Fra Tommaso Campanella, Vol. 1 - 22

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consecutivo non emerse nulla intorno a ciò, ma bisogna ricordarsi che
noi possediamo solamente i brani del processo concernenti le accuse
contro gli ecclesiastici, e il Campanella, e tanto più il Pittella,
dietro la leale confessione di Maurizio risultarono scagionati
dall'accusa della convenzione col Turco. Questo non vuol dire che
veramente il Campanella non ne avesse dirette le fila con molta
astuzia, per mezzo di Maurizio dalla via di Amurat, e forse anche per
mezzo di fra Dionisio dalla via di Messina, ma quest'ultima via rimase
coperta, e l'altra riuscì tutta a carico di Maurizio, ond'è che non
conosciamo il fatto in tutta la sua estensione. Nondimeno quel poco che
ne conosciamo riesce di molta importanza. Era capitolato che i turchi
«non havessero assai a tener dominio in Calabria», ma doveano dunque
tenervi dominio, benchè temporaneo e di breve durata: così non fu una
invenzione degli ufficiali Regii che si volea far occupare la Calabria
da' turchi, e le rivelazioni di taluni complici (Claudio Crispo, Cesare
Mileri), che dissero essersi convenuto di dare molte fortezze e terre
in mano de' turchi, non furono propriamente effetto d'insinuazioni
e di tormenti. E come potremmo credere che il Campanella fosse stato
davvero interamente estraneo alle trattative e dispiaciuto per esse?
Tutti i fatti precedenti e così pure i sussecutivi ci autorizzano a
credere l'opposto. Concediamo pure che forse egli non avrebbe voluto
l'occupazione turca, comunque limitata e temporanea, e che tale
patto convenuto da Maurizio gli abbia recato sorpresa e dispiacere;
ma è facile comprendere che non si poteva fare in modo diverso, e se
veramente così avvenne per parte del Campanella, Maurizio, il quale
rimane sempre il capo responsabile dell'azione con le armi, dovè a sua
volta provare sorpresa e dispiacere, vedendo che volea farsi una guerra
con idee alquanto fantastiche e punto consentanee alla realtà delle
cose. Ad ogni modo non per questo il Campanella si pose in disparte,
e se si decise a lasciare l'amicizia di Maurizio, tale sua decisione
non ebbe effetto, come si rileva da ciò che avvenne ulteriormente in
Davoli.
Maurizio, preoccupandosi del buono andamento delle cose in Catanzaro,
ove era convenuto doversi fare lo sforzo principale della ribellione,
volle che alcuni di questa città si costituissero centro de'
congiurati, e desiderò che il Campanella li persuadesse con la sua
eloquenza, di cui egli faceva gran conto avendola sperimentata sopra
sè medesimo; e il Campanella non si negò menomamente, e si ebbe in
tal guisa, dopo i convegni di Stilo e di Pizzoni, un terzo convegno
parimente assai notato, quello di Davoli. Sia d'accordo col Campanella,
come Maurizio affermò nella sua confessione, sia senza quest'accordo,
come parrebbe dalla Dichiarazione del Campanella, Maurizio chiamò a
Davoli due gentiluomini di Catanzaro assai maneschi, da lui giudicati
«uomini di valore», Gio. Tommaso di Franza e Gio. Paolo di Cordova, il
quale ultimo eragli anche parente per parte di madre[285]; e li chiamò
scrivendogli di venire «sotto colore che voleano trattare la natività
loro», ciò che implicherebbe avergli accennato di dover trattare col
Campanella, il quale veramente s'intendeva di oroscopi e di natività,
ed essi non mancarono di venire, accompagnati da un Orazio Rania.
Questo accadde nella prima settimana di agosto, conoscendosi con
sicurezza che l'8 o il 9 di agosto il Campanella si trovava tuttora
in Davoli, nel convento degli Agostiniani detto di S.ª M.ª del Trono:
oggi ancora sono visibili i ruderi di questo convento e della sua
Chiesa, sopra un colle a meno di un miglio dall'abitato; ed una statua
di S.ª Anna con la data appunto del 1599, ritirata dagli avanzi della
Chiesa, è il più vivo ricordo del luogo e del tempo in cui avvenne una
delle scene più memorabili della congiura. Al momento dell'arrivo di
que' di Catanzaro fra Tommaso già vi era, e come abbiamo visto sopra,
in compagnia di fra Domenico Petrolo e di Fabrizio Campanella; ma non
risulta che costoro fossero presenti al colloquio, ed anzi lo stesso
Maurizio si tenne in disparte dopochè fu esaurita l'esposizione delle
solite cose generali de' prossimi mutamenti e del dovere star pronti;
ciò si rileva dalla confessione sua, dalle deposizioni di Gio. Paolo
e Gio. Tommaso ed anche dalla Difesa del Campanella, il quale si servì
di questo fatto come di un argomento per sostenere che non vi era stato
convegno. La riunione ebbe luogo presso il convento, in un castagneto,
all'aperto, e come il Campanella scrisse nella sua Dichiarazione, essi
cominciarono dal dimandargli segreti per aver donne che egli pose in
burla (la solita maniera di considerare il Campanella); di poi, pregato
da Maurizio che avesse detto a que' gentiluomini la faccenda delle
mutazioni, egli le confermò, e «tutti gli si offersero che volesse
esser capo et predicare» perchè l'avrebbero seguitato; ma egli non
volle e si partì per disgusto, andandosene a S.^ta Caterina, e dopo
tre giorni a Stilo. Non sarà inutile il dire che di poi, nel processo,
tanto Gio. Paolo di Cordova quanto Gio. Tommaso di Franza confessarono
il convegno avuto col Campanella, e lo confermò pure Tommaso Tirotta
servitore di Maurizio: solamente il Cordova aggravò piuttosto la
condizione di Orazio Rania che era già morto quando egli fece la sua
deposizione (secondo il metodo abituale dei giudicabili), e il Franza
nominò fra Dionisio come colui che gli avea già parlato delle mutazioni
da parte del Campanella; l'uno e l'altro poi dissero che fra Dionisio
veramente, più tardi in Catanzaro, richiese la loro opera per la
ribellione, essendosi nel convegno discorso soltanto di un segreto che
fra Dionisio avrebbe in sèguito manifestato. Ma per quanto apparisca
possibile che fra Dionisio avesse già parlato col Franza, vedremo
altrove che da parte di costui c'erano forti ragioni per le quali egli
dovea sforzarsi di aggravare la mano su fra Dionisio in questo negozio,
ed oltracciò in entrambi ci era tutta la convenienza di mostrare che
le istanze per la ribellione erano state fatte più tardi. Secondo
il Tirotta, nello stesso giorno del convegno, dopo il desinare, essi
ripartirono. Ognuno intanto avrà notato trovarsi dalle parole medesime
del Campanella accertato che tutti gli si offersero, facendogli premura
che volesse esser capo con la predicazione; sicchè rimane soltanto ad
interpetrare se egli veramente rifiutò ed anzi se poteva rifiutare,
mentre tutto si edificava sulla base delle sue profezie e vaticinii, e
la sua eloquenza era già da un pezzo impiegata a persuadere che dovea
fondarsi la repubblica.
Ma durante il soggiorno del Campanella in Davoli accadde pure un fatto
importantissimo, che ebbe le più gravi conseguenze. Appunto l'8 o il
9 agosto, non si sa per quale motivo, capitò al convento suddetto
fra Domenico di Polistina, e seppe da fra Domenico Petrolo che il
Campanella trovavasi nel convento e l'avrebbe veduto con piacere, che
anzi desiderava di vederlo. Egli si presentò al Campanella in Chiesa, e
gli fece i suoi saluti e le sue proteste di amicizia; ma il Campanella
gli rispose che tra loro due non poteva esservi amicizia, trovandosi
l'uno amico di fra Gio. Battista di Polistina e l'altro amico di fra
Dionisio, tra' quali correva inimicizia grandissima. Il Polistina
meravigliato di tale ricevimento si partì. Come mai il Campanella
potè mostrarsi tanto scortese, ed anche tanto imprudente, mentre non
ignorava la potenza e lo spirito d'intrigo de' Polistina? Bisognerebbe
dirlo venuto in una grande boria, per la fiducia ispiratagli da'
preparativi della sua impresa ottimamente avviati: ma è verosimile pure
che fosse infastidito dal vedersi ronzare intorno un uomo di quella
fatta, il quale probabilmente ne spiava i passi ed osava dichiararglisi
amico. Intanto il Polistina montato a cavallo se ne partì in fretta,
dirigendosi pel castagneto che era presso il convento: ma «caminato
10 o 12 passi, il garzone o sia vetturino gli disse, se andate per
questa via voi sete morto, perchè mentre ragionavi con il Campanella
in Chiesa, li foresciti che erano alla porta hanno determinato di
ammazzarvi mentre che passaremo nelle castagne, et così pigliò altra
strada et andò a Suriano, dove trovò il Soldaniero nel convento, al
quale raccontò il caso»[286]. È possibile che i seguaci di Maurizio,
p. es. il Tirotta, Gio. Battista Vitale che sappiamo essere sempre
stato anche lui in Davoli, forse pure qualche altro, consapevoli
delle amicizie del Polistina e penetrati della poca opportunità della
sua presenza in quel luogo, avessero borbottato propositi minacciosi
verso di lui; è possibile pure che al vetturino non fosse tornata
molto comoda la risoluzione di battere la via del castagneto, e avesse
cercato di farla cambiare mettendo paura al Polistina: certo è che
il Polistina si diresse ad un luogo e ad un uomo che facevano appunto
per lui, avendo dovuto forse già conoscere dal Priore di Soriano suo
amico le cose passate tra Dionisio e il Soldaniero, ed avendo dovuto
sembrargli giunto oramai il momento di farla finita, poichè non v'era
più da andare fiutando e si avea del resto già tanto in mano da poter
perdere Dionisio e il Campanella. Egli si presentò al Soldaniero come
uomo agitato ed afflitto per la paura avuta, e il Soldaniero, che avea
conosciuto pure fra Gio. Battista di Polistina nella Quaresima passata,
lo secondò dicendo che era stato già deciso che fra Gio. Battista e
i suoi aderenti dovessero essere ammazzati d'ordine del Campanella
ed altri complici, e quindi «non saria stato gran cosa» che avessero
ammazzato anche lui; oltracciò soggiunse che erano stati fatti registri
di eresie da doversi predicare al tempo della ribellione, che Dionisio
gli avea parlato contro i miracoli di Cristo e de' Santi, che gli avea
detto essere il significato delle lettere I N R I, poste in fronte
al crocifisso, non già quello comunemente conosciuto ma quello di una
pessima ingiuria in lingua ebraica, che infine gli avea raccontato quel
tale fatto osceno commesso con l'ostia consacrata ed egli sospettava
essere stato quel fatto commesso precisamente da fra Dionisio. Così
raccontò poi le cose il Polistina, ed anche fra Cornelio che le seppe
dal Polistina. Forse il Soldaniero non ciarlò tanto, ed è possibile
pure che avesse accennato in confidenza quelle cose al Priore di
Soriano, come altrove si è detto, e non già al Polistina: ad ogni
modo vedremo più tardi che il Polistina e fra Cornelio su questa base
architettarono il processo di eresia, riducendo il Soldaniero, con le
buone o con le triste, non solo feroce accusatore ma anche persecutore
a mano armata di coloro i quali avrebbero dovuto essergli compagni
nella ribellione.
Indubitatamente col convegno di Davoli s'inaugurava un periodo di
sempre maggiore attività ne' preparativi della ribellione. Maurizio
continuò senza posa a sollecitare e a raccogliere aderenti: questo
viene accertato pure da un altro brano della Dichiarazione del
Campanella, il quale si lasciò andare sino a far nomi, onde poi gli
ufficiali Regii non ebbero veramente a sforzare la loro immaginazione
per convincersi che la congiura fosse una cosa molto seria. «Mauritio,
quando fummo in Davoli, disse che volea far un giro, et trovar Gio.
Battista Soldano, Giulio Soldanere et Carlo Bravo, et trovare li
foragiti di Reggio et li Baroni et altri, et ch'esso poteva fare
in dieci giorni ducento huomini, et certi di casa dello Stocco in
Cosenza, et entrar in Catanzaro, et pigliar la città et tenerla, ma
non disse quando stava per farlo». Intorno ad alcuni de' fuorusciti
qui indicati abbiamo qualche notizia. Gio. Battista Soldano era un
bandito di Ricadi, casale di Tropea[287]: e bisogna dire che Maurizio
abbia veramente fatto il giro che si proponeva e siasi recato fino a
Tropea, giacchè vedremo poi parecchi di quella città e casali, nè tutti
fuorusciti, gravemente perseguitati per la congiura, come un Tranfo,
un Furci, un Loiacono, un Politi, un Jannello, un Barbèri. Carlo Bravo
era di Montesanto; insieme col fratello Fabrizio scorreva la campagna,
ed avevano entrambi acquistato fama pe' molti delitti commessi. I
fuorusciti di Reggio erano forse quelli che in numero di 42 comandava
Don Giuseppe di Capoa, tra' quali stava pure il fratello di Felice
Gagliardo, come risulta da lettere che il Capoa da Reggio inviava al
Gagliardo quando costui pervenne carcerato in Napoli, e che, essendogli
poi state ritrovate, furono inserte nel processo di eresia insieme con
altre carte di pertinenza del S.^to Officio. I Baroni erano parecchi:
quelli di Reggio si chiamavano Domizio, Paolo e Gio. Domenico, e si
trovavano implicati nelle prepotenze delle fazioni dei Melissari e de'
Monsolini, ma esercitavano anche violenze per conto proprio. A miglior
luogo avremo campo di far conoscere i documenti che abbiamo rinvenuti
intorno a tutti costoro. Quanto a Giulio Soldaniero, ne sappiamo
abbastanza dalle cose dette avanti; e non può non riceversi qui una
certa impressione dal vedere che il Campanella, il quale avea fatto
tanto per avere quest'uomo a sè, lo mette poi esclusivamente a carico
di Maurizio. E da notarsi frattanto che Maurizio oramai si proponeva
di entrare in Catanzaro e pigliar la città; sicchè non attendeva più,
per moversi, che Catanzaro «si cominciasse a ribellare», come dapprima
si era protestato con fra Tommaso. Egli medesimo nella sua confessione
dichiarò essersi concluso «con fra Tomase et fra Dionisio, che quando
fra Dionisio havesse finito di trattare, et havere quelli di Catanzaro,
havesse avvisato, per che s'haveria pigliato espediente ad effettuare
detta rebellione, et entrare a Catanzaro, et fra Tomase diceva,
che si havea da gridare libertà, scassare le carcere et ammazzare
l'officiali». Vedremo difatti più in là che fra Dionisio in Catanzaro
trattava per far entrare incogniti e di notte tre a quattrocento uomini
armati; e comunque si fosse detto che sarebbero entrati con lui e
sarebbero rimasti sotto gli ordini di alcuni di Catanzaro tra' quali
Gio. Tommaso di Franza, tutto mena a credere che avrebbero dovuto
entrare, certamente in minor numero, sotto gli ordini di Maurizio:
dopochè Maurizio si era obbligato co' turchi di pigliare Catanzaro,
tanto meno poteva confidare ad altri, massime poi a coloro i quali
deposero tale fatto, un'impresa così rilevante e a dirittura capitale.
— Da parte sua il Campanella continuò parimente ad infervorare i suoi
amici, come lo attestano fuori ogni dubbio due lettere scritte di
suo pugno a Claudio Crispo, le quali disgraziatamente vennero poi a
cadere in mano degli ufficiali Regii e furono inserte nel processo.
La prima, a quanto pare, venne affidata a fra Paolo della Grotteria
che non si curò di consegnarla: per negligenza del Mastrodatti non ne
conosciamo la data, ma da parecchie circostanze si può bene desumere
che dovè essere scritta a' primi di agosto, probabilmente da Davoli,
ed inviata a Stilo perchè di là fosse spedita a Pizzoni. Ecco il sunto
che ne diede nel processo il Mastrodatti: «Desiderava raggionare con
l'amici et per questo volea venire in Pizzoni, ma per che non li era
stato scritto, ch'erano venuti, me parse soverchio per buoni rispetti
non venire a trovarla, pur se dimani venerando (_sic_) venerò a stare
con lei tre hore et poi ritornerò, et l'huomo non deve mai mutare
(senza certo disegno) stanza, per che il mondo non pensi a male, però
spero a San Domenico che serà alli 5 esser con V. S. et avanti, frà
tanto anderà il P. Dionigio ad acconciare le cose sue in Catanzaro, et
poi visti ci revederemo, et infine dice, si V. S. parla con li amici
suoi, sia insieme col P. Gio. battista et dicali in quella maniera l'ho
insegnato a lui, mentre eravamo sul ponte di legname qui». Sapendosi
che il giorno di S. Domenico, determinato nel giorno 5, viene a cadere
in agosto, e che fra Dionisio avea guastate le cose sue in Taverna e
doveva accomodarle in Catanzaro appunto a' primi di agosto, riesce
chiaro che la lettera dovè essere scritta precisamente poco avanti
questo tempo. La circostanza poi del «ponte di legname» indicherebbe
che il Campanella scriveva da Stilo, dove forse il Crispo l'aveva
accompagnato insieme con gli altri, al ritorno da Pizzoni, e si era
trattenuto a udire gli ultimi discorsi sul ponte dello Stilaro, fiume
che scorre sotto Stilo: ma non è arrischiato l'ammettere, che per uno
de' soliti artificii de' cospiratori, egli mostrasse di scrivere da
questa città. E come mai, avendo da pochissimo tempo lasciato Pizzoni,
sentiva già nuovamente il bisogno di andarvi? Probabilmente voleva
parlare ad amici non intervenuti nel primo convegno, e però vedeva
utile tenerne un secondo; forse anche volea comunicar loro doversi
oramai disporre ad entrare in Catanzaro, ed ivi trovarsi pe' primi di
settembre (al tempo della venuta de' turchi); ma si preoccupava di ciò
che avrebbe potuto dirne il mondo, e difatti con la seconda lettera
pregò il Crispo di voler lui venire a trovarlo. Intanto anche questa
volta designava quasi suo luogotenente fra Gio. Battista, come già
prima avea fatto verso il Soldaniero. La seconda lettera, che venne
trovata sulla persona del Crispo, reca la data certa dell'8 agosto,
e sappiamo sicuramente che a questa data il Campanella si trovava in
Davoli, essendo allora appunto accaduto il suo incontro col Polistina.
In essa egli scrive al Crispo, «che vogli venire con qualche amico, et
particolarmente con Gio. Francesco d'Alisandria»[288]. Da tutto ciò si
può ben rilevare che il Campanella non pensò mai veramente a tenersi
in disparte, e continuò ad agire in que' modi e limiti che la sua
posizione gli permetteva.
Lasciando Davoli, il Campanella si recava a S.^ta Caterina e là
rimaneva, come egli medesimo assicurò, «tre dì a spasso». Dagli atti
del processo di eresia sappiamo che dimorò nel convento Domenicano
di S. Nicola esistente in quella terra, e che i frati l'onorarono con
banchetti, alcuno de' quali finì in un'orgia immonda, se deve credersi
alla deposizione di una vedovella molto pudica e serva di Dio, ma
altrettanto energumena contro fra Tommaso e con ogni probabilità tratta
in inganno[289]. Del resto un'orgia immonda tra' frati di quel tempo,
dopo un desinare, non era cosa straordinaria, e il processo medesimo
ne ricorda un'altra, comunque in proporzioni assai minori, avvenuta
in Nicastro durante il priorato di fra Dionisio: ma dobbiamo notare
che appunto in S.^ta Caterina «diciano le genti che (il Campanella)
non guardava hom'in faccia ma sempre si guardava la unghia», onde
potè accreditarsi la voce che avesse il suo spirito familiare proprio
nell'unghia[290]. Ciò mostra solamente ch'egli stava in un contegno
assai riservato: non sappiamo pertanto se nell'andare a S.^ta Caterina
abbia avuto qualche scopo recondito, ma è probabile che sia stato
indotto a ripetervi le profezie sulle future mutazioni, ed oltracciò
abbia dovuto abboccarsi con altri affiliati di quella terra, giacchè
vedremo essere stati poi forgiudicati per la ribellione anche Franc.º
Paolo Santaguida ed Antonio Merlino di S.^ta Caterina. Ma finalmente
se ne tornò a Stilo, nè mai più ebbe ad allontanarsene fino al momento
in cui la congiura fu scoperta. — Nell'occasione del suo ritorno a
Stilo ritornò del pari al convento fra Domenico Petrolo, il quale,
senza dubbio per la venuta del Visitatore in Calabria, avea dovuto
finalmente decidersi a lasciare la casa sua in Stignano e ripigliare
la vita claustrale troppo lungamente interrotta: era stato in convento
durante il maggio per alcune settimane, quando si sciolse il Capitolo
di Catanzaro, e vi si restituiva nell'agosto, rimanendo sempre,
d'allora in poi, a fianco del Campanella, sicchè le sue rivelazioni
destano pel periodo attuale il più grande interesse. Una delle prime
visite ricevute dal Campanella in Stilo, come risulta anche dalla
sua Dichiarazione, fu quella di fra Dionisio che andava ad Oppido, ed
era sempre preoccupato del Visitatore; onde il Campanella gli avrebbe
suggerito di «tornare a conciare le cose sue». Siamo in grado di poter
dire che questa visita dovè accadere verso il 12 agosto, poichè fra
Dionisio fu in Oppido la vigilia dell'Ascensione, vale a dire il 14
agosto, e vi rimase anche il 15; l'assicurò nel processo di eresia
fra Pietro Ponzio, il quale fu egualmente in Oppido a quel tempo,
dimorando presso l'altro fratello Ferrante, il Viceconte, che trovavasi
allora colpito da scomunica, certamente per una delle solite baruffe
giurisdizionali. Ben si scorge intanto che fra Dionisio non avea poi
troppa fretta di «tornare a conciare le cose sue» come il Campanella
disse di avergli suggerito, e piuttosto tornava ad andare qua e là,
senza posa, con altri disegni. Siamo così ricondotti a parlare di lui e
delle sue escursioni.
Movendo da Taverna, dopo le bastonate date in rissa e la nomina di
fra Cornelio a Compagno del Visitatore, fra Dionisio era tornato a
Nicastro, e quivi si era associato ad un Cesare Mileri di quella città,
molto giovane, come lo dissero tutti coloro i quali ne parlarono, forse
di 17 anni, sebbene un documento da noi rinvenuto nel Grande Archivio
ce lo mostri di 27[291]. Costui d'allora in poi seguì fra Dionisio
in tutte le sue escursioni, onde vedremo che fu più tardi ritenuto
complice, e resosi confesso fu atrocemente giustiziato. Anche egli avea
bisogno di un indulto, non sappiamo per quale colpa, e fra Dionisio
gli discorreva della tirannia del Re, degli enormi pesi fiscali, del
non avergli il Re voluto mandare l'indulto, decidendolo così a volersi
ribellare prendendo parte nella giornata che si farebbe; poichè nel
1600 il Regno dovea mutar padrone, e già con fra Tommaso e Maurizio
aveano concertato la ribellione mercè l'aiuto del Turco e una massa
di fuorusciti ed altra gente, e «il capo della congiura era D. Lelio
Ursino, il quale si volea impatronire di tutto il Regno». Queste cose
rivelò poi il Mileri, aggiungendovi le solite notizie dell'andata di
Maurizio sulle galere di Amurat, della venuta del Turco promessa per
settembre etc., le quali vennero forse da lui riferite per suggestione.
Certo è che egli sollecitò pure per tale impresa un suo amico,
Francesco Antonio delli Joy, e lo trovò già impegnato da fra Dionisio:
ma sebbene avesse accompagnato fra Dionisio da per tutto, dapprima a
Catanzaro, di poi a Stilo (come assicurò anche fra Pietro di Stilo),
quindi certamente ad Oppido, e poi di nuovo a Catanzaro, a Girifalco,
a Nicastro (come assicurò egli medesimo), sebbene avesse visto diverse
persone parlare segretamente con fra Dionisio in tutti questi paesi,
egli non seppe dare alcun nome; tale circostanza, e così pure l'altra
che D. Lelio Orsini dovesse impadronirsi del Regno, attestano che fra
Dionisio non procedeva senza cautela, sempre per altro annunciando
frottole che potessero valere a dar animo, nel qual campo questa volta
si spinse davvero un po' troppo. Secondo il Campanella, precisamente
allorchè seppe la condanna pronunziata contro di lui dal Visitatore,
nella sua esasperazione egli non conobbe più limiti, ed ogni arma gli
parve buona purchè si raccogliesse presto un gran numero di seguaci:
ecco come trovasi esposto nella Dichiarazione questo momento della
propaganda di fra Dionisio. «Havendosi visto condemnato in galera tre
anni, privato dell'havito et di lettorato, secondo che havea comunicato
con Mauritio cominciò in Catanzaro a _predicare rebellione secondo la
prophetia mia_, et per haver molti della sua parte predicò ch'in quessa
congiura _ci era il Papa et Cardinal San Giorgi_, il Vescovo di Melito
et de Nic.º (_intend._ ed il Vescovo di Nicastro), et don lelio Ursino
et li signori del tufo, et tutti quelli ch'esso s'imaginò essere amici
miei et suoi, et io giuro in verità che mai non ho parlato di queste
cose et me pensai che per mezzo nostro se havessero a muovere». Vedremo
tra poco la parte da doversi attribuire al Campanella in tutto ciò:
qui gioverà soltanto notare che molto tempo dopo, nella Narrazione,
egli disse semplicemente che fra Dionisio «tornò a trattare d'uscir
in campagna per vendicarsi del Polistena, che per mezzo del Nizza pur
lo maltrattava, tanto più che ci erano altri monaci in campagna e lui
sparlava delle mutationi e signali del Campanella abusando le parole
per suo disegno»; questa differenza merita di essere notata, poichè
importa molto conoscere da chi veramente e per quale motivo fosse
nata la voce della partecipazione del Papa, del Card.^l S. Giorgio,
di varii Vescovi e nobili alla congiura, ciò che dal Campanella fu
narrato diversamente in diverse circostanze. Pertanto con le frottole
suddette, la maggior parte delle quali a dirittura di nuovo conio,
fra Dionisio continuava la raccolta di aderenti, e nel tempo medesimo
mostrava un vivo desiderio di assoluzione per l'affare di Taverna.
Così dalle deposizioni del Barone di Cropani, raccolte nel processo
di eresia, sappiamo che egli si portò a Catanzaro, in casa di un prete
suo amico a nome D. Geronimo Garzia, e là si rivolse appunto al Barone
di Cropani, il quale era Antonino Sersale, appartenente a famiglia che
vantava nobiltà di data antichissima ma d'influenza personale piuttosto
ristretta, già prima domiciliato in Nicastro, ove probabilmente avea
conosciuto fra Dionisio, e passato da qualche tempo ad abitare in
Catanzaro[292]. Il Barone andò a parlare per lui al Provinciale de'
Domenicani, che era allora P.^e Vincenzo della Grotteria, ma costui si
scusò dicendo di non potere far nulla, poichè trovavasi nella Provincia
il Visitatore, e gli suggerì d'impegnare il Vescovo; si rivolse al
Vescovo, che era Nicolò de Horatiis da Bologna, e costui scrisse al
Visitatore, il quale si scusò dicendo che la parte era presente e
volea giustizia; si rivolse infine all'Auditore Vincenzo de Lega e
lo pregò che scrivesse lui al Visitatore, e il De Lega scrisse, ma
pur sempre inutilmente. E mentre si facevano tutte queste pratiche,
dalle deposizioni raccolte nel processo della congiura sappiamo che
fra Dionisio più volte parlò segnatamente con Gio. Tommaso di Franza,
e poi anche con costui e Gio. Paolo di Cordova, inoltre con Giuseppe
di Cumesi, Francesco Striveri, Tommaso Striveri, Nardo Rampano, Mario
Fiaccavento, Gio. Battista Sanseverino, dippiù con Fabio di Lauro
e Gio. Battista Biblia; non occorre ricordare che il Franza ed il
Cordova erano appunto i due chiamati al convegno di Davoli; quanto
al Lauro ed al Biblia, meritano essi pure una menzione speciale, per
la tristissima parte che rappresentarono in sèguito. Fabio di Lauro
era giovane a 20 anni, originario di Amantea e già frate Cappuccino,
Gio. Battista Biblia era mercante, secondo il Campanella di origine
Ebrea, ma nato e domiciliato in Catanzaro, dove la sua parentela
era molto estesa, e suo fratello Marcantonio teneva l'ufficio di
Credenziero della gabella della seta[293]. Fabio e Gio. Battista se
ne stavano ricoverati per debiti nel convento de' frati Zoccolanti o
dell'Osservanza. Secondo alcune testimonianze che si leggono ne' brani
del processo della congiura finoggi conosciuti, fra Dionisio non solo
parlò più volte con costoro, ma scrisse anche una lettera segnatamente
al Biblia. Secondo il Campanella (nell'Informazione), costoro medesimi
diedero a fra Dionisio una lista d'individui i quali volevano uscire in
campagna, e lo fecero parlare ora con l'uno ora con l'altro, per poi
farli comparire come testimoni; la qual cosa si può bene ammettere,
non escludendo che fra Dionisio avea modo di conoscere anche altri
senza l'aiuto di Lauro e Biblia, e rimanendo sempre vero che con tutti
costoro egli parlò della ribellione; ma avendone questa volta parlato
in un senso diverso dal solito, importa vederlo più posatamente.
Non pare dubbio essersi questa volta fra Dionisio spinto fino a dire
che il Papa, dolente di tanta miseria e tirannia, volea liberare
il popolo rivendicando il Regno alla Chiesa cui apparteneva, ma
contentandosi che si costituisse in repubblica col riconoscimento
dell'alta Signoria ecclesiastica e pagamento di un mediocre tributo;
che per divine rivelazioni ed ispirazioni sapevasi di certo dover
questo accadere coll'aiuto di Dio; che erano già pronte a moversi
moltissime città e terre, d'accordo anche col Turco, il quale avea
promesso di venire in settembre per impedire qualunque soccorso alle
forze Regie dalla via del mare; che molti predicatori, a capo de' quali
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