Fra Tommaso Campanella, Vol. 1 - 33

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memoria tra loro. Ad ogni modo ne risultò la cattura di lui e del Di
Francesco, mentre non si era per anco compita l'informazione commessa
all'Auditore Di Lega su i capi che il Contestabile avea dato contro
il Campanella, e condotti dapprima a Castelvetere, tra il 22 e il 23
settembre, vennero anch'essi nelle carceri di Squillace al sèguito di
Carlo Spinelli.
A Squillace intanto lo Xarava non era rimasto inoperoso. Tutto
induce a ritenere aver lui, anche da solo, atteso a continuare
gl'interrogatorii e le torture: poichè dalla numerazione de' folii del
volume 2.º del processo veniamo a conoscere che, dopo Claudio Crispo,
furono successivamente esaminati Cesare Mileri e diversi testimoni,
il Gagliardo, il Conia, il Marrapodi, l'Adimari, e poi il Pisano, e
vedremo che in una relazione dello stesso Xarava, del 28 settembre, è
citata una deposizione del Pisano, la quale, trovandosi integralmente
riportata in copia nel processo d'eresia, mostra essere stata fatta
il 24 settembre alla presenza del solo Xarava; oltracciò anche
nella relazione predetta è annunziata l'esecuzione capitale di due
disgraziati avvenuta il 27, ed è scusato il ritardo nella spedizione
de' rimanenti con l'assenza dello Spinelli e con la malattia e morte
del Mastrodatti, onde si era mandato a chiamare un altro che lo
sostituisse. Calcolando tutte queste circostanze e tenendo presenti le
date, bisogna conchiudere che lo Xarava abbia agito egli solo, mentre
lo Spinelli era occupato a guardare le mosse dell'armata turca, e
che poi, menati a termine gli Atti, lo Spinelli sia intervenuto nella
spedizione, ossia nella pronunzia della condanna di coloro pe' quali
non rimaneva a far altro. Ecco ora i risultamenti degli esami per
ciascuno de' soprannominati, giusta i cenni che se ne hanno negli Atti
conservati in Firenze.
Cesare Mileri[421] depose essergli stato detto da fra Dionisio che
avea concertato con fra Tommaso e Maurizio una congiura per ribellare
il Regno, che per questo aveano l'aiuto del Turco, che intendevano
d'impadronirsi di molte terre, che «il capo di detta congiura era D.
Lelio Ursino il quale si voleva impatronire di tutto il Regno», che
a tale effetto aveano concertato di fare una massa di fuorusciti ed
altre genti, ed in ogni terra tenevano molti congiurati «preparati pel
momento in cui giungesse l'armata del Turco»; che fra Tommaso diceva
dovere questo Regno nel 1600 mutare padrone e dovervi essere gran
rivolture, che egli si offerse di stare in ordine con altri congiurati
e di trovare altri compagni; che dopo andò a vedere Francesco Antonio
Dell'Ioy amico suo e gli comunicò la congiura, e costui gli disse
che stava in ordine poichè fra Dionisio già glie l'avea comunicata,
e parimente Gio. Francesco di Nuzzi gli disse lo stesso. Aggiunse che
tanto fra Dionisio quanto il Dell'Ioy dicevano essere in quel concerto
molti fuorusciti ed altra gente di qualità di quella provincia, ed egli
lo sapeva, perchè da giugno in poi, sino a che fra Dionisio si pose in
fuga, egli l'accompagnò in alcune terre, in Catanzaro, in Girifalco,
in Nicastro ed altre, nelle quali fra Dionisio parlava segretamente
con diverse persone e poi gli diceva che quelle persone dovevano
prender parte alla rivolta. Aggiunse ancora essergli stato detto da
fra Dionisio, che egli medesimo e il Campanella avevano mandato in
Turchia a trattare col Turco acciò fosse venuto in soccorso «volendogli
dare molte fortellezze e terre in potere», e che a tale effetto nel
mese di giugno era venuto Amurat Rais con le galere per conchiudere la
ribellione, e su quelle galere era andato Maurizio de Rinaldis ed avea
conchiuso che l'armata fosse venuta in settembre; che egli, il Mileri,
con quelli da lui nominati «e tutti gli altri che erano concorsi»,
aveano concertato che alla venuta dell'armata turchesca sarebbero
entrati nelle terre, avrebbero ammazzato tutti gli Ufficiali e coloro
i quali ricusavano di aderire, e avrebbero dato aiuto all'armata
turchesca «acciò fusse entrata dentro dette provintie et impatronitasi
delle terre con fortellezze». Infine, interrogato sulla causa della
ribellione, depose che «fra dionisio, quando li cominciò à ragionare di
questa rebellione, li disse, che il Rè era uno tiranno et mandava tanti
alloggiamenti, et li facea pagare pagamenti fiscali et non l'havea
voluto mandare l'indulto, e li tenea cossì oppressati, e perciò li
persuase si fusse rebellato perchè saria vissuto liberamente et senza
tanti travagli, et esso deposante si contentò ribellarsi per vivere
liberamente senza essere soggetto alla Corte, et aspettava la giornata
che si havea da fare». Fu questa la deposizione del Mileri, ed essa
mostra che questo giovane senza esperienza, il quale certamente non era
stato fatto consapevole di molte particolarità sulla congiura, dovè non
solo perdersi di animo, ma anche concepire grandi speranze di potersi
salvare prestandosi alle più estese rivelazioni. Dopo che ebbe deposto,
gli fu amministrata la tortura, durante la quale confermò ogni cosa,
ma rettificò ciò che concerneva Gio. Francesco Nuzzi, dicendo che non
era intervenuto nel trattato. È lecito credere che non dovè sottostare
ad una grossa tortura, poichè evidentemente avea rivelato anche troppe
cose, e in quanto a sè medesimo avea confessato nel più ampio modo:
la tortura dovè essergli amministrata, come allora si diceva, «ad
tollendam omnem maculam et ad afficiendos complices», e riesce senza
dubbio notevolissimo che in essa egli ebbe piuttosto a diminuire le
rivelazioni fatte. Circa poi il merito di queste rivelazioni, non può
non colpire che mentre aveva accompagnato fra Dionisio per diverse
terre e vistolo confabulare con parecchi, non fosse giunto a conoscere
il nome di alcuno, neppure delle persone di Nicastro sua città natale,
oltrechè, impegnatosi a trovar socii, in tanto tempo non avesse saputo
trovare che il solo Dell'Ioy; e frattanto diceva essersi «concertato
con tutti gli altri che erano concorsi» e con costoro dover fare la
rivolta ed aiutare l'armata turca, per darle le terre e le fortezze,
come ripeteva più volte. Si può facilmente qui vedere la sollecitazione
dello Xarava, che con ogni probabilità dovè perfidamente lusingare
l'ingenuo cospiratore, e co' suoi interrogatorii suggerirgli quanto
volle che egli deponesse. Il Mileri avea ben potuto conoscere che c'era
un progetto di rivolta e decidersi a prendervi parte; forse avea potuto
anche udire da fra Dionisio le mutazioni previste dal Campanella,
poniamo anche doversi avere l'aiuto del Turco, e perfino dover essere
D. Lelio Orsini il futuro padrone del Regno, perocchè fra Dionisio si
era già posto in via di dirne d'ogni specie per eccitare gli animi:
ma difficilmente avea potuto sapere più di questo, onde si spiega il
fatto che a suo tempo vedremo, dell'avere cioè anche lui, quando veniva
barbaramente giustiziato, con altissime grida smentite le cose dette.
Intanto rileviamo che egli era «confesso», e quindi spacciato.
Dopo di lui venne la volta del Gagliardo e compagni, i quali
intendevano sempre di rappresentare la parte di rivelanti, esponendo le
cose dette loro da Cesare Pisano, mentre il tribunale pretendeva che
fossero complici. Ma parrebbe che gli esami di costoro fossero stati
fatti in Castelvetere, e poi ripetuti anche con la tortura in Gerace:
quest'ultima circostanza è sicura, come vedremo più oltre; la prima
trovasi attestata dal Gagliardo medesimo, ma in una sua confessione
posteriore di varii anni, avutasi quando, per altri delitti, stava per
essere giustiziato[422].
Felice Gagliardo fece un'amplissima deposizione[423]. Narrò che già
prima della venuta di Cesare nelle carceri, fra Giuseppe Bitonto avea
detto che tratterebbe le cose di lui in Condeianni, e frattanto stesse
di buon animo «che vederà succedere cose che li saranno di grandissima
utilità». Narrò poi la visita fatta al Pisano dal Campanella, da fra
Dionisio e dal Bitonto, nelle carceri di Castelvetere verso il 1º
luglio, con ragionamenti segreti e la presentazione che il Pisano fece
di lui al Campanella, siccome uomo che potea «servire et movere genti»,
e le parole dettegli da fra Tommaso, «dati credito a quello che vi
dirà et raggionerà Cesare, per che quanto ve dirà depende da me» (le
quali proposizioni servirono pur esse in sèguito come gravissimo capo
di accusa contro il Campanella); inoltre narrò le parole dettegli da
fra Dionisio, «attendetivi à disbrigare, perchè fra Gioseppo vicario de
Condeianne vi procurarà la remessione delle parti, et come sareti fore,
raggionaremo di meglio garbo, fra tanto Cesare Pisano vi raggionarà
a luongo, datili credito»! Narrò di avere udito da detto Cesare e
da' frati che erano venuti ad oggetto di trattare col Principe della
Roccella per fare liberar Cesare, il quale di poi comunicò così a lui
come al Marrapodi e al Conia, che il Bitonto in S. Giorgio gli avea
detto essere Campanella il primo uomo del mondo, ed essere andato molto
tempo in giro trattando con molti potenti e particolarmente col Turco
mediante lettere, «per far sollevare questo Regno, et levarlo dalla
suggezione di Rè di Spagna et metterlo in libertà, et che per tale
effetto havea uniti li fuorusciti dell'una et l'altra provintia di
Calabria al numero di 800, et che pensavano un giorno di questo mese di
Settembre fare detta sollevatione, et che volesse esso Cesare entrare
in detta congiura, et che convocasse quanti amici et parenti potesse,
al che esso Cesare s'offerse». Aggiunse di aver udito parimente da
Cesare che alla congiura partecipava il Vice-Conte di Oppido fratello
di fra Dionisio, e che stando in Oppido in compagnia di detti frati e
del Vice-Conte, il Campanella scrisse una lettera e la mandò per lui
a' fratelli Moretti, i quali vennero allora in Oppido e si riunirono
in segreto soli, e presero concerti per la rivolta. Aggiunse pure di
avere udito dallo stesso Cesare che «il Campanella havea stabilito
alli congiurati nova sorte di vestiti, cioè una tabanella bianca fino
alle ginocchie con maniche lunghe, et un coppolicchio (_intend._
berrettino) ligato à modo di turbante di Turcho, et che havea da
mutare linguaggio, et che voleano uccidere tutti li Preiti, et Monaci
che non voleano adherire, et che voleano brusciare tutti li libri et
fare nuovo statuto, et che voleano liberare tutte le Monache dalli
monasterij, et voleano fare il _crescite_ etc. e gridare à tempo del
sollevamento, viva la libertà et mora Rè di Spagna, et che voleano
tagliare à pezzi lo Governatore, et auditori et tutti quelli che non
erano della loro parte, et così fare voleano à Stilo et altre terre, et
uccidere tutti li Signori della Provincia, quali chiamavano tiranni,
et nel Castello di Stilo s'havea da gridare, viva la libertà, et mora
il Rè, et volevano fare Stilo Repubblica et chiamare il detto Castello
Mons pinguis, et che fra Tomase si havea da chiamare il Messia venturo,
come già detto Cesare lo chiamava, et fatta detta sollevatione, haveano
d'andare per ogni terra li predicatori à predicare la libertà, et che
saria venuta l'armata del Turco à darli aggiuto». — Per verità non
si può non riconoscere che avessero dovuto realmente esservi stati
discorsi molto spinti non solo sulla congiura ma anche su' disegni
delle riforme le quali si sarebbero attuate nella futura repubblica,
sia tra il Bitonto e il Pisano, sia, come è pure assai credibile, tra
il Bitonto e lo stesso Gagliardo prima della carcerazione di costui:
lo mostrano le notizie perfino su' nuovi abiti da doversi indossare,
alludendo senza dubbio a' cittadini del nuovo Stato, e su' libri da
doversi bruciare, alludendo senza dubbio a' libri latini in materia di
fede e di pratiche religiose; le quali notizie furono anche accertate
da fonti abbastanza sicuri, ma venendo in processo molto tempo dopo e
senza alcun rapporto con la deposizione del Gagliardo. Si direbbe pure
che sempre nuove notizie avessero dovuto di tempo in tempo giungere a'
detenuti nelle carceri di Castelvetere, poichè essi sapevano perfino
il tempo della venuta dell'armata turca, la quale notizia non poteva
conoscersi ancora allorchè furono rinchiusi nel carcere: ma qui
probabilmente influì la voce che già se n'era diffusa, ovvero anche la
studiata maniera d'interrogare dello Xarava facilmente compresa dal
Gagliardo, il quale per certo non era uomo da farsi scrupolo per le
menzogne. Quanto poi all'essersi i Moretti concertati col Campanella,
con gli altri frati e con Ferrante Ponzio in Oppido, dietro una lettera
scritta loro da fra Tommaso e portata da Cesare Pisano, è possibile che
costui l'abbia detto tra' compagni di carcere, per vantare l'opera sua
ed anche per accrescere l'importanza della congiura con nomi di persone
molto riputate; ma da nessun'altra parte emerse mai alcun cenno di una
escursione del Campanella in Oppido, e del resto vedremo che il Pisano
medesimo sul punto di morte si disdisse esplicitamente intorno a'
Moretti.
Seguì l'esame di Geronimo Conia[424]. Egli fece una deposizione
non dissimile da quella del Gagliardo, dicendo ancora di avere
udito da Cesare Pisano, che gli piacevano i pensieri del Campanella
comunicatigli da fra Dionisio, che più volte avea condotto Eusebio
Soldaniero a Stilo presso il Campanella, che costui e fra Dionisio
aveano trattato co' Vescovi di Mileto e di Oppido i quali gli offersero
aiuto, e il Vescovo di Mileto avea favorito i fuorusciti della sua
diocesi per tenerli ad ogni sua richiesta o devozione, ed aveva anche
scritto al Vescovo di Gerace ed al Principe della Roccella per far
liberare Cesare. Aggiunse che Cesare era andato col Campanella, con
fra Dionisio, col Bitonto e col Jatrinoli, alla Grotteria presso fra
Paolo, e quivi mandato a chiamare Notar Domenico Spasari, il Campanella
e fra Paolo cercarono persuaderlo di consentire alla congiura, come
uomo potente che egli era, perchè confidavano potersi la Grotteria
guardare con cento uomini; ma lo Spasari disse di non poter dare altro
aiuto che di danaro, e fra Paolo disse che se ne sarebbe poi parlato,
e il Campanella disse che non v'era bisogno di danaro ma si contentava
di ciò che avrebbe trattato con fra Paolo. Aggiunse infine, sempre a
detto di Cesare, che di questa congiura si era cominciato a parlare fin
da quaresima scorsa, al tempo in cui il Campanella leggeva filosofia
a' fratelli Moretti, ma nel maggio propriamente si era cominciata
ad ordire. — Tale fu la deposizione del Conia. Essa non ci dà, come
quella del Gagliardo, indizii d'intelligenze anteriori tra il Conia
ed i frati, ma pure vi si può notare la rivelazione delle intelligenze
corse tra il Campanella ed alcuni Vescovi, ciò che mostrerebbe perfino
avere fra Dionisio già messo innanzi i Vescovi prima della sua andata
a Catanzaro; in fondo poi essa riusciva ad aggravare di molto le
condizioni di fra Paolo, ed esprimeva sempre le vanterie di Cesare
Pisano, il quale in realtà parrebbe che avesse voluto mostrare ai suoi
compagni di carcere non esservi alcuno più di lui informato delle cose
della congiura.
Successivamente si ebbero le deposizioni di Gio. Angelo Marrapodi, di
Orazio Santacroce e Camillo Adimari[425]. Costoro, come si espresse il
Mastrodatti nelle scritture che possediamo, deposero nel modo medesimo
del Gagliardo: solamente il Marrapodi aggiunse di non aver voluto
condiscendere, e di aver avuto dal Pisano la raccomandazione che almeno
non dicesse nulla; l'Adimari, dal canto suo, aggiunse che non l'aveano
rivelato prima perchè non gli diedero credito, e quando udirono essere
stato carcerato il Campanella, tennero quelle cose per vere e le
rivelarono al Principe. Tutto per verità induce a credere che costoro,
compreso il Conia, non avessero condisceso in modo formale alle premure
del Pisano, il quale, come vedremo a suo tempo, sul punto di morire
li scusò interamente, nominandoli ad uno ad uno e tralasciando solo il
nome del Gagliardo.
Veniamo all'esame di Cesare Pisano[426]. Intorno a costui sappiamo
che fece la sua deposizione, ebbe il tormento, ratificò la confessione
fatta in tormento e nello stesso giorno fu sottoposto a un nuovo esame
che porta la data di Squillace 24 settembre: abbiamo dunque una data
certa che ristabilisce la cronologia precisa del nostro racconto.
Nella deposizione il Pisano cercò di vendicarsi del Gagliardo. Disse
che non conosceva il Campanella nè fra Dionisio, ma solo il Bitonto,
il quale gli era cugino; che col Bitonto erano venuti alle carceri
di Castelvetere due altri frati, uno de' quali seppe dal Gagliardo
essere il Campanella, e vide que' frati e il Gagliardo parlare un
pezzo segretamente, e quindi Felice gli disse che aveano parlato di
negromanzia lodandogli il Campanella come un grande uomo. Negò il fatto
della congiura, ma attestò che il Gagliardo, dopo di aver conferito
co' frati disse, «questi Monaci parlano di gran cose, non per Dio
posso credere che loro ne possano uscire». Fu allora posto alla corda,
malgrado la sua qualità di clerico; e la corda dovè essere terribile,
o dovè fargli un terribile effetto, poichè in essa rivelò tutta la
congiura. Narrò che nel maggio scorso era andato a Bagnara e Messina
col Bitonto e fra Dionisio, e che il Bitonto, prima d'imbarcarsi gli
disse, «stà di buon animo, che voglio che te trovi ad una fattione che
volimo fare, che sarà l'esaltatione tua», aggiungendo che era cosa
di grande importanza, che vi bisognavano uomini di valore e che al
ritorno glie la dichiarerebbe; come infatti, al ritorno, incontrati
i detti frati con fra Giuseppe Jatrinoli e il bastardo di Alfonso
Grillo di Oppido, gli dissero di andare con loro a Stilo per vedere
il Campanella, ed avendo la sera pranzato in Stignano, quivi fra
Dionisio e il Bitonto gli comunicarono che col Campanella avrebbero
presa risoluzione di ribellare il Regno e sottrarlo al dominio del
Re di Spagna, avendo con loro molti fuorusciti e molti gentiluomini
e Signori, tra' quali nominarono il Marchese di Arena. Giunti a
Monasterace dove trovavasi il Marchese, fra Dionisio e il Bitonto
parlarono un pezzo segretamente col Campanella, ed insieme si recarono
presso il Marchese, quindi i tre frati col resto della compagnia
se n'andarono a Stilo: nel convento di Stilo trovarono parecchi
fuorusciti, e l'indomani i frati negoziarono a lungo col Campanella, e
di poi costui, nel licenziarsi dal Bitonto e dal Jatrinoli, poichè fra
Dionisio rimase con lui, disse che andassero con cautela e segretezza.
Aggiunse che, incontrato un gentiluomo di casa Prestinace, i detti
frati Bitonto e Jatrinoli parlarono strettamente con costui, e poi
gli comunicarono essere anche costui de' congiurati. Aggiunse che il
Bitonto gli disse inoltre avere fra Dionisio predicato in Terranova,
ed avere quivi concertata la ribellione col proprio fratello, e con
altri. — Questo sunto della confessione del Pisano certamente non è
completo: sappiamo infatti dalla sua «esculpatione» in punto di morte,
che disdisse quanto avea detto «alla corda che ebbe in Squillace»
circa Orazio Santacroce e il fratello di lui, come pure circa Geronimo
Conia[427]; ciò serva una volta di più a fare avvertire che ci rimane
sempre a conoscere non poco intorno a' laici involti in questa causa.
Pertanto la confessione fu da lui ratificata, come per regola si dovea
sempre fare scorse 24 ore. E nello stesso giorno si volle interrogarlo
sulla nuova legge che il Campanella intendeva di pubblicare, e qui
il Mastrodatti che fece il Riassunto degl'indizii scrive di omettere
le eresie nefandissime e detestabilissime dette dal Pisano «propter
earum turpitudinem»: ma avendo la copia del processo verbale, che fu
poi in Napoli trasmessa al tribunale per l'eresia, possiamo dare un
piccolo saggio almeno dei tratti principali, massime in rapporto alle
cose del nuovo Stato da fondarsi ed alla partecipazione de' voluti
complici[428]. Disse dunque che a Stignano, in casa del Grillo,
oltre i frati suddetti era venuto anche fra Domenico Petrolo, e si
era parlato del Campanella affermando che «era lo primo homo del
mondo, et il vero legislatore et vero Messia che havea da reducere li
huomini alla libertà naturale con la vera raggione, poi che Christo
con dudici poveri huomini s'haveano impatronito del mondo, et esso
campanella voleva monstrare come era tutto falso, et che con la sua
predica et dottrina, et con il valore de tanti che lo sequitavano
con le arme haveria levato la fede de cristo, et impatronitosi esso
del mondo dicendo che il Papa, et l'Ecclesia non erano vere, ma era
autorità usurpata, et che se l'haveano pigliata per dominar' il mondo,
et che li monasterii di monaci et moneche l'haveano fatti acciò non
se creassero homini, et che il Papa et Cardinali, Arcevescovi, et
altri prelati erano tutti tirandi et sodomiti, et che Cristo era un
pover'homo, et che s'havea pigliato per apostuli dudici peczienti, et
che li miraculi che havea fatto tanto Cristo, quanto li santi non era
vero, ma erano stati scritti dalli detti apostuli soi parenti, et che
li miraculi fatti da san' Francesco de paula non erano miraculi, ma che
l'havea fatti in virtù dell'herbe perche era girugico; et che non era
vera la santiss.ª Trinità, mà che era un solo Idio, et che la madonna
santiss.ª era moglie di san'Gioseppe, et che non nce era inferno, ne
purgatorio, ne diavoli, ne angeli, et che l'anime tanto di turchi,
quanto di Cristiani quando passavano da questa vita tutte andavano
à Dio». E qui una serie di goffe ed immonde scempiaggini contro gli
Apostoli, contro i Sacramenti, in ispecie contro il sacrificio della
Messa, e poi «che il campanella era il vero messia che havea da redurre
il mondo in libertà et levarlo da tirannia della setta che steva, et
che ogniuno potria essere signore che s'haveriano spartuto bonamente
tutte le cose tra loro in comune se goderiano li signore (_forse_
si godevano li Signori) alli quali chiamavano tiranni del mondo, et
che Dio non fece ecceptione di nullo, et tutte le robbe le creò per
servitio de tutti, le quali cose havendo inteso esso deposante, si
bene non le credeva in tutto, concorreva con lloro che li dicevano;
questo è pensiero deli litterati, et predicaturi di farlo conoscere
al mondo, che delli populi non voleano altro eccetto le arme, et cossì
esso deposante nce concorreva de buon'animo à detta rebellione». Dietro
altre interrogazioni disse che ciò era accaduto in giugno, dieci
o dodici giorni prima della sua carcerazione, che nelle carceri di
Castelvetere avea comunicato tutte queste cose a Felice Gagliardo, il
quale «li respose che esso le sapeva più prima, poi che nce l'haveano
detto li predetti fra Gioseppe bitonti et frà Gioseppe Jatrinoli che
ad altri esso deponente non l'hà detto, mà tutti li predetti monaci
erano di detta openione che alla loro persuasione esso deposante nci
concorreva più per la libertà della rebellione che per altro». — È
inutile ora fermarsi sul valore di queste rivelazioni del Pisano: si
dissero poi molte cose almeno per attenuarle, ma vedremo che sul punto
di morte egli le smentì appena in piccola parte e ne aggiunse alcune
altre, affermando di averle omesse «ad instigatione et prighiere
di fra Thomase Campanella» quando erano carcerati «in la città di
Squillaci». Intanto egli era confesso sull'accusa di aver consentito
alla ribellione, e quindi non doveva aspettarsi che una condanna
capitale: ma occorreva ancora fare una confronta tra lui ed altri che
si trovavano in Gerace, e quindi fu riserbato ad ulteriori esami ed
ulteriori strazii in quella città.
Dopo il Pisano potè forse essere esaminato qualche altro testimone
di nessuna importanza, come un Domenico Messina, ed ancora Giuseppe
Grillo, il quale fece del pari una deposizione insignificante[429];
poichè disse solo aver conosciuto fra Dionisio in Oppido, quando
vi andò a vedere suo fratello Ferrante, e poi averlo accompagnato,
due giorni dopo, a Condeianni, di dove, unitamente col Bitonto, col
Jatrinoli e col Pisano, venne ad alloggiare per una sera in una casa di
Gio. Alfonso suo padre, e l'indomani se ne partirono e non li vide più.
Ma per certo le confronte del Pisano con altri, e gl'importanti esami
di Gio. Tommaso Caccìa, che dalla numerazione de' folii del processo
risultano al sèguito di quelli finora narrati, non si fecero in
Squillace: lo attestò più tardi in Napoli, nel tribunale per l'eresia,
fra Domenico Petrolo, il quale disse che il Caccìa «in Squillaci non fù
essaminato... et in hieraci hebbe la corda»[430]; ciò che del resto si
spiega con l'incidente della mancanza del Mastrodatti, e con l'ordine
dello Spinelli che si cominciasse a far giustizia e che il tribunale
si trasferisse a Gerace. Vi fu dunque una temporanea sospensione dello
svolgimento del processo, durante la quale si ebbe l'esecuzione di
Claudio Crispo e Cesare Mileri, che conosciamo mercè una relazione
dello Xarava, ed ancora la tanto aspettata cattura di fra Dionisio,
di Maurizio, di Gio. Battista Vitale ed un altro, che conosciamo
mercè una lettera di Gio. Geronimo Morano; questi due documenti, da
noi rinvenuti in Simancas, ci pongono in grado di esporre i fatti
anzidetti in tutti i loro particolari. — Lo Xarava, ottenuta dal Pisano
quella deposizione infarcita di eresia, ebbe cura d'inviarne copia al
Vicerè per trarre profitto di tale circostanza, come già altra volta
lo Spinelli avea fatto: esagerando ogni cosa fuor di misura, egli
voleva indurre il Vicerè ad ottenere senz'altro da Roma la licenza
di proseguire in Calabria il processo contro gli ecclesiastici, ed
è notevole l'accanimento che in tale occasione mostrava contro il
Campanella[431]. «Tra gli altri, egli scriveva, che hanno confessato
il trattato e congiura di ribellarsi contro il Re nostro Signore, uno
che si chiama Cesare Pisano, gentiluomo della terra di S. Giorgio, ha
deposto le eresie che V. E. potrà comandare di vedere con la copia del
capitolo della sua confessione che va con questa; il quale capitolo
mi è sembrato d'inviare a V. E. perchè possa considerare il danno che
questo maledetto eresiarca del Campanella deve aver fatto in queste
provincie, avendo contaminata la maggior parte della gente di esse con
la sua abominevole e falsa dottrina, che secondo confidava di trarre
ad esecuzione il suo dannato intento, come già avea concertato con
la venuta dell'armata, è segno certo che tenea molti a sua devozione
i quali seguivano la sua falsa setta, perchè essendo uomo di tanto
pellegrina intelligenza, siccome mostra, non può immaginarsi che si
mettesse a tentare un'impresa tanto ardua senza sufficiente fondamento
di aiuto, e tale da potergli assicurare il successo che si prometteva
e dava ad intendere a tutti; e per potere scovrire queste cose e
sradicare e gastigare coloro che sono incorsi in simili errori contro
Dio e S. M.^tà, non potendosi farlo interamente senza il braccio di S.
S.^tà, per esservi in mezzo tanti ecclesiastici che sono gli autori da'
quali si debbono sapere gli altri, potrà V. E. comandare che si prenda
l'espediente che meglio le sembrerà convenire». Ma S. E. avea preso
l'espediente, fin da che lo Spinelli glie ne avea scritto altra volta,
e non avea potuto ottenere da Roma quanto si desiderava.
Il 27 settembre si fecero le prime esecuzioni capitali in persona
di Claudio Crispo e Cesare Mileri, e per dare l'esempio in più largo
teatro, si fecero in Catanzaro. La relazione medesima dello Xarava,
scritta il giorno dopo, ne dà le notizie autentiche, e solamente
tace i nomi de' giustiziati: ma oltrechè non ci sarebbero altri cui
poter riferire quelle esecuzioni, i nomi suddetti emergono anche da
testimonianze raccolte nel processo di eresia; d'altronde li cita
con tutta esattezza una lettera del Residente Veneto[432], la quale
fornisce anche particolari molto precisi comunque incompiuti, mentre
due lettere dell'Agente di Toscana accennano il fatto senza nomi e
senza troppi particolari[433]. «Si è cominciato, scriveva lo Xarava
il 28, a far giustizia di questi carcerati con la dimostrazione che
il delitto richiede, essendosi ieri mandato a eseguire quella di
due in Catanzaro: furono condannati ad essere arrotati, tanagliati
e strozzati in mezzo alla piazza, e ad esser quivi appiccati per un
piede, a dopo 24 ore a essere fatti in quarti e poste le loro teste
in una gabbia sopra la porta principale della città col titolo de'
loro nomi e del delitto, inoltre ad avere diroccate le loro case e
confiscati i loro beni». Tutte queste circostanze ed in ispecie le
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