Fra Tommaso Campanella, Vol. 1 - 27

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Calabria, fra gli altri un Carlo Logoteta, come a suo tempo vedremo.
De' Commissionati conosciamo più d'uno e d'ogni risma, da' semplici
così detti gentiluomini, quali un Gio. Battista Carlino e uno Scipione
Silvestro, fino a' Nobili più o meno distinti, quali un Gio. Geronimo
Morano fratello del Barone di Gagliato, ed anche D. Carlo Ruffo Barone
di Bagnara, che era parente dello Spinelli ed ebbe poi per questi
suoi servigi il titolo di Duca, divenendo il capo-stipite de' Duchi
di Bagnara; quest'ultimo facevasi chiamare piuttosto «locotenente di
Carlo Spinelli», ma siffatta parola più pomposa non esprimeva altro che
una commissione avuta, e in qualche documento egli è detto nè più nè
meno che «Commissionato»[339]. Vi furono d'altra parte diversi Nobili
già titolati e di prim'ordine, che si distinsero specialmente per
l'operosità spiegata contro l'attesa incursione dell'armata turca, e
taluno di loro anche contro le persone de' fuggitivi, come il Principe
della Roccella, il Principe di Scilla, il Principe di Scalèa, che erano
pure tutti parenti dello Spinelli. Non sarà inutile qualche cenno
intorno a costoro. — Il Principe di Scalèa era Francesco Spinelli,
nipote di Carlo che avea sposato D.ª Maria Spinelli, figliuolo di
Gio. Battista e di Caterina Pignatelli. Capitano di una compagnia di
gente d'arme, che trovavasi di guarnigione appunto in Calabria, era
perciò stipendiato dalla R.ª Corte come allora si diceva[340]: lo
vedremo assistere di persona nelle mosse che si fecero lungo la costa
a fronte dell'armata turca, con cavalli e fanti dello Stato suo, oltre
quelli della sua compagnia, avendo del resto sempre agito in tal modo,
al pari di tutti gli altri Nobili che possedevano Stati in quelle
provincie, tanto che si conosce averne poi miseramente incontrata la
morte nell'anno successivo. Il Principe di Scilla (spagnolescamente
Sciglio) era Vincenzo Ruffo, parente di Carlo Spinelli poichè figlio
di Marcello e Giovanna Benavides de Alarcon, il quale Marcello era
secondogenito di Paolo Ruffo 6.º Conte di Sinopoli e Caterina Spinelli
figlia di Carlo 1.º Conte di Seminara: egli era divenuto Principe
nel 1591, sposando la sua cugina Maria Ruffo Contessa di Nicotera e
Principessa di Scilla, figlia di Fabrizio, che fu il 1.º Principe di
Scilla[341]. Abbiamo già avuta occasione di dire che in questo momento
trovavasi scomunicato dal Vescovo di Mileto: egli teneva sempre 600 de'
suoi vassalli pronti ad opporsi al Turco ove il bisogno lo richiedesse;
vedremo che naturalmente in questa occasione non mancò di presentarsi
con la maggiore premura e n'ebbe i più caldi elogi. — Il Principe della
Roccella era Fabrizio Carafa, nipote di Carlo Spinelli, perchè figlio
di Girolamo Marchese di Castelvetere e di Livia Spinelli: s'intitolava
4.º Conte della Grotteria, 3.º Marchese di Castelvetere e 1.º Principe
della Roccella, avendo avuto quest'ultimo titolo nel 1594, nel quale
anno co' suoi vassalli si difese strenuamente contro il Cicala nel
forte di Castelvetere. Questa volta il suo zelo non si spiegò contro il
Turco, ma contro il Campanella, verso il quale avea pure già mostrato
benevolenza, ammirandone qualche lavoro e fra gli altri la tragedia
intitolata Maria Regina di Scozia: vedremo infatti, che accompagnò
veramente lo Spinelli nelle mosse contro il Turco ma senza gente
armata, e si distinse invece promovendo la cattura del Campanella,
denunziando i rapporti di lui col Pisano e poi venendosene a Napoli
con lo Spinelli, su quelle medesime galere che portavano il filosofo
e tutti gli altri imputati in catene. L'Aldimari, che scrisse non meno
di tre volumi in folio sulla famiglia Carafa, ce ne diè l'effigie, che
lo rivela gaudente ed utilitario, e ci lasciò scritto come fosse tutto
occupato nell'ingrandimento della sua casa; difatti la pose di poi in
isfoggio e splendore anche in Napoli, dove fabbricò quel palazzo che
tuttora si vede nella strada Trinità maggiore allora detta strada di
Nido, sulle antiche case di D. Andrea Matteo d'Acquaviva Principe di
Caserta, ed in sèguito il figliuolo Carlo, Vescovo di Aversa e Nunzio
in Germania, vi fabbricò pure il palazzo tanto celebrato sulla riva
del mare[342]. — Veniamo al Barone di Bagnara D. Carlo Ruffo, figlio
di Jacovo e di D.ª Ippolita Spinelli, della linea di Esaù e Nicola
Antonio Ruffo, successo a suo padre fin dal 3 marzo 1582. Era anch'egli
parente di Carlo Spinelli per via della madre; apparteneva ad una
famiglia di nobiltà notevole, ma non godeva una posizione finanziaria
molto brillante. Teneva l'ufficio di Vice-Duca nello Stato del Duca
di Monteleone Ettore Pignatelli, e si faceva raccomandare dalla Corte
di Roma per mezzo del Nunzio, come era frequente e tristo vezzo di
quella Corte, perchè il Vicerè gli favorisse qualche impiego; d'altra
parte il Vicerè ebbe una volta ad ordinare un'Informazione contro di
lui specialmente per contrabbandi ed anche per aggravii e delitti;
questo ci risulta da documenti che abbiamo rinvenuti nel Carteggio
del Nunzio e nell'Archivio di Stato[343]. Naturalmente non mancò di
cogliere l'occasione che gli si offriva, per inaugurare il sistema
d'ingrandirsi sulle sciagure del proprio paese; e vedremo che Carlo
Spinelli cercò di favorirlo per ogni verso, anche con la menzogna,
ed egli segnatamente verso i frati si mostrò un aguzzino de' più
petulanti. — Ci rimane a dire di Gio. Geronimo Morano, che già abbiamo
avuta occasione di nominare a proposito delle fazioni di Catanzaro.
Era costui di nobile famiglia residente in Catanzaro ma proveniente
da Stilo, donde emigrò il suo avo dello stesso nome Gio. Geronimo,
come abbiamo rilevato da ricerche fatte nel Grande Archivio[344];
ed appunto nel territorio di Stilo la sua famiglia possedeva un
gran feudo detto Burgli russi o Burgorusso sulla marina tra Stilo e
Guardavalle, ereditato per via di donne da Francesca Connestavolo ossia
Contestabile di Stilo, oltre la Baronia di Gagliato già del Principe
di Squillace, acquistata da Carlo Alfonso Morano e da costui ceduta al
fratello Gio. Geronimo seniore nel 1543[345]. Gio. Geronimo iuniore,
di cui qui trattiamo, era secondogenito di Gio. Antonio, e quindi
fratello di Gio. Battista Barone di Gagliato, il quale era morto nel
1594, lasciando una figliuola a nome Camilla e la vedova Anna Sances
nata di Loise Sances fratello del Marchese di Grottola[346]; nè si
creda questo un vano lusso di erudizione, mentre invece il Campanella
medesimo ha rese indispensabili tali noiose ricerche, coll'aver messo
innanzi, nella sua Narrazione, la parentela del Morano co' Sances, la
figlia unica del Barone di Gagliato, il progetto di matrimonio di essa
con un figlio del Morano ed anche il desiderio di un certo feudo, per
ispiegare la persecuzione ed anzi la morte data a Maurizio de Rinaldis.
Adunque la famiglia Morano era molto ricca, e lo stesso Gio. Geronimo
trovavasi in buone condizioni, poichè oltre la così detta vita-milizia,
cioè l'assegno di secondogenito, egli possedeva beni fideicommissati
rimastigli dall'avo, ma si era già fatto notare per una colpevole
avidità in beneficio della famiglia; se n'ha la prova in un documento
rinvenuto nel Grande Archivio, dal quale si rileva che il Vicerè si
era visto nell'obbligo di domandar conto alla R.ª Audienza di Catanzaro
del prezzo esorbitante pagato per una casa del Barone di Gagliato, che
Gio. Geronimo, essendo Sindaco della città, aveva acquistato in nome
di essa per provvedere di residenza il tribunale[347]. Conoscitore de'
luoghi e delle persone di Stilo e suoi casali, vedremo che egli si pose
a perseguitare i principali incolpati, e cavalcando giorno e notte ebbe
il tristo merito di raggiungerli con molta soddisfazione dello Spinelli
e del Vicerè.
Ma un aiuto ancor più rilevante trovò il Governo nel Visitatore fra
Marco di Marcianise e nel compagno di lui fra Cornelio di Nizza, i
quali istituirono contemporaneamente con lo Spinelli e Xarava una
gravissima Inquisizione, com'era nel loro dritto ed anche nel loro
dovere, se non che la istituirono con una compiacenza estrema verso
gli ufficiali Regii e co' più iniqui maneggi suggeriti dagli odii
frateschi, ciechi ed interessati, segnatamente contro fra Dionisio e
di rimbalzo contro il Campanella. Abbracciando le cose di eresia ed
anche le cose della congiura, essi formarono un processo terribile, e
spinsero la compiacenza al punto da tollerarvi l'ingerenza illecita
degli ufficiali Regii e da comunicar loro ogni cosa; basta dire che
rilasciarono perfino una copia legale de' primi e più gravi atti
di un processo d'Inquisizione, i quali per tal modo giunsero al
Vicerè in Napoli, e da costui furono mandati al Re in Ispagna, dove
ancora oggi possono leggersi tra le carte conservate in Simancas.
Naturalmente riuscirono così favorite fuor di misura le investigazioni
governative, agevolate le catture de' frati ritenuti colpevoli,
ribadite le atroci accuse: laonde bene a ragione lo Spinelli ebbe a
lodarsene grandemente, per quanto ebbe a lamentarsene il Campanella,
che da questo lato può dirsi davvero non essersi lamentato abbastanza.
Difatti, scagliandosi contro fra Cornelio, nell'Informazione egli disse
che il Visitatore era «huomo buono ma ingannato... che stava _tanquam
idolum et pastor_»; ma se è certo che lasciò fare anche troppo a fra
Cornelio, è certo egualmente che non perciò si astenne dalle violenze,
dalle improntitudini e dagl'inganni, servendo «per niente con zelo»
come disse il medesimo Campanella nella Narrazione, ma «_non sine
scientia_». — C'incombe qui il debito di parlare del processo formato
da costoro, mettendo da parte per ora quello formato dallo Spinelli e
Xarava; poichè entrambi i processi furono iniziati appena con un giorno
d'intervallo, e menati innanzi parallelamente, ond'è che bisogna dar
conto di entrambi al tempo medesimo.
II. Nel dover parlare del processo ecclesiastico di Calabria, conviene
cominciare dagli antecedenti di esso che si tennero segreti, per poi
passare ad esporne gli Atti quali furono distesi, commentandoli con
ciò che venne a sapersene in sèguito. Negli antecedenti, come è facile
capire, figurano i due Polistina legati a fra Cornelio, concordi
nell'odio contro fra Dionisio e gli amici suoi: de' due Polistina
figura veramente molto più fra Domenico, ma solo perchè egli era il
Procuratore di fra Gio. Battista, e fra Gio. Battista, avendo avuto
quel lungo processo per l'assassinio del Provinciale P.^e Pietro
Ponzio, non poteva agire che copertamente; del resto troveremo anche
lui abbastanza in mostra qualche volta. I procedimenti di costoro si
rilevano non solo da quanto dissero poi in Napoli gl'infelici carcerati
sottratti a' terrori di Calabria, ma anche da' Sommarii autentici di
tutto il processo di eresia, compilati più tardi in Roma ed egualmente
in Napoli, dove si trovano registrati i sunti delle lettere che fin
dalla metà di agosto fra Cornelio scriveva al Generale dell'Ordine e
poi al Card.^l di S.^ta Severina sommo Inquisitore in Roma, come pure i
sunti delle dichiarazioni da lui fatte in sèguito al Vescovo di Termoli
in Napoli, e delle deposizioni fatte in Roma quando il S.^to Officio
volle interrogarlo sul modo in cui era stato condotto il processo;
ed ecco i particolari di questo importante momento. — Ricordiamo
che fra Domenico di Polistina verso l'8 o il 9 agosto avea avuto un
incontro col Campanella in Davoli, e di là, minacciato da' fuorusciti
che si trovavano nel convento, s'era portato subito a Soriano presso
il Soldaniero, il quale, secondo lui, impietosito per la paura a cui
lo vedeva in preda, gli raccontò i maneggi di fra Dionisio, le eresie
che costui professava e la ribellione che promoveva sotto gli auspicii
del Campanella. Il Polistina si recò allora immediatamente presso fra
Cornelio, che si trovava col Visitatore in Catanzaro, e gli raccontò
ogni cosa. Senza perdita di tempo, il 14 agosto, fra Cornelio scrisse
al Generale, vale a dire al P.^e Ippolito Beccaria, di aver saputo «da
un certo nobile» le eresie del Campanella, il quale si era fatto capo
de' banditi in Stilo e diceva le cose de' Cristiani esser baie, che
nel mese allora scorso, stando in compagnia di certi banditi, aveva
indotto uno di loro a compiere un lurido fatto in dispregio dell'ostia
consacrata, che diceva poter risuscitare morti, pigliar città, far
comparire diavoli, che volea predicare nuova legge e già distribuiva
le città e le signorie a que' suoi banditi, che due mesi prima avea
mandato due di loro presso il Gran Turco per chiedere aiuto, e che
parecchi erano complici in quel trattato, in ispecie fra Dionisio.
Con altre lettere consecutive scrisse di aver udito che il Campanella
predicava la libertà mescolando le cose della fede, e diceva che
la vera fede non era stata ancora intesa, e sarebbe stata in breve
predicata da lui, che infine tutta la città di Stilo era imbevuta
de' suoi dogmi. Ma quando alcuni mesi dopo venne in Roma interrogato
su ciò che avea scritto, confessò che fra Domenico da Polistina fu
il primo a dargli notizia delle eresie del Campanella, narrando le
escursioni fatte da quel frate a Davoli, poi a Soriano, e da ultimo a
Catanzaro «tra il 10 e il 14 agosto»; confessò inoltre che alla data
in cui scrisse la sua prima lettera, non avea veramente visto ancora
quel nobile, il quale era Giulio Soldaniero, ma era stato assicurato
da fra Domenico che di certo gli avrebbe parlato e gli avrebbe detto
maggiori cose. E nel doversi recare a Roma, parlando in Napoli col
Vescovo di Termoli, gli avea pure manifestato che il primo a rivelargli
la faccenda della ribellione era stato un giovane a 20 anni, per nome
Fabio di Lauro[348]: onde apparisce che egli dovè mettersi in relazione
co' denunzianti della congiura, senza dubbio per mezzo del medesimo
Polistina e dietro un colloquio con lo Xarava. Aggiungasi che scrisse
pure al Card.^l di S.^ta Severina diverse lettere, per una delle
quali è conosciuta la data del 2 settembre, ed in esse affermò che
il Campanella sprezzava il crocifisso ed aborriva i sacramenti, che
prometteva nuova legge e nuovo Stato, che Stilo, Stignano, Monasterace,
Pizzoni, Arena etc. etc. erano «infette delle opinioni di questo
scellerato» e che nella sua venuta a Roma egli avrebbe potuto dare a
voce altre informazioni; ma poi in Roma non seppe dir nulla oltre ciò
che il processo recava, e in somma confessò di aver tratto i capi di
accusa che servirono di base al processo da quanto gli dissero in parte
il Polistina, in parte il Soldaniero e poi il Vescovo di Catanzaro, e
perfino i rivelanti e gli ufficiali Regii; laonde non fece rimanere
soddisfatto il S.^to Officio, che anzi lo lasciò persuaso di avere
affermato solo per sua immaginazione che tanti paesi fossero infetti di
eresia, come lasciò persuasi i Giudici di Napoli di avere presupposto
molte cose per «animosità». Adunque è ufficialmente assicurato che
nell'istituire il processo campeggiò l'odio, e che le notizie de' fatti
criminosi provennero da' Polistina, dal Soldaniero, dal Lauro, dallo
Xarava, dal Vescovo di Catanzaro; massime dal Soldaniero, che è detto
«un certo nobile» rimanendone nascosta la vera condizione.
Ma ciò non è tutto. Per istituire il processo occorreva a questi
frati almeno un rivelante, e l'unico rivelante possibile appariva il
Soldaniero, mentre il Polistina e gli altri frati della loro fazione
erano troppo notoriamente nemici di fra Dionisio, e quindi, secondo
la giurisprudenza del S.^to Officio, non potevano testificare contro
di lui, o meglio, testificando, le loro affermazioni non avrebbero
avuta alcuna efficacia[349]. Importava dunque poter disporre del
Soldaniero; ma costui, sebbene rivelante de' frati congiurati
a fra Domenico da Polistina, e poi anche a fra Gio. Battista da
Polistina come egli medesimo affermò in sèguito, non voleva aderire
a rappresentare questa parte pubblicamente, sicchè fu necessario di
obbligarvelo. Come venne poi affermato nel processo da varii carcerati,
a tempo delle loro difese, e come ripetè pure il Campanella nella sua
Narrazione, fra Cornelio e fra Domenico da Polistina con molti soldati
e birri circondarono il convento di Soriano e posero al Soldaniero
l'alternativa, o di rivelare contro fra Dionisio e il Campanella,
o di lasciarsi consegnare alla Corte dalla quale non poteva mancare
di essere appiccato pe' suoi delitti: che anzi egli medesimo avrebbe
confidato a qualcuno tali cose per iscusarsi, allorchè venne nelle
carceri di Napoli ad istanza de' Giudici dell'eresia, aggiungendo che
fra Cornelio fu in quella manovra assistito da Gio. Francesco Alemanno
fiscale della Corte di Monteleone con 40 persone armate (onde comincia
fin d'ora ad apparire l'azione di D. Carlo Ruffo), e i due frati da
Polistina col Priore del convento lo persuasero a farsi rivelante,
e fra Cornelio gli ottenne una promessa d'indulto da Carlo Spinelli
coll'obbligo di perseguitare e consegnare i complici; avrebbe pure
detto altre volte che l'indulto gli era costato tre mila ducati e
la perdita dell'anima, e che i suddetti frati l'avevano ridotto in
mano del diavolo. Forse egli, che veramente per quanto ne sappiamo ci
risulta assai sollecitato ma non del tutto deciso a prender parte alla
congiura, penò ben poco a resistere alle insistenze di fra Cornelio;
forse pure, deciso da Maurizio negli ultimi tempi a partecipare alla
congiura, e poi vedutala scoperta, richiese egli medesimo l'indulto,
sborsando per esso danari e più ancora sciupandone nella persecuzione
de' fuorusciti, ma non tanto quanto esageratamente affermò, siccome
suole accadere allorchè si parla di danaro perduto; sicuramente poi
egli rivelò più di quel che sapeva e si prestò a dire tutto ciò che
fra Cornelio avea raccolto dalle tante diverse vie e perfino dagli
ufficiali Regii, onde in sèguito si mostrò di poco buona memoria
su quanto avea rivelato, e si potè realmente sentire oppresso da'
rimorsi. Ma vera o finta che sia stata quella manovra di fra Cornelio,
certo è che costui richiese ed ottenne un guidatico, che equivaleva
ad una promessa d'indulto non solo per Giulio Soldaniero ma anche
pel servitore e compagno di lui Valerio Bruno: questo si rileva dalla
copia legalizzata dell'indulto, che fu poi presentata da fra Dionisio
nelle sue difese, e che giova conoscere anche per intendere appieno la
procedura in corso relativamente agl'indulti, la qual cosa riuscirà a
chiarire qualche altro punto oscuro nel sèguito di questa narrazione.
Con una maniera di scrivere che non fa onore al Severino Segretario
di Carlo Spinelli, vi si dice: a «dì 3 de 9bre 1599 nel pizzo, per
quanto li mesi passati frà cornelio del monte secretario del padre
visitatore... scrisse a noi alcune lettere dicendone che dovessimo
guidare à Giulio Soldaniero et valerio Bruno che haverebbeno fatto
alcuni servitij nella materia della sedutione de popoli ch'haveano
incominciato à fare fra Thomase Campanella de stilo fra Dionisio ponso
de necastro et mauritio de Rinaldis de guarda valle avisandoci de più
detto fra cornelio che il detto Giulio et valerio come pratthichi del
paese haveriano fatto assai onde ngi parse guidarli per alcuni giorni
nelli quali ngi portorno carcerati... _etc_. et havendono continuato
al servitio non sparagnando cosa che da noi li è stata commessa, per li
quali servitii ngi habbiamo fatta provisione de indultu sincome con la
presente li induldamo et per induldati li dichiaramo et agratiamo de
tutti li lloro delitti per la potestà che tenemo..» etc.[350]. Furono
dunque costoro, per opera di fra Cornelio, dapprima _guidati_ e più
tardi _indultati_ da Carlo Spinelli. Fra Marco e fra Cornelio, nella
qualità d'Inquisitori non avrebbero potuto farlo: avrebbero potuto
soltanto nominare Commissionati dopo di avere richiesto ed ottenuto
l'aiuto del braccio secolare; e difatti il Visitatore ne nominò alcuni;
come un Carlo di Paola amico di Gio. Tommaso Caccìa, e un Ottavio
Gagliardo Castellano di Monteleone, che vedremo or ora nell'esercizio
del loro mestiere. Pertanto, non appena ingaggiato un testimone
opportuno, fra Cornelio pose rapidamente mano al processo, e di questo
andiamo oramai a dar conto, esponendone gli atti così come furono
compilati, ma accompagnandoli co' debiti commenti.
Il processo che diremo ecclesiastico, perchè fatto da ecclesiastici,
e concernente non la sola eresia ma anche la congiura, cominciò con la
data del 1.º settembre 1599[351]. Gli si diede il titolo «Inquisitionis
acta contra Patres Fratres Thomam Campanellam, Dionisium de Neocastro,
Jo. Baptistam de Pizzone et alios Inquisitos, Squillacensis» (_intend._
Squillacensis dioecesis), con la sottoscrizione «Marcianese Visitatore,
Nizza». Percorrendo questo processo, il Visitatore fra Marco di
Marcianise vi si trova sempre come protagonista, ma si rileva dalle
prime carte fino alle ultime, ed anche da ciò che seguì, ogni cosa
essere stata manipolata da fra Cornelio di Nizza, nella qualità
espressa in più modi, di Socio della Visita, Segretario, Scriba e
cancellario, Notario, talvolta anche coll'aureola di «dottore dell'una
e dell'altra legge». Nell'esordio, in nome di Dio e della Beata
Vergine, il Visitatore dice che per voce pubblica, non di malevoli ma
d'individui degni di fede più illustri e religiosi, i suddetti frati
hanno macchinato contro la Maestà Divina ed umana; enumera 36 capi di
eresia e di ribellione che, il Campanella come settario, e gli altri
come capi principali, fautori e complici, affermavano, comunicavano
tra loro ed erano anche preparati a far credere agli altri; enuncia
la deliberazione di procedere tanto per proprio ufficio, quanto per
richiesta di D. Alonso il Governatore, di Carlo Spinelli Cavaliere
e Consigliere di Stato, di tutti gli Ufficiali del Re e del molto
Illustre e Rev.^do Vescovo di Catanzaro. Come si vede, fu adottata
la maniera di procedere per pubblica voce e fama, mentre c'era un
accusatore (il Polistina) o almeno un denunziante (il Soldaniero),
e sarebbe stato più conforme a verità l'adottare altra maniera di
procedere, ricevendo da uno di costoro una scritta o una deposizione
in presenza di testimoni e servendosi di essa come base secondo la
giurisprudenza[352]. Continua il Visitatore dicendo che, per prendere
e tenere in carcere i colpevoli, ha mandato nel medesimo giorno fra
Cornelio a Catanzaro a fine di implorare l'aiuto del braccio Regio,
ottenuto il quale assai volentieri dal Governatore e dallo Spinelli,
ha rilasciato le lettere di cattura procedendo senza ritardo in una
causa così grave, fino a che non sia provveduto meglio dal Papa e dal
S.^to Officio; delle lettere di cattura riporta poi anche la formola.
In sèguito sono allegate solamente due lettere originali, una del
Vescovo di Catanzaro e l'altra di D. Alonso di Roxas[353]. Nella
prima, del 25 agosto, il Vescovo dice che si è trattato un negozio di
molta importanza, il quale laddove seguisse, recherebbe «gran danno
e disriputatione» alla Religione Domenicana, che egli «ha remediato
quanto ha potuto», ma vorrebbe che il Visitatore o qualche suo fidato
venisse a Catanzaro per potergli liberamente parlare; e il Visitatore
aggiunge che, arrivata questa lettera il 28, egli nel giorno seguente
mandò fra Cornelio rivestito di tutta la sua autorità; ma, come ben
si vede, in questa lettera, nella quale pare che copertamente si
accenni all'aver fatto fuggire fra Dionisio, non è punto espressa
la richiesta di procedere contro i frati, che anzi trasparisce un
pensiero del tutto diverso. Nella seconda lettera, di difficilissima
lezione, che è di D. Alonso il Governatore, si ha una risposta a fra
Cornelio del 2 settembre, in cui D. Alonso chiaramente dice di aver
«ricevuta la relazione del negozio» dalla Paternità sua, e spera che
la Paternità sua abbia subito nelle mani qualcuno de' pretesi rei, e
almeno fra Gio. Battista di Pizzone e il suo compagno (vale a dire il
Lauriana): laonde nemmeno si trova qui la richiesta di procedere da
parte di D. Alonso, il quale, per sua disgrazia, era sempre l'ultimo
a sapere ciò che accadeva, ed anche questa volta, invece di dirlo lui
al Visitatore, lo seppe da fra Cornelio. Infine si ha la Commissione
data dal Visitatore il 3 settembre a Carlo di Paola di carcerare i
frati suddetti, comandando a' Superiori di non fare ostacolo sotto pena
della scomunica ed anche della galera per 10 anni; poi la presentazione
fatta al Visitatore il 4 settembre da D. Carlo Ruffo, nel castello di
Monteleone, de' due frati carcerati da Carlo di Paola, con la preghiera
del Visitatore a D. Carlo di tenerli nelle carceri Ducali a nome del
Papa e del Generale; da ultimo la formola del precetto adottato per
gli esami da istituirsi. Dopo questi atti iniziali vengono i processi
verbali delle deposizioni, cominciando da quelle del Pizzoni, del
Soldaniero e del Lauriana.
Ecco pertanto in che modo furono presi il Pizzoni ed il Lauriana[354].
Essi dimoravano nel loro convento di Pizzoni, e nella notte del venerdì
3 settembre, due ore innanzi l'alba, Carlo di Paola ed una mano di
soldati con le micce accese giunsero sotto il convento. Poco prima di
costoro, nella medesima notte, era quivi giunto anche fra Dionisio
accompagnato da Gio. Tommaso Caccìa, sicuramente per abboccarsi col
Pizzoni come già più sopra si è detto[355]. Secondo il Pizzoni, egli e
il Lauriana pensavano che potessero essere ricercati dalla giustizia
per una sella, o una giumenta di un tale, che «tenevano presa» nel
convento; ma poichè avea già parlato con fra Dionisio, avea dovuto
capire perfettamente di che si trattasse, e infatti, secondo il
Lauriana, avendo lui dimandato cosa pensasse della venuta di quella
gente armata, il Pizzoni rispose, «sta a vedere che saremo presi per
le cose del Campanella». Gio. Tommaso Caccìa cominciò a dire «olà, che
gente sete, state largo», e quelli di sotto risposero che erano gente
del Battaglione e che venivano da Squillace o andavano a Squillace;
allora fra Dionisio e il Lauriana si diedero a sonare le campane
all'arme, accorsero i terrazzani di Pizzoni, e seppero dagli armati che
volevano riposarsi un poco e udir la Messa, per poi proseguire il loro
viaggio; fu quindi aperto il convento, e saputosi che Carlo di Paola
comandava quella gente, Gio. Tommaso Caccìa che lo conosceva gli andò
incontro per riceverlo. Fra Dionisio, non appena intese che era gente
di Monteleone, si travestì da secolare e profittando della folla, che
verosimilmente avea fatta raccogliere a bella posta, se ne andò via
senza essere conosciuto; il Pizzoni disse la Messa, può immaginarsi con
quale animo, e Carlo di Paola con la sua gente l'udì; finita la Messa,
fu presentata la Commissione del Visitatore, ed entrambi i frati furono
condotti a Monteleone.
Nello stesso giorno 4 settembre, dopo che D. Carlo Ruffo ebbe
presentato i due carcerati al Visitatore e gli ebbe da lui ricevuti
in consegna, il Visitatore e fra Cornelio cominciarono ad esaminare
il Pizzoni[356]; ed ecco i risultamenti dell'esame, che non possiamo
dispensarci dal riferire con una certa larghezza quantunque assai ci
pesi l'entrare in molte particolarità, giacchè sopra di esso e degli
altri seguenti si fondò quel famoso processo, che durò più anni e diè
materia a 4 volumi di scritture. Interrogato sul modo e sul motivo
presumibile della sua cattura, il Pizzoni ne espose le principali
circostanze, ma tacque la presenza di fra Dionisio nel convento, e
subito dichiarò essersi immaginato che dovesse venire interrogato
«come testimone» sulle cose del Campanella e fra Dionisio, i quali
erano stati in Pizzoni nel luglio scorso; di poi, dietro analoghe
interrogazioni, esposte le relazioni precedenti avute con loro, li
qualificò «uomini tristi», affermando che in Pizzoni il Campanella gli
avea detto di volerlo «far homo», poichè aveva profezie di gran rumori
e ribellioni le quali profezie erano per lui, che bisognava trovarsi
armati, che si collegasse a lui ed avendo aderenze con fuorusciti
glie li mettesse a sua devozione; ma egli rifiutò ogni sua proposta,
e il Campanella sdegnato disse che giustamente fra Gio. Battista
(di Polistina) glie l'aveva dichiarato un traditore. Soggiunse che
il Campanella avea detto pure sembrargli che Iddio l'avesse proprio
eletto ad insegnare la verità e togliere gli abusi della Chiesa, che
i Sacramenti erano per ragione di Stato, che il canto in Chiesa era
cosa frivola. Ma gl'Inquisitori non si contentarono di queste poche
rivelazioni, e sebbene egli accennasse a voler dire qualche altra cosa,
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