Fra Tommaso Campanella, Vol. 1 - 30

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Paolo della Grotteria, fra Pietro Ponzio, fra Giuseppe Bitonto; il
solo fra Giuseppe Jatrinoli non fu preso, forse neanche cercato, e gli
stessi Giudici che vennero dopo ne ignorarono sempre il motivo. Prima
di tutti, fra Pietro di Stilo, come egli medesimo raccontò, fu preso
il 7 settembre nel suo convento; lo stesso Carlo di Paola, che prese
il Pizzoni e il Lauriana, unitamente con un Donato Antonio Mottola
carcerò fra Pietro, come risulta dagli Atti esistenti in Firenze; e
fra Pietro narrò pure di essere stato condotto dapprima alla Motta,
poi alla Roccella e a Castelvetere, quindi a Monteleone, da ultimo
a Squillace. Giunse a Squillace qualche giorno prima del Campanella;
vedremo infatti che fu quivi esaminato dal Visitatore e fra Cornelio
il giorno 13, poco prima che vi giungesse il Campanella col Petrolo,
e venne rinchiuso nelle carceri dette «il Carbone», delle quali si fa
parola anche in qualche documento esistente nel Grande Archivio[376].
Non conosciamo propriamente perchè fu condotto da Monteleone a
Squillace; ma forse dovè esservi un ordine dello Spinelli in questo
senso sia per tenere tutti i frati, ed anzi tutti gli ecclesiastici,
meglio custoditi, sia per tenerli tutti riuniti e pronti ad essere
inviati a Napoli, secondochè il Vicerè avea comandato. Quanto a
fra Paolo della Grotteria, egli fu preso un po' più tardi nel suo
convento di Grotteria da Ottavio Gagliardo, con questa particolarità
importantissima, che sulla sua persona fu trovata una lettera del
Campanella a Claudio Crispo, ed inoltre un libercolo manoscritto di
segreti e «più cose di forfanterie, e tra le altre ci era per andare
invisibile, et un altro capitolo per sciogliere l'huomeni e donne
ligate», come pure per non confessare alla corda[377]. La lettera
del Campanella parrebbe che fosse appunto quella scritta a' primi di
agosto, nella quale egli diceva che avrebbe desiderato parlare con gli
amici e che per questo avrebbe voluto recarsi a Pizzoni, ma perchè non
gli era stato scritto che quelli erano venuti, se ne asteneva, e vi si
sarebbe recato l'indomani laddove avesse saputo che fossero venuti,
non convenendo mutare stanza senza certo disegno perchè il mondo non
pensi a male etc. (se n'è parlato a pag. 203-204): era una lettera che
destava legittimi sospetti, e verosimilmente fra Paolo, cui si era dato
l'incarico di recarla da Stilo a Pizzoni, non si curò o non potè aver
modo di farla capitare al suo destino e non provvide nemmeno a farla
scomparire; essa fu data allo Xarava ed inserta nel processo della
congiura. Il libercolo manoscritto, contenendo cose superstiziose, fu
mandato a D. Carlo Ruffo e da costui passato a fra Cornelio, il quale
l'allegò al processo di eresia; fu molto notato in sèguito da taluni il
trovarvisi un segreto per non confessare alla corda, ma non c'era da
farne molto caso, mentre rappresenta una piccola parte di molte altre
goffaggini, e la corda doveva allora temersi da chiunque, non dai soli
frati nè per la sola causa della congiura. Veniamo a fra Pietro Ponzio.
Egli fu preso in Oppido, insieme col fratello Ferrante che sappiamo in
ufficio di Vice-Conte o governatore di Oppido, per mano di Scipione e
Marcello Silvestro e Pietro Paolo Salerno mandati da D. Carlo Ruffo,
il quale poi gli disse essere stato catturato perchè fratello di fra
Dionisio; e veramente egli non aveva altre colpe che questa parentela
ed un'affettuosa amicizia pel Campanella, ed intanto era stato fin da
principio denunziato come uno de' tre frati che menavano innanzi la
congiura. Inoltre fu preso anche fra Giuseppe Bitonto, e costui in
circostanze degne di nota. Fuggito dal convento di Condeianni dove
avea l'ufficio di Vicario, e portatosi in una vigna di Gio. Tommaso
Campo suo zio, nelle vicinanze di S. Giorgio, egli si era nascosto in
un pagliaio, vestito da secolare, fattasi radere la corona e crescere
la barba, ed armatosi di fucile e di pugnale. Ottavio Gagliardo, con
Muzio Barone e Gio. Domenico Rodino, lo presero in quel pagliaio,
«armato di scoppettuolo di tre palmi et un pugnale, et a tempo lo
volsero pigliare, volse rancare il pugnale», come si legge negli Atti
esistenti in Firenze. Vedremo più in là i particolari anche degli abiti
così del Bitonto, come del Campanella e del Petrolo, che furono i tre
frati fin qui presi in veste secolare; vedremo dippiù essere stati
presi pure alcuni altri frati, nè soltanto Domenicani, ma questi furono
di secondaria importanza, in numero anche più ristretto, e presi più
tardi, sicchè non occorre parlarne in questo momento.
Ecco ora il sèguito delle deposizioni che il Visitatore e fra
Cornelio raccolsero da taluni de' suddetti frati, giacchè non
poterono esaminarli tutti. — Il 14 settembre, recatisi a Squillace,
interrogarono dapprima fra Pietro di Stilo. Fra Pietro disse essere
stato avvertito da molti secolari che avrebbe sofferto grandi travagli
per causa del Campanella, ma non aver voluto fuggire perchè sentivasi
netto in coscienza, e dopo di avere esposte le sue antiche relazioni
col Campanella, quanto all'opinione che ne avea, rispose di tenerlo
«in alcune cose per bono et in alcune cose sceleratissimo» per quello
che avea «sentito dire». Ma qui si mossero a sdegno gli Inquisitori:
volevano che fra Pietro dichiarasse di aver udito dalla bocca del
Campanella le cose che doveva esporre (senza ancora sapere quali
esse fossero), e in fretta e furia ordinarono che venisse rinchiuso
in un carcere criminale «più strettamente e più duramente». Si
seppe in sèguito, quando egli venne in Napoli, che fu tenuto dieci
giorni in una «fossa» o «trapasso» come allora si diceva, e di là
fu fatto poi risalire di sopra «al Carbone»; si seppe pure che fin
da' giorni precedenti, mentre era nella carcere della Motta e poi
di Monteleone, gli erano state fatte minacce e lusinghe da D. Carlo
Ruffo e dal Castellano Ottavio Gagliardo, come pure da fra Cornelio
e dal Visitatore, il quale «pareva che dependesse da fra Cornelio», e
segnatamente a Squillace costui lo facea condurre innanzi a' Giudici
secolari e diceva loro «ve lo consegno per tre ore, fate di lui quel
che vi piace», e poi lo lusingavano con la promessa di una immediata
liberazione se avesse rivelato ciò che volevano, e gli assicuravano
che il Pizzoni era stato già liberato perchè avea parlato, e gli
consigliavano di confessarsi perchè l'indomani avrebbe avuto la
ruota, e il Visitatore lo eccitava a deporre liberamente cose di
S.^to Officio perchè a questo modo si poteva avere la remissione al
foro ecclesiastico. Fu quindi più volte richiamato ed inutilmente
interrogato tra le lusinghe e le minacce, senza che se ne fosse redatto
il processo verbale. Ma come mai fra Pietro potè qualificare così
prontamente il Campanella «in alcune cose sceleratissimo»? Passiamo
sopra alla parola, che potè essere adoperata da fra Cornelio invece
di qualche altra meno grave che fra Pietro ebbe a pronunziare; quanto
alla sostanza, si venne poi a conoscere che nelle carceri di Monteleone
egli ebbe modo di sapere qualche cosa dal Pizzoni, il quale gli
dovè certamente dire di aver rivelato molte cose di eresia, giusta
le sollecitazioni del Visitatore, per poter uscire dalle mani de'
giudici secolari; egli dunque si metteva parimente in siffatta via
(ma vedremo con quanta discrezione), se non che non poteva dichiarare
di aver udito cose di eresia dalla bocca del Campanella, senza
incorrere nella responsabilità di non averle rivelate alle Autorità
competenti, tanto più che trovavasi Vicario del convento in cui il
Campanella avea stanza. Ad ogni modo fra Pietro, il meno acceso, il più
quieto tra tutti, seppe dare egli solo un certo esempio di fortezza,
della quale si può intendere la misura considerando il terrore e la
demoralizzazione generale: fino all'ultimo fra Cornelio ebbe a dirgli,
«tu solo non puoi portare il carro, et si tu solo sarai pertinace, tu
solo morirai», ed egli seppe resistere a tante pressioni.
Nel giorno medesimo gl'Inquisitori interrogarono fra Domenico Petrolo,
e costui, secondo la natura sua, si mostrò in tutt'altro modo. Non
appena giunto al cospetto del Visitatore egli si gittò a terra e
disse, «Padre, non son degno di esser chiamato figlio tuo, ho peccato
verso Dio, chiedo misericordia, poichè ho offeso Dio gravemente»;
pure, dopo di aver dichiarato come era stato preso col Campanella in
abito secolare, essendo fuggito insieme da Stilo perchè fra Tommaso
fidava molto in lui, non volle spiegare il motivo per lo quale il
Campanella era fuggito; disse solo che la Corte era contro di lui e
che fra Dionisio glie l'avea avvertito, ma negò di saperne il motivo.
Ed allora gl'Inquisitori ordinarono, con la solita formola, che fosse
ricondotto in carcere e custodito «più strettamente e più duramente»;
ma egli li pregò che ripigliassero il suo esame, e subito ne venne
fuori una deposizione la quale certamente conteneva un po' più di
quello che egli poteva sapere[378]. Affermò che la Corte era contro
il Campanella, perchè costui «era mal christiano et havea opinioni
terribili et tentava rebellione». E poi enumerò le opinioni terribili:
diceva parergli essere stato eletto da Dio per predicare la verità e
togliere gli abusi della Chiesa di Dio, essere i Sacramenti per ragione
di Stato, non trovarsi il corpo di Cristo nell'ostia consacrata, non
doversi adorare il crocifisso, esser lecito il coito, non esser veri
i miracoli di Cristo, come l'ecclissi al tempo della passione non che
la resurrezione di Lazzaro, saper lui fare miracoli e volerli fare
in conferma della propria dottrina quando predicherebbe; inoltre non
esservi paradiso nè inferno, essere l'autorità del Papa usurpata, non
esservi Dio e la natura aver avuto il nome di Dio, non esservi Trinità,
non doversi osservare il precetto dell'astinenza dal mangiar carne
ne' giorni proibiti. Disse di aver udite tali cose dalla bocca del
Campanella, che ne parlava ancor più liberamente quando si trovava in
compagnia sua, di fra Pietro e di fra Dionisio, e spesso ne parlava
pure in presenza de' secolari, tra' quali i più intrinseci erano
Tiberio e Scipione Marullo, Fulvio Vua, Gio. Gregorio Prestinace,
Giulio Contestabile, Geronimo di Francesco, Giulio Presterà, Francesco
Vono, Fabrizio e Paolo Campanella, inoltre fra Scipione Politi
Conventuale. Affermò ancora di ritenere che fra Dionisio credesse a
quelle opinioni per certe parole dette in dispregio dell'ostia, e di
sospettare ancora di fra Pietro di Stilo, perchè una volta gli avea
detto esser bene che ciascun frate pigliasse moglie, e lui sentirsi
morire se non prendeva moglie. Quanto al Pizzoni, lo conosceva per
amico intrinseco del Campanella, e sapeva che si scrivevano lettere in
cifra le quali egli avea vedute, inoltre una volta que' due andarono
insieme ad Arena, e per tutto ciò lo riteneva aderente alle opinioni
del Campanella. Infine interrogato intorno alla mutazione di Stato che
il Campanella procurava nella provincia, palesò la predica fatta da
fra Tommaso intorno alle mutazioni da dover accadere nel 1600, e le
profezie alle quali si appoggiava, e il disegno di mutare la provincia
in repubblica servendosi della lingua e delle armi de' banditi e
del Turco; aggiunse che non volea predicar solo, ma anche con altri,
facendo gran capitale del Pizzoni, di fra Dionisio, di fra Pietro di
Stilo, ed ancora di lui fra Domenico Petrolo! Aggiunse inoltre che
avea mandato presso Morat Rais Maurizio, il quale avea trattato la
venuta dell'armata ed avuti per questo albarani del Turco, siccome
seppe allorchè stavano con fra Tommaso presso il Mesuraca; che fra
Dionisio trattava di far ribellare Catanzaro e il Campanella Stilo
con altri luoghi, e che non erano a sua conoscenza altri fuorusciti
aderenti eccetto Maurizio, mentre de' frati sapeva che erano pure molto
amici del Campanella fra Paolo della Grotteria, fra Giuseppe Jatrinoli
e fra Giuseppe Bitonto. Al solito, ebbe in ultimo a dichiarare di
non aver deposto per timore del carcere «ma per zelo della fede e di
Dio». — Fu questa la deposizione del Petrolo, la quale abbiamo voluto
riportare con una certa larghezza, perchè associata alle precedenti del
Pizzoni, del Soldaniero e del Lauriana, consolidò la base del processo
ecclesiastico. Certamente è notevole la specchiata concordanza di tutte
queste deposizioni; ma se da ciò si può inferire che la massa delle
cose deposte dovè esser vera, si può anche inferire che vi dovè essere
un solo suggeritore per tutti i deponenti. E qui si vede in modo non
dubbio l'efficacia del suggeritore, poichè il Petrolo, avvilito, si
lasciò condurre fino a nominare sè medesimo tra coloro i quali doveano
predicare la libertà. Senza dubbio, specialmente dal lato dell'eresia,
egli disse più di quanto conosceva: si seppe in sèguito che mentre era
per rientrare in carcere dietro l'ordine dato dagl'Inquisitori, fra
Cornelio lo ritirò da parte e gli lesse l'esame del Pizzoni, come pure
che erano presenti al suo interrogatorio il Provinciale, l'Avvocato
fiscale e il Capitano di campagna, e che non si scrisse precisamente
così come egli rispose alle interrogazioni. Ma pur troppo l'esame da
lui sottoscritto potè poi essere spiegato meglio in qualche punto, non
già disdetto, anche perchè in questo caso s'incorreva nell'imputazione
di falsa testimonianza; e per tal modo rimaneva ognuno illaqueato
senza via d'uscita. Del rimanente il Petrolo si fece sempre a negare
la sua partecipazione all'eresia, dicendo, «in altro son grandissimo
peccatore, ma contro la fede non ho peccato»; e in che dunque egli era
peccatore, e per quale peccato egli chiedeva spontaneamente perdono
agl'Inquisitori fin dal principio del suo esame? Tolta di mezzo la
faccenda dell'eresia, non rimane altro che la faccenda della congiura.
Dopo il 14 settembre gl'Inquisitori sospesero le loro operazioni e non
interrogarono il Campanella. Ignoriamo il motivo di questo fatto: forse
volevano avere in precedenza la deposizione di fra Pietro di Stilo e
sperarono di averla da un giorno all'altro, ma inutilmente; forse lo
Spinelli, malgrado la buona corrispondenza degl'Inquisitori, ottenuta
la Dichiarazione scritta dal Campanella, temè che questa potesse da
un esame verbale riuscire invalidata in qualche punto, e vedremo
che si diè invece ad insistere presso il Vicerè perchè si venisse
con lui a tortura senza perdita di tempo. Intanto il 17 settembre il
Card.^l di S.^ta Severina inviava una lettera importantissima a fra
Cornelio, con la quale, comunicandogli una deliberazione presa dalla
Congregazione del S.^to Officio dietro le lettere di lui intorno alle
cose di Calabria, gli annunziava di avere scritto, per ordine di Sua
Beatitudine, al Governatore della provincia ed a' Vescovi di Catanzaro
e di Squillace, che procurassero con ogni diligenza la cattura del
Campanella, di fra Dionisio ed altri suoi complici (s'ignorava in
Roma a quel tempo trovarsi il Campanella già carcerato), con questa
aggiunta, «et seguendo la carceratione del Campanella, la Santità Sua
hà ordinato, che si faccia condurre in Napoli sicuramente in mano di
Monsignor Nuntio, che poi appresso si deliberarà della persona sua».
Gli significava inoltre che mandasse la copia delle informazioni prese
circa le eresie, e che occorrendo di dover prendere altre informazioni
lo facesse unitamente co' Vescovi de' luoghi ne' quali si aveva ad
esaminare, con ogni «secretezza e diligenza»: Questa lettera insieme
con due altre (sicuramente le lettere pe' due Vescovi) non giunse che
il 2 ottobre a fra Cornelio, la cui residenza non era ben nota in Roma;
con ogni probabilità giunse anche prima quella pel Governatore, e così
lo Spinelli e fra Cornelio doverono conoscere la deliberazione di Roma
avanti il 2 ottobre, restandone naturalmente ben poco contenti. Senza
dubbio in Roma, dove si sapevano appieno gli odii feroci e le azioni
delittuose de' frati Domenicani, massimamente di Calabria, non si era
punto sicuri che tutto procedesse in regola, e si voleva una migliore
guarentigia dell'onesto andamento delle Informazioni. Grande era
difatti la cura che in ciò metteva il S.^to Officio, almeno in Italia,
dove le cose non procedevano come p. es. in Ispagna: possono ritenere
il contrario soltanto coloro i quali non hanno alcuna conoscenza degli
Atti di questo tribunale, che vuol'essere giudicato col confronto de'
procedimenti de' tribunali laici in analoghe condizioni, vale a dire
nel trattare de' delitti di lesa Maestà, mentre il concetto del S.^to
Officio era quello di trattare de' delitti di lesa Maestà Divina. Le
lettere medesime scritte da fra Cornelio al P.^e Generale e al Card.^l
di S.^ta Severina doverono per la loro virulenza contribuire a mettere
in sospetto la Sacra Congregazione; ed anche circa la faccenda della
congiura si vide il Papa, mediante il Card.^l Segretario di Stato
Cinzio Aldobrandini, come già fin da principio (20 agosto), del pari e
sempre più in sèguito (26 settembre), esigere che la causa dei frati e
clerici imputati si facesse «per rispetti gravi più tosto in Napoli»
con l'intervento del Nunzio, ricevendoli il Nunzio «come prigioni
suoi»[379]. Ebbe dunque allora il Campanella un qualche aiuto dal S.^to
Officio e dalla Curia Romana: se non che fra Cornelio, solleticato
pure dalla speranza d'ingrandirsi sulle miserie dei frati, non lasciò
così facilmente la preda, ed attese al miglior modo di servirsi della
licenza rimastagli di procedere ad altre Informazioni unitamente co'
Vescovi. Non potè più interrogare il Campanella, il quale perciò non
ebbe a trovarsi innanzi a Giudici se non quando venne condotto in
Napoli; potè bensi travagliare ancora gli altri frati e perfino taluni
clerici, aggravando sempre più le condizioni del Campanella e di fra
Dionisio; ma dovè passare un po' di tempo, durante il quale vi fu una
tregua nel processo ecclesiastico.
III. Facciamoci intanto a vedere le mosse ulteriori dello
Spinelli[380]. Conosciuta la cattura di fra Tommaso, con una sua lunga
lettera in data 8 settembre egli annunciava al Vicerè di aver avuto
già questo «capo principale della sedizione e un altro compagno suo
della sua fazione e setta», oltre all'essersi assicurato subito della
maggior parte di quelli che fra Dionisio avea nominati e i due primi
rivelanti aveano atteso a scovrire per ordine dell'Avvocato fiscale;
nè era chiusa per anco la sua relazione, che poteva annunziare di
più la consegna allora allora fattagli da Gio. Geronimo Morano di
Claudio Crispo, in cui potere si erano trovate due lettere «che
verificavano le altre tre avute da' primi rivelanti», con la speranza
che gli confesserebbe molte cose essendo amico e compagno di Maurizio.
Diceva essersi avuto fra Tommaso «per mezzo e diligenza» del Principe
della Roccella «suo nipote» e di un vassallo di lui, al quale era
stato promesso, secondochè pure avea promesso il detto Principe, il
guiderdone per un servizio tanto segnalato. Ed essendosi raccolto che
il Campanella non cercava di fuggirsene a Roma, mostravasi persuaso che
nella congiura non c'era la volontà del Papa «come egli e fra Dionisio
andavano pubblicando»; tuttavia affermava che se la congiura non fosse
stata scoverta ed impedita in tempo, era per succederne molto danno.
Mostrava anche di ritenere che S. E. avrebbe comandato di assicurarsi
della persona di Mario del Tufo nominato dal Campanella, sebbene egli,
lo Spinelli, non l'avesse «posto in iscritto», mentre pure gli veniva
nominato da altra parte; e faceva inoltre notare che fra Dionisio
aveva nominato a' rivelanti anche il Marchese di S.^to Lucido, di cui
Maurizio avrebbe avuto tre lettere. Quanto poi a' Vescovi non gli era
riuscito di sapere nulla più di ciò che fra Dionisio aveva comunicato
a' due rivelanti, eccetto alcune parole che il Vescovo di Mileto si
era lasciato dire e che l'Avvocato fiscale avea già riferite a S. E.
«non per anco poste in iscritto», ma da porsi «con molta brevità e in
quella maniera» che S. E. avea ordinato (d'onde si vede che lo Xarava
tenea del pari corrispondenza col Vicerè, e ne' punti più scabrosi
procedevasi con grande riserva, prendendo parte il Vicerè medesimo
alla formazione del processo); riferiva pure il braccio datogli dal
Visitatore, e rivelava il merito di D. Carlo Ruffo suo «parente», che
avea preso due frati della stessa setta (il Pizzoni e il Lauriana),
e che aveva atteso ed attendeva a quel negozio con tanta diligenza
ed accuratezza da sperare di raggiungere per mezzo suo buona parte
dell'effetto di questo servizio, e per dargli più animo supplicava S.
E. che restasse servita di scrivere tanto a lui quanto al Principe suo
nipote, riconoscendo loro i servizii prestati (così questa volta egli
cominciava senza ritardo a giustificare la qualità attribuitagli, _in
suos munificus_). Faceva inoltre conoscere di aver inviato l'Avvocato
fiscale per tradurre il Campanella da Castelvetere, e per assicurarsi,
cammin facendo, de' parenti di lui e degli altri de' quali udirebbe
il nome, avendo cominciato a dirli, «prima che se ne penta» (ciò che
mostra lo Spinelli malizioso per lo meno quanto lo Xarava). Aggiungeva
di aver fatto già trarre in arresto i denunzianti tardivi di Catanzaro
e partecipava le buone speranze di avere nelle mani Maurizio e tutti
gli altri, pe' molti provvedimenti e le molte intelligenze prese,
manifestando che non si farebbe a promettere indulti, se non in caso
di grande necessità e di segnalato servizio, quando non si potesse
fare diversamente; ed offrendosi a dimandarli altri che non fossero
inquisiti di tal delitto, per presentare quelli che lo fossero,
lo concederebbe più facilmente «a fine di non indultare complici»
(veggasi dunque se Maurizio poteva sperare un indulto). E dubitando
che, dietro la cattura del Campanella, procurerebbero di mettersi in
salvo molti che non si sapevano, «e potrebb'essere anche dei Vescovi
stati nominati», avea posto nel mare di ponente due feluche, le quali
scorrendo per quelle marine impedissero la fuga dei colpevoli (d'onde
si vede che egli eccettuava appena il Papa, ma avrebbe voluto nelle
sue mani tanto i Nobili che i Vescovi). Infine mandava a S. E. la
lista di coloro che erano stati carcerati fino a quel momento. La
lista comprendeva 34 persone d'ogni ceto; Nobili distinti, come il
Barone di Cropani e Geronimo del Tufo; altri Nobili e particolari quasi
tutti Catanzaresi, tra' quali due catturati in abito di pellegrini,
quattro su' cinque denunzianti tardivi, compreso il Franza e con lui
pure il Cordova, inoltre i due Moretti di Terranova (già studenti del
Campanella) e Claudio Crispo fuoruscito; finalmente frati, il Pizzoni
e il Lauriana carcerati in Monteleone, il Campanella e il Petrolo
a quella data tuttora in Castelvetere. Evidentemente in circa dieci
giorni si era fatto molto.
In sèguito, il 13 settembre, tradotto il Campanella col Petrolo a
Squillace, ed avuta conoscenza della sua Dichiarazione scritta, egli
cercò subito di sapere qualche altra cosa da lui; ma non vi riuscì,
ed anzi ebbe a sentirsi negare che avesse nominato Mario del Tufo
quale aderente alla congiura. Mandò allora al Vicerè, in data del
14, un'altra sua lettera, unendovi una copia della Dichiarazione del
Campanella, e in pari tempo una 2.ª copia dell'Informazione presa
dal Visitatore e da fra Cornelio, per la quale risultava non solo
comprovata la congiura, ma anche posta in luce la eresia; nè si
rimase dal profittare di quest'ultima circostanza, per tentare di
far accrescere l'ingerenza del Governo contro i frati, che già erano
quasi tutti in suo potere[381]. Difatti, nella sua lettera, dopo di
avere informato il Vicerè dell'arrivo del Campanella a Squillace,
e dell'intento che avea di seminare e introdurre eresie, provato
coll'Informazione presa dal Visitatore, «mercè il cui aiuto e buona
corrispondenza si erano carcerati e si andavano carcerando gli altri
frati compagni ed intrinseci del Campanella» (vale a dire fra Pietro
di Stilo, fra Paolo della Grotteria, fra Pietro Ponzio), egli subito
esprimeva la sua opinione, che contro di loro «sarebbe molto necessario
potersi qui procedere a tortura, perchè senza di essa non si potrà
chiarire nè provare il danno che il detto Campanella ha prodotto nelle
genti di queste parti, persuadendo ed insegnando loro cose ed opinioni
tanto abominevoli, secondo che egli credeva e cercava d'insinuare; e
stando in quel concetto in cui i popoli lo tenevano, con tanto grande
applauso e sèguito, si può per questo credere che abbia fatto qualche
danno con la sua falsa dottrina, avendo in sì poco tempo ridotto
tanti a sua devozione». Sottometteva quindi a S. E., che «si potrebbe
procurare il braccio di Sua Santità o Inquisizione, per procedere
qui come alcuni anni dietro si è fatto in Reggio e S.^ta Agata, dove,
essendo stata scoverta una certa setta di eresia, s'inviò il Dottor
Panza, il quale coll'intervento di un Commissario Apostolico procedè
all'estirpazione e gastigo degli eretici». Poi annunziava le altre
catture fatte e le ulteriori notizie raccolte anche co' tormenti
cominciati a darsi, i provvedimenti adottati in particolare contro
Maurizio fuggiasco e qualche altro provvedimento da potersi adottare,
ed oltracciò la comparsa de' primi legni turchi e poi di tutta l'armata
nemica. — Le cose, come ben si vede, s'intralciano sempre più, in modo
da non poterle narrare che partitamente, e serbando per quanto si può
l'ordine dato ad esse dallo Spinelli nel riferirle.
Abbiamo visto che già agli 8 settembre vi erano 34 carcerati, e, fra
essi, quattro su' cinque denunzianti tardivi; in sèguito fu preso
anche l'altro. Francesco Striveri e Gio. Tommaso di Franza furono
i primi ad essere catturati e vennero tradotti a Squillace con gli
altri; Mario Flaccavento fu preso in Catanzaro, e così pure Gio.
Battista Sanseverino, che stava già confinato in casa con pleggeria
d'ordine dell'Audienza per altra causa; infine fu preso ancora Gio.
Tommaso Striveri che si era nascosto, ma fu preso più tardi, dopo Gio.
Paolo di Cordova, e può ritenersi per certo che tutti costoro furono
tradotti del pari a Squillace. Come si legge nella relazione mandata
dallo Spinelli il 14, fin allora si era assicurato degl'individui
sospetti e nominati «così da fra Dionisio come dal Campanella», e
tra essi aveva avuti quattro fuorusciti di quelli che andavano in
compagnia loro e trattavano coi detti frati di far la massa di gente»,
a uno de' quali, trovato con lettere del Campanella, si era data la
corda nella notte passata ed avea confessato. Questo tale si capisce
facilmente che era Claudio Crispo; gli altri, come è manifesto dalla
qualità indicata di accompagnatori de' frati, ed anche dall'ordine
con cui si trovano nominati ne' folii del processo, dovevano essere:
Cesare Mileri, che non sappiamo da chi fosse stato preso, Cesare
Pisano, che non era veramente fuoruscito ma già colpito da cattura
per reato comune, e che dovè perciò passare dalle carceri del Principe
della Roccella a quelle del Governo, infine Gio. Tommaso Caccìa, che
sappiamo essere stato preso da Giulio Soldaniero, il quale inaugurò
con lui l'adempimento dell'obbligo assunto di presentare i congiurati
per meritarsi l'indulto. Dippiù, come annunziava del pari lo Spinelli,
erano stati carcerati tutti i parenti e gli amici stretti di Maurizio,
perchè, col timore della dimostrazione che si facea, si potesse avere
qualche lume intorno a lui e prenderlo; si era per altro ricorso
anche a' provvedimenti straordinarii di citarlo a comparire col
termine di quattro giorni, entro i quali non presentandosi sarebbe
stato dichiarato forgiudicato, traditore e ribelle a S. M.^tà, e si
sarebbe proceduto alla confisca de' beni, mentre al tempo stesso si era
pubblicato Bando, che niuno gli desse ricetto ed aiuto, e tenendone
notizia si dovesse farne rivelazione, imponendosi pena di morte
naturale e confisca di beni a' contravventori. Per finirla intorno
a' provvedimenti riputati opportuni, bisogna pure aggiungere che lo
Spinelli faceva conoscere al Vicerè, avere D. Carlo Ruffo «scoverto
da un frate carcerato nel Castello di Monteleone» che D. Lelio Orsini
aveva inviato e teneva nella provincia di Basilicata un fra Gregorio
di Nicastro, della stessa Religione e del partito e pratica del
Campanella, che andava facendo l'ufficio medesimo dell'adunar gente in
quella provincia, e per averlo nelle mani proponeva una Commissione
contro fuorusciti al detto D. Carlo. Ma ricordiamo che il fatto si
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