Fra Tommaso Campanella, Vol. 1 - 12

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scaldato nel carcere di Roma, e lo si vide poi sbocciare in Calabria,
terminando nel più disastroso fra' processi: certamente il Campanella
e il Clario, verosimilmente anche lo Stigliola, si eccitavano al
pensiero dell'avvicinarsi di tempi nuovi, e questo si vede ogni giorno
nelle persone carcerate; i tempi nuovi pertanto aveano pel filosofo
un'altissima significazione. — Ma avendo il Campanella in questo tempo
scritte anche molte Poesie, cerchiamo di rintracciare se tra quelle che
finora conosciamo ve ne sia qualcuna da potersi riferire al periodo in
esame. Noi crediamo doverci sempre d'ora in poi diligentemente occupare
di tale ricerca ad ogni distinto periodo della vita del filosofo;
poichè senza dubbio le poesie, composte quasi sempre a sfogo dell'animo
in un circolo ristretto di persone intime, possono far conoscere le
condizioni vere del Campanella anche ne' diversi tempi, assai meglio
di ogni altra maniera di documenti, nei quali egli non fu sempre in
grado di esprimere la pretta verità, ma sovente dovè piegarsi alle
necessità del suo miserrimo stato. Pur troppo anche le poesie, prima
di essere pubblicate, furono vagliate diligentemente, e parecchie fra
esse mostrano tracce di mutilazioni evidentemente fatte per togliere di
mezzo ciò che poteva compromettere l'autore, senza contare che alcune,
di data posteriore, appariscono scritte espressamente per metterlo
sott'altra luce: ma vi è rimasto sempre qualche cosa che lo mostra
qual'era, e poi abbiamo oggi la fortuna di poter pubblicare non meno di
67 altre poesie inedite, eliminate nella «Scelta» che se ne fece non
solamente perchè erano di scarso valore letterario, ma anche perchè
contenevano cose le quali importava lasciar sepolte, ond'è che siamo
in grado di trarne molto lume per la nostra narrazione. Naturalmente
noi spigoleremo fin d'ora anche nelle dette poesie, intorno alle
quali basti qui dichiarare che si trovarono in un manoscritto emerso
nel processo di Napoli il 1602, manoscritto appartenente ad un altro
caro amico del Campanella ed egualmente carcerato (fra Pietro Ponzio,
germano di fra Dionisio), che ne fece raccolta fino al 2 agosto 1601,
divulgandole anche sotto mano per Napoli a gloria dell'amico suo. Non
abbiamo ad occuparci di poesie latine, poichè di esse non è pervenuta
alcuna fino a noi, e quanto a poesie italiane con metro latino, le sole
tre che ci rimangono non possono dirsi di questo periodo, siccome è
chiaro anche dalle note che l'autore medesimo vi appose; ma in quelle
con metro comune crediamo che ve ne sia taluna appartenente al periodo
in esame. Così il Sonetto intitolato «Al carcere» ci sembra chiaro
doversi riferire al carcere di Roma, non già a quello di Napoli come
da tutti è stato creduto[134]: si badi infatti alla 2ª strofa di esso e
alla chiusa:
«Come và al centro ogni cosa pisante
. . . . . . . . . . . . . .
Così di gran scienza ogn'un amante
che audace passa dalla morta gora
al mar del vero di cui s'innamora
nel nostro hospitio al fin ferma le piante.
. . . . . . . . . . . . . .
che qui non val saper, favor ne pieta
io ti sò dir; del resto tutto tremo,
ch'è rocca sacra à tirannia secreta».
Una _gran scienza_, con la quale si passa _dalla morta gora al mar
del vero_, sarebbe rimpicciolita di troppo riferendola alla politica,
e se la tirannia spagnuola aveva una caratteristica, questa può dirsi
il non essere _segreta_, ma chiara e brutalmente professata: trattasi
dunque piuttosto del carcere di S.^to Officio, e la nota apposta al
Sonetto aiuta anche ad intenderlo; poichè dicendo essa semplicemente
«è chiaro», eccita a considerare di quale specie di carcere si tratti,
mentre non era stato creduto conveniente qualificarlo. Aggiungiamo
che con quel Sonetto l'autore si rivolge a qualcuno, commentandogli il
carcere in cui si trova; e chi sa che non glie l'ispirò lo Stigliola,
quando vi giunse egli pure! Ma ecco un altro Sonetto che fa parte
degl'inediti, e che mostra indubbiamente come le Poesie, quando
parlano del carcere, non riflettano soltanto il carcere di Napoli: esso
riguarda «un che morse nel S.^to offitio in Roma»[135]:
«Anima, ch'hor lasciasti il carcer tetro
di questo mondo, d'Italia, e di Roma,
del Santo Offitio, e della mortal soma,
vattene al ciel, che noi ti verrem dietro».
Qui il dubbio non è più possibile; questo povero carcerato moriva in
Roma e non in Napoli, moriva nel S.^to Officio in presenza del poeta
e d'altri compagni di carcere. Deve dunque il Sonetto riferirsi al
periodo del carcere di Roma, sebbene sia stato raccolto in Napoli;
quivi esso fu raccolto per comunicazioni di reminiscenza, al pari
dell'altro sopra menzionato. Richiamiamo poi anche l'attenzione sulla
chiusa del Sonetto. In essa si parla
«Dell'aspettata nova redentione»
con tutto quello che segue; e ben si vede che già nel carcere di Roma
fervevano le speranze, le quali poi menarono al carcere di Calabria
e di Napoli; nè il Sonetto ci sembra di un valore letterario troppo
deficiente, in paragone di molti altri i quali furono pubblicati,
sicchè l'essere rimasto fra gl'inediti deve naturalmente attribuirsi
a motivi di convenienza politica e giudiziaria. Vi sarebbe inoltre,
sempre fra gl'inediti, un Sonetto indirizzato «All'Accademia d'Avviati
di Roma»[136]: non riescendo punto verosimile che tra il 1600 e il
1601, nelle carceri di Napoli, l'autore abbia avuto motivo di pensare
ad un'Accademia romana, conviene riportare tale Sonetto al periodo
della dimora in Roma, bensì della dimora fuori carcere. Lo stesso
diciamo, ma con minore asseveranza, circa quell'altro indirizzato «Alli
defensori della Philosophia greca»[137], che al pari del precedente è
improntato ad alti e nobili sensi. Non è dubbio poi che alla dimora in
Roma, e all'ultimo tratto di tale dimora, debba riferirsi il Sonetto
«A Cesare D'Este» etc.[138]: esso ci offre anche una data certa, atta
a far conoscere sino a che tempo il Campanella continuò a dimorare in
Roma: poichè quivi fu scritto, mentre gli spiriti erano eccitati dalla
spedizione pel possesso di Ferrara che Papa Clemente intraprese contro
Cesare D'Este. Ne riparleremo a suo luogo.
Uscito in libertà, il Campanella prese stanza nel convento di S.^ta
Sabina, e tutto induce a far ritenere che sia stata quella una stanza
obbligatoria. Ivi compose il Dialogo o _Discorso politico contra i
Luterani, e Calvinisti, della vera Religione e del Lume Naturale
Deformatori_, come reca la copia ms. esistente nella Bibl. naz.
di Parigi (Ital. n. nuov. 106), copia che si ha tutta la ragione
di credere quella medesima destinata dal filosofo al Card.^le
Alessandrino: un'altra copia se ne ha in Roma nella Casanatense (XX,
V, 28), ma molto scorretta, e di essa si servì il prof. Fiorentino per
darci un sunto ed un profondo esame del Dialogo[139]. La data precisa
della composizione del libro deve dirsi lo scorcio dell'anno 1595;
ciò risulta dalla data della lettera autografa del Campanella a fra
Alberto Tragagliolo, annessa alla copia esistente in Parigi. Questa
lettera fu già pubblicata dal D'Ancona[140], ma con varie inesattezze
introdottevi da colui che la trascrisse, e particolarmente nella data,
che fu detta «21 1Obre 1599» mentre pure si conosceva molto bene che in
tal tempo il povero Campanella si trovava non nella quiete del convento
di S.^ta Sabina, ma nel colmo de' terrori del Castel nuovo di Napoli;
noi la ripubblichiamo tra' nostri Documenti, avendola diligentemente
ricopiata in Parigi[141]. Da essa si vede che il Tragagliolo, con sua
lettera, avea consigliato il Campanella di dedicare il Discorso al
Card.^le Alessandrino, protettore dell'Ordine Domenicano, cui aveva già
presentato e raccomandato il filosofo; e costui supplica il Tragagliolo
di volere lui medesimo presentare quel suo «primo Discorso», e farlo
«raccomandato in quel bisogno che sa». Tale bisogno verosimilmente era
la liberazione dall'obbligo di risedere in S.^ta Sabina e la facoltà
di poter tornare in Calabria, ciò che appunto induce ad ammettere
un'uscita dal carcere già da alcuni mesi, in caso contrario l'istanza
sarebbe riuscita impossibile: pertanto, malgrado il fervore cattolico
spiegato nel Discorso in ammenda del suo passato, il Campanella non
vide soddisfatto il suo desiderio e dovè aspettare ancora non meno di
due altri anni. Nel _Syntagma_ è detto che il Discorso o Dialogo fu
dato pure ad Antonio Persio, e molto più tardi egualmente al Naudeo:
inoltre nella Difesa scritta pel processo di Napoli, poi anche nella
Lettera latina del 1607 al Papa pubblicata dal Centofanti, come
pure nella copia medesima del Dialogo esistente nella Casanatense, è
affermato che ne fu fatto invio del pari all'Arciduca Massimiliano;
nella Difesa suddetta è affermato ancora che ne esisteva una copia
presso Mario del Tufo[142]. Non lasceremo poi di parlare di questo
Dialogo, senza dire che vi figurano da interlocutori Gio. Geronimo del
Tufo Marchese di Lavello, Giulio Cortese e Jacopo di Gaeta. Geronimo
comincia dal dire di avere assistito a una disputa singolare in
S.ª Maria la nova, non di quelle solite tra i «nostri filosofi» e i
peripatetici, ma a dirittura religiosa, sostenuta da M.º Tommaso da
Capua con altri; espone quindi la nuova credenza, e Giacomo si fa a
combatterla con la ragione, Giulio con la Bibbia; come ha notato il
prof. Fiorentino, l'autore si nasconde sotto la persona di Giacomo,
e si attiene sempre alla politica anzichè alla Teologia. Da parte
nostra dobbiamo notare nel Campanella siffatta reminiscenza di Napoli
e degli amici lasciati in questa città; essa mostra che la sua mente
e le sue aspirazioni erano rivolte al dolce nido. Non abbiamo bisogno
di dire chi fosse Gio. Geronimo Marchese di Lavello; quanto a Giulio
Cortese, avremo ancora occasione di parlare di lui più in là, e quanto
a Giacomo di Gaeta, gli scrittori di cose patrie ci dicono che egli
era Cosentino, dimorante in Napoli, giurisperito, filosofo Telesiano ed
oltracciò poeta; anche il Campanella lo fa intendere allorchè lo cita
nel suo Sonetto al Telesio:
«Il buon Gaieta la gran donna adorna
con diafane vesti risplendenti,
onde a bellezza natural ritorna».
Aggiungiamo qui che oltre al _Dialogo_, il Campanella compose forse
in S.^ta Sabina anche l'_Apologia pro Telesio_ e l'_Apologia pro
philosophis magnae Graeciae ad S.^m Officium_: difficilmente si
potrebbe assegnare un tempo migliore a queste due Apologie, che si
trovano menzionate in più documenti di alcuni anni dopo, senza che il
_Syntagma_ ci dia qualche lume intorno ad esse[143]. Ma si tratta di
una semplice supposizione e non vi si può insister troppo. Certamente
poi vi compose la _Poetica_, che abbiamo già avuta occasione di dire
scritta nel 1596 per testimonianza lasciatane dal Campanella medesimo:
con ogni probabilità, quando ebbe provato che era andato a vuoto
il tentativo fatto col _Dialogo_ presso il Card.^le Alessandrino,
il Campanella dovè sentire vivamente la necessità di guadagnarsi la
protezione di altri Cardinali, e massime quella del potente Segretario
di Stato di Clemente VIII, il Card.^l S. Giorgio, che si era già
fatto notare per la protezione accordata all'infelice Torquato Tasso,
e che si poteva sperare singolarmente benevolo dopo la presentazione
di una _Poetica_[144]. Nè può non recare meraviglia tanta operosità
nel carcere e tanto abbandono fuori carcere; laonde bene a ragione il
Campanella medesimo ebbe poi un giorno a dire, che senza le protratte
carcerazioni egli non avrebbe mai composto un sì gran numero di opere.
La più gran parte del lungo tempo trascorso dal Campanella in Roma,
dopo il carcere, si può dire che sia stata essenzialmente impiegata
nel cercare protezioni presso varii Cardinali ed alti personaggi.
Questo dimostrano le notizie inserte nel _Syntagma_ e più ancora
ne' varii documenti emersi coll'ultimo processo avuto più tardi pe'
fatti di Calabria. Dal _Syntagma_ apparisce che diede al Card.^l S.
Giorgio la sua _Poetica_, ma dalla Difesa scritta pel suo processo di
Napoli, di poi egualmente da varie sue lettere del 1606 pubblicate
dal Centofanti, apparisce aver dato allo stesso Card.^l S. Giorgio
anche la sua _Monarchia de' Cristiani_[145]: sappiamo intanto che non
vi guadagnò nulla; in un'attiva corrispondenza, che questo Cardinale
ebbe a tenere col Nunzio intorno al Campanella pe' fatti di Calabria e
pe' processi che ne seguirono, non troveremo il menomo indizio che il
Cardinale siasi mai ricordato di aver conosciuto il filosofo. Ma giunse
ad introdursi anche presso il Card.^l Del Monte e il Card.^l Farnese;
e dalla Difesa scritta pel processo di Napoli apparisce, che presso
quest'ultimo Cardinale egli protesse i frati napoletani di S. Domenico
i quali aveano tumultuato, in opposizione a fra Marco da Marcianise
agente de' Riformati, il quale si trovò poi Commissario della sua causa
in Calabria[146]; dovè quindi certamente in tale occasione rivedersi
in Roma con fra Dionisio Ponzio, il quale sappiamo esservi stato lui
pure in questo tempo ed avere agito nello stesso senso. Infine giunse
a guadagnarsi la grazia dell'Ambasciatore di Spagna in Roma, che era
il Duca di Sessa D. Antonio de Cardona coll'enorme trattamento di 8
mila ducati l'anno posti a carico del Regno di Napoli: dalla Difesa
più volte menzionata apparisce che costui gli avrebbe prodigati molti
favori; conviene per altro avvertire che le asserzioni di questo
genere poterono esser messe innanzi pe' bisogni della causa. — Ma
un fatto degno di essere ricordato fu questo, che già cominciavano
a mostrarsi in Roma, nei colloquii privati, le preoccupazioni per
la vicina fine del mondo, la quale si credeva potersi verificare
col termine del secolo; e il Campanella vi partecipava, nel senso
che dovessero accadere mutazioni prima che il mondo finisse. In una
Dichiarazione importantissima da lui scritta al momento del suo arresto
in Calabria, e da noi trovata nell'Archivio di Spagna in Simancas,
leggesi il seguente brano: «Che habbino d'esser mutatione nel mondo io
mi ricordo haver parlato col Cardinal de Monte, mentre se preparava
la guerra de ferrara, et che la chiesa dovesse gir avante, et con un
filosofo Spagnolo zoppo che sta in Roma ne me recorda il nome, che
fa professione d'arte devinatoria, et con il Theologo del Cardinal
farnese» etc.[147]. Il Campanella dunque, già sotto l'impressione
di un presagio di Monarchia, si occupava delle prossime mutazioni,
per le quali, naturalmente, poteva tanto più accarezzare il concetto
degli alti destini cui si credeva chiamato: e con questi pensieri in
mente, si sforzava di ottenere la facoltà di poter partire per Napoli e
restituirsi in Calabria.
La partenza del Campanella per Napoli non si può ritenere accaduta
verso la fine del 1598, come è sembrato al Berti[148], sapendosi con
certezza dalla Narrazione pubblicata dal Capialbi, che alla fine
di luglio di tale anno egli era già arrivato in Calabria dopo di
aver passato qualche tempo in Napoli. Sicuramente egli rimase nel
convento di S.^ta Sabina durante l'anno 1596, come si rileva dalla
deposizione di un testimone, che fa parte dell'ultimo processo pe'
fatti di Calabria[149]; trovavasi poi tuttora in Roma quando si
preparava la spedizione di Ferrara, vale a dire a' primi di 9bre
1597, come risulta dal brano della Dichiarazione pocanzi riportato.
Tutti sanno che la spedizione di Ferrara, iniziata con la scomunica
di D. Cesare D'Este cugino dell'ultimo Alfonso morto senza prole il
28 8bre 1597, sotto il pretesto che egli non fosse stato legittimato
da Alfonso I suo padre, venne febbrilmente preparata a' primi di 9bre
1597: fu perfino richiamato dall'Ungheria Gio. Francesco Aldobrandini
mandatovi dal Papa a combattere i turchi, ciò che contribuì a far
giudicare tanto più severamente quella spoliazione, per la quale si
ebbe l'assenso della Francia dopo l'assoluzione data a Errico IV. Il
Carteggio dell'Aldobrandini Nunzio in Napoli fornisce esso pure alcune
notizie intorno a' preparativi, tra le altre quella delle vive istanze
Pontificie per avere il cav. Domenico Fontana, che era già «ingegniero
della Regia Corte» in Napoli fin dal 1594, e che in tale condizione si
occupava allora appunto de' disegni del Molo nuovo e della bella via di
S. Lucia, e qualche anno dopo ebbe ad occuparsi dell'edificazione del
nuovo Palazzo Reale[150]: egualmente il Carteggio del Residente Veneto
in Napoli fornisce altre notizie, e fra esse quella della cerimonia
compita nell'Arcivescovado, ove i Canonici in circolo assisterono alla
lettura della scomunica inflitta a D. Cesare con una candela bruna in
mano, che poi gettarono a terra quando la lettura fu finita[151]. Si
consideri l'eccitamento degli animi in Roma. Come suole accadere, molti
eruttarono poesie, e come suole del pari accadere ne' brutti argomenti,
le poesie riuscirono orribili. Anche il Carteggio suddetto del Nunzio
mostra allegato alle Lettere da Roma di quell'anno un cattivo Sonetto
intorno a D. Cesare d'Este e alla resa di Ferrara: il Campanella volle
egli pure far udire il suo canto, e diè fuora il Sonetto «a Cesare
d'Este che ritenea Ferrara contro al Papa», Sonetto che abbiamo già
avuto occasione di menzionare e che comincia col verso
«Tu, chi t'opponi alla promessa eterna»[152].
Fu senza dubbio uno de' Sonetti peggio riusciti, con una chiusa affatto
banale; ma forse, vellicando le orecchie della Curia, produsse ciò che
altri lavori di polso non aveano prodotto, e agevolò il compimento de'
desiderii del poeta. La data da doverglisi assegnare è quella de' primi
giorni di 9bre 1597, e poco dopo bisogna ritenere che il Campanella
abbia potuto ottenere di partire da Roma; in caso contrario riuscirebbe
impossibile intendere un altro brano della Dichiarazione sua, che
avremo a riportare fra breve.
Il secondo soggiorno del Campanella in Napoli si estese certamente
all'inverno e alla primavera dell'anno 1598, e fin oltre la metà di
luglio di tale anno. La sua salute lasciava qualche cosa a desiderare,
e tutto induce a far ritenere che egli sia tornato nella casa ospitale
del Marchese di Lavello presso Mario del Tufo. Il _Syntagma_ ci dice
solamente questo, «nell'anno 1598 terminai in Napoli un _Epilogo di
Fisiologia_ ed un'_Etica_», la qual cosa basterebbe a mostrare che
il filosofo non potè trovarsi in Napoli assolutamente di passaggio.
Si ricordi che in Roma egli aveva cominciato un nuovo «Compendio di
Fisiologia» sperando di risarcire la perdita di un grosso volume, e
che l'aveva poi mandato a Mario del Tufo (ved. pag. 77): certamente
fu questo compendio appena cominciato che egli terminò, aggiungendovi
l'Etica; ma vedremo che più tardi vi aggiunse pure la Politica,
l'Economica e la Città del Sole, e ne risultò l'opera scritta in
italiano col titolo «Epilogo magno di quello che della Natura delle
cose ha filosofato e disputato fra T. Campanella» quale conservasi
nella Casanatense (XX, V, 28) e nella Magliabechiana (VIII, 6),
divenuta poi in latino _Philosophiae realis epilogisticae partes
quatuor_ etc. Noi seguiremo passo passo la composizione di quest'opera
importante: ci basterà qui dire che essa fu cominciata in Roma assai
probabilmente nella fine del 1594, continuata in Napoli sicuramente
nel 1.º semestre del 1598 fino alla sua 2.ª parte, l'Etica; e che sia
stata cominciata fuori Napoli si rileva dalle prime parole del Proemio,
«Perchè teco menar la vita non posso Signore» etc., il quale Signore
è naturale ammettere che sia stato Mario del Tufo[153]. Verosimilmente
il Campanella ebbe in animo anche di rifare l'opera _De sensu rerum_, e
per questo motivo commise al medico suo conterraneo Tiberio Carnevale
di rilevare dal S.^to Officio quali fossero le proposizioni trovate
censurabili nel Telesio; ma vedremo a suo tempo che da diversi indizii
apparisce avervi in realtà posto mano più tardi, e però al Catalogo
delle opere del filosofo per l'anno 1598 1.º semestre passato in Napoli
si deve aggiungere solamente la continuazione dell'Epilogo magno di
Filosofia in italiano. — Non sembra poi dubbio, che durante questo
periodo di tempo il Campanella abbia atteso ancora all'insegnamento
secondo il suo costume, e più che a Francesco del Tufo, questa volta
egli dovè dare un corso di lezioni a persone importanti in materie di
ordine molto elevato. Nella sua opera _Del senso delle cose_, al libro
1.º cap. 13 si legge: «nelli 4 libri che hò fatto d'Astronomia contra
Aristotile, Telesio, Tolomeo, e Copernico, hò fatto vedere questo al
discepolo cortese» (nell'ediz. latina «... diligenter hoc Cortesio
discipulo indicavi»). Vedremo che i libri di Astronomia furono almeno
in parte composti nel 1603, e che l'opera Del senso delle cose, così
come la possediamo, fu rifatta in italiano nel 1605; volendo quindi
determinare il tempo, ed anche la specie di lezioni date al Cortese, è
naturalissimo ammettere un insegnamento nel periodo di cui ci stiamo
occupando, con ogni probabilità in astronomia, essendo poi stata
alla memoria del Cortese dedicata l'opera che trattava della materia
insegnatagli. Nè ci ripugna il credere che questo Cortese sia stato
veramente Giulio Cortese, del quale vedremo tra poco le opinioni
astrologiche scambiate col Campanella: egli era già vecchissimo, ed in
questo stesso anno morì, ma allora anche i vecchi non si vergognavano
di farsi uditori per apprendere ciò che desideravano di apprendere. Un
altro discepolo poi, riferibile egualmente a questo periodo, è emerso
dalle Lettere del Campanella pubblicate dal Berti; vogliamo dire il
Marchese Spinola, padre dello Spinola che trovavasi Cardinale verso il
1630[154]. Chi era questo Marchese? Due Cardinali Spinola si aveano
verso il 1630: Agostino, figlio del celebre capitano Ambrogio e di
Giovanna Basadonna, e Gio. Domenico, figlio di Gio. Maria e di Pelina
Lercaro, per quanto si può cavare dal Deza, poiché nè il Ciacconio,
nè il Guarnacci, nè il Palazzi, nè il Cardella offrono la genealogia
di quest'ultimo Cardinale[155]. Ma Gio. Maria non era Marchese, nè
facea vita in Napoli: non rimane quindi che Ambrogio del q.^m Filippo,
Marchese di Venafro dopo la morte del padre avvenuta in marzo 1584,
e poi, coll'ammissione di Venafro al R.º Demanio pel decreto del 28
marzo 1586, rimasto Marchese di Sesto e Signore di Roccapipirozzi. Egli
aveva 29 anni nel tempo di cui trattiamo, e intorno a lui e al fratello
Federico, come intorno alle quattro sorelle, Lelia, Placidia, Maria e
Maddalena, non mancano notizie nell'Archivio di Stato: dal Capaccio,
nel Forastiero, fu poi registrato tra le nobili famiglie genovesi
«state abitanti in Napoli», e si conosce che non prima del 1602, per
un invito del fratello, si destarono in lui gli spiriti marziali, onde
assoldati 9,000 uomini a sue spese s'improvvisò generale e riuscì tanto
maravigliosamente nelle Fiandre. Il Campanella, nella sua prima venuta
in Napoli, era troppo poco noto per avere un discepolo di questo rango:
apparisce più probabile che l'abbia avuto nel 1598, e forse per lo
stesso corso di astronomia.
Come pel periodo precedente, così anche per questo, varie altre
notizie ci sono fornite da' documenti emersi coll'ultimo processo
pei fatti di Calabria, segnatamente dalla Dichiarazione scritta al
momento dell'arresto, e dalla Difesa scritta durante il processo.
Nella Dichiarazione si legge il seguente brano, che tratta sempre
delle mutazioni aspettate per la vicina fine del mondo: «ragionando
con diversi Astrologi, in particulare con Giulio Cortese napolitano,
con Col'Antonio Stigliola gran mathematico, et con Gio. Paulo
Vernaleone, che stavano in Napoli hor son tre anni, ho inteso da loro
che ci doveva esser mutatione di Stato». E più oltre: «el Prencipe de
Bisignano, vedendolo io che desiderava questo, quelli giorni avante
haveamo parlato con Giulio Cortese, et però le disse sta allegro che
li Astrologi aspettano mutatione, et la mutatione fa per li huomini
mal contenti»[156]. Come si vede, il Campanella parla qui di cose
avvenute «hor son tre anni», e poichè la sua Dichiarazione fu scritta
nella prima metà del 7bre 1599, strettamente dovremmo riportarci al
cadere del 1596: ma essendo questo impossibile, conviene riportarci
alla fine del 1597, tenendo conto delle cifre rappresentanti gli anni
e non del periodo di tempo effettivamente trascorso, ciò che si trova
da lui usato pure qualche altra volta; e così abbiamo detto doversi
ammettere che gli sia stato concesso di poter partire da Roma poco dopo
il 9bre 1597, in caso contrario sarebbe riuscito impossibile intendere
quanto egli ebbe ad affermare nella sua Dichiarazione. Adunque, non
appena giunto in Napoli, il Campanella ripigliò il tema delle aspettate
mutazioni, consultando persone ritenute molto competenti in siffatta
materia. Abbiamo già avuta occasione di nominare Gio. Paolo Vernalione,
a proposito di Gio. Vincenzo Della Porta suo stretto amico: di lui
sappiamo solamente che era stato maestro di matematiche di molto
grido[157], ed al tempo di cui trattiamo viveva abitualmente fuori
Napoli, coltivando le arti divinatorie nelle quali aveva acquistato
grandissima riputazione. Giulio Cortese, che pure abbiamo trovato
interlocutore nel Dialogo contro gli eretici, era prete e Teologo
napoletano, tra gli Accademici Svegliati detto l'Attonito: di lui si
hanno stampate alcune «Rime» con «varii opuscoli» (1588 e 1591), una
«Oratione alle potenze italiane per lo soccorso della Lega germana
contra il turco» (1593), e un libro «De Deo et Mundo sive de Catholica
philosophia» (1595), essendo rimasto inedito, secondo il Toppi, un
Poema intitolato «il Guiscardo», ed anche un trattatello in cui si
mostrava che i principii della filosofia del Telesio erano molto
conformi a quanto dicono le Sacre Lettere; la sua morte credesi dal
Minieri-Riccio avvenuta nel 1593, ma deve riportarsi a più tardi, come
si rileva pure dalla notizia che il Campanella ne dà, e del resto il
Chioccarello di poco posteriore, nella parte ms. della sua opera «De
viris illustribus» che si conserva nella Bibl. nazionale, vantandolo
anche come astrologo lo dice morto appunto nel 1598 e sepolto in S.
Eligio. Quanto a Colantonio Stigliola (latinamente Stelliola) che pure
abbiamo già incontrato più sopra, egli era di maggior levatura e merita
una più larga menzione. Nacque nel 1546 da Federico e da Giustina...
certamente della città di Nola, sia pure che abbia accidentalmente
vista la luce in Siderno come vuole il Macrì[158]: si laureò medico
in Salerno, ma rinunziò ben presto all'esercizio della medicina, e
l'occasione fu il vedersi da un nobile posposto a un altro medico,
il quale con le sue prescrizioni secondava la vanità del cliente.
Coltivò assai la botanica, e le sue intime relazioni con Ferrante
Imperato diedero motivo alla diceria che stretto dal bisogno, la
quale circostanza era vera pur troppo, avesse venduto per 100 ducati
all'Imperato l'opera della Storia naturale; ma sembra questa una delle
non rare maldicenze a danno dell'Imperato, il quale, nella prefazione
dell'opera che pubblicò il 1590, non mancò di citare lo Stigliola,
qualificandolo «professore di scienze recondite» ed aggiungendo di
aver comunicata con lui la maggior parte delle cose che allora dava in
luce. Si dedicò infatti allo studio non solo della matematica, ma anche
dell'astronomia e della chimica, ed amò, secondo i gusti del tempo, le
cose astrologiche: esercitò l'architettura e fu ingegnere pubblico; ma,
sempre povero, fu obbligato a dar lezioni per le case de' nobili come
pure in casa sua (di matematica e di chimica, o _filosofia vulcanica_,
come allora la chimica avea nome in Napoli), ed inoltre a tenere
una Stamperia, alla quale attese in sèguito il suo figliuolo Felice.
Abitava fuori porta Regale, quasi dirimpetto alla Chiesa di S. M. della
Salute divenuta poi S. Domenico Soriano e là teneva pure la Stamperia,
un poco più in su della Chiesa presente di S. Michele che allora era
tutt'altra cosa, sull'area dell'attuale piazza Dante a quel tempo
più angusta e addetta in gran parte a cavallerizza. Non ci costa che
sia mai stato lettore pubblico, avendo avuto la lettura di matematica
Francesco Chiaramonte fin dall'anno in cui quella lettura fu istituita,
cioè dal 1607, e sappiamo che egli tenne l'ufficio d'ingegnere della
città, non della Corte, poichè solo temporaneamente collaborò con suo
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