Fra Tommaso Campanella, Vol. 1 - 07

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corse nel volgo de' frati in Cosenza. Al Berti è parso che in un brano
dell'_Atheismus triumphatus_ il Campanella avesse parlato di relazioni
da lui avute con un astrologo, e bruscamente rotte, avanti che entrasse
nel carcere, ma in verità, sebbene la dicitura di quel brano non sia
punto chiara, è impossibile leggervi il fatto accennato dal Berti, nè
poi mancano altri documenti, pe' quali riesce manifesto che il fatto
esposto nell'_Atheismus_ si verificò appunto nel carcere di Napoli,
circa 15 anni dopo l'epoca della quale trattiamo[57]. Si deve pertanto
conchiudere, che pure ammettendo essere state delle più semplici le
relazioni del Campanella coll'Ebreo, i suoi superiori, non esclusi
quelli che si ha ogni ragione di credere i meglio disposti verso di
lui, le appresero malissimo, e il Campanella si trovò per esse spinto
in una falsa posizione, che gli fu di gran pregiudizio pel momento
e per l'avvenire; d'altra parte si deve cominciare ad intendere che
per le speciali condizioni, nelle quali ebbe a trovarsi, egli non fu
in grado di parlare chiaramente e manifestare tutta la verità nelle
cose che riguardavano la persona sua, e però bisogna andar cauti
nell'accoglierne le affermazioni. Ora vediamolo in Napoli.
II. L'epoca della venuta del Campanella a Napoli è stata dal Berti,
il più preciso de' suoi biografi, riportata all'anno 1591; ma a noi
sembra che debba con la maggiore probabilità riportarsi alla fine
del 1589. — Cominciamo, al solito, dal vedere ciò che si legge nel
_Syntagma de libris propriis_ intorno alla sua venuta e a ciò che
egli fece in questa città. Parlando della sua _Filosofia_ vi si dice:
«questo libro di polemica fu stampato in Napoli presso Orazio Salviano
nell'anno del Signore 1590, nel qual tempo pure, in casa del Marchese
di Lavello e col favore del figliuolo Mario del Tufo, scrissi due
commentarii, uno del _Senso_, un altro della _Investigazione delle
cose_, e composi molti discorsi ed orazioni, per amici che andavano
a prendere la laurea. A scrivere questi libri del Senso delle cose mi
spinse principalmente una disputa fatta in un pubblico Congresso, ed
oltracciò Gio. Battista Della Porta, che avea scritto la Fisiognomia in
cui si diceva non potersi dar ragione della simpatia ed antipatia delle
cose, mentre esaminavamo insieme il suo libro già stampato..... Scrissi
in sèguito un certo esordio di _Nuova Metafisica_, nel quale stabiliva
come principii metafisici la necessità, il fato, l'armonia. Parimenti
la _Filosofia Pitagorica_ con un Carme Lucreziano, invogliato molto
della lettura di Ocello Lucano e de' detti de' Platonici. Ma nell'anno
del Signore 1592 me ne andai a Roma fuggendo gli emuli accusatori che
dicevano: come sa di lettere costui mentre non le ha mai imparate?»
Bisogna aggiungere che negli ultimi versi della prefazione alla
_Philosophia sensibus demonstrata_, edita l'anno 1591, licenziandosi
da' lettori dice: «Aspettate presto, Dio permettendo, un nostro
commentario _Dell'investigazione delle cose_ ed un altro _Del senso
delle cose_». Al Berti è parso che il Campanella sia caduto in errore
nel trattato _De libris propriis_, avendo detto che la sua Filosofia
sia stata pubblicata l'anno 1590, e non nel 1591 come ne fa fede il
frontespizio[58]: ma veramente il Campanella affermò essere stata la
sua opera «stampata» nel 1590, la qual cosa non contraddice all'essere
stata pubblicata nel 1591. E considerando che molto tempo s'impiegava
allora per la stampa di un'opera, massime in Napoli, come pure che il
Campanella ebbe a comporre ancora diverse opere nella stessa epoca;
considerando d'altra parte che egli dovè partire piuttosto in fretta da
Cosenza nel suo ritorno da Altomonte, come pure che dovè poi andarsene
da Napoli in un periodo non inoltrato del 1591, secondochè dimostreremo
con documenti; si converrà che la data da noi stabilita della sua
venuta a Napoli, cioè la fine del 1589, sia la più plausibile. Se
guardiamo pertanto alle informazioni che ne dà il processo del 1599,
troviamo da due deposizioni accennato veramente il 1591 come l'anno
in cui egli era in Napoli «in casa di Mario del Tufo»[59]: ma anche
qui le deposizioni riflettono piuttosto l'ultimo periodo della dimora
del Campanella in Napoli. Una deposizione poi di fra Dionisio Ponzio
dice, che «la fuga» del Campanella da Calabria avvenne dopo il Capitolo
celebrato in Roma, nel quale fu eletto il Generale che a quel tempo
(nel 1600) presedeva all'Ordine; ora si sa che Generale a quel tempo
era fra Ippolito M.ª Beccarla di Mondovì e che costui fu eletto il 20
maggio del 1588, come risulta dal libro del Quétif ed Echard e meglio
anche dall'iscrizione funeraria apposta alla sua tomba, ben conosciuta
dagli amatori delle cose napoletane nella Chiesa di S. Domenico di
Napoli[60].
Fu narrato dall'Eritreo che appena giunto il Campanella in Napoli,
nel passare innanzi al monistero di S. Maria la nuova appartenente
a' Francescani, veduta gran turba andare e venire e saputo che vi si
faceva una disputa, essendo libero ad ognuno il prendervi parte volle
provarvisi, e seppe vincere e fu portato in trionfo a casa da' frati
dell'ordine suo[61]. Non abbiamo veramente alcun'altra notizia speciale
intorno a questa avventura del Campanella, ma dobbiamo dire che non
ne rimaniamo punto sorpresi: forse ad essa alluse egli medesimo,
quando nel suo _Dialogo politico contro i Luterani e Calvinisti_ prese
le mosse da una disputa fatta sull'argomento in S. Maria la nuova
di Napoli, alla quale erano intervenuti due degl'interlocutori, nè
sarà sfuggito che nel brano del _Syntagma_ riportato più sopra egli
parla pure di una «disputa fatta in un pubblico Congresso», dalla
quale fu spinto a scrivere sul Senso delle cose. Nel libro poi del
Marta, combattuto dal Campanella, si trovano citate diverse dispute
filosofiche col nome de' disputanti e le rispettive opinioni, le quali
il Fiorentino ha rilevate con molta cura[62]: ma noi, nell'Archivio di
Stato, abbiamo già da un pezzo trovato alcuni documenti, che dimostrano
la frequenza e varietà di tali dispute, presso a poco ne' tempi de'
quali trattiamo, con tutte le circostanze desiderabili. Le dispute si
facevano nelle Chiese, non ne' Chiostri come ha mostrato di credere
il Baldacchini, e per lo più nelle ore pomeridiane della Domenica;
non ancora erasi pervenuto al punto di rendere anche materialmente la
Chiesa estranea alla cultura. Annunziavano le dispute grandi manifesti
o come allora si dicevano _cartoni_, affissi «per li luoghi pubblici et
ordinarii di questa fidelissima città», sia a stampa sia manoscritti, e
ce ne rimangono dell'una e dell'altra maniera, col loro dorso tuttora
impiastricciato delle sostanze adoperate per farli attaccare alle
mura; essi recavano, col nome di chi sosteneva la disputa, una dedica,
un fervorino, l'elenco delle proposizioni o _capi_ da disputarsi, e
l'indicazione del luogo, del giorno e dell'ora. Quelli che abbiamo
veduti talvolta hanno il nome di un preside, che poi certifica essere
state le proposizioni sostenute «con sodisfattione et approbatione»;
talvolta sono accompagnati dal certificato di un mastro d'atti, che
espone le circostanze della disputa, i nomi delle persone che hanno
argomentato e di quelle tra le più notevoli che sono semplicemente
intervenute, inoltre l'esito finale, «che tutti hanno detto esserne
state bene difese et disputate le sudette Conclusioni con darne
infinite lode al detto Dottore» etc. Era un modo onorevole di farsi
conoscere in qualsivoglia ramo dello scibile: difatti abbiamo cartoni
di dispute in filosofia, in medicina, in materia legale, sostenute
da studenti, da Dottori, Accademici Partenii, Accademici Costanti,
Dottorati in Napoli che volevano essere ammessi a leggere e disputare
secondo i Capitoli della Scuola di Salerno, coll'indicazione della
sede della disputa, nella Chiesa del Collegio del Gesù, nella Chiesa
di S. Giovanni maggiore, nella Chiesa di S. Giovanni a Carbonara[63].
E dev'essere notato che in filosofia disputavano non soltanto i frati,
ma principalmente i medici, tra' quali era celebratissimo campione di
dispute a quel tempo il medico Latino Tancredi di Camerota, o Latino
Camerotano, che poi prestò anche i suoi consigli medici al Campanella,
come vedremo a suo luogo: perocchè la facoltà di filosofia era fusa in
quella di medicina, e con le letture di filosofia più basse e poi più
elevate i medici cominciavano e poi chiudevano la loro carriera, così
nell'insegnamento pubblico come nel privato. In verità i frati, almeno
in Napoli, si sforzarono sempre di soppiantare i medici nelle letture
di filosofia nel pubblico studio, ma per lunghissimo tempo non vi
ebbero fortuna, malgrado il favore de' Vicerè bigotti; basta dire che
scorso perfino un altro secolo, il Cappellano maggiore ancora scriveva
al Vicerè doversi le letture di filosofia tenere da' medici e non da'
frati, poichè gli studenti non andavano a udire i frati[64]. Bisogna
quindi guardarsi pure dal credere che le controversie filosofiche si
agitassero solamente tra' frati, e si può pertanto conchiudere non
esser punto difficile che il Campanella, appena venuto in Napoli, si
sia trovato a far parte di una disputa filosofica in una Chiesa. Ciò
che ci pare piuttosto difficile si è che egli sia poi andato ad abitare
il convento di S. Domenico.
Le circostanze che menarono il Campanella a Napoli, la sua così
detta «fuga dal convento di Cosenza» coll'indignazione dei superiori,
parrebbero un grave argomento per escludere che egli fosse andato ad
abitare il convento di S. Domenico; ma per verità l'argomento non
è grave, attesochè il sistema de' tempi era rappresentato da una
singolare alternativa di debolezza e di violenza grandissima, ed i
frati specialmente Domenicani vivevano più che in libertà, in licenza
sconfinata. Invece più grave argomento è quello della difficoltà che
i Domenicani calabresi avventizii incontravano ad avere una stanza
ne' conventi di Napoli. Esistevano nella città non meno di 9 grandi
conventi di detta Religione, quattro ordinarî e cinque riformati, ma i
così detti «fuochi» di Domenicani nella città e nei borghi si elevavano
a non meno di 16, con 682 «anime», la più alta cifra dopo quella de'
Francescani e de' Benedettini[65]: veramente, oltre i frati del Regno
e gli spagnuoli, si trovavano fra loro anche parecchi lombardi come
del resto parecchi del Regno si trovavano ne' conventi di Lombardia,
essendovi relazioni molto frequenti fra le due regioni dominate
dalla stessa potenza spagnuola; pertanto i frati calabresi, venendo
in Napoli, non potevano avere facile accesso in questi conventi, al
punto che dovè più tardi pensarsi a fabbricarne uno espressamente per
loro. È noto infatti che fu perciò fabbricato nel 1606 il convento di
S. Maria della salute, detto poi di S. Domenico de' calabresi o di S.
Domenico Soriano nella piazza fuori porta Regale (oggi piazza Dante)
per opera di fra Tommaso Vesti Domenicano calabrese reduce da Algieri,
co' danari ricevuti da Sara Ruffo di Misuraca sua compagna di schiavitù
nello stesso posto. È verosimile dunque che il Campanella abbia dovuto
fin dal suo arrivo rimanere fuori convento, e forse fin d'allora
divenire ospite de' Signori del Tufo, co' quali abbiamo già notata
la conoscenza probabilmente avvenuta a' tempi della sua dimora in S.
Giorgio. — Non si creda pertanto che con ciò il Campanella cadesse in
grave colpa, allontanandosi dall'austerità della vita religiosa e dagli
obblighi della regola di S. Domenico: in Napoli, tra' Domenicani di
que' tempi, non v'era nè austerità nè regola, e se mai, in conferma di
quanto diciamo, non si volessero accettare i racconti e i giudizî delle
cronache napoletane, si dovranno certamente accettare le relazioni e
i giudizî del Nunzio Aldobrandini, che si rilevano dal suo Carteggio
esistente nell'Archivio di Firenze. Egli fin da' primi mesi della sua
venuta in Napoli, nel 1592, scriveva a Roma contro la vita licenziosa
de' frati in generale e dimandava poteri per rimediarvi[66]; ma pe'
Domenicani in ispecie non cessò mai di fare le più alte lagnanze. Si
sforzò anche troppo d'introdurre la vita più austera de' Riformati in
S. Domenico, ed ottenuti gli ordini del Papa, nel 1595, fece sloggiarne
tutti coloro che l'abitavano ed introdurvi 60 frati Riformati presi
dal convento della Sanità: ma ebbe a vedere, otto giorni dopo, i frati
scacciati venire armati di pistole, coltelli e bastoni, e coll'aiuto di
quelli di S. Pietro Martire prendere d'assalto il convento, scacciarne
i nuovi abitatori, introdurvi munizioni per 6 mesi, fortificarsi,
elevar trincee alle porte, guarnire di sassi le finestre, suonare le
campane a martello, eccitando il popolo e parte della nobiltà in loro
favore, destando forte commozione nel Vicerè; e durarono così tre buoni
mesi in aperta ribellione, da' primi di aprile a' 22 di giugno, quando
aprirono finalmente le porte vincendo la partita in barba al Nunzio
ed allo stesso Papa. Il Papa concedeva che mandassero due de' loro in
Roma per esporre le proprie ragioni, ma esigeva che frattanto facessero
l'ubbidienza ed uscissero dal convento di S. Domenico cedendo il posto
a' frati che stavano ne' conventi di S. Severo, di Gesù e Maria, di
S. Caterina a formello, con l'avvertenza di farvi entrare «quelli che
fossero lombardi» probabilmente credendo di disinteressare così il
popolo napoletano nella quistione: ma i frati di S. Domenico non ne
vollero far nulla, ed il Vicerè ebbe timore di accordare il braccio
secolare per costringerli all'ubbidienza verso il Papa[67]. Abbondano
poi i casi particolari di Domenicani inquisiti e processati durante
tutto il periodo della Nunziatura dell'Aldobrandini, e fino al termine
del suo ufficio egli se ne lagnò spesso: così scrivendo al Card.^l
S. Giorgio diceva, «voglio che sappia che non è Religione in questo
Regno più relassata di questa, et che si sentino maggiori enormità et
d'ogni sorta» (e qui registrava una lunga filza di queste enormità),
come pure scrivendo al Padre Generale de' Domenicani diceva, «si sanno
i molti delitti gravi che seguono nella Religione senza che pur ci
si pensi»[68]. Il Campanella dunque non avrebbe nulla guadagnato se
fosse rimasto tra siffatti frati: eppure ebbe poi perfino a risentire
indirettamente il danno de' dissensi e de' tumulti frateschi, avvenuti
quando egli era da un pezzo già partito da Napoli; poichè, come abbiamo
avuta occasione di accennare più sopra, trovavasi in questa città fra
Dionisio Ponzio, il quale non era uomo da stare in disparte fra quelle
baruffe, e gli odii che n'ebbe a riportare ricaddero anche sull'amico
suo. Venuto a stare nel convento di S. Caterina a formello, egli
passò in seguito appunto a quello di S. Pietro Martire come «studente
formale»: un fra Marco da Marcianise, del quale avremo ad occuparci più
tardi anche troppo, ed un fra Ambrogio di Napoli, che fu poi del piccol
numero di frati lettori pubblici di filosofia (1613-23) e in sèguito
Vescovo di Tropea, fecero sì che gli studenti non napoletani fossero
privati di voce attiva, ed ecco sdegnati questi studenti mandare un
loro procuratore a Roma presso Innocenzo IX, e il procuratore prescelto
fu appunto fra Dionisio, che dovè scrivere memoriali e suppliche
contro fra Marco. A tempo de' tumulti poi egli trovavasi in Roma, per
provocare il processo contro i frati calabresi che avevano ucciso suo
zio il Provinciale Pietro Ponzio: fra Marco di Marcianise, era appunto
Superiore dei frati della Sanità che si è detto sopra avere occupato il
convento di S. Domenico, e fra Dionisio, prendendo le parti de' frati
di S. Domenico, agì e trattò contro i Riformati e contro fra Marco[69].
È superfluo dire quanto odio ne nascesse, e fra Marco fu appunto il
Commissario che istituì poi i processi in Calabria nel 1599.
Ma dunque, da principio o più tardi, il Campanella venuto in Napoli
se ne andò a dimorare nella casa de' Signori del Tufo Marchesi di
Lavello, e poichè essi furono lungamente protettori ed amici di fra
Tommaso, al punto che taluni si trovarono poi nominati nella faccenda
della congiura, ed uno ne fu carcerato contemporaneamente, un altro
consecutivamente, è giusto darne notizia con qualche larghezza.
Figuravano questi Signori tra le famiglie primarie nella nobiltà:
vantavano la loro origine da uno de' primi Normanni venuti con
Guglielmo Ferrabuc, Ercole Monoboij, che poi prese il suo cognome
dalla terra del Tufo nella Provincia di Principato Ultra, avuta con
altri doni in premio del suo valore; vantavano un Roberto del Tufo
Signore di Montefredano presso Avellino, registrato nell'elenco de'
Baroni che seguirono Goffredo di Buglione alla conquista di Terra
Santa. A' tempi de' quali trattiamo, abitavano nella contrada che oggi
si dice di S. M.ª di Costantinopoli, nelle case appartenute già a'
Castriota Scanderbeg, e poi divise fra loro e i Signori Marciani, cui
faceva sèguito il palazzo del Reggente David, divenuto poi più tardi,
nel 1610, la Chiesa ed il Monastero di S. Giovanniello; il palazzo
de' del Tufo era quello oggi segnato col n.º 102, provisto, come gli
altri contigui, di un giardino che avea per parapetto il muro della
città durato fino a' giorni nostri. Quivi il Campanella trovò agio e
conforto, e ben può dirsi questo il solo luogo di cui potè ricordarsi
con piena soddisfazione durante tutta la sua vita. Ecco gl'individui
di casa del Tufo che principalmente c'interessano per la nostra
narrazione.
1.º Gio. Geronimo del Tufo, che era 2º Marchese di Lavello: già
capitano di cavalli nella guerra del Tronto, poi Governatore e
Commissario generale in entrambe le Calabrie, Reggente della Vicaria,
Membro del supremo Consiglio Collaterale; padre di Giovanni, avuto
da Isabella di Guevara sua 1.ª moglie (già morto nel tempo del
quale trattiamo) e di Mario, avuto da Antonia Carafa della Spina
sua 2.ª moglie, che sposò il 1547 e che gli diede pure molti altri
figliuoli[70]. Egli rappresentava la casa al tempo in cui il Campanella
venne a Napoli: ed era molto innanzi negli anni e morì nel 1591.
2.º Mario del Tufo, secondogenito di Gio. Geronimo predetto: coll'aver
tolto in moglie Fulvia Persona era divenuto Barone di Matina in terra
d'Otranto; più tardi comprò anche Minervino e qualche altro feudo, onde
s'intitolò anche Barone di Minervino; ed ebbe dalla sua Fulvia Ascanio
e diversi altri figliuoli. Egli propriamente ospitava il Campanella,
come fu specificato in una deposizione che si ebbe nel processo
di eresia dibattuto in Napoli, mentre nel _Syntagma_ è accennato
confusamente là dove si parla di alcune opere scritte «in casa del
Marchese di Lavello, e col favore del figliuolo Mario del Tufo»[71].
Vedremo che a lui il Campanella dedicò la sua filosofia, con lui rimase
sempre in corrispondenza dirigendogli pure altre opere scritte altrove
più tardi, ed egli propriamente si trovò poi nominato qual complice
nella congiura.
3.º Gio. Geronimo del Tufo, che fu 4º Marchese di Lavello, e Signore
di Montemilone, nipote di Mario predetto, figlio di Giovanni del
Tufo 3º Marchese di Lavello e di Caterina Caracciolo sorella del
Duca d'Airola: costui fu Doganiere della Dogana di Puglia e poi
scrivano di razione, ma molto più tardi; aveva già nel 1588 sposato
Beatrice di Sangro figlia di Fabrizio Duca di Vietri[72]. Di questo
Fabrizio di Sangro avremo ancora a parlare ulteriormente, giacchè
egli pure fu creduto aderente alla congiura, come il Marchese Gio.
Geronimo, che vedremo anche carcerato più tardi, sempre perchè amico e
protettore del Campanella. E si avverta che costui propriamente era il
Marchese di Lavello di cui si faceva parola a' tempi della congiura,
essendo successo all'avo nel 1591, come si scorge da' Registri delle
_Significatorie de' Relevii_, che mostrano quella a lui spedita il 18
9bre di detto anno.
4.º Francesco o Ciccio del Tufo 5º Marchese di Lavello, figlio di Gio.
Geronimo: al tempo nel quale ci troviamo era giovanetto; successe
al padre nel 1607, come si scorge parimenti da' Registri delle
_Significatorie de' Relevii_, che mostrano quella a lui spedita il
28 9bre di tale anno. Avendo sposata Costanza Pappacoda figlia del
Marchese di Capurso, ne ebbe Giovanni 6º Marchese di Lavello; ma la
sua salute si alterò presto, e finì per essere dichiarato inabile ad
amministrare, mentre la sua moglie se ne viveva ritirata nel monastero
di Regina coeli «more nobilium» (14 genn.º 1629). Lo vedremo menzionato
in qualcuna delle lettere e delle opere del Campanella, implicato anche
in una circostanza della vita del filosofo non priva d'interesse, onde
tutte le date suddette, da noi laboriosamente raccolte, non debbono
punto credersi un vano lusso di erudizione.
5.º Geronimo del Tufo. Era figlio di Fabrizio del Tufo e Porzia
Muscettola, e sposò Costanza del Tufo sorella di Gio. Geronimo
sopranotato; non deve quindi confondersi con Gio. Geronimo. Fabrizio
suo padre discendeva da Paolo secondogenito di Giovanni Signore di
Lavello (non ancora era sorto il Marchesato), e tenne l'ufficio di
Governatore della provincia di Bari nel 1587-88, poi della provincia
di Calabria ultra con lettere patenti di Capitano a guerra nel
1595-96[73]. Vedremo Geronimo in carriera di Capitano di città
precisamente nelle Calabrie, e non solo nominato, ma carcerato qual
complice della congiura.
6.º Marcantonio del Tufo Vescovo di Mileto. Era figlio di Alfonso del
ramo de' Baroni di Frignano maggiore, e di Aurelia del Tufo sorella di
Fabrizio predetto, zio quindi di Geronimo del Tufo per parte di madre.
Fu creato Vescovo di S. Marco il 5 aprile 1585, e poi passò a Mileto,
in Calabria, il 21 8bre dello stesso anno: morì nel 1606. Al Campanella
non dovè riuscir difficile far la conoscenza di questo Vescovo, che
nella Narrazione pubblicata dal Capialbi chiamò suo «patrono». Egli
era superlativamente battagliero nelle quistioni giurisdizionali,
e naturalmente anche per tale motivo si trovò nominato nella
congiura[74].
Questi Signori del Tufo, come generalmente tutti i Signori di un
tempo, senza essere persone distinte per cultura aveano tuttavia
in molto pregio i buoni studii. Nella dedica della sua Filosofia a
Mario del Tufo il Campanella ci lasciò scritta questa circostanza
degna di menzione, che Bernardino Telesio fu «devotissimo» di Mario
e dell'inclito padre di lui; attestò inoltre l'ingegno fecondo del
Marchese Gio. Geronimo nella filosofia e nella poesia. Non può quindi
far meraviglia l'ottima accoglienza incontrata presso costoro dal
Campanella, il quale aveva già scritto in difesa del Telesio con un
ardore e una baldanza giovanile notevolissima, imprendeva allora a
compiere o a comporre altre opere filosofiche, e palesava la sua
dottrina già matura nelle dispute pubbliche e private. Per altro
abbiamo motivo di ritenere che in casa Del Tufo egli avesse l'ufficio
di precettore di qualche figliuolo di Mario, oltrechè del giovanetto
Francesco futuro Marchese. Mario era già sposo da un pezzo e più
volte padre in questo tempo: attendeva alla coltivazione delle difese
di Montemilone e di altri territorii; si portava frequentemente
fuori Napoli, anche per vegliare alla sua razza di cavalli, i quali
avremo occasione di vedere che molto spesso si godeva il Gran Duca di
Toscana[75]. Nel corso di questa narrazione c'imbatteremo in un caso
in cui il Campanella erroneamente si dolse di «un Marchese discepolo
ingrato», che fu senza dubbio Francesco del Tufo figlio di Gio.
Geronimo, e tutto induce a far credere che appunto in questo tempo
l'abbia avuto a discepolo.
Frattanto, per l'estesa parentela de' Del Tufo, il Campanella venne
a procurarsi ben presto la conoscenza anche di altri nobili molto
reputati. Abbiamo già avuta occasione di menzionare Fabrizio di
Sangro Duca di Vietri: non pare dubbio che egualmente in questo tempo
egli abbia conosciuto D. Lelio Orsini fratello di Ferdinando Duca di
Gravina, il quale D. Lelio divenne amico e protettore del Campanella
non meno de' Signori Del Tufo suoi parenti. Questa parentela era
abbastanza stretta, poichè lo zio di D. Lelio a nome Flaminio Orsini,
Signore di Solofra e Sorbo e Conte di Muro, avea sposato Lucrezia del
Tufo, e l'altro zio a nome Ostilio Orsini, il quale fu poi Signore
di Pomarico e Montescaglioso, sposò in seconde nozze Diana del Tufo,
entrambe figlie di Paolo del Tufo fratello del vecchio Marchese di
Lavello Gio. Geronimo, e lo stesso D. Lelio sposò Beatrice Orsini
figliuola del detto zio Flaminio e Lucrezia del Tufo. Avremo campo
di discorrere partitamente di ciascun di questi Signori: ma per ora
interessa piuttosto di fermarci sopra un'altra conoscenza non meno
importante fatta in questo tempo dal Campanella, vogliamo dire quella
del celebre Gio. Battista Della Porta, che influì abbastanza sull'animo
del filosofo, ispirandogli anche l'opera _De Sensu rerum et Magia_;
nella quale occasione ci conviene dir qualche cosa egualmente del
fratello di lui Gio. Vincenzo Della Porta, giacchè tutto induce a far
ritenere che il Campanella abbia conosciuto anche costui, e che costui
abbia avuta la sua parte d'influenza sul Campanella. Profitteremo
qui di diverse notizie rilevate da qualche scrittore meno consultato
ed anche da scritti rimasti finoggi inediti, massime intorno a Gio.
Vincenzo, poichè intorno a Gio. Battista abbiamo oramai una monografia
del prof. Fiorentino che ci dispensa dall'occuparcene a lungo[76].
Erano tre i fratelli Della Porta, di antico e distinto lignaggio e
di cultura ed erudizione maravigliose, Gio. Vincenzo, Gio. Battista e
Gio. Ferrante; parrebbe che un altro loro fratello a nome Francesco,
primogenito, fosse morto giovanotto. Figli di Nard'Antonio, dal 1541
Regio Scrivano degli atti delle cause civili della Vicaria, creati
tutt'insieme, unitamente al padre ed agli zii Francesco, Bartolomeo e
Gonnisalvo, familiari e domestici del Re di Spagna nel 1548, abitavano
alla piazza della Carità, in quella casa posta a sinistra della
Chiesa, dove da lungo tempo oramai si vede un albergo[77]. Tutti e
tre i fratelli erano amantissimi di lettere, e forse perchè Pitagorici
pregiavano grandemente la musica, fino ad aver tenuto a lungo in casa
loro Filippo di Monte, a que' tempi celebrato scrittore di musica; ma
gli amici notavano maliziosamente che nessuno di loro avea potuto mai
acquistare una buona intonazione nel canto. La loro casa fu sempre
il luogo di ritrovo dei letterati napoletani e forestieri, e mano
mano che ciascun fratello v'istituì qualche collezione, può dirsi che
dall'intera Italia, come dalla Francia, dalla Spagna, dal Belgio, dalla
Germania, dalla Polonia, non venivano uomini culti che non si dessero
premura di visitare Pozzuoli e di essere ricevuti in casa Della Porta,
non solo per le collezioni che vi si ammiravano, ma principalmente per
l'erudizione che vi si apprendeva; giacchè possedevano una Biblioteca
molto ricca, e non per semplice lusso, non essendovi volume che
non avessero percorso, ritenendone ogni parte con una prontezza che
facea stordire, sicchè erano gli arbitri di ogni quistione erudita.
Gio. Ferrante non visse a lungo: tra le cose curiose, che lasciò,
vi fu una notevole collezione di cristalli antichi, che passò in
altre mani, giacchè in fondo i Della Porta non erano molto ricchi, e
nelle curiosità, ne' libri e nelle ricerche, spendevano moltissimo.
Gio. Vincenzo, primo de' fratelli, additato per la sua magrezza,
era scrivano di mandamento, di una integrità del tutto eccezionale
a que' tempi, aborrendo da' così detti «guanti e paraguanti», parole
che esprimevano in modo civile un basso profitto: infaticabile nello
studio, dottissimo nelle lettere greche e latine, nella filosofia e
matematica, nella botanica, alchimia e medicina, era passionato cultore
in ispecie dell'antiquaria e dell'astrologia. Nell'antiquaria aveva
sceltissime collezioni di marmi e di medaglie, ed a questo titolo
teneva corrispondenza principalmente con Fulvio Orsini di Roma, avea
continue richieste di pareri e consigli, e riceveva frequentissime
visite dagli amatori, segnatamente dal Reggente Marthos di Gorostiola
che se ne dilettava moltissimo. Nell'astrologia era stato discepolo
di Giovanni da Bagnolo, pregiava assai Matteo de Solizio, ed era
amicissimo di Gio. Paolo Vernalione che lo visitava frequentemente: la
sua riputazione in tal genere di cose era colossale, molto superiore a
quella del fratello Gio. Battista, avendo composte infinite natività
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