Fra Tommaso Campanella, Vol. 1 - 14
di farne rigoroso riscontro con quelle provenienti da altri fonti, e
massime con quelle appunto che il processo consecutivo fornì in numero
ragguardevole. Ecco ciò che vi si legge intorno al presente momento
della vita di fra Tommaso. «Nell'anno 1598 F. Thomaso Campanella tornò
in Calabria, donde era stato assente X anni parte in Padova, parte
in Roma, parte in Napoli, e nel fin di luglio sbarcò in Nicastro dove
era priore nel suo convento F. Dionisio Pontio e la città si trovava
interdetta per causa di giuridittione dal Vescovo, per esser fuggito
in Roma. Et esso F. Thomaso a' preghi de' cittadini, e per lettera di
M. Antonio del Tufo Vescovo di Milito suo antico protettore s'adoprò
a metter pace tra il Vescovo e la città. Il che non succedendo per
la malvagità di alcuni scomunicati, esso pigliò le parti del vicario
del Vescovo, e fece eligger F. Dionisio Pontio per ambasciator al
Vescovo et al S. Papa Clemente 8.º, che si trovavano a Ferrara. Il che
dispiacque assai a D. Luigi Xarava avvocato fiscale scomunicato tre
anni avanti dal Vescovo di Milito; e perseverante, e mantenitor delle
brighe, desioso, che tutti fossero interdetti, e scomunicati come lui
per sua discolpa appresso il Re, et pur ci era scomunicato il Principe
dello Sciglio el governator del Pizzo, et altri baroni, et officiali».
Ci siamo già spiegati precedentemente sulla vera durata dell'assenza
dalla Calabria, che altrove il Campanella affermò di dodici anni e qui
afferma di dieci, ma che in realtà deve dirsi un po' meno di nove anni.
Abbiamo pure detto che diverse deposizioni consegnate nel processo
di eresia pe' fatti di Calabria attestano egualmente l'arrivo essere
accaduto alla fine di luglio dell'anno 1598, e la prima fermata essere
stata quella di Nicastro; ma dobbiamo aggiungere che in esse domina
generalmente la credenza, che il Campanella fosse venuto in Calabria
non appena liberato da' travagli patiti in Roma, e trovasi anche
affermato che nel convento di Nicastro, essendo priore fra Dionisio,
aveva stanza del pari il germano di lui fra Pietro Ponzio, ed inoltre
fra Gio. Battista di Pizzoni in qualità di lettore. Così il Campanella
ebbe a trovarsi immediatamente in compagnia di questi suoi intimi
amici, i quali più o meno si avevano acquistato riputazione nella
provincia; ed ecco la condizione loro secondo le notizie sparse nel
processo, che siamo obbligati a citare quasi sempre per documentare
quanto affermiamo.
Fra Dionisio, che pel suo spirito si era distinto anche in Napoli
al tempo in cui là dimorava in qualità di studente, tanto più si
era poi distinto in Calabria, avendo progredito negli studii, e
principalmente essendo riuscito un oratore valentissimo; lasciava
solo qualche cosa a desiderare circa costumi. Di natura impetuosa,
irrequieta, ciarliera e vendicativa, già era stato una volta condannato
per aver tagliata la faccia ad un frate, e in genere di lascivia
se ne raccontava qualche brutto caso, avendo anche l'abitudine di
parlarne troppo e nel senso il più laido. Ma come oratore, ad un
facile eloquio accoppiava una quantità di risorse, e possedeva l'arte
di commuovere potentemente l'uditorio; sapeva lagrimare a tempo, ed
una volta, predicando a monache, seppe anche cadere in deliquio; nè
mancava di pungere i suoi avversarii perfino dal pergamo più o meno
velatamente. Una posizione sempre più distinta si aveva acquistato
tra' frati, ma in pari tempo si aveva acquistato odii roventi, pe'
processi da lui energicamente provocati e sostenuti contro frati di
fazione avversa, a' quali era imputato l'assassinio di suo zio il
P.^e Pietro Ponzio, che abbiamo già visto Provinciale pel 1587-88 e
parte dell'89. Questo incidente, non senza interesse per la nostra
narrazione, merita di essere conosciuto; e per fortuna, oltre i pochi
cenni consegnati nel processo più volte citato, ne abbiamo parecchie
notizie nel Carteggio del Nunzio Aldobrandini. Già mentre teneva
l'ufficio di Provinciale, per la severità con la quale avea cercato
di correggere i costumi orribili di un gran numero de' suoi frati,
il P.^e Pietro Ponzio era stato minacciato nella vita, e un fra Paolo
Jannizzi della Grotteria sacerdote, che vedremo anche tra gl'imputati
della congiura e dell'eresia del Campanella, era stato in agguato per
ammazzarlo, sicchè ebbe a riportarne condanna di tre anni di galera
che scontò, e mentre egli stava ancora alla catena il P.^e Pietro fu
ammazzato. Poniamo qui che fra Paolo trovavasi carcerato in Napoli
durante la prima dimora del Campanella in questa città (1591), ed egli
stesso narrò che vide una volta passare per la via il Campanella, e
lo chiamò per pregarlo che volesse portare una sua lettera al P.^e
Rev.^mo: tutto ciò pertanto non gli chiuse la via agli ufficii in
sèguito, e stiamo per vedere che al tempo della congiura funzionava
da priore nel convento di S. Giorgio. Ma, come dicevamo, il P.^e
Pietro Ponzio fu ammazzato, bensì per un'altra ragione ancora più
notevole, perchè la fazione avversa ne temeva il ritorno all'ufficio
di Provinciale; e fra Dionisio perseguitò senza posa gli assassini di
suo zio, facendo rimontare la colpa dell'assassinio fino al P.^e Gio.
Battista da Polistina, già Provinciale nel 1591-92 e parte del 93. Era
ritenuto uccisore un fra Pietro di Catanzaro, che riuscì a fuggirsene
a Costantinopoli tra' turchi: un fra Filippo Mandile da Taverna fece
scovrire ogni cosa insieme con un fra Giacinto da Catanzaro, e fra
Filippo venne per opera del Polistina condannato a 10 anni di esilio
dalla provincia, ridotti poi per grazie successive a soli 2 anni; ma
il Polistina medesimo finì per essere catturato coll'opera diretta di
fra Dionisio, e rimase prigione 14 mesi in Roma, 15 in Calabria, 9 in
Napoli. Egli si schermì efficacemente con le sue aderenze, dimandando
di essere giudicato ora in Roma, ora in Calabria, ora in Napoli presso
la Corte del Nunzio, dalla quale finalmente in gennaio 1598 venne
liberato «ex hactenus deductis», dietro una relazione dell'Auditore sul
processo ingarbugliato col passaggio per troppe mani e troppi luoghi,
la quale conchiudeva «deficerent potius probationes quam jus»[181]. Fra
Dionisio, che facendo comparire negli Atti il fratello Ferrante aveva
in realtà agito personalmente per tale processo, e vi avea non solo
assistito in Calabria ma anche in Napoli ed in Roma, si era elevato di
molto insieme con la fazione avversa al Polistina; ma la liberazione
di costui, appunto nel 1598, cominciava a segnare un principio di
decadenza, e il Polistina relegato in un convento «loco carceris»,
coll'aiuto del P.^e Giuseppe Dattilo da Cosenza ex-Provinciale lui
pure, già preparava le sue vendette, mentre fra Dionisio, sdegnato per
questa liberazione, mostravasi irrequieto anche più del solito.
Quanto a fra Pietro Ponzio germano di fra Dionisio, senza smentire
il sangue caldo de' Ponzii, era d'indole più ritirata ed assai meno
inframmettente: avea progredito fino ad un certo punto negli studii
specialmente teologici, mostrando anche un grande trasporto per le
buone lettere, ed avea saputo mantenersi ne' buoni costumi, ciò che
non era comune a que' tempi. Così non si era fatto distinguer troppo,
e poteva dirsi che avesse piuttosto goduta la prospera fortuna di fra
Dionisio, come di poi ne patì l'avversa: intanto pel suo amore alle
lettere venne a stringersi sempre più col Campanella, ammirandone con
ardore il grande ingegno, e vedremo che gli si mostrò sempre tenero
amico.
Finalmente quanto a fra Gio. Battista di Pizzoni, egli si era distinto
molto più de' Ponzii negli studii, avendo coltivato non solamente
la Teologia ma anche la filosofia, oltrechè era assai addentro nello
studio della musica; ma in pari tempo si era distinto fuor di misura
ne' cattivi costumi. Sebbene il suo modo di ragionare e di esprimersi
non fosse punto brillante, e ne fa fede ciò che di lui si legge nel
processo, aveva tuttavia una eccellente riputazione come lettore, non
così come galantuomo. Noi lo lasciammo nel convento di Altomonte,
al tempo in cui vi dimorava il Campanella: poco dopo d'ordine del
P.^e Pietro Ponzio Provinciale ne fu scacciato perchè vizioso, e
dovè cercare un ricovero nel convento di Rosarno per misericordia.
Naturalmente si aggregò alla fazione di fra Gio. Battista di Polistina,
ed elevato costui all'ufficio di Provinciale fu mandato Vicario a
Cutro; ma finì coll'esserne scacciato a furia di popolo per le sue
dissolutezze ed anche per diverse appropriazioni indebite, quindi
condannato «ad poenam gravioris culpae». Fu mandato di poi lettore di
logica a Briatico, ove ebbe tra' suoi scolari fra Pietro Presterà di
Stilo, che un giorno dovè difenderlo dagli altri scolari i quali gli si
ribellarono, e così pure fra Silvestro Melitano di Lauriana, che gli
rimase attaccato sempre e gli fu buon compagno nelle cattive azioni;
ma egualmente da Briatico dovè fuggire, essendo stata per colpa di lui
uccisa una donna da' proprii fratelli, i quali divennero forbanditi e
lo atterrirono con minacce assiduamente. Non avea mancato nemmeno di
continuare nelle appropriazioni indebite, fra le quali ve ne fu una di
certi scritti di prediche e considerazioni sull'Apocalisse appartenenti
a fra Dionisio, che tolse dalle valigie di costui venuto di passaggio
a Briatico, e mandò poi a vendere per mezzo di fra Silvestro di
Lauriana; e fra Dionisio ne menò grande scalpore e lo vituperò per
tutta la provincia, ma essendo stato appunto in quel tempo carcerato
fra Gio. Battista di Polistina, egli seppe destreggiarsi abilmente
passando alla fazione di fra Dionisio ed acquetandolo. Con siffatta
evoluzione fu mandato lettore nello studio generale di Cosenza (1597),
di dove, l'anno seguente, venne chiamato come Teologo del Vescovo di
Nicotera, con cui visitò tutto lo Stato del Duca di Nocera defunto,
per soddisfare a' gravami patiti da' vassalli, essendosene il Duca
fatto scrupolo nel suo testamento. Adempiuta questa commissione, era
stato assegnato al convento di Nicastro, dove era giunto appena da due
mesi e trovavasi afflitto da certi malanni per commerci impuri, che
ne attestavano la cattiva condotta. Il suo fra Silvestro di Lauriana,
rimasto ignorante ed affatto bestiale, l'aveva seguito in Nicastro
e l'assisteva con ogni cura; ma aveva anche relazioni colpevoli con
un nipote del Pizzoni, fra Fabio, laico o «terzino» come allora si
chiamavano questi frati non sacerdoti, e fra Gio. Battista lo tollerava
senza risentirsene; invece dovè risentirsene fra Dionisio per lo
scandalo che n'era sorto, onde poco tempo dopo fra Gio. Battista finì
per abbandonare il convento di Nicastro. Il Campanella, verosimilmente
ignaro di tutte queste lordure e del rimanente avvezzo a considerare
i frati quali erano in realtà, vide in fra Gio. Battista un amico di
vecchia data, divenuto anche abbastanza culto; e non gli negò la sua
stima, ed ebbe pur troppo a pentirsene, essendogli riuscito un amico
infedele. Si noti intanto la mancanza di morale e di carattere in
questo fra Gio. Battista, che dovrà figurare di molto nella nostra
narrazione, e però ci ha costretti ad una non breve esposizione della
sua vita.
Ma non meno degno di essere rilevato è il grave turbamento in cui
il Campanella trovò la città di Nicastro e tutta la Calabria, onde
non potè non averne una profonda impressione. Si era da qualche
tempo in un periodo acutissimo di lotte giurisdizionali, e quella
di Nicastro fu una delle più gravi: l'argomento merita di essere
ben ponderato, giacchè mentre da una parte il Campanella nella sua
Narrazione dichiara mantenitore delle brighe qualche ufficiale Regio
che ebbe a perseguitarlo, d'altra parte agli ufficiali Regii quel
concorde sviluppo di esorbitanze Episcopali parve il principio di una
vera e propria ribellione; e in ciò non solo il Carteggio del Nunzio
Aldobrandini, ma anche l'Archivio di Napoli e perfino il Carteggio del
Residente Veneto, ci offrono molte notizie e documenti. Limitandoci per
ora alla sola quistione di Nicastro, ecco quanto possiamo dirne. Era
Vescovo di Nicastro Pietro Francesco Montorio nobile Romano, altero,
risentito, tutto imbevuto de' principii della supremazia ecclesiastica.
Creato Vescovo nel febbraio 1594, cominciò dall'affacciare pretensioni
pe' frutti del Vescovato già vacante e fece per questo mali officii
presso la Curia Romana contro il Nunzio; poi negò al Duca di Ferolito,
Conte di Nicastro, un dritto che costui possedeva di «_fidare_ nelle
erbe della Chiesa di Nicastro ed anche venderle agreste», e affacciò
la strana pretensione che per tale controversia venisse citato a
comparire innanzi al tribunale del Nunzio; poi avendo il Duca ottenuto
un decreto favorevole del Sacro Regio Consiglio, tribunale competente,
ed essendo stato mandato dalla R.ª Audienza un Commissario per
l'esecuzione del decreto, egli maltrattò il Commissario e lo scomunicò
con tutti gli ufficiali della città, a capo de' quali era un Gio.
Battista Carpenzano, facendo pubblicare dal suo Vicario un interdetto.
E scrisse a Roma e fece da Roma scrivere al Nunzio che pativa travagli
indebiti, ed appunto nell'aprile 1598 si permise di pubblicare una
cedola venuta da Roma senza l'exequatur: allora il Governo, che si
guardava bene dal tollerare un fatto simile, lo dichiarò licenziato
dalla sua diocesi, e perchè contumace pose sotto sequestro le rendite
del Vescovato; ma egli fece dal Vicario scomunicare l'Auditor Gonzaga
andato ad eseguire i detti ordini, e con lui il Vice Conte Gio. Antonio
Falconi. Di rimbalzo gli ufficiali della città carcerarono parecchi
gentiluomini aderenti del Vescovo, e volendo un giorno que' della
Corte del Duca trarre agli arresti un cuoco del Vescovo che portava
armi senza permesso, videro intervenire il Vescovo medesimo, il quale
li caricò di contumelie, al punto che taluni trassero qualche colpo
di archibugio in aria per farlo tacere, ed egli allora si allontanò
dalla Diocesi[182]. Ma al tempo medesimo i reggitori della città si
occuparono di provvedere perchè l'interdetto fosse revocato, e tenuto
pubblico parlamento, si concluse di nominare fra Dionisio Ponzio ed
Innico de Franza procuratori della città, perchè potessero comparire a
nome di essa in Reggio ed anche in Roma bisognando, a fine di ottenere
da' superiori ecclesiastici la rivocazione dell'interdetto. Il pubblico
istrumento di procura in data 28 agosto 1598, firmato dal dot.^r
Ottavio Serra sindaco, e da parecchi eletti di Nicastro, venne poi da
fra Dionisio originalmente presentato al tribunale dell'eresia quale
attestato di onore, e così abbiamo potuto averne piena conoscenza[183].
— Che il Campanella in tale occasione abbia prese le parti del Vicario
del Vescovo, riesce pienamente credibile, poichè in ultima analisi
egli era ecclesiastico; ma che abbia potuto influire sulla elezione di
fra Dionisio egli nuovo in Nicastro, e che l'invio di fra Dionisio e
del Franza abbia potuto dispiacere all'Avvocato fiscale, si comprende
poco. Avremo ad occuparci largamente anche dell'Avvocato fiscale, e lo
vedremo in realtà scomunicato dal Vescovo di Mileto, ma vedremo pure in
quel tempo, per varii fatti, qualche Auditore egualmente scomunicato,
qualche altro avvertito di essere incorso nella scomunica, ed uno di
loro è stato già menzionato più sopra; tutto ciò rincresceva senza
dubbio al Vicerè, non al Re che stava troppo lontano ed occupato in
altre cure, ma in fin de' conti attestava negli ufficiali colpiti una
fedele esecuzione degli ordini ricevuti ed un lodevole adempimento del
proprio dovere. Così l'Avvocato fiscale non poteva dispiacersi che le
cose si avviassero alla quiete, nè poteva ritenere per lui necessaria
una discolpa: d'altronde il Governo aveva trovata una singolare maniera
di rimediare agl'imbarazzi che nell'amministrazione derivavano dalle
scomuniche degli ufficiali; mandava una «hortatoria» al Vescovo, e
con ciò riteneva di aver provveduto per l'assoluzione, dandosi anche
l'aria di considerare sospeso l'effetto delle scomuniche. Mettiamo
qui che fra Dionisio e il Franza, si recarono a Reggio e quindi a
Ferrara, dove si trovava Papa Clemente occupato a consolidarsi nel
nuovo acquisto, nè tornarono a Nicastro che al principio dell'anno
successivo. Durante questo tempo l'affare del Vescovo di Nicastro si
trattava nelle più alte sfere. Il Papa medesimo, nel settembre 1598,
ne scrisse direttamente al Re, il quale rispose con una breve lettera
molto dignitosa; il Residente Veneto per le sue vie coperte potè aver
copia di entrambe le lettere e trasmetterle a Venezia, e così leggonsi
nel suo Carteggio. Il Duca di Sessa Ambasciatore spagnuolo in Roma
ne trattò col Card.^l S. Giorgio, e nel Carteggio del Nunzio vi è la
lista delle domande del Vescovo, tra le quali figura quella che tutti
coloro i quali l'avevano insultato fossero gastigati, e tutti, ma
principalmente il Carpenzano e il Falconi, non potessero più esercitare
ufficii in Nicastro e nelle altre terre della Diocesi. Nell'ottobre
furono concordati 10 capitoli, che conosciamo egualmente per cura del
Residente Veneto, tra' quali primeggia la rivocazione del decreto del
Sacro Regio Consiglio favorevole al Duca di Ferolito; ma il Vicerè fece
difficoltà a rivocare il pronunziato solenne di un tribunale supremo di
appello, onde le cose si protrassero fino al marzo dell'anno seguente.
Ed allora l'interdetto fu tolto, ma non per opera di fra Dionisio, ciò
che trovasi attestato pure dalla Narrazione[184]. Vedremo poi che il
Vicerè non attese nemmeno che l'interdetto fosse tolto, per rivocare,
da parte sua, il divieto del ritorno del Vescovo nel Regno, ma costui
non si mosse da Roma, sicchè, sopravvenuta la congiura di Calabria,
diè motivo a far credere che egli pure vi partecipasse. E ciò basti
pel momento circa i conflitti co' Vescovi; avremo tra poco occasione
di parlare del conflitto col Vescovo di Mileto, per lo quale si trovò
scomunicato l'Avvocato fiscale Xarava, ed anche il Principe di Scilla
(corrottamente Sciglio) e il Governatore del Pizzo.
Proseguiamo ora a dire del Campanella, sempre con la scorta della
Narrazione. «Alli 15 d'agosto poi esso Campanella andò a Stilo sua
padria, dove il Vescovo di Milito era venuto a processar un Arciprete
di Stignano, et Campanella andò con lui fino a Jeraci e dispiacque
assai alli officiali scomunicati che havesse dato consulta di canoni
e ragioni al Vicario di Nicastro et al Vescovo di Milito per aiuto
delle giurdittioni. Di più tutte le città principali oltre le discordie
tra gli Ecclesiastici, e Regii, erano divise in fattioni, e Stilo in
particolare havea la fattione de' Carnelevari et Contestabili, et capo
dell'una in campagna era Mauritio Rinaldis, et dell'altra M. Antonio
Contestabile. Et in Catanzaro erano due fattioni: a l'una favoriva lo
Xarava a l'altra D. Alfonso de Roxas governatore della provincia. Et
tutti li conventi erano pieni di banditi particolarmente della diocesi
di Milito, el Vescovo li dava de mangiare per zelo della giurdittione,
quando erano assediati da sbirri. E Xarava ponea fama ch'il clero
volesse ribellare».
Adunque alla metà di agosto 1598 il Campanella passò da Nicastro a
Stilo, ma forse ciò accadde qualche giorno più tardi, poichè si hanno
nel processo di eresia due deposizioni, che attestano essere andato
a Stilo dopo un mese dal suo arrivo in Nicastro[185]. Il Pizzoni ve
l'accompagnò, rimanendovi anche lui per curarsi, come attestò perfino
il suo confidente Lauriana che lo servì; e vi rimase qualche mese,
poichè sappiamo esser venuto nell'ottobre a far parte del convento
fra Pietro Presterà di Stilo, e costui allora lo medicò con le sue
mani. Frattanto nel settembre, per un'accidentale venuta del Vescovo
di Mileto a Stignano, ebbe il Campanella occasione di ossequiare
questo Vescovo che era Marc'Antonio del Tufo, e di andare con lui «in
visita verso la marina». Tale fatto trovasi nel processo attestato
dal Pizzoni, che depose ancora essere accaduto nel settembre. Il
Campanella naturalmente vi andò in qualità di Teologo, e giova
ricordarsene, poichè vedremo in sèguito il Governo Spagnuolo assai
mal prevenuto specialmente contro il Teologo del Vescovo di Mileto,
mostrando d'imputare a lui le risoluzioni violente che dal Vescovo
spesso si prendevano. Non apparisce e non è plausibile che quella
visita sia durata molto: ad ogni modo il Campanella nel suo ritorno si
fermò alquanto in Stignano presso suo padre, come attestò parimente
il Pizzoni, e poi si ridusse a Stilo nè ebbe mai più altra stanza:
lo vedremo più tardi in varie escursioni, ma di breve durata, e pur
sempre assegnato o meglio dimenticato in Stilo. È certo poi che le
trattative di pace tra' Contestabili e Carnevali, registrate nella
Narrazione subito dopo la visita fatta col Vescovo di Mileto, accaddero
veramente non prima del maggio dell'anno successivo: questo risulta
dal processo ed anche da altri cenni sparsi nella Narrazione medesima,
sicchè non dobbiamo occuparcene per ora, e possiamo invece approfondire
un poco le cose del Vescovo di Mileto, i conflitti giurisdizionali,
le fazioni e inimicizie cittadine, le discordie de' componenti la R.ª
Audienza, i banditi in armi nella provincia. Lo stesso Campanella più
volte affermò che questo grave turbamento sociale, unito alla comparsa
di fenomeni meteorologici straordinarii, lo menò a credere tanto più
fermamente alla vicina fine del mondo e a predicarla, onde poi alcuni
presero animo a concertarsi per una ribellione: trattasi dunque di una
materia in relazioni strettissime col nostro argomento, ed è necessario
occuparcene di proposito; l'Archivio di Stato in Napoli, parzialmente
anche il Carteggio del Nunzio Aldobrandini, ce ne forniscono molti
documenti, e di essi bisogna senz'altro profittare.
Il Vescovo di Mileto (latinamente Melito) si era già fatto distinguere
da un pezzo pel suo modo energico di procedere nelle quistioni
giurisdizionali, un po' più di tutti gli altri suoi colleghi, che
pur essi non mancavano di farle sorgere ogni momento e trattarle con
poca mansuetudine e nessuna misura. Egli non trovavasi in conflitto
per interessi personali come il Vescovo di Nicastro, ma per principii
profondamente sentiti, e quanto è dubbio che il Campanella abbia potuto
richiamare sopra di sè l'attenzione degli ufficiali Regii pel conflitto
del Vescovo di Nicastro, altrettanto è sicuro che abbia dovuto esser
notato pe' conflitti del Vescovo di Mileto; perchè con costui egli
si trovava in relazioni dirette, e da costui era stato scomunicato
quell'Avvocato fiscale Xarava al quale egli attribuì tutte le sue
sventure; solamente bisogna dire che abbia dovuto esser notato non
così presto come apparirebbe dalla sua Narrazione, ma quando già si era
fatto conoscere direttamente per altre cose. È pur troppo vero che il
Vescovo di Mileto avesse procurato che i banditi, i quali si trovavano
in asilo massime ne' conventi, fossero alimentati semprechè i birri
li assediavano per catturarli: questo emerse poi anche dal processo
del Campanella, e in realtà una tenerezza pe' malviventi rifugiati
ed assediati si verificava del pari in altre Diocesi, con diversi
modi singolari che non mancheremo di vedere: il Governo riteneva che
pe' delitti gravi, «imperiosi, e di molto malo exemplo» come allora
si diceva, non dovesse riconoscersi il diritto di asilo ne' conventi
e nelle Chiese; ma i Vescovi rispondevano con le scomuniche a tutti
coloro i quali eseguivano gli ordini del Governo, e con una maggiore
protezione a' più tristi soggetti, onde si può immaginare quanti
scandali ne dovessero nascere. I Cavalieri Gerosolimitani molto sparsi
nel Regno, che col titolo di frati e col beneficio della giurisdizione
ecclesiastica spesso si vedevano commettere prepotenze e delitti,
scorrendo la campagna con comitive armate e chiudendosi in qualche
castello di casale isolato senza che il Governo potesse raggiungerli,
fornivano un altro grosso contingente di conflitti: al tempo del
quale trattiamo, un cav.^re fra Maurizio Telesio di Cosenza trovavasi
nella condizione anzidetta, e il Governo avea mandato contro di lui
l'Auditore Vincenzo di Lega, che era giunto a catturarlo e si occupava
in prendere la relativa informazione; e subito da «un preite a nome
del Rev.^do Vescovo di Melito gli fu notificato in parola che lui et li
detentori di detto fra Mauritio erano incorsi in censure, admonendoli a
liberarlo»[186]. Ma il contingente maggiore era fornito da' così detti
«diaconi selvaggi» o «clerici coniugati», una specialità fiorente nella
Calabria, laici anche con mogli e figli, a' quali i Vescovi concedevano
di poter indossare un ferraiolo nero, ed avendoli in tal guisa fatti
clerici, pretendevano che fossero esenti dalle contribuzioni fiscali
e dal peso degli alloggi, esenti anche dalla giurisdizione laica, o
come allora si diceva «temporale»: i comuni o «Università» reclamavano,
ed egualmente reclamavano i Baroni, nel vedersi sfuggire di mano i
contribuenti e dover gravare di pesi insoffribili gli altri cittadini,
come pure nel vedere invasi i dritti della giurisdizione baronale: il
Governo mandava hortatorie, ma coloro che doveano consegnarle venivano
scomunicati[187]. Nel tempo di cui trattiamo, un Marcantonio Capito,
diacono selvaggio della Diocesi di Mileto, avea bastonato un frate
basiliano: la R.ª Audienza intervenne, e il Capito si rifugiò in una
Chiesa; il Vescovo, sempre per mantenere intatta la giurisdizione,
non volle permettere che fosse estratto dalla Chiesa, nè volle curarsi
che fosse chiuso nelle carceri vescovili pel dovuto gastigo. In tale
occasione l'Avvocato fiscale D. Luise Xarava dovè entrare nella Chiesa,
prendere il Capito e farne consegna nelle carceri del Castello del
Pizzo; ma finì per essere scomunicato lui, il governatore del Pizzo
D. Fabrizio Poerio e il Principe di Scilla signore del luogo. Le
hortatorie non mancarono, ma il timore della scomunica, che allora
menava a conseguenze anche sociali non indifferenti, rendeva perplessi
coloro i quali doveano presentarle: il Vicerè ebbe quindi a risentirsi
con la R.ª Audienza perchè erano state fatte presentare «per banno»,
vale a dire coll'affissione, e la R.ª Audienza ebbe a discolparsi
negando il fatto, che pare essere stato solamente un progetto. Intanto
il Vescovo, non rimasto pago alle scomuniche, nel febbraio 1598 mandò
al castello del Pizzo suo fratello Placido Del Tufo, il quale sulla
sua parola indusse il Castellano a far uscire il Capito dal carcere,
e metterlo in una stanza, ma poi nella notte, coll'aiuto di due
domestici del Vescovo e mediante una corda, lo fece fuggire e andare a
ricoverarsi nel palazzo Vescovile; laonde il Vicerè ebbe ad ordinare
l'arresto di Placido Del Tufo, il quale per lo meno dovè nascondersi
e molto più tardi poi fu graziato. Così tese erano allora le relazioni
tra il Governo e il Vescovo di Mileto. Più tardi non avendo il Vescovo
dato alcun gastigo al Capito, ed avendolo anzi lasciato andar libero a
Seminara, il Vicerè lo fece carcerare di nuovo, ma i preti, armati di
accette ed aiutati anche da alcuni laici, lo liberarono a viva forza;
questo accadde nel tempo in cui fervevano i concerti per la ribellione,
sicchè appunto pel Capito avvenne quel «rumor di clerici di Seminara
che ruppero li carceri gridando viva il Papa», come è registrato in
altro luogo della Narrazione del Campanella (pag. 30), onde sembrò che
il Vescovo di Mileto partecipasse a' concerti e che «il clero volesse
ribellare»[188].
Non molto dissimile era la condotta degli altri Vescovi della Calabria:
ne daremo alcuni cenni riferibili al periodo di cui trattiamo ed
anche a qualche anno successivo, ciò che servirà pure a mostrare che
essi continuarono sempre nella loro via, perfino quando, scoverta la
congiura, gli ufficiali Regii spiegarono una influenza esorbitante.
Il Nunzio medesimo scriveva a Roma che alcuni Vescovi componevano con
danaro ogni delitto de' clerici, sia facendo pagare una somma alla
Curia, sia facendo dare una pingue elemosina a qualche luogo pio, onde
presso gli ufficiali Regii s'incontravano difficoltà ad ottenere la
consegna de' clerici prigioni[189]. Ma specialmente i clerici selvaggi
in tutta la Calabria davano troppi motivi di scandali, mentre erano
ovunque aumentati al punto che il Vescovo di Mileto potè dire di averne
nella sua Diocesi molto meno degli altri, nè poi venivano sempre scelti
tra le persone per bene: così l'Arcivescovo di S.^ta Severina ne aveva
massime con quelle appunto che il processo consecutivo fornì in numero
ragguardevole. Ecco ciò che vi si legge intorno al presente momento
della vita di fra Tommaso. «Nell'anno 1598 F. Thomaso Campanella tornò
in Calabria, donde era stato assente X anni parte in Padova, parte
in Roma, parte in Napoli, e nel fin di luglio sbarcò in Nicastro dove
era priore nel suo convento F. Dionisio Pontio e la città si trovava
interdetta per causa di giuridittione dal Vescovo, per esser fuggito
in Roma. Et esso F. Thomaso a' preghi de' cittadini, e per lettera di
M. Antonio del Tufo Vescovo di Milito suo antico protettore s'adoprò
a metter pace tra il Vescovo e la città. Il che non succedendo per
la malvagità di alcuni scomunicati, esso pigliò le parti del vicario
del Vescovo, e fece eligger F. Dionisio Pontio per ambasciator al
Vescovo et al S. Papa Clemente 8.º, che si trovavano a Ferrara. Il che
dispiacque assai a D. Luigi Xarava avvocato fiscale scomunicato tre
anni avanti dal Vescovo di Milito; e perseverante, e mantenitor delle
brighe, desioso, che tutti fossero interdetti, e scomunicati come lui
per sua discolpa appresso il Re, et pur ci era scomunicato il Principe
dello Sciglio el governator del Pizzo, et altri baroni, et officiali».
Ci siamo già spiegati precedentemente sulla vera durata dell'assenza
dalla Calabria, che altrove il Campanella affermò di dodici anni e qui
afferma di dieci, ma che in realtà deve dirsi un po' meno di nove anni.
Abbiamo pure detto che diverse deposizioni consegnate nel processo
di eresia pe' fatti di Calabria attestano egualmente l'arrivo essere
accaduto alla fine di luglio dell'anno 1598, e la prima fermata essere
stata quella di Nicastro; ma dobbiamo aggiungere che in esse domina
generalmente la credenza, che il Campanella fosse venuto in Calabria
non appena liberato da' travagli patiti in Roma, e trovasi anche
affermato che nel convento di Nicastro, essendo priore fra Dionisio,
aveva stanza del pari il germano di lui fra Pietro Ponzio, ed inoltre
fra Gio. Battista di Pizzoni in qualità di lettore. Così il Campanella
ebbe a trovarsi immediatamente in compagnia di questi suoi intimi
amici, i quali più o meno si avevano acquistato riputazione nella
provincia; ed ecco la condizione loro secondo le notizie sparse nel
processo, che siamo obbligati a citare quasi sempre per documentare
quanto affermiamo.
Fra Dionisio, che pel suo spirito si era distinto anche in Napoli
al tempo in cui là dimorava in qualità di studente, tanto più si
era poi distinto in Calabria, avendo progredito negli studii, e
principalmente essendo riuscito un oratore valentissimo; lasciava
solo qualche cosa a desiderare circa costumi. Di natura impetuosa,
irrequieta, ciarliera e vendicativa, già era stato una volta condannato
per aver tagliata la faccia ad un frate, e in genere di lascivia
se ne raccontava qualche brutto caso, avendo anche l'abitudine di
parlarne troppo e nel senso il più laido. Ma come oratore, ad un
facile eloquio accoppiava una quantità di risorse, e possedeva l'arte
di commuovere potentemente l'uditorio; sapeva lagrimare a tempo, ed
una volta, predicando a monache, seppe anche cadere in deliquio; nè
mancava di pungere i suoi avversarii perfino dal pergamo più o meno
velatamente. Una posizione sempre più distinta si aveva acquistato
tra' frati, ma in pari tempo si aveva acquistato odii roventi, pe'
processi da lui energicamente provocati e sostenuti contro frati di
fazione avversa, a' quali era imputato l'assassinio di suo zio il
P.^e Pietro Ponzio, che abbiamo già visto Provinciale pel 1587-88 e
parte dell'89. Questo incidente, non senza interesse per la nostra
narrazione, merita di essere conosciuto; e per fortuna, oltre i pochi
cenni consegnati nel processo più volte citato, ne abbiamo parecchie
notizie nel Carteggio del Nunzio Aldobrandini. Già mentre teneva
l'ufficio di Provinciale, per la severità con la quale avea cercato
di correggere i costumi orribili di un gran numero de' suoi frati,
il P.^e Pietro Ponzio era stato minacciato nella vita, e un fra Paolo
Jannizzi della Grotteria sacerdote, che vedremo anche tra gl'imputati
della congiura e dell'eresia del Campanella, era stato in agguato per
ammazzarlo, sicchè ebbe a riportarne condanna di tre anni di galera
che scontò, e mentre egli stava ancora alla catena il P.^e Pietro fu
ammazzato. Poniamo qui che fra Paolo trovavasi carcerato in Napoli
durante la prima dimora del Campanella in questa città (1591), ed egli
stesso narrò che vide una volta passare per la via il Campanella, e
lo chiamò per pregarlo che volesse portare una sua lettera al P.^e
Rev.^mo: tutto ciò pertanto non gli chiuse la via agli ufficii in
sèguito, e stiamo per vedere che al tempo della congiura funzionava
da priore nel convento di S. Giorgio. Ma, come dicevamo, il P.^e
Pietro Ponzio fu ammazzato, bensì per un'altra ragione ancora più
notevole, perchè la fazione avversa ne temeva il ritorno all'ufficio
di Provinciale; e fra Dionisio perseguitò senza posa gli assassini di
suo zio, facendo rimontare la colpa dell'assassinio fino al P.^e Gio.
Battista da Polistina, già Provinciale nel 1591-92 e parte del 93. Era
ritenuto uccisore un fra Pietro di Catanzaro, che riuscì a fuggirsene
a Costantinopoli tra' turchi: un fra Filippo Mandile da Taverna fece
scovrire ogni cosa insieme con un fra Giacinto da Catanzaro, e fra
Filippo venne per opera del Polistina condannato a 10 anni di esilio
dalla provincia, ridotti poi per grazie successive a soli 2 anni; ma
il Polistina medesimo finì per essere catturato coll'opera diretta di
fra Dionisio, e rimase prigione 14 mesi in Roma, 15 in Calabria, 9 in
Napoli. Egli si schermì efficacemente con le sue aderenze, dimandando
di essere giudicato ora in Roma, ora in Calabria, ora in Napoli presso
la Corte del Nunzio, dalla quale finalmente in gennaio 1598 venne
liberato «ex hactenus deductis», dietro una relazione dell'Auditore sul
processo ingarbugliato col passaggio per troppe mani e troppi luoghi,
la quale conchiudeva «deficerent potius probationes quam jus»[181]. Fra
Dionisio, che facendo comparire negli Atti il fratello Ferrante aveva
in realtà agito personalmente per tale processo, e vi avea non solo
assistito in Calabria ma anche in Napoli ed in Roma, si era elevato di
molto insieme con la fazione avversa al Polistina; ma la liberazione
di costui, appunto nel 1598, cominciava a segnare un principio di
decadenza, e il Polistina relegato in un convento «loco carceris»,
coll'aiuto del P.^e Giuseppe Dattilo da Cosenza ex-Provinciale lui
pure, già preparava le sue vendette, mentre fra Dionisio, sdegnato per
questa liberazione, mostravasi irrequieto anche più del solito.
Quanto a fra Pietro Ponzio germano di fra Dionisio, senza smentire
il sangue caldo de' Ponzii, era d'indole più ritirata ed assai meno
inframmettente: avea progredito fino ad un certo punto negli studii
specialmente teologici, mostrando anche un grande trasporto per le
buone lettere, ed avea saputo mantenersi ne' buoni costumi, ciò che
non era comune a que' tempi. Così non si era fatto distinguer troppo,
e poteva dirsi che avesse piuttosto goduta la prospera fortuna di fra
Dionisio, come di poi ne patì l'avversa: intanto pel suo amore alle
lettere venne a stringersi sempre più col Campanella, ammirandone con
ardore il grande ingegno, e vedremo che gli si mostrò sempre tenero
amico.
Finalmente quanto a fra Gio. Battista di Pizzoni, egli si era distinto
molto più de' Ponzii negli studii, avendo coltivato non solamente
la Teologia ma anche la filosofia, oltrechè era assai addentro nello
studio della musica; ma in pari tempo si era distinto fuor di misura
ne' cattivi costumi. Sebbene il suo modo di ragionare e di esprimersi
non fosse punto brillante, e ne fa fede ciò che di lui si legge nel
processo, aveva tuttavia una eccellente riputazione come lettore, non
così come galantuomo. Noi lo lasciammo nel convento di Altomonte,
al tempo in cui vi dimorava il Campanella: poco dopo d'ordine del
P.^e Pietro Ponzio Provinciale ne fu scacciato perchè vizioso, e
dovè cercare un ricovero nel convento di Rosarno per misericordia.
Naturalmente si aggregò alla fazione di fra Gio. Battista di Polistina,
ed elevato costui all'ufficio di Provinciale fu mandato Vicario a
Cutro; ma finì coll'esserne scacciato a furia di popolo per le sue
dissolutezze ed anche per diverse appropriazioni indebite, quindi
condannato «ad poenam gravioris culpae». Fu mandato di poi lettore di
logica a Briatico, ove ebbe tra' suoi scolari fra Pietro Presterà di
Stilo, che un giorno dovè difenderlo dagli altri scolari i quali gli si
ribellarono, e così pure fra Silvestro Melitano di Lauriana, che gli
rimase attaccato sempre e gli fu buon compagno nelle cattive azioni;
ma egualmente da Briatico dovè fuggire, essendo stata per colpa di lui
uccisa una donna da' proprii fratelli, i quali divennero forbanditi e
lo atterrirono con minacce assiduamente. Non avea mancato nemmeno di
continuare nelle appropriazioni indebite, fra le quali ve ne fu una di
certi scritti di prediche e considerazioni sull'Apocalisse appartenenti
a fra Dionisio, che tolse dalle valigie di costui venuto di passaggio
a Briatico, e mandò poi a vendere per mezzo di fra Silvestro di
Lauriana; e fra Dionisio ne menò grande scalpore e lo vituperò per
tutta la provincia, ma essendo stato appunto in quel tempo carcerato
fra Gio. Battista di Polistina, egli seppe destreggiarsi abilmente
passando alla fazione di fra Dionisio ed acquetandolo. Con siffatta
evoluzione fu mandato lettore nello studio generale di Cosenza (1597),
di dove, l'anno seguente, venne chiamato come Teologo del Vescovo di
Nicotera, con cui visitò tutto lo Stato del Duca di Nocera defunto,
per soddisfare a' gravami patiti da' vassalli, essendosene il Duca
fatto scrupolo nel suo testamento. Adempiuta questa commissione, era
stato assegnato al convento di Nicastro, dove era giunto appena da due
mesi e trovavasi afflitto da certi malanni per commerci impuri, che
ne attestavano la cattiva condotta. Il suo fra Silvestro di Lauriana,
rimasto ignorante ed affatto bestiale, l'aveva seguito in Nicastro
e l'assisteva con ogni cura; ma aveva anche relazioni colpevoli con
un nipote del Pizzoni, fra Fabio, laico o «terzino» come allora si
chiamavano questi frati non sacerdoti, e fra Gio. Battista lo tollerava
senza risentirsene; invece dovè risentirsene fra Dionisio per lo
scandalo che n'era sorto, onde poco tempo dopo fra Gio. Battista finì
per abbandonare il convento di Nicastro. Il Campanella, verosimilmente
ignaro di tutte queste lordure e del rimanente avvezzo a considerare
i frati quali erano in realtà, vide in fra Gio. Battista un amico di
vecchia data, divenuto anche abbastanza culto; e non gli negò la sua
stima, ed ebbe pur troppo a pentirsene, essendogli riuscito un amico
infedele. Si noti intanto la mancanza di morale e di carattere in
questo fra Gio. Battista, che dovrà figurare di molto nella nostra
narrazione, e però ci ha costretti ad una non breve esposizione della
sua vita.
Ma non meno degno di essere rilevato è il grave turbamento in cui
il Campanella trovò la città di Nicastro e tutta la Calabria, onde
non potè non averne una profonda impressione. Si era da qualche
tempo in un periodo acutissimo di lotte giurisdizionali, e quella
di Nicastro fu una delle più gravi: l'argomento merita di essere
ben ponderato, giacchè mentre da una parte il Campanella nella sua
Narrazione dichiara mantenitore delle brighe qualche ufficiale Regio
che ebbe a perseguitarlo, d'altra parte agli ufficiali Regii quel
concorde sviluppo di esorbitanze Episcopali parve il principio di una
vera e propria ribellione; e in ciò non solo il Carteggio del Nunzio
Aldobrandini, ma anche l'Archivio di Napoli e perfino il Carteggio del
Residente Veneto, ci offrono molte notizie e documenti. Limitandoci per
ora alla sola quistione di Nicastro, ecco quanto possiamo dirne. Era
Vescovo di Nicastro Pietro Francesco Montorio nobile Romano, altero,
risentito, tutto imbevuto de' principii della supremazia ecclesiastica.
Creato Vescovo nel febbraio 1594, cominciò dall'affacciare pretensioni
pe' frutti del Vescovato già vacante e fece per questo mali officii
presso la Curia Romana contro il Nunzio; poi negò al Duca di Ferolito,
Conte di Nicastro, un dritto che costui possedeva di «_fidare_ nelle
erbe della Chiesa di Nicastro ed anche venderle agreste», e affacciò
la strana pretensione che per tale controversia venisse citato a
comparire innanzi al tribunale del Nunzio; poi avendo il Duca ottenuto
un decreto favorevole del Sacro Regio Consiglio, tribunale competente,
ed essendo stato mandato dalla R.ª Audienza un Commissario per
l'esecuzione del decreto, egli maltrattò il Commissario e lo scomunicò
con tutti gli ufficiali della città, a capo de' quali era un Gio.
Battista Carpenzano, facendo pubblicare dal suo Vicario un interdetto.
E scrisse a Roma e fece da Roma scrivere al Nunzio che pativa travagli
indebiti, ed appunto nell'aprile 1598 si permise di pubblicare una
cedola venuta da Roma senza l'exequatur: allora il Governo, che si
guardava bene dal tollerare un fatto simile, lo dichiarò licenziato
dalla sua diocesi, e perchè contumace pose sotto sequestro le rendite
del Vescovato; ma egli fece dal Vicario scomunicare l'Auditor Gonzaga
andato ad eseguire i detti ordini, e con lui il Vice Conte Gio. Antonio
Falconi. Di rimbalzo gli ufficiali della città carcerarono parecchi
gentiluomini aderenti del Vescovo, e volendo un giorno que' della
Corte del Duca trarre agli arresti un cuoco del Vescovo che portava
armi senza permesso, videro intervenire il Vescovo medesimo, il quale
li caricò di contumelie, al punto che taluni trassero qualche colpo
di archibugio in aria per farlo tacere, ed egli allora si allontanò
dalla Diocesi[182]. Ma al tempo medesimo i reggitori della città si
occuparono di provvedere perchè l'interdetto fosse revocato, e tenuto
pubblico parlamento, si concluse di nominare fra Dionisio Ponzio ed
Innico de Franza procuratori della città, perchè potessero comparire a
nome di essa in Reggio ed anche in Roma bisognando, a fine di ottenere
da' superiori ecclesiastici la rivocazione dell'interdetto. Il pubblico
istrumento di procura in data 28 agosto 1598, firmato dal dot.^r
Ottavio Serra sindaco, e da parecchi eletti di Nicastro, venne poi da
fra Dionisio originalmente presentato al tribunale dell'eresia quale
attestato di onore, e così abbiamo potuto averne piena conoscenza[183].
— Che il Campanella in tale occasione abbia prese le parti del Vicario
del Vescovo, riesce pienamente credibile, poichè in ultima analisi
egli era ecclesiastico; ma che abbia potuto influire sulla elezione di
fra Dionisio egli nuovo in Nicastro, e che l'invio di fra Dionisio e
del Franza abbia potuto dispiacere all'Avvocato fiscale, si comprende
poco. Avremo ad occuparci largamente anche dell'Avvocato fiscale, e lo
vedremo in realtà scomunicato dal Vescovo di Mileto, ma vedremo pure in
quel tempo, per varii fatti, qualche Auditore egualmente scomunicato,
qualche altro avvertito di essere incorso nella scomunica, ed uno di
loro è stato già menzionato più sopra; tutto ciò rincresceva senza
dubbio al Vicerè, non al Re che stava troppo lontano ed occupato in
altre cure, ma in fin de' conti attestava negli ufficiali colpiti una
fedele esecuzione degli ordini ricevuti ed un lodevole adempimento del
proprio dovere. Così l'Avvocato fiscale non poteva dispiacersi che le
cose si avviassero alla quiete, nè poteva ritenere per lui necessaria
una discolpa: d'altronde il Governo aveva trovata una singolare maniera
di rimediare agl'imbarazzi che nell'amministrazione derivavano dalle
scomuniche degli ufficiali; mandava una «hortatoria» al Vescovo, e
con ciò riteneva di aver provveduto per l'assoluzione, dandosi anche
l'aria di considerare sospeso l'effetto delle scomuniche. Mettiamo
qui che fra Dionisio e il Franza, si recarono a Reggio e quindi a
Ferrara, dove si trovava Papa Clemente occupato a consolidarsi nel
nuovo acquisto, nè tornarono a Nicastro che al principio dell'anno
successivo. Durante questo tempo l'affare del Vescovo di Nicastro si
trattava nelle più alte sfere. Il Papa medesimo, nel settembre 1598,
ne scrisse direttamente al Re, il quale rispose con una breve lettera
molto dignitosa; il Residente Veneto per le sue vie coperte potè aver
copia di entrambe le lettere e trasmetterle a Venezia, e così leggonsi
nel suo Carteggio. Il Duca di Sessa Ambasciatore spagnuolo in Roma
ne trattò col Card.^l S. Giorgio, e nel Carteggio del Nunzio vi è la
lista delle domande del Vescovo, tra le quali figura quella che tutti
coloro i quali l'avevano insultato fossero gastigati, e tutti, ma
principalmente il Carpenzano e il Falconi, non potessero più esercitare
ufficii in Nicastro e nelle altre terre della Diocesi. Nell'ottobre
furono concordati 10 capitoli, che conosciamo egualmente per cura del
Residente Veneto, tra' quali primeggia la rivocazione del decreto del
Sacro Regio Consiglio favorevole al Duca di Ferolito; ma il Vicerè fece
difficoltà a rivocare il pronunziato solenne di un tribunale supremo di
appello, onde le cose si protrassero fino al marzo dell'anno seguente.
Ed allora l'interdetto fu tolto, ma non per opera di fra Dionisio, ciò
che trovasi attestato pure dalla Narrazione[184]. Vedremo poi che il
Vicerè non attese nemmeno che l'interdetto fosse tolto, per rivocare,
da parte sua, il divieto del ritorno del Vescovo nel Regno, ma costui
non si mosse da Roma, sicchè, sopravvenuta la congiura di Calabria,
diè motivo a far credere che egli pure vi partecipasse. E ciò basti
pel momento circa i conflitti co' Vescovi; avremo tra poco occasione
di parlare del conflitto col Vescovo di Mileto, per lo quale si trovò
scomunicato l'Avvocato fiscale Xarava, ed anche il Principe di Scilla
(corrottamente Sciglio) e il Governatore del Pizzo.
Proseguiamo ora a dire del Campanella, sempre con la scorta della
Narrazione. «Alli 15 d'agosto poi esso Campanella andò a Stilo sua
padria, dove il Vescovo di Milito era venuto a processar un Arciprete
di Stignano, et Campanella andò con lui fino a Jeraci e dispiacque
assai alli officiali scomunicati che havesse dato consulta di canoni
e ragioni al Vicario di Nicastro et al Vescovo di Milito per aiuto
delle giurdittioni. Di più tutte le città principali oltre le discordie
tra gli Ecclesiastici, e Regii, erano divise in fattioni, e Stilo in
particolare havea la fattione de' Carnelevari et Contestabili, et capo
dell'una in campagna era Mauritio Rinaldis, et dell'altra M. Antonio
Contestabile. Et in Catanzaro erano due fattioni: a l'una favoriva lo
Xarava a l'altra D. Alfonso de Roxas governatore della provincia. Et
tutti li conventi erano pieni di banditi particolarmente della diocesi
di Milito, el Vescovo li dava de mangiare per zelo della giurdittione,
quando erano assediati da sbirri. E Xarava ponea fama ch'il clero
volesse ribellare».
Adunque alla metà di agosto 1598 il Campanella passò da Nicastro a
Stilo, ma forse ciò accadde qualche giorno più tardi, poichè si hanno
nel processo di eresia due deposizioni, che attestano essere andato
a Stilo dopo un mese dal suo arrivo in Nicastro[185]. Il Pizzoni ve
l'accompagnò, rimanendovi anche lui per curarsi, come attestò perfino
il suo confidente Lauriana che lo servì; e vi rimase qualche mese,
poichè sappiamo esser venuto nell'ottobre a far parte del convento
fra Pietro Presterà di Stilo, e costui allora lo medicò con le sue
mani. Frattanto nel settembre, per un'accidentale venuta del Vescovo
di Mileto a Stignano, ebbe il Campanella occasione di ossequiare
questo Vescovo che era Marc'Antonio del Tufo, e di andare con lui «in
visita verso la marina». Tale fatto trovasi nel processo attestato
dal Pizzoni, che depose ancora essere accaduto nel settembre. Il
Campanella naturalmente vi andò in qualità di Teologo, e giova
ricordarsene, poichè vedremo in sèguito il Governo Spagnuolo assai
mal prevenuto specialmente contro il Teologo del Vescovo di Mileto,
mostrando d'imputare a lui le risoluzioni violente che dal Vescovo
spesso si prendevano. Non apparisce e non è plausibile che quella
visita sia durata molto: ad ogni modo il Campanella nel suo ritorno si
fermò alquanto in Stignano presso suo padre, come attestò parimente
il Pizzoni, e poi si ridusse a Stilo nè ebbe mai più altra stanza:
lo vedremo più tardi in varie escursioni, ma di breve durata, e pur
sempre assegnato o meglio dimenticato in Stilo. È certo poi che le
trattative di pace tra' Contestabili e Carnevali, registrate nella
Narrazione subito dopo la visita fatta col Vescovo di Mileto, accaddero
veramente non prima del maggio dell'anno successivo: questo risulta
dal processo ed anche da altri cenni sparsi nella Narrazione medesima,
sicchè non dobbiamo occuparcene per ora, e possiamo invece approfondire
un poco le cose del Vescovo di Mileto, i conflitti giurisdizionali,
le fazioni e inimicizie cittadine, le discordie de' componenti la R.ª
Audienza, i banditi in armi nella provincia. Lo stesso Campanella più
volte affermò che questo grave turbamento sociale, unito alla comparsa
di fenomeni meteorologici straordinarii, lo menò a credere tanto più
fermamente alla vicina fine del mondo e a predicarla, onde poi alcuni
presero animo a concertarsi per una ribellione: trattasi dunque di una
materia in relazioni strettissime col nostro argomento, ed è necessario
occuparcene di proposito; l'Archivio di Stato in Napoli, parzialmente
anche il Carteggio del Nunzio Aldobrandini, ce ne forniscono molti
documenti, e di essi bisogna senz'altro profittare.
Il Vescovo di Mileto (latinamente Melito) si era già fatto distinguere
da un pezzo pel suo modo energico di procedere nelle quistioni
giurisdizionali, un po' più di tutti gli altri suoi colleghi, che
pur essi non mancavano di farle sorgere ogni momento e trattarle con
poca mansuetudine e nessuna misura. Egli non trovavasi in conflitto
per interessi personali come il Vescovo di Nicastro, ma per principii
profondamente sentiti, e quanto è dubbio che il Campanella abbia potuto
richiamare sopra di sè l'attenzione degli ufficiali Regii pel conflitto
del Vescovo di Nicastro, altrettanto è sicuro che abbia dovuto esser
notato pe' conflitti del Vescovo di Mileto; perchè con costui egli
si trovava in relazioni dirette, e da costui era stato scomunicato
quell'Avvocato fiscale Xarava al quale egli attribuì tutte le sue
sventure; solamente bisogna dire che abbia dovuto esser notato non
così presto come apparirebbe dalla sua Narrazione, ma quando già si era
fatto conoscere direttamente per altre cose. È pur troppo vero che il
Vescovo di Mileto avesse procurato che i banditi, i quali si trovavano
in asilo massime ne' conventi, fossero alimentati semprechè i birri
li assediavano per catturarli: questo emerse poi anche dal processo
del Campanella, e in realtà una tenerezza pe' malviventi rifugiati
ed assediati si verificava del pari in altre Diocesi, con diversi
modi singolari che non mancheremo di vedere: il Governo riteneva che
pe' delitti gravi, «imperiosi, e di molto malo exemplo» come allora
si diceva, non dovesse riconoscersi il diritto di asilo ne' conventi
e nelle Chiese; ma i Vescovi rispondevano con le scomuniche a tutti
coloro i quali eseguivano gli ordini del Governo, e con una maggiore
protezione a' più tristi soggetti, onde si può immaginare quanti
scandali ne dovessero nascere. I Cavalieri Gerosolimitani molto sparsi
nel Regno, che col titolo di frati e col beneficio della giurisdizione
ecclesiastica spesso si vedevano commettere prepotenze e delitti,
scorrendo la campagna con comitive armate e chiudendosi in qualche
castello di casale isolato senza che il Governo potesse raggiungerli,
fornivano un altro grosso contingente di conflitti: al tempo del
quale trattiamo, un cav.^re fra Maurizio Telesio di Cosenza trovavasi
nella condizione anzidetta, e il Governo avea mandato contro di lui
l'Auditore Vincenzo di Lega, che era giunto a catturarlo e si occupava
in prendere la relativa informazione; e subito da «un preite a nome
del Rev.^do Vescovo di Melito gli fu notificato in parola che lui et li
detentori di detto fra Mauritio erano incorsi in censure, admonendoli a
liberarlo»[186]. Ma il contingente maggiore era fornito da' così detti
«diaconi selvaggi» o «clerici coniugati», una specialità fiorente nella
Calabria, laici anche con mogli e figli, a' quali i Vescovi concedevano
di poter indossare un ferraiolo nero, ed avendoli in tal guisa fatti
clerici, pretendevano che fossero esenti dalle contribuzioni fiscali
e dal peso degli alloggi, esenti anche dalla giurisdizione laica, o
come allora si diceva «temporale»: i comuni o «Università» reclamavano,
ed egualmente reclamavano i Baroni, nel vedersi sfuggire di mano i
contribuenti e dover gravare di pesi insoffribili gli altri cittadini,
come pure nel vedere invasi i dritti della giurisdizione baronale: il
Governo mandava hortatorie, ma coloro che doveano consegnarle venivano
scomunicati[187]. Nel tempo di cui trattiamo, un Marcantonio Capito,
diacono selvaggio della Diocesi di Mileto, avea bastonato un frate
basiliano: la R.ª Audienza intervenne, e il Capito si rifugiò in una
Chiesa; il Vescovo, sempre per mantenere intatta la giurisdizione,
non volle permettere che fosse estratto dalla Chiesa, nè volle curarsi
che fosse chiuso nelle carceri vescovili pel dovuto gastigo. In tale
occasione l'Avvocato fiscale D. Luise Xarava dovè entrare nella Chiesa,
prendere il Capito e farne consegna nelle carceri del Castello del
Pizzo; ma finì per essere scomunicato lui, il governatore del Pizzo
D. Fabrizio Poerio e il Principe di Scilla signore del luogo. Le
hortatorie non mancarono, ma il timore della scomunica, che allora
menava a conseguenze anche sociali non indifferenti, rendeva perplessi
coloro i quali doveano presentarle: il Vicerè ebbe quindi a risentirsi
con la R.ª Audienza perchè erano state fatte presentare «per banno»,
vale a dire coll'affissione, e la R.ª Audienza ebbe a discolparsi
negando il fatto, che pare essere stato solamente un progetto. Intanto
il Vescovo, non rimasto pago alle scomuniche, nel febbraio 1598 mandò
al castello del Pizzo suo fratello Placido Del Tufo, il quale sulla
sua parola indusse il Castellano a far uscire il Capito dal carcere,
e metterlo in una stanza, ma poi nella notte, coll'aiuto di due
domestici del Vescovo e mediante una corda, lo fece fuggire e andare a
ricoverarsi nel palazzo Vescovile; laonde il Vicerè ebbe ad ordinare
l'arresto di Placido Del Tufo, il quale per lo meno dovè nascondersi
e molto più tardi poi fu graziato. Così tese erano allora le relazioni
tra il Governo e il Vescovo di Mileto. Più tardi non avendo il Vescovo
dato alcun gastigo al Capito, ed avendolo anzi lasciato andar libero a
Seminara, il Vicerè lo fece carcerare di nuovo, ma i preti, armati di
accette ed aiutati anche da alcuni laici, lo liberarono a viva forza;
questo accadde nel tempo in cui fervevano i concerti per la ribellione,
sicchè appunto pel Capito avvenne quel «rumor di clerici di Seminara
che ruppero li carceri gridando viva il Papa», come è registrato in
altro luogo della Narrazione del Campanella (pag. 30), onde sembrò che
il Vescovo di Mileto partecipasse a' concerti e che «il clero volesse
ribellare»[188].
Non molto dissimile era la condotta degli altri Vescovi della Calabria:
ne daremo alcuni cenni riferibili al periodo di cui trattiamo ed
anche a qualche anno successivo, ciò che servirà pure a mostrare che
essi continuarono sempre nella loro via, perfino quando, scoverta la
congiura, gli ufficiali Regii spiegarono una influenza esorbitante.
Il Nunzio medesimo scriveva a Roma che alcuni Vescovi componevano con
danaro ogni delitto de' clerici, sia facendo pagare una somma alla
Curia, sia facendo dare una pingue elemosina a qualche luogo pio, onde
presso gli ufficiali Regii s'incontravano difficoltà ad ottenere la
consegna de' clerici prigioni[189]. Ma specialmente i clerici selvaggi
in tutta la Calabria davano troppi motivi di scandali, mentre erano
ovunque aumentati al punto che il Vescovo di Mileto potè dire di averne
nella sua Diocesi molto meno degli altri, nè poi venivano sempre scelti
tra le persone per bene: così l'Arcivescovo di S.^ta Severina ne aveva
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