Fra Tommaso Campanella, Vol. 1 - 29

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le proprie qualità dell'animo. Fra Dionisio, coraggioso e bollente,
dovè pensare che il meglio possibile fosse il cadere da forti sul
campo, e cominciò in tal guisa a spiegare quella sua condotta, che
vedremo ammirevole nella fortuna avversa. Maurizio, coraggiosissimo ma
prudente, dovè scorgere impossibile anche l'uscita in campagna quando
si era già raccolto un così gran numero di milizie, e d'altra parte
era già cominciata a manifestarsi la demoralizzazione de' congiurati;
non ignorante delle arti di guerra, dovè giudicare non impossibile uno
scampo, malgrado la presenza di tanti nemici, e difatti mostrò bene di
saperlo trovare fino a che si trattò di schermirsi da loro, e vedremo
che ebbe a soccombere solo per gli elementi avversi; dovè quindi
realmente avere in animo di salvare il Campanella, salvarlo malgrado
la renitenza di lui, onde fece quella corsa, prova del suo coraggio,
da Guardavalle a Stilo e poi a Stignano e poi sulla via di Placanica,
mentre quei posti già venivano occupati dalle milizie. Ma non si
può menomamente ammettere che egli avesse avuto in animo di uccidere
il Campanella e il Petrolo per indultarsi; tale concetto è respinto
da quanto sappiamo della vita di Maurizio e delle condizioni stesse
occorrenti per avere un indulto. Abbiamo visto che l'indulto bisognava
pattuirlo coll'autorità mercè una convenzione od almeno una promessa
antecedente, ed era lecito a Maurizio, uno de' capi, compromesso quanto
il Campanella e forse più, sperare un indulto, e sperarlo senza patti
espressi ed al momento al quale si era giunti? E se lo avesse sperato,
gli sarebbe convenuto di esigere che il Campanella si fosse recato
presso di lui egli solo e non già insieme col Petrolo, mentre così
avrebbe potuto presentare due compromessi invece di uno? Nè poi si
capisce perchè avrebbe dovuto ucciderli, mentre si sa che acquistavasi
maggior merito presentando vivi quelli che erano fortemente ricercati
dalla giustizia. Fra Pietro di Stilo, tenerissimo del Campanella e
trepidante per lui, potè per un momento pensare che le calde insistenze
di Maurizio nascondessero un agguato a fine d'indultarsi, tanto più
che avea sotto gli occhi esempi di perfidia incredibile, capaci anche
troppo di far vacillare la sua ordinaria avvedutezza e serenità di
giudizio. D'altra parte il Petrolo, timidissimo ed avvilito fuor di
misura, come lo rivelano le parole che pronunziò quando fu catturato
e poi quelle che gli vedremo pronunziare quando si trovò al cospetto
degl'Inquisitori, potè scorgere un grave pericolo nell'unirsi a
Maurizio e in sèguito un pericolo ancora più grave nel possibile
risentimento di Maurizio per aver consigliato di non unirsi con lui. Ma
non si può facilmente sostenere che tanto da parte del Petrolo, quanto
da parte del Campanella, fosse stato accolto il pensiero di fra Pietro
di Stilo, e che la loro fuga innanzi a Maurizio fosse stata motivata
dalla credenza che costui volesse ucciderli a fine d'indultarsi,
mentre veramente un tale motivo della persecuzione di Maurizio fu
da loro addotto abbastanza tardi e per convenienza della loro causa.
Infatti il Petrolo da principio disse che Maurizio voleva ucciderlo
perchè egli avea dissuaso il Campanella dal recarsi presso di lui, la
qual cosa evidentemente non avea potuto nemmeno giungere all'orecchio
di Maurizio: il Campanella poi da principio, nella Dichiarazione che
scrisse ne' primi giorni della sua prigionia, parlò della persecuzione
di Maurizio nel senso che costui volea salvarlo ed egli si rifiutò di
associarvisi essendone disgustato; più tardi, nella Difesa, scrisse che
Maurizio voleva ucciderlo perchè temeva che egli rivelasse l'accordo
da lui preso col Turco, e perchè era sdegnato dell'aver fatto salvare
Giulio Contestabile da' furori di lui; assai più tardi, scorsi già
parecchi anni, nella Narrazione, scrisse che Maurizio voleva ucciderlo
ed indultarsi[367]. A noi sembra che il Campanella, potentissimo
in cognizioni ed in astuzie, dovè credere più pericoloso per lui il
trovarsi armato di un fucile in campagna, che armato di sottigliezze
nel foro, quantunque non ignorasse che nel foro avrebbe incontrato
manigoldi piuttosto che giudici; dovè quindi sembrargli suo primo
bisogno distaccarsi appunto da fra Dionisio e da Maurizio, che aveano
rappresentato una parte attiva più appariscente, e dopo ciò tentare
ancora uno scampo in mare presso il Turco mediante una persona che avea
motivo di ritenere fidata, quale il Mesuraca, mentre in terra vedeva
perfino taluni de' più accesi nella faccenda della congiura voltargli
brutalmente le spalle ed agire a suo danno.
Proseguiamo intanto la narrazione de' fatti del Campanella dopo la
sua cattura. Abbiamo visto che molti accorsero quando fu preso,
in particolare i più grossi Commissionati, il Morano ed il Ruffo
co' loro armigeri, e può intendersene facilmente il motivo: ognuno
volea farsi bello di questa cattura, la quale in realtà fu eseguita
dagli armigeri del Principe della Roccella, onde a costui venne poi
attribuita, quantunque egli non avesse fatto altro che spedire i suoi
bravi e promettere in nome del Re un buon guiderdone al Mesuraca che
gli diè l'avviso, non risultando che siasi recato egli medesimo sopra
luogo, siccome da taluni Storici fu detto. Così quel gran numero di
armati servì solo ad accompagnare il Campanella e il Petrolo fino
a Castelvetere; ma doverono forse esser pure condotti con costoro
tredici altri individui catturati in quelle vicinanze, che lo Spinelli,
nel riferire in fretta al Vicerè l'importante avvenimento, annunziò
essere stati trovati in compagnia de' due frati vestiti da secolari,
i quali volevano imbarcarsi ed andare in cerca delle galere toscane
o di qualche legno inglese o dirigersi in Turchia, mentre sappiamo da
parecchie testimonianze che veramente i due frati erano stati essi soli
in mano del Mesuraca. Quegli aguzzini contristavano per via l'animo del
Campanella, annunziandogli che dovea morire e manifestandogli che il
Pizzoni avea rivelato grandi cose di eresia e di ribellione (ciò che
realmente era noto a D. Carlo Ruffo stato presente agl'interrogatorii);
inoltre s'ingegnavano di sapere da lui i complici, e raccolsero infatti
diversi nomi, segnatamente quello di Mario del Tufo, che uno di loro
affermò essere stato pronunziato dal Campanella in tale occasione; ma
il Campanella ebbe poi a negarlo assolutamente, spiegando la cosa col
dire, che avea manifestato doversi Mario del Tufo, e tutti coloro che
erano amici suoi, guardare di non esser presi, perchè li sarebbero
andati carcerando. E in questo mentre, riflettendo alla condotta del
Pizzoni, egli «pensò subito che questa fu arte del Pizzoni per fuggir
la furia secolare, et avvisò... a F. Domenico di Stignano ch'era seco
carcerato, che pur dicesse heresie»: così ci fece sapere egli medesimo
nella sua Narrazione, e vedremo infatti che fra Domenico finì per
rivelarlo, senza per altro scagionare il Campanella come eretico;
solo non può accettarsi che egli avesse pur allora artificiosamente
manifestato essersi «più presto negotiato con Turchi e non col Papa,
ma per hereticare, e che però Mauritio era andato sopra le galere di
Amurat Rais» etc. e che «così piacque poi allo Xarava che ci entrassero
i Turchi» e lo fece deporre a' primi rivelanti. Di questi rivelanti
abbiamo la denunzia autentica scritta fin dal 13 agosto, nella quale
aveano già parlato de' turchi e dell'andata di Maurizio; rimane quindi
vero solamente che piacque alle Autorità il raccogliere, bene o male,
che egli non tenesse intelligenze col Papa, essendo stato trovato
in via di fuggirsene in tutt'altra direzione che in quella di Roma;
vedremo infatti che così scrisse lo Spinelli al Vicerè, il quale lo
accettò immediatamente, senza dubbio perchè riusciva soddisfacentissimo
il non aversi ad occupare di un soggetto così scabroso qual'era il
Papa, e il poter mettere sempre più in luce soggetti tanto odiosi quali
erano i turchi. — Venne poi, qualche giorno dopo, nelle prigioni di
Castelvetere anche lo Xarava, non accorso col Morano e col Ruffo al
momento della cattura, come potrebbe credersi leggendo la Narrazione,
ma inviato subito dallo Spinelli «perchè procurasse di aver chiarimenti
dalla bocca di lui sulla congiura della quale era imputato, prima
che egli trattasse con alcuno», ed anche «perchè venisse sicuro»
da Castelvetere a Squillace, come rilevasi dal Carteggio Vicereale.
Probabilmente lo Xarava si comportò col Campanella in un modo affatto
diverso da quello usato dal Morano e dal Ruffo, dandogli buone parole,
condolendosi e lusingandolo, per mantenerlo ben disposto a largheggiare
in una «Dichiarazione che volle fare di sua mano» innanzi a lui. La
scrisse difatti molto larga e con qualche condiscendenza, siccome
si rileva specialmente verso la fine di essa, là dove si trovano due
periodi, in uno de' quali sono registrati certi nomi di fuorusciti, e
in un altro, più chiaramente aggiunto, è registrato il nome del Rania,
di cui egli non si era ricordato prima e da ultimo si ricordò dietro
suggerimento dello Xarava: siffatta circostanza, e poi il suo silenzio
costante su questa Dichiarazione scritta, e il suo odio mortale verso
lo Xarava manifestato sempre con gli epiteti più atroci in prosa ed
anche in versi[368], ci menano a credere non aver lui mai più potuto
rammentare senza vivissimo sdegno che, sebbene maestro in astuzie,
si fosse lasciato trarre in inganno da quest'uomo di «volpino pelo»,
mentre solamente più tardi, dopo ottenuta la Dichiarazione, lo Xarava
dovè scovrirsi nel senso di sostenere che questi frati avessero a
morire _jure belli, inconsulto Pontifice_.
La Dichiarazione del Campanella merita di essere ben ponderata.
Abbiamo già dovuto riportare sparsamente, durante tutta questa
narrazione, le notizie che vi si contengono, ma non possiamo
dispensarci dal darne qui uno schizzo, per vederla nel suo complesso
e farvi qualche commento[369]. In essa, accennati i suoi studii di
profezia, i prossimi mutamenti da lui aspettati «nel Regno de Napoli
che fu sempre de revolutione», i pareri analoghi anche di varii
uomini insigni napoletani e stranieri, le cose prodigiose apparse in
quell'anno, la sua predica intorno a questi fatti, la pace tentata
tra' Contestabili e i Carnevali, il Campanella rivela diffusamente i
desiderii d'indipendenza dal Governo spagnuolo che gli manifestarono
Geronimo di Francesco e Giulio Contestabile, l'odio di Giulio verso
gli Ufficiali spagnuoli, l'oltraggio da lui fatto ad un'immagine del Re
Filippo in presenza anche del Petrolo, la fiducia di lui in Marcantonio
e ne' numerosi amici e parenti e perfino ne' turchi. Poi cita altri
individui di Stilo co' quali ha parlato della prossima mutazione,
e dice che col Pizzoni e fra Dionisio ne parlavano sovente, ed essi
mostravano di gradirla. In sèguito viene a Maurizio e racconta che
costui lo interrogò sulle mutazioni, mostrandosene lieto, e aggiungendo
che se così fosse stato avrebbero avuto molti amici, e che egli, il
Campanella, gli disse che chi tiene molti amici può diventar grande,
adducendo molti esempi di uomini divenuti grandi ed animandolo al bene.
Poi parla dell'andata ad Arena ed a Pizzoni, dove vide il Crispo,
e dice che discorrendosi delle mutazioni, costui si vantò di avere
amici se vi fosse bisogno di far guerra, ed egli approvò che ne avesse
molti. Ma da una lettera di Giulio Contestabile seppe che Maurizio
era andato sulle galere di Amurat, e recatosi quindi a Davoli presso
il Pittella, seppe da Maurizio che realmente vi era stato ed avea
trattato che venisse l'armata turca, giacchè volea pigliare Catanzaro
e la provincia, ed avea «capitolato» che i turchi non avrebbero dovuto
tenere dominio a lungo ma solo assistere nel mare, contentandosi poi
del traffico nel Regno, e gli mostrò una scrittura in lingua turchesca,
ed egli si lamentò di quest'atto, facendogli notare che i turchi non
osservano fede, e volea rompere ogni relazione con lui. Vide allora
il Franza, il Cordova ed un altro, chiamati da Maurizio a Davoli, e
pregato di parlare delle mutazioni non potè non confermarle; fu anche
invitato a volere esser capo e predicare, ma si negò e si partì per
disgusto. Intanto fra Dionisio, perseguitato dal Visitatore, andò a
Catanzaro a predicare ribellione secondo la profezia di lui, e per
avere molti aderenti disse che nella congiura c'era il Papa, il Card.^l
S. Giorgio, il Vescovo di Mileto etc. D. Lelio Orsini, i Signori del
Tufo e tutti coloro che s'immaginò essere amici di lui e suoi; ma
egli giura di non aver mai parlato di tali cose, nè pensato che per
mezzo di loro frati si avessero a muovere. Poi fra Dionisio andò a
sollecitarlo perchè uscisse in campagna, ma egli non volle e riparò
a Stignano; in sèguito Maurizio gli mandò a dire di ritornare perchè
l'avrebbe salvato, ma egli pure si rifiutò andandosene a S. Maria di
Titi, e Maurizio cercò di raggiungerlo ed egli fuggì, dandosi nelle
mani di Mesuraca, il quale promise di salvarlo in mare, lo nutrì per
tre giorni e poi lo consegnò alla giustizia. Infine, ricordando che
del pari in Roma e in Napoli si prevedevano mutazioni, dice voler
rendere conto a S. M.^tà di quello che Dio manda al mondo per il bene
comune, che egli guarda alla salute comune e per essa vuole morire.
Dichiara che a fra Dionisio spetta dire il resto, avendo lui trattato
il negozio con fatti, mentre egli, il Campanella, l'ha trattato solo
con parole. In sèguito aggiunge varii nomi di fuorusciti co' quali
Maurizio diceva voler pigliare Catanzaro, e manifesta che l'altra
persona, la quale venne col Franza e col Cordova in Davoli, era il
Rania, ricordandolo dietro le parole dello Xarava. — Come ben si vede,
in questa Dichiarazione la congiura non è menomamente negata, che anzi
è esposta in tutti i suoi più minuti particolari, e perfino chiarita in
quel suo lato che riusciva ancora oscuro e confuso alle Autorità, vale
a dire la partecipazione del Papa, dei Vescovi e de' Nobili, insieme
co' turchi; soltanto essa è attribuita ad altri, e il Campanella vi
figura appena come colui che vi ha dato innocentemente occasione,
col parlare delle profezie e de' presagi di mutazioni prossime, ed
un poco anche col consigliare a trovarsi armati e in buon numero
coloro i quali vi si mostravano propensi. Era il meno che egli potesse
dichiarare sul conto proprio, e bisogna riconoscere che, quantunque
avesse scritto in un momento di suprema angoscia, seppe dichiararlo
con la solita abilità ed anche con molta unzione, mostrandosi quasi
indifferente alle mutazioni, le quali sarebbero avvenute come Dio
avrebbe voluto; nè fuor di proposito egli giurava di non aver mai
predicato ribellione, e parlato di tali cose, e pensato che per mezzo
di loro frati avessero a muoversi, riferendosi a' maneggi fatti in
Catanzaro, e alla partecipazione del Papa, de' Vescovi e de' Nobili.
Intanto nominava parecchi, anche troppi, i quali avrebbero dovuto
rispondere della congiura. In primo luogo nominava i Contestabili col
Di Francesco, e massime Giulio, citandone detti e fatti assai gravi,
ciò che si spiega col suo vivissimo risentimento verso di loro; inoltre
il Pizzoni ed anche il Crispo, citando appena il nome del primo ed
aggravando la mano sul secondo, ciò che si spiega coll'essergli noto
che il Pizzoni avea già deposto in materia di eresia e di ribellione,
senza per altro sospettare che avesse deposto tanto; sopra tutti poi
nominava fra Dionisio e Maurizio, citandone azioni gravissime e tali da
renderli i soli veramente responsabili di tutto, ciò che può spiegarsi
unicamente coll'ammettere che egli credeva essersi costoro già posti
in salvo, mentre sapeva che Maurizio vi avea pensato da alcuni giorni.
Rimaneva alle Autorità il decifrare come potessero trovarsi insieme i
Contestabili e Maurizio inimici, senza un certo tratto di unione, e se
il Campanella potesse veramente ritenersi estraneo a questi maneggi:
disgraziatamente la cosa riusciva molto facile ad intendersi, ed anzi
era già conosciuta molto bene a quell'ora; nè occorre far notare che
dopo siffatta Dichiarazione ci volle in sèguito molta disinvoltura da
parte del Campanella, per dire che la congiura era stata un'invenzione
dello Xarava, de' denunzianti e del Governo! Certamente egli non potè
trovarsi contento di aver rilasciata quella Dichiarazione. Quando ebbe
a vedere fra Dionisio e Maurizio in carcere, dovè rimanerne confuso,
e si conosce che più tardi, anche per conto suo, cercò d'impugnare
il contenuto della Dichiarazione, ma, naturalmente, invano[370].
All'opposto lo Xarava dovè rimanerne soddisfattissimo; e si può
argomentarlo dal fatto che, invogliato dalla felice riuscita della sua
pratica, corse immediatamente a far lo stesso col Pizzoni.
A questo tempo, verso l'11 settembre, si deve con tutta probabilità
riferire l'andata dello Xarava a Monteleone, per avere anche dal
Pizzoni una Dichiarazione scritta, e dare un'occhiata al processo
che il Visitatore e fra Cornelio aveano iniziato: ciò può desumersi
dalla data della copia degli Atti di tale processo a lui rilasciata,
che è il 12 settembre, e dalla data del trasporto da lui fatto del
Campanella e del Petrolo da Castelvetere a Squillace, che una relazione
dello Spinelli ci mostra essere avvenuto il 14 settembre. Tenendo
presenti queste date, si può calcolare che verso l'11 settembre lo
Xarava, ottenuta la Dichiarazione scritta dal Campanella, ne andò a
chiedere un'altra al Pizzoni; e in tale circostanza vide il processo
ecclesiastico e vi fece al margine que' segni e quegli appunti di cui
si è parlato altrove, e scorgendo che le tre prime deposizioni avevano
un'importanza grandissima, se ne fece subito estrarre la copia. Quanto
alla Dichiarazione scritta dal Pizzoni, ne conosciamo l'esistenza
ed anche il contenuto dagli Atti che si conservano nell'Archivio di
Firenze[371], con quest'altro particolare, che ad essa andava unito un
«Alfabeto in cifra del Pizzoni col Campanella». Nella Dichiarazione,
secondo il sunto fattone dal Mastrodatti, il Pizzoni scrisse che
«fra Tomase Campanella, et fra Dionisio Ponsio havendosi scoverto di
volere introdurre nove leggi, et nuovo modo di vivere, introducendo
la libertà con il favore di alcune profetie, et delli Cieli, per
Astrologia, andavano procurando amicitia di banniti per dar principio à
tal impresa, et havendolo ripreso di queste male prattiche, pensieri,
et false profetie, che non sono cose di riuscire, loro risposero che
era codardo, e da poco, et che loro non sono tanto impotenti quanto
esso fra Gio. Battista si crede, per che adesso li bastano questi
pochi banniti à dar principio à tal impresa, et che dopoi alcuni
mesi scorsa la nova haveriano havuto soccorso da Venetiani, et da
Turchi, et altri Principi, et particolare da D. Lelio Ursino, il quale
diceva esser andato à Sua Maestà in spagna, per ottenere, di venire
protettore, et poi soccedere nel Principato di Bisignano et ottenere
di tenere Compagnia di gente armata, sotto pretesto di guardare il
Stato, ma poi dato principio a tale rivoltare, li darà in suo favore
la gente predetta armata, et il Stato ancora, et che lui tiene nelle
sue terre un fra Gregorio di Nicastro che và explorando le genti sotto
habito di Merciaro, et venditore di figure». In somma il Pizzoni non
scrisse diversamente da quanto avea deposto innanzi al Visitatore e
a fra Cornelio riguardo alla congiura, ed anzi rivelò qualche cosa
di meno, aumentando solo l'importanza della parte che avrebbe dovuto
rappresentare D. Lelio Orsini: se non che scrisse tutto di suo pugno,
in modo da non poter più poi sostenere che talune cose fossero state
falsamente aggiunte, siccome fece per la deposizione redatta da fra
Cornelio; e sappiamo che lo Xarava questa volta ebbe cura di corredarla
di una fede del Mastrodatti e della testimonianza di due persone, che
certificarono la Dichiarazione essere stata scritta dal Pizzoni in
presenza dello Xarava, e da lui consegnata al medesimo. Ma l'Alfabeto
in cifra fu scritto veramente dal Pizzoni e comunicato in parte dallo
Xarava a fra Cornelio, il quale poi l'allegò nel processo suo senza
citarne il fonte, ovvero fu inventato da fra Cornelio e comunicato da
lui allo Xarava, il quale senza citarne del pari il fonte, lo pose
a capo della Dichiarazione del Pizzoni? Questo rimane dubbio; bensì
non vedendo fatta alcuna parola dell'Alfabeto nella Dichiarazione
scritta, e sapendo che il Pizzoni lo negò sempre in sèguito, bisogna
piuttosto dire che fra Cornelio, nella sua nequizia, dovè sbizzarrirsi
ad inventarlo dietro il cenno dato da' primi rivelanti e poi fatto
confermare dal Petrolo innanzi a lui qualche giorno dopo. Si può
intanto vederlo tra' documenti che pubblichiamo, ridotto alle firme del
Campanella e del Pizzoni, così come fra Cornelio l'allegò nel processo
suo[372].
Non prima del 14 settembre il Campanella fu tradotto dalle carceri di
Castelvetere a quelle di Squillace; ma non avea per anco lasciato le
carceri di Castelvetere, che vi accadeva un fatto importante, del quale
dobbiamo ancora dar conto. Ricordiamo che là si trovavano rinchiusi
Felice Gagliardo, Orazio Santacroce, Geronimo Conia, Gio. Angelo
Marrapodi, Camillo Adimari, ed inoltre Cesare Pisano, il quale vi era
stato visitato dal Campanella con fra Dionisio e fra Giuseppe Bitonto
ne' primi giorni di luglio, ed era stato anche da lui raccomandato
al Principe della Roccella; ricordiamo che Cesare Pisano fin d'allora
cercò sempre d'indurre o di raffermare nella ribellione tutti costoro
(giacchè taluni, come il Gagliardo ed il Conia, sembra certo che vi
fossero stati già iniziati dal Bitonto e dal Jatrinoli), magnificando
i disegni del Campanella e predicando eresie in quantità. Non appena
seppero che il Campanella ed il Petrolo venivano rinchiusi in quelle
medesime carceri e che la congiura era stata scoperta, con tutti i
particolari che se ne andavano diffondendo, que' cinque scellerati, per
farsi merito e provvedere alla loro salvezza, pregarono il Castellano
di rappresentare al Principe della Roccella che Cesare Pisano, fin da
quando venne carcerato, si era sempre sforzato d'indurli a prender
parte a questa congiura, ed oltracciò denunziarono lo stesso Pisano
al Vescovo di Gerace per le eresie che andava loro persuadendo; nè
trovarono difficile il giustificarsi per non aver rivelato prima di
allora, adducendo che ritennero lungamente essere il Pisano un matto,
ma poi, udita la carcerazione del Campanella, doverono ritenere
queste cose per vere e quindi subito le rivelarono. Ciò risulta tanto
dagli Atti esistenti in Firenze, quanto dal processo ecclesiastico.
Il Principe della Roccella, ricordatosi che fra Tommaso gli avea
raccomandato il Pisano, scrisse una lettera a Carlo Spinelli,
avvisandolo dell'intercessione del Campanella per Pisano, al quale avea
parlato della congiura e naturalmente dovè partecipare ancora quanto
gli era stato rivelato da' cinque prigionieri[373]; ed accadde che
costoro, al contrario di quanto si aspettavano, finirono dietro questa
lettera per venire, unitamente col Pisano, sotto la giurisdizione dello
Spinelli e Xarava, rimanendo a lungo, in qualità di presunti complici,
carcerati ed anche straziati, come rilevasi dalle loro deposizioni
e confessioni in tortura riferite negli Atti esistenti in Firenze.
D'altro lato il Vescovo di Gerace, secondo lo stile del S.^to Officio,
non tardò un solo momento ad occuparsi della denunzia, inviando qual
suo Delegato l'Abate Curiale de Curiali per prendere Informazione del
fatto nelle carceri di Castelvetere: questa Informazione, composta
degli esami di tutti e cinque i denunzianti, trovasi integralmente
inserta nel 1.º volume del processo ecclesiastico ed è in data del
13 settembre, non mancando nemmeno nel suo esordio la notizia, in
verità molto confusamente e scioccamente espressa, del trovarsi allora
«preso del pari, fermamente carcerato e detenuto in detto castello,
fra Tommaso Campanella». Non staremo a ripetere le eresie, in gran
parte goffe, che si rivelarono in quella circostanza, tanto più che ne
abbiamo dato qualche cenno a suo tempo, nel narrare la carcerazione del
Pisano e i varii discorsi da lui tenuti nel carcere, e dovremo parlarne
ancora a proposito degli ulteriori esami a' quali fu sottoposto
nell'uno e nell'altro tribunale, dove ogni volta le ripetè; d'altronde
un saggio de' principali esami dell'Informazione trovasi anche ne'
Documenti che pubblichiamo[374]. C'importa soltanto notare che in
ispecie Felice Gagliardo depose avere il Pisano affermato che tutte
quelle eresie gli erano state insegnate da fra Tommaso Campanella, dal
Bitonto ed altri monaci, ed il resto de' denunzianti depose, insieme
col Gagliardo, che il Messia Campanella, con armi, danari e gente
molta, doveva assaltare il Regno, pigliare Stati e far nuove leggi.
Per tal modo le condizioni giuridiche del Campanella divenivano
rapidamente assai tristi: gli Atti del processo ecclesiastico, la
Dichiarazione scritta del Pizzoni, e quasi contemporaneamente le
deposizioni unanimi de' compagni di carcere del Pisano, confutavano del
tutto la Dichiarazione sua in quanto all'esser lui rimasto estraneo
a' maneggi di congiura; del resto essa era stata già confutata in
precedenza, e molto più seriamente, da alcune lettere trovate sulla
persona di Claudio Crispo catturato appena qualche giorno dopo di
lui. — Propriamente l'8 settembre il Crispo fu catturato da Gio.
Geronimo Morano; non sappiamo nè dove nè come, ma sappiamo che al
momento della cattura tentò di lacerare due lettere, e che il Morano
se ne impossessò. Questo risulta da una relazione dello Spinelli al
Vicerè trovata in Simancas, come pure dalle notizie riportate negli
Atti esistenti in Firenze[375]. Le lettere erano quelle delle quali
abbiamo già tenuto conto parlando delle trattative di congiura, l'una
di Maurizio, in data del 25 luglio, che diceva al Crispo essere lui,
Maurizio, «l'istessa persona con fra Tomase», e l'altra del Campanella
medesimo, in data degli 8 agosto, che gli diceva di «venire con qualche
amico et particolarmente con Gio. Francesco d'Alisandria». Vedremo
tra poco che un'altra lettera del Campanella al Crispo fu trovata in
potere di fra Paolo della Grotteria quando costui fu preso, ed essa era
ancor più compromettente; onde si scorge che la non partecipazione alla
congiura, dichiarata dal Campanella, veniva giorno per giorno smentita
anche da documenti autentici. Il Crispo fu tratto direttamente alle
carceri di Squillace, e le lettere furono inserte nel processo.
Ma è necessario tornare al Visitatore e a fra Cornelio. Essi avevano
proseguito a far carcerare frati, dando lettere di cattura a D.
Carlo Ruffo ed agli altri Commissionati. Fin dal mese antecedente fra
Cornelio avea fatta una perquisizione delle carte e corrispondenze
epistolari di tutti que' frati che si sapeva essere conoscenti ed amici
di fra Dionisio e del Campanella; in sèguito di tale perquisizione
fu preso fra Vincenzo Rodino di S. Giorgio, Vicario di Tropea e zio
di Cesare Pisano, essendosi trovata presso di lui una lettera di
fra Dionisio del 21 luglio, con la quale gli raccomandava un frate,
annunziandogli pure la presenza del Visitatore nella provincia e
la liberazione di Cesare già avvenuta, come egli credeva, dietro
le raccomandazioni sue e del Campanella; inoltre fu preso anche
fra Alessandro di S. Giorgio lettore di Tropea, senza che risultino
veramente chiari i motivi della sua cattura. Questi due frati vennero
esaminati dopo il Pizzoni e il Lauriana, l'8 settembre; ma le loro
relazioni con fra Dionisio, e più ancora col Campanella, erano tanto
lontane, che appena poterono dar conto della opinione che essi ne
avevano, e fu deliberato di non procedere oltre negli esami, «acciò
non venissero a conoscere il modo d'interrogare in quella causa»;
il giorno dopo furono quindi rilasciati entrambi, non senza però
l'obbligo di presentarsi ad ogni richiesta, dando una idonea cauzione
da prestarsi nelle mani del Vice-Duca di Monteleone, ossia D. Carlo
Ruffo. Il Campanella disse poi, nella sua Difesa, che fra Cornelio
ricevè per la liberazione di questi due frati D.^i cento; è possibile
che questa somma abbia rappresentata la cauzione, la quale forse non
venne mai più restituita. — Ma furono presi ancora altri frati di
molto maggiore importanza, i cui nomi erano stati profferti da' primi
esaminati o da' primi rivelanti, cioè a dire fra Pietro di Stilo, fra
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