Fra Tommaso Campanella, Vol. 1 - 09

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non cessò mai di tenere in Napoli malgrado l'opposizione vivissima più
volte manifestata dalla città, e che in quel tempo era Monsignor Carlo
Baldini di Nocera, Arcivescovo di Sorrento ed insieme, dal 1567 in poi,
lettore di jus canonico nel pubblico studio. Appartenevano egualmente
alla giurisdizione del Nunzio e davano moltissimo da fare, oltre
le materie di fede, anche i costumi, e non solo quelli de' frati ma
altresì quelli de' numerosi Cavalieri Gerosolimitani che si chiamavano
parimente frati; poco di poi, per uno speciale ordine del Papa,
furono assegnate al Nunzio anche le cause de' clerici in relazioni
co' fuorusciti, de' clerici, come oggi si direbbe, manutengoli de'
briganti, e che allora si dicevano clerici in «negoziazioni illecite»;
a tutto ciò si aggiungevano le non poche cause relative all'esazione
de' parecchi redditi spettanti alla Camera Apostolica, essendo il
Nunzio anche Collettore degli spogli de' Vescovi, preti e clerici
beneficiati, che venivano a morire. Non mancavano poi, di tempo in
tempo, cause di ogni genere concernenti clerici di ogni maniera,
regolari e secolari, che il Papa per ragioni speciali commetteva al
Nunzio. La sua Corte si componeva di un Auditore, di un Avvocato
fiscale, di un Fiscale, di un Mastro d'atti, con 4 altri Notari o
Scrivani a costui sottoposti oltre parecchi Cursori, e finalmente di
un computista: aveva quindi un tribunale completo secondo l'usanza
di quell'età, e i membri di esso dipendevano tutti dall'autorità del
Card.^l Camerlengo, eccetto l'Auditore, che al pari del Segretario
della Nunziatura era persona di fiducia del Nunzio; la misura del
lavoro di questo tribunale può valutarsi dal fatto, che in quel tempo
la sua Mastrodattia, la quale assegnavasi al maggiore offerente,
rendeva tanto da poter dare, oltre il mantenimento proprio e de' 4
Notari, un'entrata alla Camera Apostolica di duc.^ti 600 l'anno, ben
presto elevati a duc.^ti 700 senza peso di cambio, pur non essendovi
tasse stabilite ma «certe usanze»[95]. Aveva inoltre il Nunzio una
«famiglia armata», vale a dire alcuni birri in abito di clerici, con
ferraiolo nero sulle spalle e armati di un piccolo schioppo, onde
il popolino, come abbiamo rilevato da qualche processo venutoci tra
mano, soleva chiamarli «le scoppettelle del Nunzio», chiamando anche
le scoppettelle del Vicario i birri della Corte Arcivescovile. Le
carceri stavano a pian terreno del palazzo del Nunzio, che a' tempi
de' quali trattiamo era quello medesimo destinato a tale uso fino
a' giorni nostri presso la piazza della Carità, comprato nel 1585
da Mons.^r Rosino Vescovo d'Amalfi sotto il Pontificato di Sisto V,
di poi restaurato ed ampliato col danaro proveniente da quella parte
della gabella del grano a rotolo, che si pagava in duc.^ti 4,000 alla
Curia, come restituzione di ciò che indebitamente si contribuiva da'
clerici, godendo costoro l'esenzione da ogni tassa. Aggiungiamo che
queste carceri non potevano contenere più di 15 persone, ed erano anche
mal sicure; laonde molto spesso il Nunzio era obbligato a chiedere
al Vicerè, che volesse far tenere carcerati «in nome del Nunzio di S.
S.^tà» gl'imputati di maggior polso, ed erano ordinariamente prescelte
in tale circostanza le carceri del Castel nuovo, come si rileva diverse
volte dal Carteggio del Nunzio Aldobrandini[96]. Aggiungiamo che il
carceriere di que' tempi era un laico coniugato a nome Tommaso Manat,
mentre in qualche altro processo, posteriore di diversi anni, abbiamo
trovato per guardiano delle carceri del Nunzio un frate Domenicano.
Nelle dette carceri dunque, una parte delle quali avea piccole finestre
aperte nel vicolo pur oggi denominato del Nunzio, mentre un'altra
parte dicevasi «segreta» e non avea finestre, dovè essere rinchiuso il
Campanella, e il suo carceriere dovè essere appunto Tommaso Manat: il
Nunzio poi, al cospetto del quale dovè comparire, fu Mons.^r Germanico
Malaspina Vescovo di Sansevero, entrato in ufficio appunto il 17
maggio 1591, cui successe Mons.^r Astorgio Sampietro il 22 febbraio
1592, e poco dopo l'Aldobrandini, l'8 aprile 1592, onde nel Carteggio
di costui, che conservasi in Firenze, non c'è notizia di questa prima
sventura del Campanella. — Come da tutti i tribunali ecclesiastici,
così anche dal tribunale del Nunzio dovea mandarsi a Roma una copia
del processo, mano mano che se ne compivano le diverse parti: e in
materia di fede, per poco che la causa avesse qualche importanza,
la Sacra Congregazione Cardinalizia del S.^to Officio in Roma se ne
ingeriva minutamente; faceva compilare dal proprio Fiscale il Sommario
del processo e poi gli Articoli o capi di accusa su' quali si dovea
procedere agli esami ripetitivi de' testimoni, intimava nuove diligenze
e nuovi esami informativi, da ultimo, con o senza un voto spedito
dal tribunale a richiesta di essa, statuiva sotto il nome del Papa
le sentenze da pronunziarsi. Così nella conclusione della causa il
tribunale locale era quasi una comparsa, e nel pronunziare la sentenza
dichiarava di farlo «visti e considerati i meriti della causa ed in
vigore delle lettere venute da Roma» sotto la tale data. Ma spessissimo
pure la Sacra Congregazione richiamava a sè la causa, ed allora,
compiuta la prima parte del processo, il prigioniero era inviato alle
carceri del S.^to Officio di Roma, dopo che n'era stato già inviato
il processo: del resto anche la Nunziatura con lo stesso metodo si
sbrigava volentieri de' suoi prigioni, per evitare l'ingombro delle
carceri insufficienti al bisogno. Una feluca privata soleva fare questo
commercio di trasporto mediante un compenso di sei scudi per capo, ma
quando c'erano prigioni di polso da dover mandare, vi s'impiegava una
così detta fregata armata col compenso di scudi dieci per capo: ed a
quel tempo il padrone della feluca, la quale conoscevasi anche col nome
di barca del S.^to Officio, era un Vincenzo Sguella ossia Sgueglia,
essendo venuto più tardi in campo quel Geronimo della Briola ossia de
Labriola, che Francesco Palermo ci fece conoscere con un documento da
lui pubblicato[97]. Si trovano con molta frequenza per ciascun anno
gli esempî di siffatti invii, sì da parte del Nunzio come da parte
del Vicario Arcivescovile e di Mons.^r Baldini, e può ritenersi per
certo che pel Campanella le cose non andarono diversamente. Formato il
processo e mandatolo a Roma, egli dovè essere consegnato in catene a
Vincenzo Sgueglia sulla feluca del S.^to Officio, ed in tale condizione
ben trista dovè fare il suo viaggio all'alma città. Ad ogni modo non vi
andò di certo spontaneamente, fuggendo gli emuli accusatori, come nel
_Syntagma_ fu scritto.
III. Le vicende del Campanella in questa sua prima andata a Roma non
ci son note ne' loro particolari; ma possiamo dire con certezza che
il suo processo si chiuse con una condanna all'abiura _de vehementi
(int. de vehementi haeresis suspicione)_, che ciò accadde nel 1591, e
che dopo di essere rimasto quasi un altro anno in Roma, verosimilmente
con la relegazione in uno de' conventi del suo Ordine secondo la
giurisprudenza del tempo, egli finì per andarsene in Toscana. Possiamo
aggiungere che dovè essere giudicato trovandosi Commissario generale
del S.^to Officio fra Vincenzo da Montesanto, Piceno, al quale, fatto
poi Vescovo aprutino di Teramo nel 23 ottobre 1592, successe fra
Alberto Tragagliolo da Firenzuola che ci darà molto da dire più tardi.
Non potremmo affermare che in questo primo processo il Campanella
abbia avuto il tormento, come era solito a verificarsi quando si
finiva coll'abiura _de vehementi_: egli non ne fece mai parola, ma
veramente non fece mai parola chiara ed aperta del processo medesimo,
appunto perchè finito così male; una volta sola non potè non ricordare
la sua posizione passata di veementemente sospetto senza dir altro,
e vedremo che l'essere stato «sette volte tormentato», giusta le sue
ripetute affermazioni, deve riferirsi interamente al processo ultimo
fattogli in Napoli. È certissimo intanto che quella condanna gli sia
stata inflitta, e non è arrischiato il ritenere che gli sia stata
inflitta per le proposizioni ereticali in dispregio della scomunica:
lo attestano da un lato due lettere del Nunzio esistenti nel suo
Carteggio, da un altro lato la lettera del Card.^l di S.^ta Severina
sopra menzionata[98]. In una delle due lettere del Nunzio diretta al
Card.^l di S.^ta Severina si legge, «scuopro che altra volta quel fra
Tommaso è stato fatto costà abiurare»; nell'altra diretta al Card.^l S.
Giorgio si legge, «per haver abiurato altra volta com'egli stesso dice,
vorrà forse in questo dar che fare di nuovo»: nella lettera poi del
Card.^l di S.^ta Severina, diretta appunto a fra Alberto Tragagliolo da
Firenzuola, fatto Vescovo di Termoli e deputato giudice del Campanella
in Napoli unitamente con altri, si legge, «essendo V. Sig.^ria molto
ben pratica delle cose del Santo Officio, et anco informato delle altre
cause conosciute in questa Santa Inquisitione contra il Campanella,
ove abiurò come sospetto vehementemente di heresia l'anno 1591, non le
dirò altro»; le quali parole, provenienti da chi teneva a que' tempi
il suggello delle cose dell'Inquisizione, affermano esplicitamente il
fatto e la data di esso. Queste testimonianze ci dispensano dal recarne
altre minori, le quali risulterebbero da deposizioni d'individui
esaminati nel processo di Napoli del 1599 (p. es. una deposizione di
fra Dionisio Ponzio), tanto maggiormente che esse sono appena l'eco
di voci più o meno fondate e non recano una precisa determinazione
di data: menzioneremo solo la testimonianza del Campanella medesimo,
il quale, nella Difesa che ebbe a scrivere in tale occasione, disse
che di eresia «non fu mai confesso o convinto, comunque sia stato
veementemente sospetto»[99]. Tale fu l'esito ben grave del primo
processo fatto al Campanella, processo che, ripetiamo, è rimasto
finora sconosciuto a' suoi biografi. Il Berti è giunto fino a dire,
che essendosi portato in Roma «non fu allora chiamato davanti al S.^to
Uffizio e questo non tenne conto delle accuse che erano state mosse
contro di lui da Napoli»[100]; ma la cosa andò in modo affatto diverso,
e la posizione del Campanella a fronte del S.^to Officio rimase
grandemente pregiudicata.
Nulla sappiamo intorno al luogo in cui il Campanella ebbe a prendere
stanza in Roma, dopo di essere uscito dal carcere. Il Berti afferma che
alloggiò nel convento di S.^ta Sabina, e la cosa è probabile: afferma
inoltre che scrisse e presentò il suo scritto a' Commissarii del S.^to
Officio, esponendo una riforma universale ne' costumi e nelle abitudini
del clero sul migliore andamento della Chiesa; ma temiamo che possa
esservi qui una confusione di due tempi diversi. Bisogna considerare
che egli aveva pur allora abiurato, e in tale condizione il voler
discorrere di riforme necessarie alle persone ecclesiastiche sarebbe
stata un'esorbitanza; d'altronde il S.^to Officio allora appunto, nel
1592, esaminava e poi faceva mettere all'indice, al 1º indice emanato
sotto gli auspicii di Clemente VIII, tre libri del Telesio, e il
Campanella, Telesiano conosciuto, aveva ancora qualche cosa a temere da
questo lato[101]. Ma certamente egli scrisse alcune opere, benchè nel
_Syntagma_ non si trovi alcuna notizia di opere composte in tal tempo,
ed invece si trovi immediatamente registrata la partenza di lui per la
Toscana. Come vedremo tra poco, tutto induce a far ritenere che egli
abbia potuto partire per la Toscana soltanto verso la fine dell'està
del 1592, naturalmente dopo che ottenne di essere sciolto dall'obbligo
della permanenza nel convento assegnatogli: così, avendo dimorato in
questo convento press'a poco un anno, riuscirebbe impossibile ammettere
che non vi abbia scritto nulla, mentre è notissimo che egli non sapeva
rimanere inoperoso. E poichè in un documento riferibile al tempo del
suo arrivo in Firenze (la lettera di Baccio Valori del 15 8bre 1592
pubblicata dal D'Ancona) troviamo fatta menzione di alcune opere le
quali certamente sappiamo non essere state composte in Napoli, bisogna
di necessità ammettere ch'esse siano state composte in Roma. Ecco
dunque il sèguito del Catalogo delle opere del Campanella già iniziato
precedentemente (ved. pag. 39-40). Durante la prima permanenza in Roma,
vale a dire dalla fine del 1591 a buona parte del 1592, si ebbero;
Un Carme _Della filosofia di Empedocle_; un trattato _De insomniis_,
l'unico di questo gruppo che il Campanella abbia registrato negli
elenchi delle opere proprie più volte citati, dicendolo costituito da
un sol libro; un trattato _De sphera Aristarchi_; il sèguito dell'opera
_De rerum universitate_, ma non al di là de' due primi libri; inoltre
un primo libro di _Phisiologia_. Quest'opera col titolo di «Fisiologia»
non si rinviene citata tra quelle delle quali parlò Baccio Valori,
sibbene insieme con quelle delle quali nel _Syntagma_ si vede deplorata
la perdita avvenuta in Bologna, poco dopo l'escursione fatta a Firenze;
è dichiarata «un libro compiuto..... con dispute contro tutte le sètte,
al quale doveano seguire 19 altri libri già meditati», onde non pare
che possa dirsi sicuramente l'opera medesima «De rerum universitate»
con altro titolo, e la composizione di essa deve sempre riferirsi al
tempo della permanenza in Roma[102].
Aggiungiamo che durante questa permanenza in Roma, il Campanella dovè
anche stringersi in intima relazione con D. Lelio Orsini, il quale
ritiratosi allora appunto in Roma ospitava in sua casa il filosofo
Telesiano Abate Antonio Persio. Il Campanella medesimo ci ricordò
questa circostanza, facendoci trovare registrato nel _Syntagma_ che
quando fu a Padova, mandò un libro ad Antonio Persio abitante in
Roma presso Lelio Orsini; e non è dubbio che nel 1592 D. Lelio si
sia già trovato in Roma, bastando citare una lettera a lui diretta
dal Nunzio Aldobrandini, in data del 1º maggio 1592 da Napoli, la
quale fa parte del Carteggio di esso Nunzio esistente in Firenze.
Abbiamo già avuta occasione di nominare questo D. Lelio, parente
de' Signori del Tufo, ed abbiamo detto che egli divenne non meno de'
Signori Del Tufo amico e patrono del Campanella. Infatti da una parte
D. Lelio spinse talora il filosofo a scrivere, fornendogli qualche
argomento, d'altra parte lo protesse ne' suoi travagli patiti in Roma
e vi ebbe continua corrispondenza, come risultò dalle deposizioni di
più testimoni che furono poi esaminati nel processo del 1599, tanto
che vedremo pure D. Lelio largamente nominato tra coloro i quali
avrebbero aiutata l'insurrezione di Calabria disegnata dal Campanella.
Sicuramente egli ebbe cura del Campanella ne' travagli di questo primo
processo: forse per opera di lui fra Tommaso ottenne di poter partire
da Roma ed andare a Firenze, dove già erano state avviate pratiche
per fargli avere una cattedra di filosofia in Pisa; così ci pare
giunto il tempo di dare notizie più minute intorno a questo D. Lelio
spesso citato dal Campanella, e nell'opera _De sensu rerum_ citato
due volte[103]. — Discendeva D. Lelio dalla nobilissima casa Orsini
di Roma, ma apparteneva al ramo de' Duchi di Gravina trapiantato nel
Regno. Era secondogenito di Antonio Orsini, Duca di Gravina, e di
Felicia Sanseverino, sorella del Principe di Bisignano Nicola Berardino
Sanseverino: non ebbe titoli, e neanche feudi per lunghissimo tempo;
nè ebbe figliuoli con la sua Signora Beatrice. Risedeva, naturalmente,
nel Regno, e molti documenti dell'Archivio di Napoli, come anche di
quelli di Firenze e di Urbino, ce lo mostrano talora in Gravina, più
spesso in Barletta, da ultimo in Basilicata, ordinariamente per affari
relativi ad industrie agricole; in Basilicata ebbe interessi, dopochè
la sua sorella Maria, sposa a D. Giovanni D'Avalos, nel 1596 lo fece
erede degli erbaggi di Pomarico e Montescaglioso, terre appartenute
temporaneamente allo zio Ostilio, e così, molto tardi, fu detto Barone
di Pomarico e Montescaglioso. In qualche documento più antico trovasi
dichiarato «clerico e cameriere segreto di S. S.^tà», in qualche
altro «Domicello Romano»; ma non manca nemmeno qualche documento in
cui è dichiarato «cittadino napoletano nato in Napoli»; quivi si
conciliò molta stima qual cavaliere savio e facoltoso, e fu anche
Eletto del Seggio di Nido. Era molto attaccato al suo zio Principe di
Bisignano, che dovrà figurare egualmente in questa nostra narrazione:
vedremo che con ogni probabilità, durante le traversìe del Principe
strettamente carcerato allora nel Castello di Gaeta, dopo un ordine
rigorosissimo che niuno de' parenti potesse avvicinarlo, D. Lelio si
ritirò provvisoriamente a Roma, essendo stato in Napoli sino alla fine
del 1591; ma ne tornò nel 10bre 1594, e scorso un altro anno, dopo la
morte dell'unico figlio del Principe, egli si ritenne successore di
costui _in pheudalibus_, essendo già trapassato fin dal 1583 il Duca
di Gravina suo fratello, onde ebbe a trovarsi in gravissima lite con
altri pretendenti[104]. Così egli dimorava in Roma nel 1592, e stava
in ottima relazione con la Curia e col Papa, il quale, essendo stato
invocato dal Gran Duca di Toscana arbitro nelle quistioni surte tra
lui e suo fratello D. Pietro, nel 1593 delegò D. Lelio a questa non
lieve missione: ed ecco perchè ci è sembrato del tutto naturale che
egli abbia avuta qualche influenza nel far concedere al Campanella
di poter partire da Roma, forse anche raccomandandolo in Toscana per
la cattedra. — Non è arrischiato il ritenere che la dimora di Antonio
Persio presso D. Lelio Orsini in Roma abbia contribuito a recar favore
al Campanella. Il Persio è oramai abbastanza conosciuto segnatamente
per opera del Fiorentino[105]. Abate e dottore, nativo di Matera in
Basilicata, figlio di Altobello o Adoberto buono scultore di que'
tempi rimanendone tuttavia alcuni lavori nella Cattedrale di Matera,
fu discepolo del Telesio e Telesiano accanito, avendone sostenuti i
principii con dispute in più luoghi, raccolti e pubblicati diversi
opuscoli, assunte le difese in ispecie contro Francesco Patrizzi. Fu a
Venezia e prese poi stanza in Roma; l'elenco delle sue opere rimaste
inedite può leggersi in una lettera di Giovanni Bartolini Bolognese
riportata dall'Odescalchi nelle Memorie de' Lincei, essendo stato il
Persio uno de' primi ascritti a quell'insigne Accademia; il Fiorentino
ne ha fatto conoscere qualcuna che se ne trova ancora. Fu costante
amico del Campanella; sappiamo da documenti che si tenne in continua
corrispondenza con lui anche in gravissimi momenti della prigionia
sofferta dal filosofo in Napoli, ed egli medesimo un anno prima della
sua morte, il 1611, gli mandò da Roma l'opera di Ticho-Brahe[106].
Naturalmente il Persio dovè ricordare sovente a D. Lelio Orsini il
povero Campanella e sollecitarne con vigore i buoni ufficii.
Da Roma dunque il Campanella se ne andò a Firenze. Nel _Syntagma_
questa sua gita si trova registrata con pochissime parole: «andai
a Firenze, nè però incontrai miglior sorte, e dedicai il libro _De
sensu rerum_ al Gran Duca Ferdinando primo». Ma già da un pezzo era
stata pubblicata dal Fabroni una lettera del Campanella che spargeva
sufficiente luce su questa gita: in sèguito, mercè le indicazioni
del Baldacchini per notizie avutene dal Trucchi, Francesco Palermo
ne rinvenne e pubblicò un'altra, e il D'Ancona 4 altre di diversa
provenienza, tutte esistenti nell'Archivio Mediceo; ancora il Berti
ne ha pubblicata non ha guari un'altra del Campanella al Galilei,
raccolta nella Bibl. naz. di Firenze e contenente qualche altra notizia
intorno al fatto che dobbiamo narrare; infine noi medesimi, del pari
nell'Archivio Mediceo, ne abbiamo rinvenuta un'altra dell'Agente di
Toscana in Napoli che oggi pubblichiamo, ed oramai si può dire che la
gita del Campanella a Firenze sia chiarita appieno nella sua data,
nel suo scopo, nel suo risultamento, in tutte le sue fasi[107]. Il
Campanella era stato proposto al Gran Duca e si era mostrato con
lui desideroso di dedicarsi al suo servizio; si trattava di dargli
una lettura di filosofia nello studio di Pisa, e il documento da noi
trovato mostra che la proposta era stata fatta già da un pezzo, sin
dal 1591, durante la dimora di lui in Napoli. Forse l'aveva proposto
Mario del Tufo, giacchè le nostre ricerche nell'Archivio Mediceo ci
hanno rivelato una stretta corrispondenza col Gran Duca da parte di
questo Signore, che avendo una buona razza di cavalli in Minervino (o,
come allora si diceva, Mondorvino) ne faceva continui regali al Gran
Duca, il quale mostrava di pregiarli grandemente, e si disobbligava
regalandogli quasi sempre marzolini e due volte anche «due schiavi sani
e belli»[108]. Il Gran Duca avea sin dal 1591 dimandato informazioni
sul Campanella al suo Agente in Napoli, Giulio Battaglino, napoletano
e prete, stato già al suo servizio in Roma quando il Gran Duca era
Cardinale ed egli emigrato, come ci risulta dal suo Carteggio e da
quello del Residente Veneto: noi avremo a parlare ancora in sèguito
del Battaglino e de' suoi dispacci intorno al Campanella, e quindi è
tutt'altro che inutile avere notizie precise delle sue condizioni[109].
Al Battaglino giunse l'incarico d'informarsi del Campanella mentre
costui trovavasi già carcerato in Napoli, e rispose «che per trovarsi
lui prigione per causa di religione, nè haveva potuto trattar seco nè
conveniva intrigarsi in tal genere di imbarazzi». Ma in sèguito, forse
dopo nuove sollecitazioni, in data del 14 7bre 1592 ne diede migliori
informazioni, dicendo che fra Tommaso aveva facilmente superato il
travaglio in cui era stato posto per invidia; che l'indomani sarebbe
partito per Roma a procurare il gastigo del calunniatore; che era uno
de' più rari ingegni, come poteva giudicarsi dagli scritti che egli
aveva visti e dalla voce che ne correva, e di qua gli era nata l'accusa
che avesse alcuno spirito familiare; con lo scudo di alcun principe se
ne poteva sperare gran cose. Ben si vede che egli rispondeva nel modo
più favorevole, ma non si mostrava bene informato del vero andamento
de' travagli del Campanella; nè abbiamo mancato d'indicarne a suo tempo
tutte le possibili ragioni.
Giungeva intanto il Campanella a Firenze, verosimilmente dopo le
novelle commendatizie avute da D. Lelio Orsini. Egli vi si dovè trovare
per lo meno verso la fine di 7bre 1592, rilevandosi da' documenti
illustrativi di questo periodo che il 2 8bre di tale anno era stato
già dall'Usimbardi introdotto presso il Gran Duca, il quale l'accolse
molto bene, gli consigliò di lasciare i frati che perseguitavano i
virtuosi e gli diede anche un po' di danaro: al tempo medesimo ordinò
all'Usimbardi di scrivere a Baccio Valori, che facesse vedere la
Biblioteca Palatina al Campanella e con tale occasione ne conoscerebbe
il merito, come anche al Generale de' Domenicani, che si compiacesse
dar licenza al Campanella di poter assumere il servizio al quale
intendeva chiamarlo e di poter dare alle stampe i suoi lavori; in tal
guisa egli mostrava il suo buon animo e veniva a procurarsi intorno
a lui informazioni novelle. Durante l'udienza il Campanella dovè
offrire al Gran Duca la dedica del suo libro che fu poi intitolato
_De sensu rerum_, e che allora avea per titolo _De sensitiva rerum
facultate_, dedica che vedremo poi come e perchè non ebbe effetto. La
lettera a Baccio Valori fu presentata dal Campanella medesimo il 13
8bre, ed il 15 egli rispose all'Usimbardi aver visto il Campanella,
«giovane di senno maturo, e di varia dottrina e recondita come si
trae da' suoi dotti ragionamenti, non meno che dall'opera per lui
stampata con titolo _de philosophia sensibus demonstrata_, dov'è seme
dell'altra ch'egli dedica a S. A. _de sensitiva rerum facultate_»; ma
notò, che «procurandosi oggi in Roma per alcuni proibire la Filosofia
del Telesio con colore che la pregiudichi alla Teologia scolastica
fondata in Aristotile da lui così riprovato, corre qualche risico
conseguente ancor esso, e per ventura il più terribile per eccellenza
de' suoi concetti, che veramente sono e alti e nuovi». Aggiunse che
avea saputo da lui avere scritto del dogma di Pitagora e così pure
di Empedocle in versi eroici, aver fatto un trattato _De insomniis_ e
un altro _De sphera Aristarchi_, avere per le mani un'opera maggiore
_De rerum universitate_, «un'intera filosofia da sè, al quale studio
potrà rimettersi a primavera, che arà stampato quello a Venezia per
dove parte domattina». Da ultimo fece conoscere che il Campanella
avea veduta la Libreria a sua soddisfazione, ed anche discusso a
lungo con due letterati sopra varie materie ben ardue, riuscendo a
far «maravigliare, se non credere a modo suo» poichè stimava ben poco
Aristotile. — Come si vede, nello splendido elogio non mancavano
macchie di tinta molto oscura, d'onde emergeva che sarebbe stato
meglio per lo meno non aver fretta a legarsi con questo giovane,
il quale sprezzava troppo Aristotile, oltrechè poteva trovarsi
compromesso con Roma essendo Telesiano: e resti chiarito che non solo
da quegl'infelici frati di Calabria, ma anche da questo pezzo grosso
di Toscana, dove pure si era menato tanto scalpore pel Platonismo,
il Campanella venne avversato, e furbescamente avversato, per le sue
dottrine antiaristoteliche. Essendo stato sempre sagacissimo, dai
discorsi tenuti il Campanella dovè capire la posizione e decidersi ad
andar via senza ritardo; tanto più che conosceva pure essersi scritto
al P.^e Generale, e naturalmente aveva da attendersi poco di bene da
quest'altra parte. Non lasceremo di dire che i due letterati, co'
quali il Campanella ebbe a discorrere nella Biblioteca in presenza
del Valori, furono con ogni probabilità Ferrante de' Rossi e il P.^e
Medici, da lui ricordati tanti anni dopo nella lettera che pubblicò
il Fabroni: il P.^e Medici specialmente dovè essere quel Teologo
fiorentino col quale egli disputò intorno alle anime de' bruti ed alla
vita futura di esse, avendo il fiorentino sostenuto che quelle anime
nella fine del mondo sarebbero risuscitate ed avrebbero avuto premio o
pena, secondochè il Campanella medesimo ci lasciò scritto nella nuova
composizione che ebbe a fare della sua opera _De sensu rerum_[110].
Nella stessa data del 15 ottobre il Campanella scriveva una lettera
al Gran Duca ed un'altra all'Usimbardi. Verso il Gran Duca si mostrò
consapevole di non essere stato «accettato per servitore di subito»,
si augurò che lo sarebbe in sèguito, lo ringraziò dei favori ricevuti,
espresse il suo stupore per la magnifica Libreria veduta, annunziò che
se ne andava a Padova, come ne avea manifestato il disegno, e che là
sarebbe rimasto pronto ad ogni menomo cenno di S. A. Verso l'Usimbardi
si mostrò grato ed obbligato, si augurò che lo appoggerebbe ancora in
sèguito presso il Gran Duca, ripetè il suo stupore per la Libreria di
S. A., annunziò che sarebbe partito l'indomani o al più l'altro domani.
Adunque il 16 o 17 8bre il Campanella mosse da Firenze per Padova, ma
si fermò in Bologna, dove ricominciarono i suoi malanni. Aggiungiamo
intanto che venne poi la risposta del P.^e Generale al Gran Duca, in
data del 13 9bre ed in termini punto rassicuranti, ciò che non può
far meraviglia oggi che abbiamo posti in luce i fatti avvenuti al
Campanella in Napoli e in Roma. «Alquanto differente relazione tengo io
del Padre Fra Tomaso Campanella, di quella è stata fatta a V. A. S. per
quanto posso comprendere dalla sua amorevolissima scrittami. Con tutto
ciò volendosi lei servire dell'opera sua, acciò non resti defraudato
del suo buon desiderio, io farò prova del valore e sufficienza sua,
e trovandolo atto per servire un tanto Principe qual è V. A. S., gli
comandarò ubbidisca a' suoi cenni, che mi sarà sempre singolar favore
si degni prevalersi della mia religione, come io indegno capo di essa
desidero tanto servirla. Farò insieme rivedere quell'opere che egli
ha preparato per dare alla stampa, come comanda il sacro Concilio
di Trento e gli ordini della Religione, ed essendo trovate tali che
meritino uscire in luce, molto volontieri gli comandarò che le faccia
stampare e che serva V. A. S. in tutto e per tutto» _etc._ Tale fu
la risposta del P.^e Generale, fra Ippolito M.ª Beccaria, di cui
abbiamo già avuta occasione di dare qualche cenno altrove. Sollecito
della distinzione che ridondava in beneficio dell'Ordine, premuroso
di mostrarsi ossequente al Gran Duca, egli trovavasi in imbarazzo:
non voleva dire che il Campanella fosse stato veementemente sospetto
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