Fra Tommaso Campanella, Vol. 1 - 16

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alla R.ª Audienza per mesi sei, e prorogare di poi ogni tre mesi
«il rigoroso rimedio de abbreviare il termine dela forgiudicatione»
contro coloro i quali commettessero omicidii proditorii mediante
archibugiate[216]. Intanto specialmente pel ricovero nelle case
de' clerici, nelle Chiese e ne' conventi, i banditi e in gran parte
anche i forgiudicati potevano eludere le persecuzioni con bastante
successo: i clerici, che si rendeano colpevoli di queste «negoziazioni
illecite», trattando o ricoverando i banditi in casa loro, abbiamo
visto che cadevano sotto la giurisdizione del Nunzio, e costui era
troppo lontano e disponeva di pochi mezzi per poter colpire dovunque
e colpir giusto; i preti e i frati, che li ricoveravano nelle Chiese
e ne' conventi, guadagnavano la benemerenza de' Vescovi, e spesso pure
qualche cosa di più. Potremmo riferire molti aneddoti intorno al prezzo
che non di rado costava a' banditi un tale ricovero, e segnatamente
intorno alla demoralizzazione dei frati, che ne' conventi in ispecie
rurali spingevano, aiutavano, ed anche personalmente intervenivano
alle escursioni predatorie de' banditi ricoverati: ci ripugna il fare
questa cronaca, la quale suol chiamarsi scandalosa, unicamente dacchè,
o per malizia o per eccessivo zelo del bene, è piaciuto attribuire alla
massa degli ecclesiastici d'ogni sorta e d'ogni grado una maniera di
sentire e di vivere essenzialmente diversa da quella de' laici, una
singolare ed impossibile immunità da' vizi del proprio tempo. Abbiamo
visto che il Vescovo di Mileto procurava che ne' conventi si fornisse
il vitto a' banditi ricoverati e assediati, e il Governo naturalmente
se ne doleva: del pari si doleva che p. es. in Rossano contumaci e
delinquenti «indifferentemente si serveno di tutte le ecclesie di
detta città, et non solo ci habitano loro, ma ci conducono le moglie
et altre donne, et armati di arme prohibite passeggiano per avanti le
porte di dette ecclesie»; si doleva che p. es. in Reggio, essendosi
alcuni banditi per causa di omicidio «andati a salvare dentro una
ecclesia di detta città, et havendoli posto le guardie attorno, il
Rev.^do in Christo padre Arcivescovo non le ha voluto permettere se
non per quaranta passi attorno detta ecclesia»[217]. Il Carteggio del
Nunzio Aldobrandini, testimone non sospetto delle imprese de' frati
in connivenza co' banditi, ci mostra che fin dal 1595 il Governo avea
dirette calde istanze a Roma perchè si facessero disabitare i conventi
in campagna, dando di essi una lunga lista molto istruttiva[218].
Ma se ne scrisse e riscrisse inutilmente in quell'anno ed anche nel
1596, nè si venne ad una conclusione prima del 7bre 1599, al tempo
in cui la congiura fu scoverta: allora soltanto si mandò da Roma un
ordine a' Prelati di non permettere che i malviventi e i fuorusciti
dimorassero nelle Chiese e ne' conventi, al quale ordine successe di
poi un Breve in regola, che prescriveva potersi concedere a' ministri
laici, non ostante la Bolla di Gregorio XIV, il fare l'estrazione de'
banditi dalle Chiese ed altri luoghi pii, e ciò pel tempo di sei mesi,
da prorogarsi quando ve ne fosse il bisogno. Ed ecco qualche Prelato
muovere il dubbio, se i banditi che stavano già ricoverati da un pezzo
dovessero pure concedersi a' ministri laici, e poi, scorsi i sei mesi
e non venuta la proroga, si videro i frati «accettare ne' conventi più
che mai i banditi e i delinquenti con grave scandolo»; onde il Nunzio,
ricordando continuamente gli scandali, chiedeva con istanza la proroga,
e si noti, non per la nequizia intrinseca della cosa, ma perchè si
stava «in pericolo di qualche stravaganza de' ministri Regii che li
caccino violentemente». Ma si vide venire la proroga soltanto dopo un
altro anno, e una nuova proroga farsi aspettare ancora otto mesi, e
sempre non tutti i Prelati impegnati ad occuparsene con serietà, e in
ispecie il Vescovo di Mileto dichiarato «fiacco a risolversi» da D.ª
Girolama Colonna zia del Duca di Monteleone, che si lagnava dei banditi
cresciuti a dismisura nello Stato suo[219].
Per tutti i fatti sinora esposti, nell'arrivare in Calabria, il
Campanella dovea naturalmente giudicare il Governo assai meno forte di
quanto pareva da lontano: ma bisogna aggiungervi ancora un avvenimento,
che egli non credè di dover menzionare nella sua Narrazione, e che è
ricordato da varii documenti di quel tempo. Vogliamo dire la comparsa
del Bassà Cicala con la flotta turca nel golfo di Squillace il 18 7bre
del 1598, la sua discesa appunto al capo di Stilo per fare acqua, con
la devastazione di molte vigne, fienili e case lungo un buon tratto
della costa, e naturalmente anche con la presa di persone di que'
luoghi; il suo allontanamento con poca molestia avuta dalle milizie
del Principe di Squillace, ciò che strombazzavasi sempre quale disfatta
de' turchi; il suo arrivo al seno, o, come allora dicevasi, «fossa» di
S. Giovanni, solito suo luogo di fermata presso il Capo Spartivento,
col ritirarsi delle poche galere di Napoli e di Sicilia che là si
trovavano; il desiderio da lui mostrato di vedere la madre dimorante
in Messina, e l'adempimento di questo suo desiderio che il Vicerè di
Sicilia si affrettò a soddisfare. Già prima, nel maggio 1595, alcune
galeotte di Biserta aveano fatta imboscata sotto Stilo, vi aveano
preso il capitano di una terra di quelle marine, il capitano anche
del battaglione (milizia provinciale) ed altri individui, guadagnando
8 mila scudi di riscatto: ora il Cicala vi scendeva egualmente e non
v'era chi gli facesse opposizione; poi, mentre avea danneggiati luoghi
soggetti a Spagna, otteneva ciò che voleva da' Proconsoli spagnuoli e
ravvicinavasi alla madre conosciuta qual fervente cristiana[220]. Chi
era questo Cicala? Se ne sono dette di molte intorno a lui, ed è tempo
di parlarne con la scorta de' documenti, che per verità non mancano
così negli Archivii come nelle Biblioteche; egli fu poi nominato, e
largamente nominato, nella congiura di Calabria, laonde merita tutta la
nostra attenzione.
Tra i moltissimi genovesi stabiliti nell'Italia meridionale vi erano
parecchi di cognome Cicala, ed alcuni di loro esercitavano l'industria
del corsaro. Al tempo del quale trattiamo l'esercitava ancora un
Edoardo Cicala, in ottime relazioni col Vicerè di Napoli, come
risulta da più documenti che si leggono nell'Archivio di Stato: nè
sarà inutile conoscere che aveano legni in corso anche taluni nobili,
come la Sig.^ra Girolama Colonna citata più sopra, e il Marchese
del Cirò di casa Spinelli, divenuto più tardi Principe di Tarsia;
straordinariamente poi anche le Corti de' Vicerè, segnatamente le
Viceregine con altri nobili ed impiegati di palazzo, armavano qualche
legno contribuendo «per carata», allorchè v'era speranza di ricco
bottino. Il Carteggio del Residente Veneto ne dà parecchie notizie,
poichè la Serenissima, in pace co' turchi, non vedeva punto bene
questi corsari di tutti gli altri Stati Cristiani, che turbavano
profondamente il commercio, davano motivo ad abusi e recriminazioni
senza fine, aizzavano i turchi alle rappresaglie se mai ve ne fosse
stato bisogno; d'altronde in ultima analisi ne pagavano poi la pena le
infelici popolazioni, abbandonate senza tutela, non essendovi forze
sufficienti a guardarle da' corsari turchi, che erano moltissimi ed
audacissimi[221]. Forse dietro i richiami del Governo Veneto, il Re di
tempo in tempo mandava ordini di proibizione dei legni corsari, e ce ne
rimane tuttora qualcuno, press'a poco di questi tempi, nell'Archivio
di Stato: ma gli ordini non venivano eseguiti, riuscendo tanto comodo
il poter dare una prova di zelo contro i nemici del nome Cristiano
e fare un'eccellente speculazione industriale[222]. Come risulta
dalle Relazioni degli Ambasciatori Veneti, il padre del Bassà Cicala
era appunto un genovese stabilitosi in Messina, che «andava come
corsaro depredando ogni luogo con una galeotta, con la quale fu fatto
prigione finalmente da' turchi col figliuolo, che per esser giovinetto
fu accettato in serraglio e con violenza fatto turco»; e questo
accadde nella terribile ripresa dell'isola di Gerbi presso Tunisi,
il 1560[223]. Nessuna delle Relazioni Venete ne fornisce il nome; ma
documenti da noi rinvenuti nell'Archivio di Stato, riferibili a un
altro figliuolo suo del quale parleremo or ora, ci fanno conoscere che
dovea chiamarsi Visconte Cicala. Tra le tante sue depredazioni vi era
stata quella (se la memoria non ci tradisce) di Castelnuovo alle bocche
di Cattaro, sull'estremo confine della Turchia, dove fece schiava
la figlia di un Bey, avvenente fanciulla, che educò al Cristianesimo
dandole il nome di Lucrezia, e tolse di poi in moglie avendone molti
figli; un primo a nome Filippo, un secondo a nome Scipione che divenne
poi il Bassà Cicala o Sinan Bassà, un terzo a nome Carlo, inoltre varie
figliuole, tuttora, al tempo di cui trattiamo, dimoranti in Messina.
Pe' meriti del padre, Filippo ebbe da Spagna una pensione di D.^i 1100,
pagabili, al solito, dalle casse di Napoli benchè fosse siciliano,
e per tale motivo trovasi più volte nelle scritture dell'Archivio di
Stato con la designazione di «Filippo Cicala del mag.^co Visconte o
«del q.^m Visconte in Messina»[224]; possiamo aggiungere che appunto
nel 1598 egli morì, lasciando un figliuolo chiamato Visconte come
l'avo. Carlo ottenne egualmente da Spagna una pensione di duc.^ti 500,
come pure il titolo di Conte Palatino dall'Imperatore, e il Bassà suo
fratello si era impegnato di fargli avere dal Sultano il Ducato di
Nixia o dell'Arcipelago, già goduto da Giovanni Miques ebreo portoghese
favorito (la signoria di Nixia e di 12 isole, Nasso, Andro, Paro,
Antiparo etc. etc. col pagamento di un tributo), onde l'avea fatto
venire a Costantinopoli sin dal 1594[225]; ma vediamo la carriera
appunto di Scipione, che seppe giungere fra i turchi a' primi gradi
dell'Impero.
Aveva Scipione Cicala 16 anni, allorchè fu preso da' turchi insieme
col padre: costui per danaro potè riscattarsi, ma Scipione, di bella
indole, piacque al Padischah e fu trattenuto nel serraglio[226]. Non
appena uscito dal serraglio andò alla guerra in Persia, e vi compì
fortunatissime imprese, per valore ed ardire della persona, con inganni
e stratagemmi, più che per giudizio e prudenza: dopo la morte di Osman
divise con Fehrad, che ne divenne geloso, il comando dell'esercito
contro i persiani. Sposò dapprima una, e poi, morta questa, ancora
un'altra figlia di Rusten Bassà, la cui moglie era figlia del Sultano
Suliman, molto influente col Serraglio, e ne ebbe due figliuole ed un
figliuolo a nome Corcut. Fu Capudan nel 1581, lungamente governatore
di Babilonia, poi di Diarbech (1590), poi Beglierbey dell'Arcipelago
e Capitano del mare (1594), nel quale ufficio non godeva molta
riputazione, non essendovisi mai esercitato. Si trovava realmente in
questo tempo in Costantinopoli un capitano calabrese, che avea preso
il nome di Giafer ed era «il più intendente» nelle cose del mare,
come ne fa fede il Bailo Zane nella sua relazione; tuttavia il Cicala
era sempre ritenuto pieno di ardire e di risorse; d'altronde gli
fu posto a fianco quasi come guida e luogotenente, facendolo venire
di Barberia, Arnaut Memi corsaro famoso e già vecchio, il cui nome
vedremo figurare anche nella narrazione delle cose del Campanella.
Ed appunto nel d.^to anno 1594, il Cicala, venuto nella fossa di S.
Giovanni con 95 galere, saccheggiò Reggio co' suoi casali, e poi
Vibona, Catona, Condeianni, S. Nicola, Ardore, la Motta Bovalina,
Cirò, Soverato, Montepavone, quattordici terre in tutto, distruggendo
non solo le immagini de' Santi, le campane, le Chiese, le ossa di
Mons.^r Gaspare Ricciulli stimato Santo, le torri di guardia, le
superbe stalle che il Governo teneva in Bovalina per le razze, ma
ancora gli aranceti, gli oliveti, le vigne, le moltissime piantagioni
di gelsi che servivano all'industria della seta tanto diffusa in
quella regione. Era stato mandato contro di lui Carlo Spinelli, che
dovrà pure figurare moltissimo nella nostra narrazione, e costui,
senza forze sufficienti, non seppe far altro che ordinare la ritirata
anche de' terrazzani ne' luoghi alpestri, lasciando al Cicala tutto
l'agio di devastare il paese a suo talento[227]. Ma le necessità della
guerra lo fecero richiamare all'esercito, e nel 1596 fu l'eroe di
quella battaglia di Agria che lo innalzò all'apice della sua gloria.
Come è noto, l'Arciduca Massimiliano con Schvarzenberg e Tauffenbach,
col Principe di Transilvania e Palfy, a capo di un grosso esercito
composto di alemanni, ungheresi ed italiani, sbaragliò i turchi in
modo da penetrare fin nel loro campo, e il Cicala, comandante della
retroguardia, dovè avvertire il sultano Mehemet III che si salvasse,
come difatti si salvò fuggendo co' suoi Spahi fino a Solnoc e Buda:
ma poco dopo, calcolando che i cristiani dovessero trovarsi occupati
a svaligiare le tende, il Cicala li sorprese e ne fece un macello,
impadronendosi anche di tutta l'artiglieria e del bagaglio; morirono
così 40 capi principali e tra essi i due Duchi di Holstein, morirono
quasi tutti gl'italiani co' Conti Pietro di Collalto e Giulio Cesare
Strasoldo, si salvò a stento l'Arciduca Massimiliano a Cassovia e il
Principe di Transilvania a Tokai. All'annunzio inaspettato di sì gran
vittoria, come scrisse il Bailo a Venezia, «il Sig.ºr in premio della
virtù e valor del Cigala in quella fattione si cacciò dal tulpante
un pennacchio e glie lo diede, creandolo gran Visir; la Sultana ne
fu turbatissima» (la Sultana madre protettrice del Visir Hibraim).
Poco dopo fu reintegrato Hibraim, «Cigala fu lasciato in Adrianopoli,
il Sig.ºr era malinconico»; ma il Cigala fece dire da parte sua al
Sig.ºr, che «se voleva esser Re et Imperatore, non doveva ascoltar la
madre», e la Sultana in gran collera lo fece relegare ad Erzerum, e
lo minacciò anche di farlo strangolare. Passò così tutto l'anno 1597,
ma in aprile del 1598 «il Cigala fu dichiarato Capitano del mare, la
Sultana madre del Sig.ºr minacciata di relegazione in Amasia o ritiro
nel serraglio»[228]. Quest'ufficio era molto desiderato dal Cicala,
tanto che lo si vide più tardi rifiutare il Visirato per rimanere nel
Capitanato del mare, sia perchè vi godeva maggior riposo, avendo già
54 anni di età passati in molti travagli, sia perchè gli fruttava un 40
mila zecchini l'anno, ed egli avea bisogno di conciliarsi co' donativi
il favore del Serraglio. I Baili Veneti non lo vedevano bene, poichè
non era punto affezionato a Venezia, «dicendo, benchè nato in Messina,
di discender da Genova, patria naturalmente poco amica a questa Ser.^ma
Republica»; eppure il solo suo amico fidato era il Capi-Agà, veneziano
rinnegato, poichè veneziani, genovesi, corsi, napoletani ed anche
calabresi in buon numero occupavano allora grossi ufficii nell'impero
ottomano. I Baili lo dichiararono sempre sprezzatore di chicchessia,
arrogante perfino col Sultano, bugiardo, ingannatore, avaro; tuttavia
non mancarono mai di riconoscere in lui certe grandi qualità, e non
lasciarono mai nulla intentato per renderselo propizio, come per
ispiarne ogni passo. Già nella condotta de' Veneti in Costantinopoli,
quale risulta dal Carteggio de' Baili, non si saprebbe cosa ammirare
di più, se la pieghevolezza e la pazienza, o l'astuzia e l'impiego
opportuno di tutti i mezzi atti all'acquisto di buone intelligenze
e buone informazioni; oltre i zecchini, erano sempre distribuiti con
giudizio rasi, velluti, cristalli, orologi, e verso il Cicala Capitano
del mare si usava una larghezza anche maggiore. La Repubblica gli
regalava 2 mila zecchini ogni anno, perchè, dicevasi, tenea sgombro
il mare da' pirati, e quando giungeva a Corfù e Zante, gli faceva
dare non solo il presente in moneta ma anche ciò che poteva piacergli
in vettovaglie fresche; un presente gli era del pari dato dalle
navi veneziane, dovunque egli ne incontrasse nelle sue escursioni, e
la Repubblica non ci trovava a ridire. In Costantinopoli poi, alla
sua partenza come al suo arrivo, visite, complimenti e regali. Si
compiaceva di pitture, e il Bailo gli manda miniature; altra volta
gli manda lastre di vetro, carte di cosmografia, libri di storia,
«per raddolcirne l'animo»; altra volta egli stesso chiede un orologio
da tavola, «di quelli che battono forte»; la moglie, guastatosi un
orologio, lo manda a casa del Bailo per farlo accomodare, e il Bailo le
compiace e ne fa sempre relazione a Venezia. Ma «non legge prontamente
franco (_int_. italiano), e si «fa leggere le lettere da persone che
l'intendono», e il Bailo per le sue vie coperte giunge ad avere da
queste persone copia delle lettere a misura che arrivano dall'Italia e
le trasmette a Venezia; in tal guisa si hanno le copie delle lettere
di Carlo suo fratello e diverse piccanti informazioni circa l'affare
del Ducato di Nixia, che al Papa, alla Spagna, a' Vicerè di Napoli e
di Sicilia parve una bella occasione per avere in mezzo a' turchi un
uomo devoto a' cristiani, mentre al Bassà Cicala era parsa una bella
occasione per attirare il fratello e la vecchia madre alla religione
musulmana. Egualmente, dentro l'arsenale di Costantinopoli e a bordo
delle galere che uscivano nelle escursioni annuali, sempre che poteva,
il Bailo teneva qualche uomo di sua fiducia, il quale in determinate
circostanze ed al ritorno dalle escursioni era interrogato in forma
legale con giuramento, e la copia dell'interrogatorio veniva trasmessa
in cifra, al pari di tutta l'enorme corrispondenza, a Venezia.
Come dicevamo, nell'estate del 1598 il Bassà Cicala fece la sua
escursione con la flotta venendo in Calabria al capo di Stilo. Il
Carteggio del Bailo da Costantinopoli c'informa che l'8 agosto era
partito con 47 galere munite di zappe e scale, aumentate poi a 50 e
travagliate durante il viaggio dalla peste; la quale circostanza forse
eccitò tanto maggiormente nel Bassà il desiderio di rivedere dopo tanti
anni la vecchia madre. Il Carteggio del Residente in Napoli c'informa,
che giunto nel golfo di Squillace con 48 galere e 7 galeotte, fece il
19 7bre sbarcare al capo di Stilo gli uomini di tre sole galere, e che
il 20 a tre ore di mattino ripartì lasciando anche le tracce del suo
passaggio nelle coste della Roccella, Gerace, Condeianni e Bianco;
quindi, non senza pericolo pel forte vento, penetrò nella fossa di
S. Giovanni, dove si trovavano 6 galere di Sicilia e 6 di Napoli, le
quali, tirati alcuni colpi di cannone, cedendo al numero si ritirarono
a Messina. Il Duca di Maqueda Vicerè di Sicilia aveva già ordinato
in Messina che niuno uscisse dalla città, pena la forca, temendo
intelligenze co' turchi; in Reggio poi la guarnigione spagnuola,
poco prima rinforzata con 600 uomini, non fece che continui spari di
artiglieria, pretendendo che così il Cicala non sarebbe sbarcato. Ed
ecco come il Residente Veneto riferì al Ser.^mo Principe il sèguito
dell'avvenimento: «dalla fossa di S. Giovanni Cigala il 23 espedì un
christiano a Messina con lettere sue al V. Re e alla sua propria madre,
dimandando di vederla, che si faccia riscatto di schiavi et bazaro,
come V. Ser.^tà intenderà distintamente dalle copie che saranno in
queste: havendosi poi il 24 esseguito il mandar à Messina il figlio
del Cigala con una galea per ostaggio, et la madre à lui con la galea
General di Napoli, ciò è fino a Rigio, et di là con filuche fino
all'armata, dove si fermò poche ore et ritornò piena di lagrime et
di donativi, etiandio di qualche denaro non solo dal figliolo ma da
tutti i capi di galea, et di militia, che honororono nella persona di
lei il Bassà secondo l'usanza turca. Dicevasi che il giorno sequente
partiriano per levante 14 galee con infermi, et che il Bassà col
rimanente passava in Barbaria» etc.; (continua annunziando che Reggio
13 volte arsa ed afflitta da' turchi speravasi questa volta rimarrebbe
illesa; dà quindi le copie delle lettere sud.^te «tradotte dal
turchesco»). Così fin d'allora le lettere scambiate in tale circostanza
furono immediatamente note; e basta dire che le troviamo perfino
negli Avvisi ossia ne' Giornali manoscritti del tempo; le troviamo
pure stampate più tardi nel Glorioso trionfo di Paolo Gualtieri, ma
sfuggite a tutti coloro i quali si sono occupati del Bassà Cicala a
proposito del Campanella[229]. Ecco poi le ulteriori notizie circa il
colloquio tra il Bassà e la madre riferite dallo stesso Residente:
«Il Cigala donò alla madre 2 mila cechini (_sic_) et la richiese di
ricordarsi d'esser nata turca, ed a dargli come madre la benedittione
del Profeta, et ella costantemente negò di farlo dicendo ch'essendo lui
maledetto da Dio non poteva giovargli la benedittion di alcun'altro,
ben promettendogli di pregar la divina M.^tà fino all'ultimo sospiro
della morte che à lui faccia quella gratia che hà fatto ad essa di
conoscer la vera fede di Giesù christo, nella quale anch'essa con più
ragione gli ricordava che lui era nato. Et viene affermato in lettere
di persone di molto conto, ch'egli non lasciò nel spatio che furono
insieme di accompagnar le lagrime della madre con qualche tenerezza».
Il Cicala non tardò a partirsene senza fare altri danni in Calabria:
ne fece bensì a Malta, sbarcando con 2 mila uomini in Gozo, e poi
se ne andò alla Barberia, dove si trattenne costruendo un forte in
Porto-farina; quindi si ritirò a Costantinopoli.
Un avvenimento di questa natura non potè non fare una grande
impressione sul Campanella. Vedremo che tra' diversi presagi, sui
quali egli allora rivolgeva la sua attenzione, vi era quello del
medico ed astrologo M.º Antonio Arquato, che recava doversi l'Impero
ottomano dividere in due parti, una delle quali si sarebbe convertita
al Cristianesimo ed avrebbe combattuto l'altra: forse nella visita del
Cicala alla madre egli intravvide che il presagio dovea verificarsi.
All'opposto, come abbiamo detto, il Cicala agiva nel senso di condurre
il fratello e la madre all'islamismo; nè le sue azioni erano meglio
giudicate presso i musulmani. Sappiamo che il Muftì, divenutogli
nemico, enumerava diverse sue colpe; la principale fra queste era, che
la prima volta uscito fosse andato a prendere il fratello per condurlo
a Costantinopoli, ed andato in sèguito a visitare la madre ed avutala
sulla galera, non si fosse curato di «liberarla di cristianità»,
per la qual cosa aveva offeso Dio e doveva riportarne gastigo[230].
Ad ogni modo poi il Campanella non poteva non vedere in tutto ciò
l'insigne debolezza del Governo, il quale non era in grado di opporsi
alle imprese del Cicala, lasciava che devastasse il paese, e invece di
combatterlo lo compiaceva nei suoi desiderii. — Pertanto verificavasi
ancora un altro avvenimento degno del pari di essere ricordato. Il
30 7bre si conosceva in Napoli che al Re di Spagna era stata aperta
una postema al petto, e se ne attendeva la prossima fine; l'8 8bre si
annunziava che era morto. Al temuto Filippo II succedeva un Principe
debole, e già, mentre ascendeva al trono, poco stimato: il fatto non
era di lieve importanza; gl'insofferenti del giogo spagnuolo aveano
motivo di rallegrarsi e di trarne i migliori augurii.
Ma è tempo di vedere la vita del Campanella in Stilo, ciò che egli vi
diceva e faceva.
Il convento di S.^ta Maria di Gesù, dove egli avea stanza, era un
piccolo convento, annesso ad una Chiesetta, e rappresentava appena
un Vicariato[231]. Poteva contenere soltanto tre o quattro sacerdoti
ed un laico assistente: allorchè vi giunse il Campanella, avea
l'ufficio di Vicario fra Simone della Motta Placanica; i sudditi poi
variavano spesso. Oltre il Pizzoni e il Lauriana avventizii, vi erano
un fra Domenico di Riaci e un fra Domenico Petrolo di Stignano, il
quale ultimo era veramente assegnato a Cosenza ma deputato a Stilo,
e si rimaneva volentieri a casa sua in Stignano; sappiamo per altro
che dopo la venuta del Campanella dimorò nel convento dal Natale
al carnevale, per tutto l'inverno successivo e poi di nuovo più
tardi, ma anche allora temporaneamente. In ottobre venne a starvi
fra Pietro Presterà di Stilo, che vi dimorò sempre, e nel Capitolo
tenuto in maggio dell'anno successivo fu creato Vicario del convento
in luogo di fra Simone; poi vi venne anche un fra Gio. Battista di
Placanica, che vi rimase solo per tre mesi, dal febbraio all'aprile.
Il Campanella si strinse specialmente a fra Pietro di Stilo sua
vecchia conoscenza, e a fra Domenico di Stignano proveniente dal
luogo in cui dimorava la propria famiglia. Fra Domenico era stato
novizio in Lombardia ed avea dimorato in Milano, mentre eravi pure
un Padre Gonsales, che incontreremo nel corso di questa narrazione:
estremamente impressionabile, ed anche manesco, avea bastonato alcuni
frati ed era stato punito per tale mancanza, ma non avea fatto parlare
di sè per altre cose. Quantunque già sacerdote e predicatore da due
anni, era tuttora «studente formale» com'egli medesimo dichiarò, e
seguì un corso di filosofia che il Campanella si fece a dettare in
Stilo: segnatamente per tale circostanza venne a trovarsi in una
certa intimità col Campanella, e quindi lo vedremo compagno di fra
Tommaso ne' suoi travagli, testimone importante ma non sempre fedele,
massimamente per la sua grande impressionabilità, rovina della causa
di fra Tommaso per vigliaccheria, come ebbe a dirlo fra Pietro di
Stilo. Quanto a fra Pietro, l'abbiamo già veduto condiscepolo ed
amico del Campanella fin dagli anni più teneri, e dobbiamo aggiungere
che fu con lui in familiarità sino a che vestì l'abito di religioso;
di poi non ebbe più occasione di vederlo, eccettochè per circa due
mesi in Cosenza nel 1588. Avea poco progredito negli studii, ma erasi
mantenuto ne' buoni costumi e si distingueva tanto per l'ottimo cuore,
quanto per una grande prudenza e un senso pratico squisito, che lo
faceva di rado fallire nella giusta estimazione degli uomini e delle
cose. Riconoscente al Pizzoni già suo lettore, ossequente al Polistina
Provinciale, non aveva mai avuto simpatia per fra Dionisio, massime
perchè lo sapea proclive a' risentimenti, ed abituato a' discorsi più
osceni: era stato anch'egli assegnato a Nicastro mentre fra Dionisio
vi tenea l'ufficio di Priore, ma non volle andarvi e non si diè pace
finchè non s'ebbe procurata un'altra assegnazione. Fu pel Campanella
un amico tenero, disinteressato, costante; può dirsi essere stata
quest'amicizia la cagione sola delle atroci sciagure che patì, e non di
meno la mantenne sempre ed efficacemente; in somma vedremo in lui una
simpatica e cara figura tra molta bordaglia[232].
Le occupazioni del Campanella nel convento di Stilo furono le sue
solite; dar letture, specialmente di filosofia, e scrivere libri; ma
oltracciò egli adempiva assiduamente a' suoi doveri di buon religioso,
come fu poi attestato da frati non sospetti e da altre persone di Stilo
che ne furono interrogate[233]. Cominciando da quest'ultimo punto,
dobbiamo dire assodato che recitava l'officio quotidianamente, talvolta
insieme con fra Pietro di Stilo e con fra Domenico di Stignano;
assisteva al coro, e solo si notava che «stava astratto», celebrava la
Messa e «tutti l'ascoltavano volentieri» quantunque conoscessero che
era stato inquisito dal S.^to Officio; avea ricevuto dal Provinciale
la licenza di predicare (ciò che conferma non trovarsi per penitenza
a Stilo), e dall'altare «stando sopra una seggia... predicava
cattolicamente, che tutto Stilo l'andava a udire, e diceva bellissime
cose predicando l'Evangelio de verbo ad verbum». In somma dimostrava
buona vita e «passava per uomo onesto», siccome del rimanente nessuno
pose mai in dubbio anche pe' tempi anteriori trascorsi in Calabria, ne'
quali, eccetto l'incidente dell'Ebreo, non si citò alcuno scandalo da
lui dato. Fra i tanti atroci accusatori venuti a galla in sèguito, si
trovò appena un solo individuo, il quale pel tempo cui siamo pervenuti
depose dietro una voce incerta che egli, insieme con altri, avesse
«fatto il _crescite_» con una certa Giulia nella propria cella; fra
Pietro di Stilo poi affermò essersi detto che avea per innamorata una
sorella di fra Domenico di Stignano ed avea peccato con lei, e perciò
costui eragli nemico ed avea cercato di farlo ammazzare; ma senza
alcun dubbio fra Pietro pose innanzi questa frottola per tentare di
far nascere un argomento giuridico d'inimicizia, capace d'invalidare
le gravi deposizioni di fra Domenico a carico del Campanella. Bisogna
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