Fra Tommaso Campanella, Vol. 1 - 34

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ultime sono degne di nota. Il Campanella, nell'Informazione, scrisse
che «nullo fu condannato per ribello veramente, non confiscandosi
beni, nè spianandosi le case loro», ma pur troppo non fu così: scrisse
inoltre, nella Narrazione, che «dui morti in Catanzaro da Xarava
si ritrattaro» e da questo lato, senza parlare della contradizione
coll'altro asserto, dobbiamo dire che vi fu realmente qualche cosa
di simile, difatti più tardi in Napoli, nel processo dì eresia, il
Barone di Cropani e il Di Francesco attestarono che que' disgraziati,
con altissime grida, dicevano aver confessato la ribellione per forza
di tormento e persuasione dello Xarava[434]. Noi abbiamo a suo tempo
fatto osservare che ciascuno di loro avea dovuto confessare più cose
che non gli costavano, l'uno pe' tormenti, l'altro per le persuasioni
dell'interrogante, e però potea bene spiegarsi una loro consecutiva
ritrattazione, bensì parziale: ma del resto l'orribile strazio che
si fece di loro dovè farli gridare pur troppo, e forse dire di non
sentirsi colpevoli di ribellione, non potendo nemmeno capacitarsi che
un disegno delittuoso si dovesse punire come un delitto consumato.
Intanto essi morivano entrambi nel modo più atroce, mentre c'era anche
una sensibile differenza nel grado della loro colpa. Il Crispo lasciava
un fratello giovanetto ed il padre, Ferrante; il Mileri lasciava due
sorelle fanciulle senza alcuno appoggio, e nell'Archivio di Stato
abbiamo rinvenuto un documento che ne attesta la misera fine[435].
IV. Compiute le due prime esecuzioni, il tribunale venne trasferito a
Gerace, dove lo Spinelli avea determinato di far residenza per ragioni
che tra poco ci saranno chiare, ingiungendo allo Xarava che vi si
recasse. Il giorno 29 lo Xarava partì per quella città «con tutti i
carcerati», tra' quali Cesare Pisano che dovea confrontarsi con altri
detenuti appunto in Gerace; ma quivi occorse pure aspettare l'arrivo di
un altro Mastrodatti capace di servire all'ufficio, che lo Xarava avea
mandato a chiamare. Vi fu dunque un trasporto di tutti i carcerati,
durante il quale i frati poterono vedersi ma non mettersi in relazione
tra loro, e si ebbe in sèguito dal Petrolo, nel tribunale per l'eresia,
la notizia di un fatto del Campanella avvenuto in tale occasione.
Solevano i prigioni tradursi a coppie, «ligati a mano a mano con una
corda» formando una catena: una squadra di armati li accompagnava,
e il capo di squadra era allora uno spagnuolo. Costui marciando a
cavallo dovè dirigere al Campanella qualche parola discorrendogli di
morte: il Campanella filosoficamente gli disse che non v'era morte,
ma mutazione di essere; il Petrolo, che veniva dietro di lui, udì
quelle parole e poi le ripetè, confessando di non saper bene «come lui
l'accomodasse»[436].
Scorsi pochi giorni, venne la notizia che fra Dionisio, Maurizio e
Gio. Battista Vitale, erano stati presi: il 30 settembre Gio. Geronimo
Morano, con una sua lettera da Monopoli, l'annunziava al Vicerè in
Napoli e naturalmente anche allo Spinelli in Calabria[437]. Il Morano
scriveva che partitosi di Cosenza in traccia di Maurizio e del cognato
di lui con due altri compagni, caminando giorno e notte e tenendo
sempre nuove fresche, avea preso fra Dionisio in Monopoli[438]; poi,
continuando sempre sulla traccia di Maurizio, avea preso in Nardò
un Gio. Ludovico Todesco, ed avea quivi saputo che Maurizio si era
imbarcato a Brindisi sopra una Marsigliana comandata da Francesco
Maresca per recarsi a Venezia; avendolo seguìto per terra ed avendo
saputo che la Marsigliana dovea caricare olio a Monopoli, erasi quivi
diretto ed avea trovata la nave ancorata a due miglia dalla città, non
permettendo il mare procelloso nè che la nave si potesse avvicinare,
nè che la gente potesse montare a bordo. Il 30, calmatosi il mare, il
Governatore di Nardò Agostino di Guardisciola ed il Giudice Stefano
Garonfalo, con due feluche, si spinsero verso la Marsigliana, presero
Maurizio e il Vitale e li consegnarono al Morano. Costui, il giorno
dopo, traduceva tutti que' prigioni in Calabria a Carlo Spinelli.
Dandone l'annunzio al Vicerè, egli scrivea: «riceva V. E. l'animo con
che l'ho servito, et non haria sparagnato la vita per condurre infine
questo servigio, come farò in ogni altra occasione del servitio di sua
Maestà et di V. E.». — Adunque Maurizio avea saputo sfuggire a' suoi
persecutori, traversando nientemeno che le provincie di Basilicata,
Bari e terra d'Otranto, in compagnia di fra Dionisio, Gio. Battista
Vitale e un Gio. Ludovico Todesco, il quale ultimo vedesi soltanto
qui nominato, e mostra bene esserci rimasto ignoto un certo numero di
congiurati anche d'importanza; se il braccio del Governo, aiutato anche
dalla fortuna di mare, finì per raggiungerlo, ciò non toglie nulla alla
destrezza che egli seppe mostrare. D'altra parte tutto ciò conferma
abbastanza aver lui veramente avuto in animo di salvare il Campanella,
quando si diede a corrergli dietro fin oltre Stignano; poichè se si
fosse proposto di guadagnare l'indulto col sacrificio di un complice,
potea bene sacrificare fra Dionisio, che agli occhi del Governo avea
quasi lo stesso valore del Campanella. Si vede pertanto come erri il
Giannone nell'affermare che «alcuni spensierati furono presi senza
contrasto, fra' quali fu Maurizio di Rinaldo»; non saprebbe dirsi
per quale fatalità la nobile figura di Maurizio abbia dovuto rimanere
falsata da tutti i lati. Conosciamo poi che fra Dionisio era vestito
da secolare, avendo fin dalla notte del 3 settembre, nel fuggire da
Pizzoni, deposta la tonaca fratesca; ma gli Atti conservati in Firenze
fanno sapere di più, che avea preso il nome di D. Pietro Antonio
Grasso e si era munito di una fede di sanità della città di Lecce[439];
quest'ultima circostanza mostrerebbe che i fuggiaschi avessero dovuto
percorrere tutta la terra d'Otranto per trovare un imbarco. Aggiungiamo
che i principali armigeri di Gio. Geronimo Morano, nella persecuzione
e cattura di que' fuggiaschi, doverono essere Aurelio Biase e Giuseppe
Pascalone, giacchè essi vennero poi a deporre col Morano segnatamente
sulla cattura di fra Dionisio. Aggiungiamo ancora un altro fatto
avvenuto a fra Dionisio nel suo arrivo in Calabria, siccome egli
medesimo ebbe poi a narrarlo in Napoli nel tribunale per l'eresia:
mentre veniva tradotto a Gerace, passando per Cosenza, il Governatore,
che era in quel tempo D. Francesco de Regina Conte di Macchia, ebbe
curiosità di vederlo e di dimandargli se era della setta del Campanella
e se credeva che la fornicazione fosse peccato, giacchè il Campanella
riteneva che non lo fosse; ed egli si fece a smentire così l'esistenza
della setta, come la credenza falsamente attribuita al Campanella[440].
Il Vicerè, con sue lettere del 4 e dell'8 ottobre, inviò subito a
Madrid la relazione del Morano e quella dello Xarava[441]. — Nel
partecipare la notizia dell'importante cattura di Maurizio e compagni
«capi della congiura di Calabria», fece anche conoscere come fin dal 28
settembre era stato da lui ordinato allo Spinelli che, dopo giustiziati
quattro de' più colpevoli, inviasse tutti gli altri in Napoli a buon
ricapito, avendo voluto che fossero quivi tradotti a fine d'investigar
bene le loro colpe e quivi gastigarli; e però nel giorno precedente
avea scritto che, vagliata bene la causa di Maurizio de Rinaldis,
facesse giustizia anche di lui, ed inviasse in Napoli gli altri
con tutti i rimanenti incolpati. — Nel partecipare poi l'esecuzione
già avvenuta de' due «trovati colpevoli nella congiura che andavano
fomentando», inviò pure l'ultima dichiarazione di Cesare Pisano, e nel
tempo medesimo la copia dell'Informazione presa dal Visitatore contro
il Campanella (questa era rimasta in Napoli fin allora), per mostrare
a S. M.^tà ciò che essi andavano disseminando pel paese, e ripetè che
aveva ordinato l'invio di tutti i carcerati, per investigare molto
radicalmente tale negozio, e dare il gastigo che conveniva.
Si scrisse allora finalmente una lettera da Madrid, in risposta ad
otto lettere Vicereali, cioè a dire in risposta a tutte le lettere
che erano state mandate intorno alla congiura: ne abbiamo rinvenuta
in Simancas la minuta senza data, ma questa si può facilmente
desumere, leggendovisi che l'ultima lettera ricevuta era quella del
4 ottobre[442]. In essa S. M.^tà si sbaglia sul nome del Campanella
che chiama Matteo, ma con solenne gravità si compiace che la congiura
sia stata scoverta, approva le misure prese, ringrazia la divina
Provvidenza e rinforza gli ordini di rigore verso gli incolpati. «Ho
gradito molto, egli dice, essere stata (la congiura) scoverta così
a tempo, che voi abbiate potuto arrestare, come lo faceste, mercè la
prevenzione e i così buoni rimedii, come li applicaste, i danni che
poteano seguire dal rimanere celata più a lungo; a Dio si debbono
grazie di tutto, e fu molto savio dar conto a S. S.^tà del negozio
e del trovarsi alcuni ecclesiastici colpevoli e indiziati in questi
delitti, perchè con sua autorizzazione e commissione poteste procedere
contro di loro, come lo faceste, e l'avere ordinato che si esegua la
giustizia de' quattro più colpevoli in questo delitto, come lo sarà,
e così ve ne dò incarico e comando, che ordiniate di procedersi contro
gli altri i quali appariranno di esserlo, con un rigore che la gravezza
de' loro delitti merita; ma con un certo intervallo, per dar tempo
che si scovrano i rimanenti complici che in que' delitti si abbiano,
e si sradichi ad un tempo questa mala semente di eresia e ribellione,
procurando di sapere con particolarità se abbiano tenuto qualche
intelligenza con Cicala, e se sieno compresi in essa quegl'individui
che nel principio i carcerati nominavano, de' quali, e nemmeno di
alcuno di loro, non si è visto finora che siasi proceduto all'arresto».
Era dunque un disappunto per S. M.^tà che qualche Vescovo o qualche
Nobile di alto rango non si trovasse già nelle mani del fisco; d'altra
parte non obbliava i denunzianti e conchiudeva: «A Fabio di Lauro e
Gio. Battista Biblia, che avvisaste essere coloro i quali scovrirono
la congiura di questa gente, darò ricompensa come voi glie la offriste
per tale servizio, ed è giusto che si dimandi, e perchè si agisca
più oculatamente, mi avviserete con brevità di ciò che si potrà fare
per loro; e di mano in mano mi riferirete con particolarità ciò che
si andrà facendo in questo negozio, che per essere della qualità che
è, conviene saperlo». Dopo tutto ciò si potrà ancora gridare contro
la crudeltà dello Xarava e dello Spinelli, ma si dovrà convenire che
costoro interpetrarono perfettamente le intenzioni non solo del Vicerè
ma anche del Re.
Aggiungiamo qui le notizie sulle cose di Calabria, che al momento
cui siamo pervenuti l'Agente di Toscana, e il Residente Veneto
trasmettevano a' loro Governi[443]. — L'Agente di Toscana, nel
partecipare che due prigioni erano stati tanagliati e strozzati con
titolo di ribellione, faceva anche sapere essere partite quattro
galere per levare il Card.^l Guevara[444], e quattro altre partire
allora per Lipari e Calabria (10 ottobre), a fine di mutare le
compagnie spagnuole; aggiungeva che forse con esse sarebbero venuti
in Napoli i prigioni della congiura calabrese. Poco dopo annunziava
essersi congratulato col Vicerè, da parte della Serenissima Casa di
Toscana, per la scoverta e la repressione della congiura (12 ottobre),
aggiungendo che il Vicerè gli avea dato conto dell'esecuzione fatta
e del trovarsi carcerati più di cento, tra' quali otto frati col
Campanella; inoltre faceva sapere il richiamo dello Spinelli, a suo
avviso insieme co' prigioni, e la commissione di formare i processi
da affidarsi a' dottori. — Il Residente Veneto, giusta il suo costume,
partecipava le notizie raccolte da ogni maniera di fonte. Erano usciti
in campagna circa 200 calabresi tra colpevoli e intimoriti, essendosi
trovati molti disposti per la libertà di coscienza, con la quale il
Campanella disegnava allettare gli animi. Un Maurizio de Rinaldis,
dapprima uomo d'arme in servizio del Re, poi contumace per omicidii,
favorevole alla ribellione ed anche all'eresia, insieme con un fra
Dionisio Ponzio si era ritirato nelle montagne di Cosenza, mettendosi
a capo de' fuorusciti, e si temeva che avrebbe potuto là mantenersi
a lungo (29 settembre e 5 ottobre). Il Vicerè che avea già in animo
di mandare suo figlio in Calabria, ne era dissuaso dal Consiglio per
la poca età di lui e la gravità del negozio, e andrebbe il Presidente
Montoya per le cose di giustizia e un D. Alonso Rosa per le cose di
campagna (confusione di nomi e di fatti). Alcuni calabresi, mandati
dalla Corte contro i fuorusciti, li avevano combattuti «con spararsi
reciprocamente senza balla» (voci popolari). Intanto era venuta nuova
certa che Maurizio e il Ponzio erano stati «ritenti in una filucca 16
miglia in mare per opera di loro particolari nemici a' quali furono
promessi gran premii», onde gli animi si erano sollevati. S. S.^tà
avea fatto spedire un Breve al Nunzio, perchè i religiosi colpevoli
potessero venire puniti anche nella vita in Napoli, ma formandosi i
processi coll'assistenza de' ministri ecclesiastici. Tutti i prigioni
sarebbero quanto prima tradotti in Napoli, ed intanto erano stati
giustiziati alcuni laici in Catanzaro i quali avevano dichiarato
Signori e cittadini napoletani essere partecipi di quella congiura
«senza haver saputo però nominare alcuno, il che perturbò assai in
generale questa città». Più tardi (12 ottobre), specificava i nomi
de' due giustiziati, Crispo e Mileri, e il genere del loro supplizio,
«perchè con Mauritio Rinaldo, anch'esso retento, mandarono un prete
a Costantinopoli a trattar col Cigala» (voci popolari). Inoltre
indicava il numero de' prigioni, riducendoli a 60, al di sotto del
vero, «la maggior parte huomini di qualche conto, essendo anco fra essi
alcuni baroni», con la voce che nella famosa fiera del 18 ottobre in
Monteleone se ne sarebbero giustiziati alcuni, e gli altri, insieme
con gli ecclesiastici, sarebbero venuti a Napoli. Infine annunziava
che il Lauro e il Biblia, rivelanti della congiura, erano già in
Napoli, «ricercando ricognitione tale che possano vivere sicuri delle
insidie dei parenti numerosissimi degli imputati». — Come si vede,
tra molte stramberie, non mancano qui notizie degne di nota: è facile
scorgerle, ma sopra due di esse dobbiamo richiamare l'attenzione e
fare qualche commento. In primo luogo dobbiamo notare che in Napoli,
a' 5 di ottobre, gli animi erano perturbati a motivo dell'affermata
partecipazione di Signori e cittadini napoletani nella congiura, senza
che se ne sapessero i nomi: ciò mostra che il Vicerè non solo non avea
seguito l'avviso dello Spinelli di carcerare alcuni di costoro, ma non
avea neanche fatto trapelarne i nomi. In secondo luogo dobbiamo notare
che il Vicerè volea mandare suo figlio in Calabria e poi ci mandò il
Montoya siccome è attestato pure dal Residente in un'altra sua lettera
anteriore[445], nella quale dice che il Vicerè volea mandare suo
figlio con due de' Consiglieri primarii del Governo: forse intendeva
mandarlo come Governatore in luogo del De Roxas, ma poi se ne astenne
per riguardo a Carlo Spinelli; e quanto al Montoya, vedremo che egli
andò difatti a Catanzaro per commissioni speciali, ma alquanto più
tardi, segnatamente per l'omicidio di Marco Antonio Biblia fratello
di Gio. Battista, pugnalato in odio di costui che aveva rivelata la
congiura[446].
Intanto lo Xarava, provvedutosi del nuovo Mastrodatti, ripigliava il
corso del processo e delle torture in Gerace. Egli dovè dapprima far
le confronte di Cesare Pisano col Gagliardo, Santacroce, Marrapodi,
Adimari, e un po' più tardi col Conia, siccome trovasi disegnato
nella citata sua relazione, e fino ad un certo punto può desumersi
ancora dalla numerazione de' folii del processo, la quale al sèguito
delle deposizioni sopra riferite mostra una grossa lacuna, appena
occupata da un «nuovo esame» del Santacroce[447]. Questa lacuna si
spiega assai bene col fatto che le confronte, i nuovi esami ed anche
le torture non diedero risultamenti degni di nota. Certo è che Felice
Gagliardo ebbe la tortura e «si vide in pericolo di morte a Jeraci»,
poi ebbe «una seconda corda a Napoli et hebbe a morire», e queste
prime torture furono «crodelissime, con funicelle, acqua freda e
bastonate, et non confessò»; in tal guisa si espresse egli medesimo
innanzi a' Delegati del S.^to Officio, sul punto di essere giustiziato,
varii anni dopo[448]. Certo è pure che Gio. Angelo Marrapodi «hebbe
la corda a hierace»; lo dichiarò nel processo di eresia in Napoli
un suo figliuolo giovanetto, che lo seguì pe' diversi luoghi in cui
stiè carcerato, vivendo col fare qualche servigio a taluni de' frati
egualmente carcerati[449]. Infine è indubitato che Geronimo Conia fu
sottoposto egli pure ad un nuovo esame e alla tortura, ma un po' più
tardi, dopo l'esame e la tortura del Caccìa; e di costui sappiamo con
sicurezza essere stato esaminato e torturato in Gerace, poichè, nel
processo di eresia fatto in Napoli, si ha una deposizione del Petrolo,
il quale esplicitamente attesta che il Caccìa «à Squillace non fù
essaminato... et à hieraci hebbe la corda». Come dicevamo, nè da' nuovi
esami nè dalle torture doverono ottenersi risultamenti degni di nota;
e però di alcuni di questi Atti non si ebbe a fare alcuna menzione
ne' Riassunti degl'indizii, di altri, come quelli del Santacroce e del
Conia, si riportò un piccolo brano che in realtà non ci apprende nulla
di nuovo[450].
Importante invece riuscì, se non l'esame, la confessione in tortura di
Gio. Tommaso Caccìa, il quale comunque clerico ne' 4 ordini, al pari
del Pisano, non fu risparmiato dallo Xarava. Egli era stato catturato
da Giulio Soldaniero e condotto dapprima a Squillace, di poi a Gerace,
e qui fu sottoposto agl'interrogatorii[451]. Nulla troviamo registrato
intorno alla sua deposizione, ciò che autorizza a ritenere aver lui
deposto negativamente; ma in tortura confessò con molta ampiezza,
e narrò tutte le circostanze nelle quali si era impegnato per la
ribellione. Recandosi un giorno con Marcantonio Contestabile e Gio.
Francesco d'Alessandria a Stilo, prima di giungervi incontrarono fra
Dionisio che andava con Cesare Pisano ed uno o due altri monaci, e
fra Dionisio disse a Marcantonio che andava a Monasterace a trovare
il Campanella, e così essi se n'andarono a Stilo, nel monastero, ove
trovarono Giuseppe Grillo che disse di stare aspettando fra Dionisio;
nella sera venne il Campanella con fra Dionisio, il Pisano e gli altri
due monaci e mangiarono, quindi, partiti gli altri e rimasti soli
col Campanella e fra Dionisio, nella sua cella fra Tommaso dichiarò
la congiura e i preparativi di essa, e che «volea essere monarca del
mondo e dare nova legge». E sempre diceva che «in quest'anno 1599 e
1600» dovevano accadere grandi mutazioni, sollevazioni e rivoluzioni,
così conoscendo per scienza, astrologia e profezie, e però beato chi
in questo tempo si trovasse con forza d'armi, ed ognuno dovea stare
preparato e procurare di cercare amici, aggiungendo, così fra Tommaso
come fra Dionisio, che Maurizio De Rinaldi e un altro di Reggio,
di Casaspano, aveano preparata una quantità di fuorusciti tenendoli
pronti per quella giornata. Allora insieme con Marcantonio Contestabile
e Gio. Francesco d'Alessandria, ad istanza del Campanella e di fra
Dionisio, concertarono di ribellarsi, e i detti frati dicevano esservi
molti altri congiurati per fare la Calabria repubblica e ribellarsi
dalla soggezione del Re e degli ufficiali, con l'aiuto del Turco e
di altri Signori che aveano a loro divozione. Inoltre, tornato di
poi a Belforte, fra Dionisio venne a chiamarlo da parte di Claudio
Crispo che avea da parlargli in Pizzoni, ed egli vi si recò insieme
con fra Dionisio: l'indomani, vedutisi col Crispo, con fra Dionisio e
fra Gio. Battista di Pizzoni, si parlò di nuovo della congiura, e il
Crispo diceva di avere apparecchiati molti fuorusciti per la giornata
della ribellione. Aggiunse pure che mentre era nel monastero di Stilo,
vennero più volte a parlare segretamente col Campanella Fulvio Vua,
Gio. Gregorio Prestinace, Tiberio Marullo, Giulio Contestabile e
Geronimo di Francesco, ed egli non udì di che parlassero ma giudicò che
dovessero trovarsi in detta ribellione. Questa sua confessione egli poi
ratificò, e nella ratifica disse pure che a Stilo Giulio Contestabile
un giorno, dopo di avere parlato segretamente al Campanella, dimandò
a Marcantonio cosa gli paresse di quanto il Campanella diceva e se lo
ritenesse per vero, e Marcantonio rispose che troppo era vero e presto
lo vedrebbe. — Adunque il Caccìa rivelò tanto il convegno di Stilo
quanto il convegno di Pizzoni; ma specialmente intorno a quest'ultimo
non rivelò tutto, e disse pure diverse cose che per lo meno non avea
potuto udire in Stilo, come p. es. l'aiuto del Turco e l'aiuto de'
Signori, de' quali aiuti sappiamo che in Stilo non si era parlato
ancora. Queste ed altrettali circostanze gli furono probabilmente
estorte dallo Xarava con l'atrocità de' tormenti, giacchè i tormenti
dati al Caccìa non solo furono atrocissimi, ma ancora furono dati
mentre egli avea la febbre. Molti l'attestarono in sèguito nel processo
di eresia, e basta citare fra Pietro di Stilo e Geronimo di Francesco,
il quale disse che a tale proposito fu consultato il medico, e costui
per timore affermò che il tormento si poteva dare. Così non recherà
sorpresa che egli pure, al momento di essere giustiziato, abbia avuto a
fare ritrattazioni: ma in fondo, sul punto essenziale della quistione,
egli era «confesso», e quindi non poteva aspettarsi altro che una
condanna di morte.
Dopo il Caccìa, come abbiamo già avuta occasione di dire, fu esaminato
e torturato il Conia, il quale, nella confessione in tortura, giusta il
sunto molto arruffato datone dal Mastrodatti, affermò che c'era stato
concerto di ribellione tra il Campanella, fra Dionisio ed altri nel
modo più volte ripetuto, da porsi ad effetto alla venuta dell'armata
turca che essi aspettavano[452]. — Successivamente furono compilati
gli Atti relativi alla cattura di fra Dionisio; ma la sua condizione
di ecclesiastico non permetteva di fare altro intorno a lui, e si
proseguirono gl'interrogatorii de' laici, vale a dire di Maurizio, del
Vitale, e con ogni probabilità anche del Todesco.
Maurizio, chiamato a fare la sua deposizione, non rivelò nulla[453].
Disse che si era allontanato, avendo udito che Carlo Spinelli catturava
coloro i quali aveano parlato col Campanella e fra Dionisio; che
avea parlato col Campanella una volta in casa di D. Gio. Jacopo
Sabinis, ed un'altra volta a Davoli, nel monastero, verso la metà
di luglio, stando allora in casa di D. Marco Antonio Pittella, ma
aveano trattato della loro «natività». Gli furono quindi amministrate
torture atrocissime, ed egli egualmente non rivelò mai nulla, ond'è
che ne' Riassunti degl'indizii non se ne trova fatta menzione. Ma è
indubitato che ebbe torture enormi, alle quali se ne aggiunsero poi
altre non meno atroci, rimanendone una nozione abbastanza confusa.
Nella sua ultima rivelazione fatta in Napoli innanzi a' Delegati del
S.^to Officio, sul punto di essere giustiziato, egli disse puramente
e semplicemente di avere avuto «più volte la corda», senza aver mai
voluto manifestare cosa alcuna contro i frati; il Residente Veneto,
in una sua lettera della quale si parlerà più oltre, scrisse che avea
«sofferto in tre mesi quaranta hore di corda et altri tormenti...
senza haver mai confessato alcuna cosa»; ma Mons.^r Mandina, che fu
giudice per l'eresia e potè saperlo in modo autentico, lo disse «per
septuaginta horas tortus et nihil confessus»[454], e tutto induce a
credere che egli parlasse propriamente delle torture avute in Napoli,
non già di quelle di Calabria, che doverono essere certamente più
atroci. Ed intanto questa prova di maravigliosa fortezza non recava
alcun vantaggio alla sua causa: con la protesta di applicare la tortura
«non pro veritate habenda sed pro praecisa responsione habenda et citra
praejudicium probatorum» il fisco soleva annullare i benefici effetti
di una risposta negativa in tortura; e Maurizio, se non risultava
confesso, pur troppo risultava «convinto» dalle concordi testimonianze
avverse, a capo delle quali la Dichiarazione del Campanella, oltrechè
dalle stesse sue lettere venute nelle mani della giustizia. E però la
sorte sua non poteva esser dubbia.
Quanto a Gio. Battista Vitale, egli avrebbe voluto imitare Maurizio ma
non ci riuscì[455]. Nella deposizione disse, che essendosi scoverto
un trattato fatto da fra Dionisio e dal Campanella di ribellarsi
e far venire i turchi «et si dicea che Mauritio era andato in
torchia per questo effetto», e vedendosi che si carceravano tutti
gli amici che aveano conversato co' predetti, Maurizio risolvè che
se ne fossero andati a Venezia e a S.^ta Maria di Loreto, sino a
che passasse la furia e si scoprisse la verità; e così partirono da
Davoli, dove stavano già da nove mesi in casa di D. Marco Antonio
Pittella. Si venne quindi alla tortura, ed egli non resse allo
strazio: ecco qui raccolti e disposti alla meglio i brani sparsi
della sua lunga confessione. Narrò che da nove mesi erano assenti da
Guardavalle insieme con Maurizio «per certe pugnalate», ricoverati
a Davoli in casa del Pittella, e con costui Maurizio diceva avergli
il Campanella manifestato che «quest'anno» doveano esservi grandi
guerre e rivoluzioni e il Regno dovea mutare padrone, e che insieme
col Campanella aveano concertato di far gente e far ribellare quelle
provincie. Che dopo alcuni giorni Maurizio era andato a trovare il
Campanella, e quindi avea detto che con lui e fra Dionisio si era
concluso di effettuare detta ribellione, e per facilitarla «volevano
invocare l'aggiuto et favore del turco che li mandasse l'armata, con
la quale e con l'aggiuto de' Popoli haveriano levato questo regno
dal dominio del Rè di Spagna e fattolo republica, et che esso fra
Thomase haveria fatto nova legge, et ridotto ogni huomo à libertà
naturale, et mandato molti predicatori predicando la libertà, et che
haveano parlato à questo effetto a molti di Stilo parenti del detto
Mauritio di Casa Carnevale e Sabinis come di casa Condestabile, et
altri loro parenti et amici; alli quali fra Tomase con fra Dionisio
haveano parlato, et procuravano far pacificare li Carnevali con li
Conestabili, per che si haveano da trovare in detta rebellione per
quanto diceva detto Mauritio». E dietro interrogazione, specificando
meglio le persone, aggiunse, «che Mauritio li disse, quando tornò da
Stilo, che li parenti suoi et altri, che s'haveano da trovare a detta
rebellione, erano Gio. Paolo e Fabio Carnevale, Ottavio Sabinis, Gio.
Jacovo Sabinis, Marc'Antonio Conestabile, Giulio Conestabile, Fabio
Conestabile, et Geronimo di Francesco che tutti si erano offerti a
detta rebellione». Aggiunse ancora che dapprima intese dire da tutti
quelli di Davoli che nel monastero di S. Maria del Trono di detta terra
erano venuti Gio. Paolo di Cordova ed Orazio Rania ed aveano parlato
col Campanella «et fra Dionisio»; e poi, passando per la casa del
Pittella, costui gli disse «come Oratio Rania, Gio. Paolo di Cordova,
et Gio. Tomase di Franza erano venuti à trovare Mauritio et fra Tomase
Campanella, et haveano trattato detta rebellione dentro lo monastero di
S.^ta Maria del Truono». Aggiunse che Maurizio «ogni hora dava animo
ad esso deposante et a Donno Marco Antonio Pittella», che dopo essere
sceso dalle galere de' turchi raccontò al Pittella l'appuntamento
preso con Amurat Rais, che in giugno con Geronimo Baldaya fuoruscito
si era partito per raccogliere gente, e Geronimo diceva «lassa fare a
me ch'io busco gente assai che staranno in ordine per la giornata che
vene l'armata del Turco, et allhora daremo dentro»; che il Pittella
diceva esservi in Catanzaro molti gentilhuomini ed altri i quali
partecipavano alla congiura, e che venivano spesso lettere da Catanzaro
a Maurizio e i corrieri dicevano mandarle il Rania; che Maurizio «con
questo pretendea farsi gran homo per che saria stato padrone di molte
terre... et persuadeva lo Donno Marco Antonio et esso deposante se
voleano concorrere con esso et ritrovarsi à questa fattione che li
saria stato gran utile; lo Donno Marco Antonio si offerse a questo,
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