Fra Tommaso Campanella, Vol. 1 - 06

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del Tufo figlio di Fabrizio, e tutte e tre queste persone erano nipoti
di Mario del Tufo. Vedremo che questi Signori del Tufo, e con essi
Marc'Antonio creato Vescovo di Mileto precisamente nel 1585, furono
poi in istretti rapporti col Campanella; è del tutto verosimile che
tali rapporti abbiano avuto principio appunto con l'orazione di S.
Giorgio[42].
Veniamo alla dimora in Nicastro, quanto più passata sotto silenzio
tanto più interessante per la nostra narrazione. Verso la fine del
1585 o il principio del 1586 il Campanella fu assegnato al convento
dell'Annunziata di questa città, sempre nella qualità di studente,
ed ebbe ad assistere alle lezioni di un P.^e di cognome Fiorentino,
verosimilmente il P.^e Antonino de Fiorenza che fu poi Provinciale
di Calabria nel 1587-88, e forse uno degli antenati del chiaro
filosofo odierno prof. Francesco Fiorentino, che ha avuto i suoi
natali appunto ne' pressi di Nicastro; giacchè i documenti dell'epoca
mostrano abbastanza diffusi in quel territorio i «de fiorensa», i
quali mano mano si dissero in seguito «Fiorentino». In Nicastro il
Campanella ebbe a condiscepolo fra Dionisio Ponzio della medesima
città, e con lui anche fra Gio. Battista Cortese di Pizzoni; vi
conobbe egualmente fra Pietro Ponzio germano di fra Dionisio, e con lui
l'altro germano Ferrante Ponzio; fin d'allora egli si strinse in molta
intimità con costoro, che troveremo poi tutti involti ne' processi
pe' fatti di Calabria come principali imputati, e ciò forse spiega
che nel _Syntagma_ la dimora in Nicastro non sia stata menzionata.
Ne parlò intanto nel processo di eresia non solo il frate citato
più sopra ma anche fra Gio. Battista di Pizzoni, il quale ricordò il
Fiorentino lettore e fra Dionisio suo condiscepolo col Campanella,
aggiungendo una particolarità in questi termini, che fra Tommaso
era «contradicente ad ogni cosa et particolarmente alli lettori
sui, et un giorno contradicendo al detto Fiorentino hebbi a dirgli,
Campanella, Campanella, tu non farai buon fine»; queste cose egli
affermò avvenute «da quindici anni incirca». Ugualmente fra Pietro
Ponzio, nel medesimo processo, affermò che l'amicizia di fra Dionisio
col Campanella datava «da più di 14 anni» e si era sempre mantenuta
viva: le quali testimonianze, essendo della fine del 1599, ci menano al
1585 e 1586[43]. Appartenevano i Ponzii a buona famiglia di Nicastro,
ed avevano spiriti non meno bollenti di quello del Campanella; perduto
il padre in età molto giovane, due di essi nell'anno precedente si
erano ascritti all'ordine Domenicano, vestendone l'abito in Catanzaro,
l'altro, Ferrante, disponevasi appunto in quell'epoca a recarsi
in Napoli per attendere agli studii legali[44]. Non è arrischiato
l'ammettere che fin d'allora tra il Campanella e questi giovani si
sieno manifestati desiderii e concetti di un migliore avvenire pel
paese: anche nel processo di congiura un frate amico del Campanella
affermò essergli stata fatta da fra Tommaso la confidenza che «havea
tridici anni ch'havea questi pensieri nelo stomaco, et l'havea
comunicato dal'hora con fra Dionisio»[45]. — Più certo è che in
Nicastro siasi ancora accresciuto nel Campanella quell'atteggiamento
battagliero e riottoso che abbiamo già visto apparire in S. Giorgio,
onde spingevasi a dispute co' suoi maestri, i quali non potevano
soddisfare agli argomenti che egli adduceva contro le cose insegnate
da loro. Indubitatamente questo dovè procurargli molte avversioni,
essendo tutti i frati seguaci esclusivi delle dottrine Aristoteliche;
e a tale fatto, essenzialmente vero, furono di poi attribuite le più
gravi conseguenze dal Campanella medesimo e quindi da' suoi biografi,
essendosi ad esso ascritte tutte le sue sventure. Nè pare dubbio che
veramente in Nicastro il Campanella siasi ingolfato nella lettura
de' maggiori filosofi dell'antichità, e che abbia quivi per la prima
volta, nel calore de' diverbii, udito nominare Bernardino Telesio,
onde s'invogliò di leggerne le opere, che potè avere solamente quando
si recò a Cosenza. Ecco come egli ci narra tali cose con maggiore
larghezza nella prefazione del suo volume scritto poco dopo, vale
a dire la _Philosophia sensibus demonstrata_. «Coloro a' quali
comunicava queste mie opinioni le riferivano ad altri maggiori, e però
soffriva non poche riprensioni, come colui che solo era contrario
alle sentenze de' grandi filosofi (secondochè dicevano), non davano
ascolto alle mie ragioni, ma stretti da esse prorompevano in parole
niente pacifiche verso di me. Queste cose io ebbi a patire circa il
18º anno ed egualmente prima. Dopo ciò la verità si fece più ardente
e poteva meno tenersi ulteriormente dentro, dicendosi che aveva un
intelletto depravato e reprobo come l'aveva un certo Bernardino Telesio
Cosentino, onde avversava tutti i filosofi e precisamente Aristotile:
fui lieto oltremodo di avere un compagno o duce, da potergli apporre i
miei detti e riferirli con una certa scusa, quasi profferiti da altri.
Partito per Cosenza, la preclarissima città de' Brettii nella Calabria
inferiore, denominata un tempo Brettia, chiesi il libro di Telesio ad
un certo illustre ed ottimo uomo suo seguace, il quale volentieri me
lo recò. Cominciai a percorrerlo con sommo studio, e letto il primo
capitolo, compresi ad un tempo interamente ogni cosa che si conteneva
negli altri, prima che li leggessi. Era per fermo disposto verso
que' principii, ed intesi egualmente tutto ciò che da essi procedeva,
dappoichè in lui tutto deriva da' suoi principii, e non già ciò che
segue è contrario a' principii o non dipende da essi, come accade
in Aristotile. E poichè mentre ivi dimorava, il sommo Telesio venne
a morte, e non mi fu dato udire da lui le sue sentenze, nè vederlo
vivo ma morto e portato in Chiesa, il cui volto scovrendo io ebbi ad
ammirare e moltissimi versi affissi per lui al suo tumolo, recandomi ad
Altomonte per ordine de' Superiori, stimai bene esaminare là l'opera
di questo filosofo» etc. Nel _Syntagma_ queste stesse cose si trovano
registrate con la maggiore concisione, leggendosi appena: «Poichè
nel discutere pubblicamente in Cosenza, non che privatamente co' miei
frati, poco giungevano a quietarmi le loro risposte; ma Telesio mi recò
diletto, tanto per la libertà del filosofare, quanto perchè prendeva
a guida la natura delle cose, non i detti degli uomini. E però avendo
affissa un'Elegia a Telesio morto col quale vivente non mi fu dato
parlare, mi recai alla terra di Altomonte».
Adunque, dopo Nicastro, il Campanella andò in Cosenza. L'epoca di
quest'andata non ci è ben nota; ma assai probabilmente dovè accadere
verso l'agosto del 1588, per le ragioni che tra poco diremo. — Uno
de' primi biografi del Campanella, l'Eritreo, ci lasciò scritto
che l'occasione dell'andata a Cosenza fu una disputa filosofica
colà bandita da' Francescani, che il Campanella vi fu mandato e vi
riportò un grande trionfo[46]. La cosa non sarebbe punto strana, ed
una prova se ne avrebbe in quella frase del _Syntagma_, «poichè nel
_discutere pubblicamente in Cosenza_ non che privatamente co' miei
frati». Ma il fatto importante di tale andata fu l'aversi procurato il
libro del Telesio, che cominciò a leggere senza finirne la lettura,
e l'aver voluto vedere il Telesio senza poterlo vedere che morto.
Gravi biografi del Campanella, come il Baldacchini e il D'Ancona,
hanno interpetrato la cosa nel senso che i frati non gli permisero di
vedere il Telesio, e fino ad un certo punto la parola adoperata dal
Campanella (non licuit) autorizzerebbe tale interpetrazione. Ma per
ritenere un divieto, bisognerebbe sconoscere da una parte la disciplina
rilassata od anzi la nessuna disciplina de' frati a quell'epoca,
e d'altra parte l'insofferenza e baldanza del Campanella, il quale
appunto allora era per darne una pruova memorabile. Facciamo inoltre
riflettere che il Campanella cominciò a leggere ma non finì la lettura
dell'opera del Telesio, e dopo la morte di lui (che si conosce essere
avvenuta nell'8bre 1588) partì subito per Altomonte; la qual cosa
viene accertata dal fatto che vedremo affermato da lui medesimo, che
cioè cominciò a scrivere la sua _Philosophia sensibus demonstrata_
in Altomonte dal 1º gennaio 1589 in poi, dopo di avere là compiuta la
lettura de' libri Telesiani, di molti altri libri antichi e del nuovo
libro del Marta contro il Telesio, al quale libro egli si diede a
rispondere. Nè la sua andata ad Altomonte «per ordine de' superiori»
si deve attribuire al fervore dimostrato pel Telesio, ma invece ad un
incidente gravissimo, che fra Tommaso tacque ma che noi potremo dare in
tutta la sua ampiezza avendolo nel processo. Adunque non vediamo alcuno
indizio ben fondato per ammettere che il Campanella non abbia potuto
veder Telesio essendogli ciò vietato da' superiori. Vediamo invece
due motivi molto chiari e più che sufficienti: il primo, l'andata del
Campanella a Cosenza in un tempo assai vicino a quello in cui morì il
Telesio, col naturale desiderio di leggerne le opere prima di fargli
visita e parlare con lui; il secondo, la conosciutissima condizione
di fatuità in cui cadde il Telesio negli ultimi 18 mesi della sua
vita, circostanza della quale ci sorprende il vedere che non si sieno
ricordati i biografi del Campanella. Guardando anche a qualche notizia
che si ha dal processo intorno alla dimora del Campanella in Cosenza,
e mettendola in relazione con tutte le altre, si confermano le cose
suddette. Il Campanella ebbe a compagno di stanza in quella città il
suo carissimo amico fra Pietro Presterà di Stilo, e costui nel processo
affermò di averlo visto in Cosenza «per due mesi»; così, tenendo
presente che il Telesio morì nell'ottobre, siamo indotti a ritenere
l'agosto 1588 come data probabile dell'andata del Campanella a Cosenza.
Altri testimoni che parlano de' fatti di Cosenza (fra Agostino Cavallo,
fra Giuseppe Dattilo, fra Vincenzo d'Amico) si riportano concordemente
a «diece anni fa», e dicendo ciò nel 1600, accennano all'anno 1590 come
quello in cui il Campanella era in Cosenza, ma vi sono tutte le ragioni
per ritenere che que' frati alludevano, ed anche approssimativamente,
alla seconda venuta del Campanella a Cosenza, di ritorno da Altomonte
e sul punto di andarsene a Napoli, mentre d'altra parte non v'è
alcuna ragione per contestare le date così precisamente affermate dal
Campanella su tale proposito.
Ecco ora i particolari della dimora in Altomonte, cioè dal novembre
1588 in poi. Vediamoli dalle stesse parole del Campanella, com'egli
ce li lasciò scritti dapprima molto diffusamente nella prefazione
alla sua _Philosophia sensibus demonstrata_. Si tratta di un momento
molto importante della vita del Campanella, e non deve ritenersi
eccessivo il fermarvisi con qualche larghezza; d'altronde avremo pur
troppo a parlare di persecutori, di carcerieri e perfino di aguzzini
del Campanella, e ci godrà sempre l'animo di poterci trattenere
talvolta a parlare di qualche suo amico e benefattore. — «Recandomi ad
Altomonte per ordine de' Superiori, stimai bene esaminare là l'opera
di questo filosofo (Telesio) prima di pubblicare l'opericciuola sul
modo d'investigare e le cose da me trovate. In tal guisa, avendo potuto
occuparmene, conobbi non essere stato Bernardino Telesio depravato,
bensì depravati affatto tutti gli altri, e giudicai che quest'uomo
dovesse anteporsi a tutti, come colui che desume la verità dalle cose
vedute col senso, non dalle chimere, e che tratta le cose stesse, non
le parole degli uomini, secondochè mi fu manifesto. Accadde finalmente
che venisse a me un certo eccellente dottore di medicina, illustre
filosofo, il quale fuggiva gli errori de' Peripatetici, Gio. Francesco
Branca di Castrovillari, accompagnato coll'altro medico a nome Plinio
Rogliano della città di Rogiano, stimato più di molti altri per la
sottigliezza dell'ingegno, e discorressimo insieme de' principii
della filosofia e della verità delle cose; questi riuscirono nostri
amicissimi ed immensamente utili, e di continuo venivano a discorrere
insieme, e si penetrarono tanto della verità di Bernardino Telesio, da
predicarlo il solo degno di lode tra' filosofi, e mi sollecitarono a
dar fuori ciò che mi era proposto. Costoro mi furono larghi di molti
beneficii, e mi portarono i libri de' Platonici e de' Peripatetici, di
Galeno, d'Ippocrate e d'altri, acciò la difesa di Telesio da noi ideata
fosse confermata da' detti de' più antichi. In quel tempo comandava
colà un certo invidioso, il quale non una volta, ma invano, mi accusò
di falsa dottrina, e di conversare eccessivamente con persone estranee
al chiostro, presso il molto Rev.^do P.^e Pietro Ponzio da Nicastro,
Maestro di Teologia ed allora degnissimo Provinciale, come presso tutti
gli altri Superiori: giudichino pertanto qui la dottrina gli uomini
perspicaci, non già egli che era ignorantissimo. Ma le persone che si
riunivano con me erano buone e nobili, tra le quali il molto illustre
Muzio Campolongo, Barone di Acquaformosa, che mi favoriva di moltissimi
beneficii quasi mio malgrado, e mi difendeva da tutti e dall'ira di
quel maledetto uomo, e mi avrebbe fatto altri favori se avessi voluto;
a costui io debbo moltissimo. Parimenti Paolo Gualtieri non ignobile
giureconsulto, che tornato da Napoli in patria mi fu carissimo, così
per la sua prestanza ed integrità, come per avermi sempre più stretto a
D. Luigi Brescia di Badolato, giureconsulto acutissimo, non secondo ad
alcuno nell'arte della memoria, unito a me di non volgare amicizia fin
dalla tenera età, la cui opera fu non solo utile ma molto necessaria in
cose di grande importanza ed in tempi difficilissimi. Ma pel concorso
di questi distinti uomini l'invidioso imperversava. Nè dico ciò a
caso, ma il Signore lo conduca a salvazione.... Pervenne nelle mani di
costoro un certo libro di un saputo Peripatetico Jacopo Antonio Marta,
che si vantava dottore nell'uno e nell'altro dritto, in Teologia e
Filosofia ed era ignaro di qualunque verità, col titolo di _pugnaculum
Aristotelis_, e meglio avrebbe fatto se l'avesse intitolato _depravatio
Aristotelis_, dove per fermo, come vedremo, proferisce tante
scempiaggini e si mostra qua e là in contraddizione con sè stesso, con
Aristotile e con gli altri principali peripatetici, avverso sempre al
senso ed a' decreti della natura. Adunque attesi a demolire le vane
parole e le calunnie di costui con gli altri contro il Telesio principe
de' filosofi, secondochè mi fu imposto da coloro dei quali feci
menzione.... E mentre il saputo si vanta di avervi lavorato per sette
anni contro Telesio, noi distruggemmo il suo _Pugnaculum_ in sette
mesi, e svolgemmo la nostra dottrina, principiando dal 1.º gennaio
1589 fino al mese di agosto dello stesso anno, al termine dell'anno
ventesimo di nostra età». Assai più concisamente le cose medesime
furono poi ripetute nel _Syntagma_ in questi termini: «Mi recai alla
terra di Altomonte, dove percorsi i libri de' Platonici e de' Medici,
a me somministrati da ottimi uomini, ed a consiglio del medico Gio.
Francesco Branca di Castrovillari cominciai a scrivere contro Giacomo
Antonio Marta napoletano, che avea dato fuori un libro contro Telesio,
intitolato _Pugnaculum Aristotelis_. In esso composi otto dispute...
dandomi libri ed animo i medici Branca e Plinio. Questo libro di
polemica fu stampato in Napoli presso Orazio Salviano nell'anno del
Signore 1590».
Riassumendo dunque i fatti del Campanella in Altomonte si ha: il
termine della sua lettura del libro del Telesio; la lettura di
molti altri libri di filosofi e medici, datigli da alcuni suoi amici
egualmente antiperipatetici che ivi conobbe o rivide: l'eccitamento da
parte di costoro perchè scrivesse in difesa del Telesio contro Giacomo
Antonio Marta; la composizione in sette mesi della sua _Philosophia
sensibus demonstrata_; la presenza di un superiore invidioso che
l'accusò di falsa dottrina e di troppo conversare con secolari; la
difesa assunta da alcuni di costoro in tempi difficilissimi e in
cose d'alta importanza per lui. — Non c'è neanche per un momento
surta l'idea di dover parlare del Telesio a' nostri lettori, massime
dopo l'eccellente libro pubblicato dal prof. Fiorentino[47]. Quanto
a Giacomo Antonio Marta, ci limiteremo a dire che egli non era
quell'ignorantissimo che il Campanella dichiara, e lo dimostrano le
molte sue opere specialmente legali. Napoletano e non veronese come
ha creduto il Berti, poichè filosofo napoletano e giureconsulto egli
s'intitola spesso nel _Pugnaculum Aristotelis_ ed anche altrove, si
conosce che nacque il 20 febbraio 1559 e andò peregrinando come lettore
per diverse parti d'Italia. In Napoli cominciò a scrivere libri di
filosofia nel 1578, e quindi passato a Roma vi scrisse il _Pugnaculum_
nel 1587; ritornato poi in Napoli vi cominciò la carriera di lettore
di dritto, e in tale qualità andò successivamente a Benevento, a Roma,
a Pisa, di nuovo a Roma, a Padova, a Mantova, fino alla sua morte che
accadde dopo il 1628. Ma in Napoli fu lettore privato, non già pubblico
come è stato detto da taluni ed anche dal Fiorentino, poichè i lettori
pubblici di quell'epoca ci son noti benissimo e tra loro non figura
il Marta: non ebbe quindi a scrivere il suo _Pugnaculum_ pel pubblico
studio, dove del resto mancò sempre lo spirito di collettività, e già
c'erano allora in filosofia, al tempo medesimo, qual lettore ordinario
Gio. Berardino Longo, Peripatetico, e qual lettore delle Domeniche
Latino Tancredi, partigiano delle dottrine del Telesio come appunto il
Marta ci fa sapere. — Degli amici poi del Campanella ben poco possiamo
dire. Sul Gualtieri possiamo dire che egli era di Altomonte e che si
fece più tardi conoscere per opere legali abbastanza pregiate, una
delle quali dedicata a D. Lelio Orsini che dovrà figurare egualmente in
questa narrazione[48]. Sul Brescia (non Brettio come il tipografo più
volte fa dire al Berti) possiamo soltanto affermare che tale cognome si
trova con estrema frequenza ne' documenti relativi a quella regione;
un suo epigramma, in lode del Campanella, si legge in fronte alla
_Philosophia sensibus demonstrata_, ed in esso si accenna anche a Mario
del Tufo, presso cui dimorava il Campanella in Napoli quando l'opera
si diede alle stampe. Su Muzio Campolongo abbiamo varii documenti
rinvenuti nell'Archivio di Stato: uno di essi ci fa conoscere che la
sua Baronia riferivasi al possesso della giurisdizione delle cause
criminali e miste del piccolo paesello di Acquaformosa, in cui si
contavano soli 79 fuochi per la maggior parte costituiti da Albanesi;
altri documenti ci fanno conoscere che vi possedeva pure territorii
feudali con bestiami, che si riteneva cittadino di Altomonte ma abitava
Cosenza, e che era molto energico, anzi prepotente nel voler essere
rispettato ed ubbidito a ogni modo, sicchè dovè essere un braccio
forte davvero pel Campanella nelle angustie in cui il frate ebbe a
ritrovarsi[49]. Quanto al medico Gio. Francesco Branca di Castrovillari
il Capialbi ce ne ha già dato particolari notizie biografiche. Avrebbe
avuto a quell'epoca press'a poco 32 anni, e la sua cultura è attestata
dalla sua biblioteca con manoscritti proprii che finì per lasciare
a' frati conventuali del suo paese; d'altronde merita una speciale
menzione, perchè si trovò complicato anch'egli nella famosa congiura,
e dovè salvarsi con grosso riscatto, come fu attestato dal medesimo
Campanella[50]. Quanto poi al medico Plinio Rogliano di Rogiano abbiamo
trovato che il nome di Plinio era veramente il suo, e non già che era
chiamato da' suoi con tal nome per la sottigliezza del suo ingegno,
siccome è parso al Baldacchini interpetrando meno correttamente le
parole del Campanella. Aveva in quel tempo appena 24 anni, e gli fa
grande onore l'affermazione del Campanella, che per la sottigliezza
del suo ingegno era stimato superiore a molti; pare che possedesse
terreni in Altomonte mentre aveva stanza in Rogiano[51]. Nè possiamo
trattenerci dal notare che non ne' chiostri, ma fuori di questi e
presso umili professionisti di piccole città, come anche presso un
Barone rurale, il Campanella trovava libri e consigli; e se volessimo
indagare cosa avrebbe trovato a' tempi nostri, dovremmo certamente
arrossire. Veniamo al P.^e Provinciale Pietro Ponzio, presso cui si
cercava mettere il Campanella in mala voce. Egli era zio de' Ponzii
amici di fra Tommaso, e crediamo bene che con l'opera loro fra Tommaso
ne avesse acquistata la benevolenza: il P.^e Fiore ci lasciò scritto
che fu Provinciale di Calabria negli anni 1587 e 1588[52], ma la durata
del suo ufficio si estese anche a parte del 1589 quando gli successe
P.^e Silvestro d'Altomonte; e vedremo che fu più tardi ucciso da alcuni
frati per mandato di taluno che aspirava al Provincialato e ne temeva
la concorrenza, la qual cosa fece nascere odii mortali tra i Ponzii e
gl'imputati dell'omicidio, nè questi odii rimasero senza conseguenze
pel Campanella che era tanto amico de' Ponzii. Non sappiamo poi chi
sia stato quel superiore, il quale fece in Altomonte così aspra guerra
al Campanella: potè essere appunto quel P.^e Silvestro anzidetto che
riuscì Provinciale, visto il continuo trovare Priori de' conventi i
frati nativi del paese: ma sappiamo solo che compagno in Altomonte gli
fu pure fra Gio. Battista di Pizzoni, il quale nel processo depose che
là il Campanella scriveva quell'opera che poi stampò in Napoli[53].
Ma fu veramente l'invidia la cagione della guerra mossa al Campanella
dal suo superiore? Fu la dottrina antiperipatetica quella che costui
chiamò falsa dottrina? Come mai poterono appunto persone laiche, quali
il Campolongo e i due avvocati, difendere il Campanella dall'accusa di
troppo conversare con laici? Come mai sursero «tempi difficilissimi e
cose d'alta importanza» che il Campanella accenna senza spiegare? Si
verificò pur troppo un incidente importantissimo, che il Campanella
ebbe cura di nascondere costantemente; si verificò fin dalla sua
dimora in Cosenza, e per esso dovè partire da quella città d'ordine de'
superiori, per esso continuò ad essere perseguitato in Altomonte, per
esso, ritornato in Cosenza, si decise ad andarsene a Napoli. Di tale
incidente passiamo a discorrere.
Narrò il Cyprianus, dietro una lettera diretta a Gio. Andrea Schmidt
da Carlo Caffa, il quale affermava di averlo saputo da un Domenicano
ottuagenario stato già condiscepolo del Campanella _nel convento di
Cosenza_, che il Campanella nella sua gioventù era di tanto rozzo
ingegno da movere a disprezzo e riso, ma che avendo conosciuto un
Rabbino Ebreo, ed essendo rimasto con lui per otto giorni continui
in uno studiolo, lontano dalle discipline e da' compagni, con una
Cabala, per pochi e brevissimi principii, potè sorgere uomo sì grande
ed ammirando[54]. Tutti hanno qui scorta una leggenda con una parte
di vero ed una maggior parte di falso, riferibile allo studio delle
scienze occulte iniziato dal Campanella per opera di questo Ebreo,
ma possiamo dire che vi fu qualche cosa di più, o che da allora in
poi si accreditò quella opinione la quale fece grande e poi misero il
Campanella in mezzo a' frati ed a' laici della sua Calabria, che cioè
egli conversasse con gli spiriti e che la sua scienza meravigliosa
provenisse dal diavolo. Il fatto accadde non per otto giorni ma
per alcuni mesi, non nella prima età ma nel periodo più inoltrato
de' suoi studii, in Cosenza ed Altomonte; nè pare dubbio che sia
stato il principio recondito delle sventure del Campanella, il quale
non ne parlò mai, involgendo ogni cosa nel fatto delle avversioni
procuratesi col combattere Aristotile. Ma ecco quanto risulta da
parecchie testimonianze, alcune delle quali ben degne di fede,
perocchè l'incidente venne di poi agitato con molta larghezza nel
processo di eresia avuto in Napoli. — «Diece anni prima» del processo,
(naturalmente in termine approssimativo), peregrinando pel mondo
capitava in Cosenza un Ebreo a nome Abramo, giovane su' 30 anni, alto
della persona, pienotto, di poca barba, viso pallido, occhi azzurri,
in fama di conoscitore di scienze occulte, possessore di spiriti
familiari, indovino del passato, del presente e del futuro, astrologo
e negromante: giusta il costume antico e moderno (come si vede pur
oggi per coloro i quali son creduti capaci di presagire in materia di
lotto), molti in Cosenza si davano premura di stringere con lui intime
relazioni e l'invitavano frequentemente a pranzo, sicchè egli viveva
a spese de' suoi ammiratori de' quali aveva un gran sèguito. Venne
anche nel convento di S. Domenico, vide il Campanella e si pose in
relazione con lui, volendone forse far soggetto delle sue divinazioni:
fra Tommaso se ne compiacque e fece amicizia con l'Ebreo, il quale gli
avrebbe nientemeno profetato che un giorno sarebbe divenuto Monarca
del mondo, e di ciò si parlava già pubblicamente in que' luoghi!
Aggiungeremo subito che tale profezia potrebbe parere un'invenzione
de' tempi del processo, per darsi una spiegazione della congiura; ma
si vedrà in sèguito essere stata senza dubbio ripetuta pure qualche
altra volta dal Campanella medesimo, il quale credeva di avere avuto
non solamente tre ma sette pianeti ascendenti favorevoli. Oggi tutto
ciò farebbe sorridere; ma bisognerebbe ignorare che l'astrologia era
allora la scienza ricercata da' più forti ed audaci intelletti, e
chi l'ignorasse potrebbe trovarne nel D'Ancona eruditissimi cenni,
che vanno tenuti presenti per bene intendere i tempi e le cose delle
quali trattiamo[55]. Il filosofo ad ogni modo si legò un po' troppo
all'Ebreo, trattava con lui nella città e nel convento, insieme con
altri laici ed anche da solo a solo, e tale sua condotta increbbe
molto a' superiori. Fu quindi mandato in Altomonte, ma là fu pure
seguito dall'Ebreo, nè si astenne dal trattare con costui per molti
giorni; naturalmente ne dovè patire acerbe riprensioni e gravi accuse,
e nel ritornare di poi a Cosenza, si sparse certamente la voce che,
esortato dall'Ebreo, volesse deporre l'abito di religioso ed andarsene
con lui a Napoli. Il Priore del convento fra Giuseppe Dattilo,
avvertito di ciò da fra Domenico di Polistina Reggente, chiamò il
Campanella e lo riprese; egli rispose che volea deporre l'abito perchè
non avea fatto professione in età perfetta, ma poi se ne astenne,
sibbene partì da Cosenza per Napoli, e rimase incerto se partisse con
licenza o no; solo è certo che fu ritenuto da tutti essere partito in
compagnia dell'Ebreo, aggiungendosi che costui era stato «la ruina del
Campanella» e che di poi fu giustiziato, taluno diceva in Napoli come
spia del Turco, qualche altro diceva in Roma come eretico[56]. Queste
cose si rilevarono nel processo, e vedremo che non vi mancò nemmeno la
testimonianza di fra Dionisio medesimo, niente sospetta e del tutto
spontanea, atta a far intendere se non i particolari dell'incidente,
per lo meno la sua gravità: poichè avendo un frate già compagno del
Campanella in Cosenza (fra Vincenzo d'Amico) affermato che si era detto
essere il Campanella partito di Calabria con un certo Abramo, e che
egli diceva di partirsi a motivo delle persecuzioni del Provinciale
M.º Pietro Ponzio, fra Dionisio, interrogato senza alcuna prevenzione,
si affrettò a dichiarare, che trovandosi lui a quel tempo in Napoli
nel convento di S. Caterina a Formello, suo zio, il quale era allora
Provinciale di Calabria, gli scrisse che se voleva la sua benedizione
ed essere tenuto per nipote, non avesse pratica col Campanella, il
quale se n'era «fuggito di Calabria con un Ebreo di cattivo nome» e
questa fuga avea recato grave scandalo. Non è dunque nemmeno esatto
quanto il Campanella ci lasciò scritto intorno all'atteggiamento
del P.^e Provinciale verso di lui; e si comprende ora che si trovò
davvero in tempi difficilissimi e in cose di alta importanza, sicchè
dovè riuscirgli non solo utile ma estremamente necessaria la difesa,
di un uomo energico qual'era il Barone di Acquaformosa coadiuvato da
amici attaccatissimi quali i due avvocati, mentre la falsa dottrina
non rifletteva i principii Telesiani, sibbene i principii di fede,
come il conversare con laici non rifletteva laici comuni, sibbene un
Ebreo il quale era per soprappiù ritenuto negromante; nè c'è bisogno di
dire che a questo fatto deve riferirsi ciò che l'ignoto condiscepolo
del Campanella, divenuto ottuagenario, raccontava a Carlo Caffa,
naturalmente secondo le sue deboli reminiscenze e le voci che erano
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