Fra Tommaso Campanella, Vol. 1 - 36

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communicò il particulare della legge o della verità che pretendia di
predicare, si bene intesi da esso proprio nel sudetto loco che volea
far mutar il modo di vestire da quello che s'usa adesso et volea che si
portasse una giobba longa o sia veste, ma non sò come o di che colore».
Venendo a fra Dionisio disse che una volta, lui presente, volendo
andare a Messa, egli se ne burlò, chiamandola una bagattella; nè altro
udì mai da lui contro la fede. Infine, venendo al Pizzoni, disse che
una volta, avendogli detto di sgridare il nipote Fabio già frate che
da poco tempo avea deposto l'abito monastico e si facea chiamar Lucio,
perchè avea mangiato carne nella sera della vigilia di S. Bartolomeo,
non lo volle fare, burlandolo col dire che vigilia s'intendeva il
dì e non la notte; e un'altra volta, nel leggere lui, il Caccìa, un
tratto di Plinio in cui si parlava della natura, dimandato al Pizzoni
cosa fosse questa natura di cui parlava Plinio, egli rispose che la
natura era ciò che noi chiamiamo Dio, e che non v'era altro Dio che la
natura. Dichiarò di non conoscere altri frati, e di ritenere che que'
tre credessero realmente a quelle opinioni, mentre egli non vi avea mai
creduto e si era sempre allontanato da loro quando le aveva udite. Ma
era venuto a conoscenza de' Giudici che nel convento degli Agostiniani
di Belforte, dove egli soleva dimorare, una volta, avendo lui trovato
su di un tavolo un Gesù crocifisso lo avea gettato a terra, e si volle
sopra di ciò interrogarlo; ed egli rispose che si trattava solo di
una testa di crocifisso, la quale non avea nemmeno riconosciuta, e
facendogli ingombro, l'avea gettata a terra. Notiamo poi che la qualità
di clerico fu ammessa da' Giudici tanto pel Caccìa quanto pel Pisano, e
trovasi debitamente registrata nei processi verbali.
È questo, in succinto, il processo di Gerace, che per la presenza
del Vescovo nella compilazione di esso riuscì tanto più grave, non
avendo il Vescovo in realtà fatto altro che covrire e lasciar passare
la malvagità de' frati Inquisitori e la prepotenza degli ufficiali
Regii. Ma dobbiamo ancora vedere il valore delle deposizioni raccolte.
E cominciando da quella di fra Pietro Ponzio, possiamo dire che essa
non aggiunse nulla, e servì solo a mostrare che veramente fra Pietro
non era stato fatto consapevole di queste faccende. La deposizione
poi di fra Paolo della Grotteria aggravò certamente le condizioni del
Campanella e di fra Gio. Battista, massime dal lato della congiura,
quantunque non avesse fornito che semplici indizii ed apprezzamenti
degni di un ex-galeotto, il quale non si faceva scrupolo di calcare
la mano su' compagni nell'impresa, credendo di propiziarsi i Giudici
in questa guisa. Ma grave riusciva sopra tutte le altre la deposizione
di fra Pietro di Stilo: egli rivelava finalmente parecchie e non lievi
cose tanto circa l'eresia quanto circa la congiura, ed evidentemente
dovea saperne molte di più, giacché, e per l'amicizia che lo legava
al Campanella, e per la sua posizione di Vicario del convento che lo
costituiva responsabile di aver tollerato cose simili, avea tutto
l'interesse di celare quanto più poteva. Senza dubbio, dopo tante
rivelazioni fatte dal Pizzoni e dal Petrolo, dopo tante rivelazioni
fatte anche da' laici, le quali aveano già condotto alla morte il
Crispo e il Mileri, negare ulteriormente era di grandissimo pericolo
per lui, di niun vantaggio alla causa: adunque non trattavasi più
solamente di dir cose di eresia per sottrarsi alla Corte temporale,
ma anche di lasciare la parte dell'ingenuo che oramai non poteva più
persuadere alcuno, badando tuttavia a rivelare il meno possibile. E
rivelò le cose certamente più comuni e più frequenti a trovarsi in
bocca al Campanella, e parlò soltanto delle opinioni di lui sul Re,
sul Papa e sulla elezione Papale, sulla poca importanza de' peccati di
carne e la nessuna importanza de' miracoli, e se non tacque l'opinione
sul Sacramento dell'altare, ciò accadde perchè essa era nota al Petrolo
ed egli era in grado di capire che costui non avea dovuto tacerla.
Così, con la stessa altissima probabilità con la quale si è detto che
il Pizzoni, seguìto poi dal Petrolo, rivelò tutto ed anche qualche
cosa di più, può dirsi che fra Pietro di Stilo rivelò molto meno
di quanto conosceva: e naturalmente deve dirsi, che l'avere taluni
abbondato nelle rivelazioni delle cose di eresia, con la speranza di
sfuggire in tal modo la Corte temporale, va inteso non già nel senso
di _avere inventate le eresie_, ma nel senso di _non averle nascoste_.
Per farsi un giusto concetto della causa, interessa grandemente che
tutto ciò sia ben fermato. Le violenze, usate da fra Cornelio poterono
esser dirette a pretendere che fra Pietro facesse altre e più gravi
rivelazioni, ma quelle che fra Pietro fece non vennero strappate a
forza: difatti vedremo in sèguito dichiarato da lui che «fra Cornelio
scriveva troppo diffusamente», ridotta così l'asprezza ma non negata
la qualità delle sue rivelazioni; e veramente è naturale ammettere
che tanto la parola «sceleratissimo» usata verso il Campanella nel
primo esame, quanto diverse altre parole aggravanti usate nel secondo
esame, non sieno state le precise parole di fra Pietro, ma, attenuate
pure convenientemente queste parole, il fondo delle cose non riusciva
sostanzialmente modificato. Lo stesso deve dirsi delle rivelazioni di
fra Pietro circa la congiura. È superfluo notare quanto sia grave il
fatto deposto che il Campanella riteneva dover essere monarca del mondo
in virtù di sette pianeti favorevoli, ciò che era suggellato anche
coll'autorità di un astrologo germanico; nella premura di scolparlo
dell'essersi lasciata dare la qualità di Messia e di Profeta, fra
Pietro non dovè calcolare l'importanza della sua rivelazione. Del
resto si sforzò di dire che il Campanella, dietro i presagi e le
profezie di future repubbliche, raccomandava di avere molte armi per
_difendere sè stesso_, ma non potè nascondere che avea _molti amici e
aderenti_, la qual cosa doveva essere un fatto più che notorio. E fra
essi nominò Giulio Contestabile, senza dubbio pel risentimento eccitato
dalla sua mala condotta, e più ancora per la necessità di dover dire
la faccenda dell'oltraggio fatto all'immagine del Re, essendo ciò
conosciuto anche dal Petrolo; nominò il Vua e il Presinacio, certamente
perchè li sapeva nascosti ed al sicuro dalle unghie del fisco; ma
non nominò Maurizio e con lui quanti altri egli dovea aver visti e
conosciuti nella sua posizione di Vicario del convento di Stilo. Dei
frati poi nominò appena fra Dionisio per la ragione che era un aderente
manifesto anche troppo, e fra Scipione Politi per una ragione rimasta
ignota ma che ci dovè essere, poichè questo frate, sebbene nominato da
tante e così gravi testimonianze e già carcerato, non fu menomamente
travagliato. Da ultimo non potè nascondere che conosceva il Soldaniero
e gli avea portata una lettera del Campanella, essendosi probabilmente
persuaso che il Soldaniero, nel suo voltafaccia, avea dovuto rivelare
e forse anche presentare questa lettera. Come ben si vede, egualmente
da siffatto lato la deposizione di fra Pietro venne ad aggravare
la condizione del Campanella, sebbene fosse stata condotta con una
discrezione notevolissima. I Giudici non poterono essere soddisfatti,
perchè si aspettavano da lui molto più, e manifestamente non a torto.
Anche per noi, attese le qualità di fra Pietro, questa deposizione non
può non avere una importanza grande, nè solo per quello che dice, ma
anche per quello che non dice e lascia trasparire sufficientemente.
Il Campanella aveva presagi di vicine mutazioni ed anche presagi
grandiosi per la persona sua, insinuava l'utilità di armarsi, aveva
molti aderenti e scriveva a fuorusciti per chiamarli a sè: questi
grandi tratti bastano a chiarire la causa, e nella farragine di
deposizioni d'ogni risma, trovandone taluna come questa, non sospetta,
sopra di essa conviene fondarsi per avere una guida meno fallace nella
intralciata quistione.
Poco ci tratterrà il giudizio sul valore delle rimanenti deposizioni.
Il Bitonto, negativo in tutto, trovò una scusa per ogni interrogazione,
ma una scusa tale da sfidare qualche volta la pazienza de' Giudici,
e per tal modo non recò alcun vantaggio a sè nè agli altri. Il
Pizzoni poi giunse solo a confermare quanto avea deposto, mentre
pure sappiamo che voleva per lo meno emendate alcune cose e non vi
riuscì; questo ci comprova che nella prima deposizione avea rivelato
più del vero. Lo stesso va detto pel Petrolo, le cui emendazioni non
mutarono sostanzialmente le cose, dovendosi tuttavia notare, che quella
introdotta per ispiegare meglio la sua fuga venne troppo tardi per
potere veramente scusar lui denigrando Maurizio. Del Lauriana poi,
come del Soldaniero, è inutile occuparsi: con ogni probabilità essi
non avrebbero nemmeno saputo ripetere tutte lo cose dette nella loro
prima deposizione, laddove a qualche Giudice, e p. es. al Vescovo,
fosse venuto in mente di esigerlo; intanto tutti costoro ribadivano le
accuse, e le cause del Campanella riuscivano sempre peggiorate. Quanto
al Pisano, egli, poco più o poco meno, ripetè sempre le solite cose,
come lo abbiamo visto innanzi al Delegato del Vescovo di Gerace e poi
innanzi allo Xarava, e come lo vedremo sul punto di essere giustiziato;
tuttavia questa volta si mostrò risentito e vendicativo più del solito
verso coloro i quali riteneva essere stati rivelatori delle cose sue,
specialmente verso il Santacroce, oltre il Gagliardo. Tale sua costanza
nelle deposizioni, mentre addimostrava che egli diceva il vero,
riusciva aggravante massime per fra Dionisio e gli altri frati compreso
il Campanella, sebbene anche questa volta egli avesse dichiarato
un po' meno del vero le brevi relazioni avute direttamente con lui.
Infine quanto al Caccìa, costui veramente aggiunse cose di eresia ed
aggravò sempre più le condizioni del Campanella, di fra Dionisio e del
Pizzoni: non ne conosceva molte, e ciò prova da una parte che non glie
ne furono artificiosamente suggerite da alcuno quando trovavasi nelle
carceri, e d'altra parte che in realtà non v'era ne' frati il proposito
di seminare eresie, come fra Cornelio e i Giudici laici pretendevano;
invece quelle poche che dichiarò, e il modo in cui disse di averle
sapute, provano che se fra Dionisio ne parlava, ciò avveniva realmente
perchè voleva, a modo suo, spiriti forti i soldati della futura
ribellione, e se ne parlava il Campanella, ciò avveniva o perchè vi
era condotto dalla necessità dietro certe dimande, o perchè alludeva a'
principii religiosi che avrebbero avuto impero nel futuro Stato.
Pertanto una copia di questo processo, come veniva certamente spedita
a Roma, così veniva anche rilasciata agli ufficiali Regii. Gli Atti
esistenti in Firenze mostrano indubitabilmente tale compiacenza de'
Giudici ecclesiastici, e fanno rilevare che questa copia rimase come
allegato di tutto il processo di tentata ribellione, mentre la copia
dell'Informazione presa da fra Cornelio e dal Visitatore era stata
inserta nel 1.º volume de' processi medesimi[472]. Il Vescovo di Gerace
verosimilmente chiuse gli occhi sopra una simile infrazione delle
norme assolute del S.^to Officio e degli ordini formali di Roma, che
intimavano diligenza e segretezza, come li chiuse certamente sopra
gli esami fatti e le torture inflitte da' Giudici laici al Pisano e al
Caccìa, mentre venivano riconosciuti clerici ne' quattro ordini sacri.
Del resto avea chiusi gli occhi anche sulla mancanza di segretezza
durante gli esami, per l'intervento degli ufficiali Regii e della loro
gente armata, la qual cosa si fece sentire in modo non lieve a carico
de' poveri inquisiti; giacchè non solo divennero sempre più diffuse
le voci di congiura e di eresia, ma ne andarono per le piazze le più
minute particolarità, e così in qualche altra Informazione, che si
ebbe a prendere posteriormente, si trovarono generalizzate assai più
di quanto era legittimamente imputabile agl'inquisiti. Vedremo tra poco
che in una nuova Informazione commessa da Roma al Vescovo di Squillace,
e presa in novembre e dicembre di questo stesso anno, si raccolsero
molte e molte cose specialmente «de fama publica, de auditu incerto
post carcerationem», e non si potrebbe dire con precisione quante ne
avessero disseminate gl'inquisiti e quante i Giudici. Ma a' Giudici
medesimi, segnatamente a quelli ecclesiastici, nocque non poco la loro
sciagurata maniera di procedere: lo zelo eccessivo di fra Cornelio,
secondato per lo meno dalla notevole acquiescenza del Visitatore, al
contrario di ciò che costoro si attendevano, come ingenerò sospetto
in Roma, così ingenerò disgusto e sospetto nel pubblico; il processo
di eresia fatto in Napoli venne poi a rivelare le voci corse sul
proposito, e gioverà qui riferirle. «Comunemente fra Cornelio e il
Visitatore si tenevano Vescovi»; di fra Cornelio «dicevasi che lo
volevano fare sin fino Arcivescovo di Toledo»! Era questa senza dubbio
una caricatura, ma da essa si desume l'impressione che i procedimenti
di fra Cornelio aveano destata: nè vale il dire che tali voci vennero
messe innanzi dagl'inquisiti che aveano interesse di farlo, come fra
Pietro di Stilo, il Petrolo, ed anche il Bitonto, il quale disse
perfino di avere udito l'Avvocato fiscale assicurare fra Cornelio
«che se li saria procurato un Vescovato»[473]; vedremo più tardi fra
Cornelio, deluso e malcontento, recarsi da Napoli in Ispagna, ed il
Nunzio risentirsene con vivacità, la qual cosa non potrebbe spiegarsi
senza ritenere che le voci corse avessero davvero un fondamento.
D'altra parte dicevano «alcuni preti in Hieraci, che fra Cornelio havea
preso de li dinari da Misuracha acciò che andasse contra li monaci
e facesse tutto il possibile contra di essi e questo per havere la
taglia»; molti attestarono ancora avere udito dal padre del Pisano, ed
egualmente dal Caccìa, che entrambi aveano dato danaro ed altre robe a
fra Cornelio dietro promessa di farli rimettere al foro ecclesiastico,
ed egli li avea traditi. Il Campanella medesimo raccolse poi queste
voci e le addusse nelle sue Difese; ma per verità almeno quanto al
Mesuraca, non occorreva l'opera di fra Cornelio e non era stata neanche
bandita una taglia o premio per la cattura del Campanella; quanto
poi al Pisano ed al Caccìa, la cosa potè esser vera, essendo avvenuto
pure qualche altro fatto che pose in evidenza lo spirito di profitto
di quel tristo frate. Il fatto fu questo. Allorchè l'opera sua era
compiuta, e rimaneva soltanto che gl'inquisiti fossero tradotti a
Napoli, egli cercò danaro da' conventi di Calabria sotto pretesto di
sovvenire gl'inquisiti; il danaro fu sborsato, ma non giunse a coloro
pe' quali era stato raccolto, e il Visitatore anche questa volta per
lo meno lasciò fare. Il Vescovo di Termoli, Giudice dell'eresia in
Napoli, volle poi informarsi di tale faccenda e scrisse a Roma intorno
al Visitatore e a fra Cornelio in questi sensi: «la verità è che si
fecero dar molti denari per provedere a questi carcerati, et non gli è
stato provisto, mà frà Cornelio li hà spesi in venir à Roma, et si come
intendo ne diede conto alli superiori in Calabria»[474].
Passiamo ora a narrare le ultime gesta dello Spinelli e dello Xarava in
quelle sventurate provincie. Secondo gli ordini già dati dal Vicerè,
essi dovevano far giustiziare quattro de' più colpevoli, ed inoltre
anche Maurizio dopo di averne vagliata bene la causa, quindi tradurre
tutti i rimanenti carcerati in Napoli. Ma, come il Vicerè medesimo
fece sapere a Madrid con sua lettera del 20 ottobre[475], essendo
i carcerati più di cento, e tra loro venticinque fuorusciti ed otto
o dieci frati, a fine di risparmiare questo peso alle terre per le
quali avrebbero dovuto passare, egli ordinò a D. Garzia di Toledo
che con quattro galere, raccogliendo i soldati inviati a Lipari e ad
altre parti, se ne venisse al Pizzo o a Scalèa e di là avvertisse
lo Spinelli di recarsi con tutti i carcerati ad uno di que' posti,
per imbarcarsi con loro nelle galere e tornarsene in Napoli; quivi
giunti, egli diceva, «se ne vedranno le colpe e si procederà con
loro come meglio convenga, procurando di esaminare radicalmente il
fatto di questo negozio e quelli che vi si troveranno colpevoli».
Sappiamo che le galere erano partite da Napoli il 10 8bre (ved.
pag. 330), ma l'adempimento della loro commissione a Lipari e poi il
mare procelloso furono cagione di tanto ritardo, che gli ordini del
Vicerè si poterono eseguire solamente ai primi di novembre. Da' folii
del processo finora noti non apparisce che in tutto questo tempo si
fossero fatti altri esami di qualche importanza: ma bisogna sempre
ricordarsi che la massa de' sunti a noi pervenuti è solo quella che
direttamente o indirettamente riguarda gl'inquisiti ecclesiastici,
e mentre da una parte si trova ancora in que' sunti qualche cosa di
siffatto genere, d'altra parte sappiamo che vi furono perfino altri
laici «convinti e confessi» e poi giustiziati nel porto di Napoli;
riesce quindi manifesto che fino all'ultimo momento la persecuzione
continuò e il tribunale non cessò mai di funzionare. Noi abbiamo
cercato di raccogliere in un elenco i nomi di tutti coloro i quali si
trovano citati in ogni maniera di documenti, e massime ne' processi,
come carcerati o perseguitati per la causa del Campanella: i lettori
lo troveranno in una delle Illustrazioni annesse a' Documenti e
potranno prender conoscenza di questi nomi[476]. Qui ne menzioneremo
appena taluni, che non abbiamo ancora avuta occasione di citare e che
poi vedremo emergere nel corso degli avvenimenti; p. es. Francesco
Antonio di Oliviero di Nicastro, che il Campanella nelle carceri di
Napoli segretamente ebbe a compiangere perchè del tutto estraneo a
que' maneggi[477]; Marco Antonio Giovino (corrottamente Ingioino) di
Catanzaro, a' cui fratelli venne poi imputata l'uccisione del fratello
del Biblia per vendetta[478]. Ma principalmente dobbiamo menzionare
taluni catturati da Giulio Soldaniero e Valerio Bruno, i quali, dopo
di aver consegnato Gio. Tommaso Caccìa, continuarono in siffatti
servizii e si meritarono poi l'indulto consegnando «in Gerace» Gio.
Battista Bonazza alias Cosentino di Nicastro, Fabio Furci, Scipio
lo Jacono, Cola Politi, Conte Jannello, Marcello Barberi, tutti di
Tropea, ed Orazio Paparotta (o forse meglio Paparatto) di Nicotera. I
nomi di costoro con la qualità di «forasciti et rebelli» si leggono
appunto nell'indulto concesso dallo Spinelli al Soldaniero e al
Bruno, ed i primi tre, il Bonazza, il Furci e il Lo Jacono son detti
«confessati in tortura et condennati a morte», gli altri son detti
«carcerati in questo tribunale per tormentarli»[479]. Sul Bonazza
noi abbiamo rinvenuto nel Grande Archivio documenti i quali mostrano
essere stato già prima del 1599 catturato e condannato a morte e
poi mandato alle galere per omicidio[480]; bisogna perciò dire che
in quest'anno fosse evaso ed ascritto tra' congiurati siccome anche
il Pizzoni attestò; per fermo le parole dell'indulto non lasciano
dubbio circa la nuova imputazione fatta a lui ed a' suoi compagni
e dànno il modo d'interpetrare i nomi e la condizione di almeno tre
su' quattro individui che vennero più tardi impiccati sulle galere
in vista di Napoli come ribelli, senza essersene saputo mai altro. I
processi ecclesiastici fanno anche conoscere per incidente come e dove
il Bonazza e i suoi compagni furono presi: essi erano rifugiati nel
convento di S. Francesco di Paola di Tropea e vennero assediati dal
Soldaniero con la sua comitiva, ed anche da un Camillo di Fiore con
un'altra comitiva; costoro promisero che catturando que' rifugiati li
avrebbero consegnati nelle carceri Vescovili, ed invece, burlando il
Vicario, li tradussero a Monteleone e poi a Gerace nelle mani dello
Spinelli, onde il Vescovo di Tropea ebbe a scomunicarli[481].
Come pe' laici, egualmente per gli ecclesiastici continuarono le
catture e si prese anche qualche Informazione, ma sempre d'ordine
dello Spinelli; e da questo lato abbiamo notizie incomparabilmente
più complete, fornendole gli Atti esistenti in Firenze ed inoltre i
Preliminari del processo di eresia fatto in Napoli. Mentre il tribunale
ecclesiastico funzionava in Gerace, il 13 ottobre fu catturato fra
Francesco di Tiriolo Domenicano, essendogli stata trovata una licenza
per andare in Candia e Venezia, una carta scritta in turco e certe
lettere nelle quali si diceva dover lui andare in Turchia per fare un
riscatto; lo prese il Capitano Manfusio nel convento di Cutro[482].
Verso il 18 ottobre fu catturato D. Gio. Battista Cortese clerico
del Casale di Pimeni in casa di Gio. Vincenzo Camarda, ed inoltre D.
Gio. Andrea Milano sacerdote di Filogasi, mentre si ritirava nella
sua abitazione; si ricorderà che entrambi erano stati nominati nella
lettera scritta dal Crispo a Geronimo Camarda e caduta nelle mani
del fisco[483]. Il 20 ottobre fu catturato anche D. Marco Petrolo
di Stignano, quel buon sacerdote che dopo aver dato ricetto al
Campanella lo denunziò; un Ferrante de Sanctis napoletano lo prese di
notte in casa del cognato[484]. Verso il 23 ottobre fu catturato D.
Colafrancesco Santaguida di S.^ta Caterina sacerdote, mentre assisteva
a certe lezioni; lo prese Gio. Battista Carlino Commissionato dello
Spinelli, perchè quattro testimoni deposero esser lui andato in giugno
sulle galere turche e statovi circa un'ora in compagnia di diversi
altri, fra' quali i due clerici Giovanni Ursetta e Valentino Samà
della stessa terra, e costoro furono egualmente catturati[485]. E fino
all'ultimo momento, quando i prigioni erano sul punto d'imbarcarsi
al Pizzo, fu ricordato D. Domenico Pulerà che abbiamo visto altrove
denunziante di fra Pietro Musso: era sacerdote di Pimeni e stava
a Filogasi presso il Vescovo di Mileto; lo Spinelli credè bene di
chiamarlo al Pizzo e farlo imbarcare egualmente[486]. Aggiungeremo
che fu unito agli altri anche un Giulio di Arena, clerico coniugato di
Maierato, il quale fu preso dal Governatore del Pizzo e condotto sulle
galere, onde si trovò poi nella lista degli ecclesiastici prigioni,
senza che apparisca alcun altro provvedimento per lui[487]: le nostre
ricerche nell'Archivio di Stato ci hanno fatto trovare un documento, il
quale mostra che questo clerico veniva richiesto da Napoli per altri
delitti[488]. Aggiungeremo ancora che il 31 ottobre, se pure non è
uno sbaglio del Mastrodatti nella indicazione del mese, fu presa una
Informazione a Stilo dall'Auditore De Lega intorno alle relazioni tra
Giulio Contestabile, il Campanella ed altri[489]: dodici testimoni,
tra' quali due donne, attestarono più o meno l'amicizia del Campanella
con Giulio e col Di Francesco, con Marcantonio Contestabile, col
Caccìa ed altri fuorusciti, col Vua e col Prestinace che si erano
assentati; taluno affermò pure che il Di Francesco una volta avea
dimandato uno spirito familiare al Campanella e costui rispose che
non ne sapeva niente; altri affermarono di più che il Di Francesco e
il Campanella avevano insieme mangiato carne in giorni proibiti! Ciò
mostra che oramai tra le popolazioni le notizie dell'ordine temporale
e dello spirituale correvano congiunte in guisa, che pure i Giudici
laici avevano a raccogliere da persone indifferenti fatti dell'una e
dell'altra categoria.
I carcerati riuniti per essere tradotti a Napoli furono al numero
di 156, come risultò appunto nel loro arrivo e troveremo accertato
da diversi fonti. Ognuno avrà visto che erano stati messi insieme
tanto quelli ritenuti veramente colpevoli quanto i semplici sospetti,
gl'imputati e parecchi testimoni: basta ricordare che a lato di fra
Tommaso trovavasi carcerato non solo il fratello Gio. Pietro, ma
anche il vecchio padre Geronimo, a lato di fra Dionisio trovavasi fra
Pietro Ponzio suo fratello etc. Ma ognuno avrà visto pure che molti,
e non di lieve importanza, erano riusciti a tenersi nascosti; abbiamo
altrove citati parecchi di costoro e potremmo citarne ancora diversi
altri, come p. es. Ottavio Sabinis, Paolo e Fabrizio Campanella,
Geronimo Ranieri etc. E però, tenuto conto anco dei fuggiaschi e
perseguitati, il numero de' compromessi risulta sempre ragguardevole;
nè si deve passare sotto silenzio che dietro quella mostruosa denunzia
di Lauro e Biblia il numero de' carcerati dovè essere dapprima molto
più grande e dovè poi mano mano assottigliarsi, certamente per una
parte assai insignificante in via di pura e semplice giustizia; la
qual cosa ci conduce a parlare anche, da una parte, dell'accanimento
e ferocia dimostrata dal volgo verso il Campanella e i suoi aderenti
veri o supposti, e, d'altra parte, delle iniquità e ruberie commesse
da' Giudici laici in tale occasione. Il Campanella in più luoghi de'
suoi scritti diè chiare prove del suo profondo disgusto verso que' di
Stilo in particolare, e le popolazioni in generale, per l'accanita
persecuzione che n'ebbe, e il concetto del «popolo», che egli,
repubblicano, ebbe a farsi dietro la persecuzione sofferta, merita di
essere rilevato: si può vederlo nelle sue Poesie, dove segnatamente
egli l'espresse con più calore[490]. In altri suoi scritti poi affermò
esservi stato un numero grandissimo di carcerati, ben superiore a
quello che conosciamo tradotto in Napoli dallo Spinelli, e un numero
ragguardevole di «riscatti» e di «composte», nominando perfino
gl'individui che vi furono soggetti, oltre le cupidige e le promesse
di titoli e di ricompense a' rivelanti e persecutori. Nelle Lettere
che scrisse il 1606-07 al Papa, a' Cardinali etc. egli spesso accennò
a questi fatti; nella 3ª lettera al Papa, da noi pubblicata, scrisse,
che «fingendo di salvarla (la Calabria) la spopolaro, la sacchiaro,
la compostaro». Nella Narrazione poi naturalmente si espresse con
molto maggiore larghezza. «Seguio Spinelli e Xarava a carcerar quasi
due mila persone in tutte le terre, dove era stato Campanella e F.
Dionisio, et alcuni Baroni... Quelli che non preveniro d'accusare e
fur accusati, si sforzaro riscattarsi con denari e chi pagava mille,
chi due mila, chi tre mila, chi cento, chi cinquecento docati per
non andar carcerati alli Commissarii et à Xarava e Spinelli. Pagaro
assai quelli che già eran carcerati e subito eran liberati... Colui
che nominava più gente, et dicea il tale, el tale ponno esser complici
quello era più stimato da Spinelli e Xarava, e chi volea dir una parola
in difesa loro era carcerato per ribelle, e se pagava era liberato,
se no era afflitto miserabilmente, come anche quelli che murmuravano
delle composte si facevano alle terre oltre della paga che dava loro
il Rè e faceano ciò che lor piacea non solo impunemente, ma premiati, e
travagliando li contradicenti alle composte loro». E nell'Informazione,
accennate anche le promesse di titoli di Conti e Marchesi fatte ad
ognuno che rivelasse, scendendo a' particolari de' riscatti soggiunse:
«Si compostaro assai gente in danari, dicendosi, che dovean morire
_jure belli_, et ognuno volea perder più presto la robba, che la
vita, però davano quanto teneano, et io sò che G. Francesco Branca
di Castrovillari pagò docati mille. G. Francesco Suppa di S. Caterina
col figlio docati mille. Cicco Vono col nepote di Stignano 2500 libre
di seta, Giulio Saldaneri pigliato nel convento di Suriano per opera
di F. Cornelio, e del Polistena, indultato perchè dicesse heresia, e
ribellione, docati 3000, et la propria anima come esso stesso solea
dire, come appar in processo del S. Officio. Gio. Thomaso di Franza
tallaroni 200, li Moretti M. Antonio (_volea dire_ Ferrante) et Jacopo
fratelli, furo compostati 7000 docati in Jeraci, e perchè poi non
li volsero pagare, furo condotti in Napoli con gli altri, che non
si volsero ritrattare: ci son altri più compostati; oltre le terre
e casali per dove passavano, come salvatori della provincia, qual
hanno ruinata e disertata con le scorrerie che faceano». In verità il
numero di due mila carcerati non corrisponde menomamente alle notizie
su' progressi delle catture, quali risultano dalle relazioni dello
Spinelli al Vicerè e da quelle degli Agenti di Firenze e di Venezia a'
loro Governi; ma noi non rifuggiamo punto dal credere che la lista di
carcerati e le altre indicazioni datene dallo Spinelli rappresentarono
solo quella parte di essi che non potè liberarsi co' riscatti, tale
essendo stato pur troppo il costume di quei tempi, favorito da' poteri
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