorosi giuristi, e costituì una scuola che è il più gran vanto del
passato di Napoli, co' suoi pregi e co' suoi inconvenienti. A questa
scuola appartenne il Giannone, che non aveva odio personale contro
gli ecclesiastici, sibbene quel fondo di odio sentito da tutti coloro
i quali s'interessavano delle sorti dello Stato e vedevano negli
ecclesiastici i nemici della peggiore specie: così, naturalmente,
era vano attendersi, che il Giannone avesse mostrato simpatia pel
Campanella. Giurista positivo, considerando le pretensioni di lui a
riformare il mondo, dovea reputarlo perfino un ignorante, «col capo
pieno di varie fantasie, portentosi delirî, sorprendenti illusioni».
Difensore acerrimo dello Stato, considerando le giaculatorie Papesche
del filosofo e i vaticini tratti dall'Apocalissi, da varî Santi
e perfino dal Responsorio di S. Vincenzo Ferrer, onde ritenevasi
obbligato co' suoi frati a predicare la santa repubblica, dovea
reputarlo «un grande imbrogliatore», dovea esser condotto a tirare
al peggio ogni cosa, dando il massimo peso alle accuse ed anche alle
accuse più grossolane senza curarsi d'altro; e se avea percorso
gli Articoli profetali e l'Apologia, come è possibile, avendovi
letta quella frase «nos dolis et mendaciis collusimus ad vitam
servandam», qual maraviglia che nella sua mente abbia potuto sorgere
quel concetto così crudamente espresso? Con ogni probabilità, negli
ultimi ed infelicissimi anni della vita sua, egli dovè modificare
moltissimo i suoi giudizî intorno al povero frate da lui tanto
severamente trattato; dovè specialmente rincrescergli l'aver detto
che «a lungo andare pure seppe co' suoi imbrogli uscire dal carcere».
Noi facciamoci un dovere di non irritarci per le convinzioni altrui
quando non le dividiamo; e pel povero Giannone invochiamo piuttosto
che si elevi un segno, una memoria, un monumento, e meglio che altrove
dinanzi a quella cittadella di Torino ove patì quello strazio che
aspetta ancora un qualche lavacro espiatorio; la Monarchia medesima
dovrebb'esserne sollecita, poichè il confessare un errore non offende
ma rafferma l'opinione della nobiltà dell'animo. Intanto l'avversione
così profonda alla persona e all'impresa del Campanella, durata
ne' giuristi fino a' tempi del Giannone ed ancora più oltre, fa ben
comprendere l'avversione destata a' tempi della congiura e quindi
anche la feroce repressione che ne seguì. L'aiuto che il Papa avrebbe
dato all'insurrezione rappresentò una di quelle fandonie, che vanno
sempre sparse a piene mani quando si tratta d'incitare ad un movimento
insurrezionale; eppure il Governo non ne dubitò menomamente, e sebbene
avesse avuto ben presto motivo di disingannarsi, i parecchi incidenti
verificatisi durante il processo ridestarono senza posa i sospetti e
le diffidenze, e così pure li ridestarono in sèguito le professioni di
fede Papesca, che il Campanella non cessò mai di fare quando non vide
altra possibile speranza di aiuto che nel Papa. Lo stesso principio
da lui continuamente svolto, che per un buono assetto delle cose del
mondo fosse necessario l'avere riuniti in una persona sola il potere
spirituale e il temporale, ciò che del resto veniva a riferirsi
egualmente al capo della repubblica da lui concepita, doveva senza
dubbio farlo apparire agli occhi delle persone che s'interessavano
alle sorti dello Stato un nemico mortale del paese; e così possono bene
intendersi certi rigori e certi giudizii, apparsi sempre di difficile
spiegazione.
Ciò che sinora abbiamo detto, circa la feroce repressione della
congiura, comprende naturalmente anche il processo; ma su questo
conviene del pari fermarsi un poco. Sarebbe strana pretensione voler
trovare nel processo l'osservanza delle infinite guarentige che oramai
circondano l'accusato, e che alla sensività morbosa e alla svenevolezza
de' tempi nostri non sembrano ancora bastanti. Si riteneva che
l'efficacia e l'esemplarità della pena esigesse imprescindibilmente
l'applicarla alla minor distanza possibile dal giorno in cui il reato
era stato commesso; non si conoscevano le lungaggini e le procedure
macchinose, bastava un Giudice, un Fiscale ed un Mastrodatti aiutato
da' suoi scrivani, ed il mezzo di prova definitiva, mezzo deplorabile
ma già reso accetto dall'abitudine, era sempre la tortura, più o meno
spinta ne' casi ordinarî, assai spinta nei casi di lesa Maestà. In
tal guisa vedremo condotto innanzi il processo pe' laici, su' quali
il Governo avea la mano libera, bensì abbreviando i termini _ad
modum belli_, impiegando la tortura fin dalle prime informazioni e
servendosi di torture atrocissime, ciò che del resto era ammesso da
tutti i giuristi del tempo: il delitto di lesa Maestà dicevasi allora
«privilegiato», cioè tale da ammettere modi di procedura e mezzi di
rigore eccezionalissimi, mentre oggi è divenuto quasi privilegiato in
un senso diametralmente opposto; deve dirsi dunque che tutto fu fatto
in regola, almeno in quanto alla forma, pe' poveri congiurati laici.
Pel Campanella poi e per gli altri ecclesiastici vi furono dapprima due
frati a' quali venne ben presto associato pure un Vescovo, e più tardi,
in Napoli, vi furono due Giudici invece di uno, nominati entrambi dal
Papa, oltre il Fiscale e il Mastrodatti; ed anche furono impiegate le
torture durante il processo informativo e torture atrocissime, non di
meno sempre ne' limiti del dritto ed anzi col consenso espresso del
Papa; così, egualmente da questo lato, deve dirsi che tutto fu fatto
in regola. Senza dubbio ciò non significa punto che i risultamenti del
processo debbano ritenersi l'espressione della verità, come sarebbe
puerile il ritenerlo senz'altro pe' processi de' tempi nostri, massime
pe' processi politici, e tanto più dopo che vi abbiamo adottato
quella sorprendente maniera di farli giudicare: sempre occorrerà
di analizzarli con un penoso lavoro, senza preoccupazioni, senza
pregiudizii, con la conoscenza de' tempi, de' luoghi, delle persone,
di tutte le circostanze, a fine di rintracciarvi, ne' limiti del
possibile, la verità; ma non potrà mai esser lecito di rifiutarvisi
con una comoda pregiudiziale, poggiata su' troppi vizii dell'andamento
de' processi. Nel caso nostro il Baldacchini ha mostrato di credere
che pure a' tempi del processo del Campanella non si sia prestata
troppa fede alla congiura, poichè nel Carteggio del Nunzio con la
Corte di Roma si parla della «causa di _pretesa_ ribellione»: ma tale
era il linguaggio del tempo; finchè la sentenza non era pronunziata,
dicevasi il tale o tal altro _preteso_ reato, come ora dicesi la tale
o tal'altra _imputazione_ di reato. Ugualmente il D'Ancona trova nel
Giannone «preziosa» la parola di «processo _fabbricato_»: ma tale
era la parola in uso; _processus formatus_ traducevasi appunto in
_processo fabbricato_, e neanche per facezia si potrebbe in ciò vedere
la significazione di processo inventato. L'uno e l'altro poi notano
che le confessioni furono fatte _in tormentis_, e con parole di sdegno
si scagliano contro il modo allora usato di fare i processi: «Alcuni
vili uomini, i quali non avevano ufficio di magistrato, non stipendio,
non grado, nell'ombra del mistero raccoglievano, Dio sa come, le
pruove; quest'inquisitori o scrivani..., il cui nome solo mettea
spavento, facevano un traffico infame del loro mestiero, sempre, anche
nelle cause de' privati; pensate dove il governo accusava, giudicava
e condannava. Non v'era pubblica discussione del fatto, non libera
difesa dell'accusato; tal'era un giudizio criminale». In verità non può
non sorprendere che perfino dopo la conoscenza de' documenti trovati
dal Palermo, a proposito del processo del Campanella siano state
riprodotte le parole qui riferite, con l'asserzione che il Governo
non solo accusava, ma anche giudicava e condannava senza libertà di
difesa, mentre que' documenti mostravano addirittura l'opposto, ed
anche intorno alle atrocissime torture, sulle quali davvero non si
potrà mai passare alla leggiera, mostravano che i principali imputati
le aveano sofferte senza nulla confessare, eccetto il povero Campanella
che non era stato in grado di resistervi. Ma in somma donde mai dovrà
scaturire la verità in un fatto per lo quale vi è stato un processo
criminale, se non dall'esame di questo processo? Che non se ne debbano
accettare senz'altro i risultamenti, sta benissimo: anche i nostri
successori, liberati una volta dal pregiudizio tanto più grave del
cittadino-giudice, come noi siamo finalmente riusciti a liberarci
dal pregiudizio del cittadino-milite, convinti del santo principio
«ognuno al suo mestiere», avranno a fare su' risultamenti de' nostri
giudizii criminali una critica più fondata e non meno acerba di quella
fatta dal Baldacchini e dal D'Ancona su' giudizii antichi. Ci pare
proprio di udirli. «Dodici uomini per lo più inetti, scelti senza
criterii ragionevoli, senza obbligo della menoma nozione dì ciò che
è necessario ad un magistrato, spessissimo anche privi della più
discreta cultura mentre i codici già riboccavano di sottili distinzioni
giuridiche da potersi bene intendere solamente dietro appositi studî,
assistevano allo svolgimento del giudizio e davano i pronunziati, Dio
sa come, sul fatto: questi cittadini-giudici o giurati, il cui nome
riempiva di speranza i colpevoli e i loro avvocati, sottostavano a
tutte le influenze, seduzioni e peggio, non foss'altro, per la loro
incapacità; e se disgraziatamente taluno di essi conosceva o pretendeva
di conoscere la legge, costui trascinava tutti gli altri dove voleva,
perocchè mentre doveano decidere nel silenzio e nel raccoglimento,
non essendo ammessa la discussione fra loro, questa si faceva sempre
e ad onore e gloria del più inframmettente e capace d'imporsi. Il
Governo teneva i così detti giudici del dritto, magistrati con grado
e stipendio, ma erano destinati ad ascoltare e tacere, ad esser
complici di errori grossolani e rendersi indifferenti al giusto
e all'ingiusto, mentre il Presidente, occupatissimo, dovea fra le
altre cose affaticarsi a far comprendere agl'ignoranti giudici del
fatto le sottili distinzioni ammesse dal codice ne' diversi reati,
senza riuscirvi novanta volte su cento per l'intrinseca natura delle
cose; gli avvocati liberissimi nel dire, prolungare ed intralciare,
poichè i riguardi doveano concedersi agli accusati anzichè alla
società che accusava, agli uomini implicati ne' delitti anzichè agli
infelici giudici costretti ad abbandonare il lavoro proprio non per
giorni ma per settimane, trasmodavano in tutti i sensi per far colpo
sugl'ignoranti, su' quali non poco pesava pure l'atteggiamento della
maggior parte del pubblico che prendeva interesse nel giudizio,
intervenendovi come ad una scuola d'istruzione sul miglior modo di
perpetrare i delitti e scansarne la pena. Così i pronunziati intorno al
fatto venivano fuori per lo meno a caso, le sentenze doveano calcarsi
su que' pronunziati e tutto si guastava; i cittadini medesimi cercavano
con ogni mezzo di scansare tale ufficio, poichè non era permesso
il rifiutarvisi, ma grosse multe obbligavano a godere e far godere
i beneficî di quest'aurea libertà; tal era un giudizio criminale».
Bisognerebbe disperare de' miglioramenti serii delle istituzioni umane,
per ritenere che siffatta critica, da potersi allargare e prolungare
per un volume, non abbia ad essere pronunziata da' nostri successori:
così Dio pietoso non voglia che abbiano a pronunziarla con maledizioni
verso di noi imbevuti di dottrinarismo fino a smarrire il senso della
realtà, dominati da pregiudizii assai più che non crediamo, molto
spesso repugnanti a predicare su' tetti ciò che riconosciamo tra le
mura domestiche, ed avviati pur troppo a mostrare, dolorosamente, che
non è tanto difficile conquistare un gran bene quanto è difficile
conservarlo. Ma essi non si rifiuteranno certamente a discutere i
processi de' tempi nostri; bensì li vaglieranno con tutta la cura
possibile, costretti a guardarsi dalle esagerazioni che abbiamo
introdotte in un certo senso, dopo quelle che hanno dominato in un
senso opposto.
Che si tratti di quistioni estremamente ardue, è stato già ammesso
da coloro i quali hanno voluto vedere un po' addentro nel fatto della
congiura del Campanella. E veramente ogni imputazione politica grave,
massime in tempo di servitù, suscita sempre nell'animo dello storico
una perplessità inevitabile, se non sull'esistenza medesima della
colpa ventilata, almeno sulla precisa indole ed estensione di essa.
Ma la perplessità cresce a mille doppi nel fatto del Campanella,
trattandosi di un'imputazione politica complicata da un'imputazione
religiosa, seguita da processi senza dubbio formati in tempi orribili
per oscurantismo, efferatezza e rapacità, presso al sorgere pauroso
di un nuovo secolo, tra lotte giurisdizionali accanite, sospetti
governativi eccitati, malumori popolari profondi, inimicizie cittadine
roventi, odii frateschi implacabili; aggiungendovi lo zelo ferocemente
interessato de' primi Inquisitori, le torture e spoliazioni inaudite,
il terrore universalmente diffuso, la sollecitudine in molti e
nello stesso Campanella di salvarsi ad ogni costo, il guiderdone
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